Il crocefisso in bronzo dorato della Basilica di Santa Cecilia in
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Il crocefisso in bronzo dorato della Basilica di Santa Cecilia in
Il crocifisso in bronzo dorato della Basilica di Santa Cecilia in Trastevere Roma Intervento di restauro a cura dello studio di restauro Adolfo Franchi Via di Tor di Nona 60 – 00186 Roma Direzione tecnica Claudio Franchi Relazione a cura di Claudio Franchi Anno 2010 Il crocefisso prima del restauro Stato di conservazione Il crocefisso bronzeo si trovava conservato presso l’attiguo monastero delle monache benedettine. In precedenza era collocato sulla sommità del ciborio della Basilica, fissato mediante una spina in rame - che si può notare nell’immagine prima dell’intervento di restauro- su una sfera di legno, a sua volta poggiante sull’edicola apicale del ciborio arnolfiano. Il crocefisso si presentava caratterizzato da una coltre di ossidazione piuttosto omogenea e da affioramenti di sali di rame fissati in spessi depositi, la cui stratificazione si poteva identificare nelle zone in cui la doratura è mancante. Depositi di grasso, polvere e residui di cera completavano lo strato di materiali ossidanti che impedivano la chiara lettura dell’opera. Caratteristiche dell’opera e analisi diagnostica Il Cristo è stato smontato dalla croce sulla quale si trovava fissato mediante perni filettati e dadi. Lo smontaggio ha permesso di valutare la qualità della fusione del Cristo: il manufatto evidenzia un’inedita leggerezza, determinata da una rara abilità nel concepire gli spessori, la cui studiata consistenza è stata funzionale alla trasformazione del modello in cera nel corrispettivo in metallo. Raffinata la delineazione dei tratti somatici e della muscolatura. Di diversa qualità invece è la costruzione della croce che presenta i profili lobati piuttosto incerti e lievi asimmetrie dei pinnacoli terminali dei bracci. All’analisi della composizione del metallo il Cristo è risultato formato da una lega di bronzo con il 6% di stagno-piombo, lega che consente un’ottima scorrevolezza del getto di fusione ed una buona malleabilità nell’esercizio di finitura. La croce si è rivelata realizzata in una lega d’ottone. Un attento esame radiografico del Cristo ha evidenziato che si tratta di una fusione composta da tre pezzi: l’intero corpo completo degli arti inferiori cui sono stati saldati i due avambracci. Ancora le radiografie ci permettono una ulteriore osservazione: l’eccezionale leggerezza è dovuta all’ottimale distribuzione degli spessori, con le uniche deroghe di maggior consistenza nel panneggio e nei tratti del volto, soprattutto in corrispondenza della barba. Le caratteristiche della lega, la qualità della fusione e la raffinatezza dei dettagli contribuiscono a collocare l’opera nella seconda metà del Cinquecento. La figura serpentinata, la raffinatezza dei tratti fisionomici, l’evidente innaturale allungamento del busto, fanno pensare ad un linguaggio tardo manierista di scuola romana. La comparazione con il Cristo argenteo di Polizzi Generosa, attribuito da Maria Accascina a Giambologna, e la conseguente stretta somiglianza tra le due opere, non solo avvalora la datazione e la provenienza di scuola romana, ma anche lo stesso autore. Per questa importante attribuzione ci si riserva di affrontare una più approfondita ricerca iconografica e d’archivio. Si noti la somiglianza tra il Cristo argenteo di Polizzi ( foto superiore) e quello di Santa Cecilia ( foto sotto) L’intervento di restauro Sia il Cristo sia la croce sono stati sottoposti ad un lavoro di rimozione meccanica dei residui di cera. Si è poi dato avvio a una pulitura a tampone con impacchi di essenza di petrolio e trementina. La rimozione dei residui di sali di rame è stata effettuata meccanicamente con spatole in legno nei punti dove si presentavano maggiormente stratificati. L’eliminazione dei sali è stata completata con tamponi di sali di rochelle e lavaggi in acqua deionizzata. L’accurata opera di rimozione dei sali e delle sostanze che si erano depositate sulle superfici ha restituito la bellezza dell’originaria doratura a mercurio presente sulla maggior parte del Cristo e su buona porzione delle superfici della croce. Quest’ultima ha rivelato una maggior tenuta della doratura nelle estremità dei bracci e nella porzione protetta dal Cristo. La parte di connessione tra i bracci mostra oggi, dopo la pulitura, la natura del metallo privo della doratura, oltre all’uso del brunitore per la rifinitura a lucido delle superfici. In alcuni punti è possibile individuare anche l’apposizione di sottili lamine in oro, probabile esercizio d’integrazione all’originaria doratura a mercurio. Nella logica dell’originaria unità compositiva è stata rimossa l’appendice in rame usata come spina d’innesto per la precedente collocazione del crocefisso sull’apice del ciborio. Al suo posto è stato ricostruito il pinnacolo grazie alla riproduzione di una copia, ricavata da uno degli elementi già presenti nella croce, ottenuta mediante calco siliconico, fusione e integrazione con saldatura TIG ( Tungsten Inert Gas), procedimento di saldatura ad arco con elettrodo infusibile, sotto protezione di gas inerte, eseguita senza metallo di apporto e privo di attacchi ossidanti a carico del manufatto antico. La copia ottenuta per fusione è stata rifinita con le stesse tecniche manuali usate all’epoca della realizzazione dell’opera. Il lavoro di definizione è stato, infatti, affidato alla lima, utilizzata come ferro di scultura, i cui segni sono tuttora leggibili sulle superfici del pezzo integrato, seppure ampiamente riconoscibile sia il tratto di finitura tale da essere individuato come integrazione moderna. Il crocefisso nello spazio architettonico del ciborio di Arnolfo di Cambio L’obiettivo del restauro del crocefisso era funzionale non solo al recupero dell’opera, ma anche alla rinnovata collocazione dello stesso, in previsione del rapporto con l’architettura di riferimento e nella logica dell’importante ruolo di messaggio liturgico. Il progetto ha previsto una serie di relazioni significanti: il già citato rapporto tra crocefisso e architettura; la contemporanea funzione dell’illuminazione dell’altare e del crocefisso come valore emozionale da trasferire ai riguardanti; la ricerca di strutture leggere e al tempo stesso solide per il sostegno aereo dell’opera, facilmente ispezionabili per lavori di manutenzione ordinaria ed eventuali necessità di smontaggio. La struttura di sostegno del manufatto è stata realizzata nella piena consapevolezza che dovesse rivestire l’arduo compito di dialogare con l’architettura arnolfiana. Così, da un disco convesso di dieci centimetri, sul quale è stata cesellata la sagoma di una colomba (dichiaratamente rinviante allo Spirito Santo), si sono diramate quattro canne situate nei punti cardinali: due con la funzione di contenere dei faretti con lampade alogene dicroiche, la cui luce è destinata a proiettarsi sull’altare, le altre due -più corte- a completare la citazione di quattro raggi, simbolicamente chiamati a rappresentare la luce discendente dallo Spirito Santo. Una struttura di lamine in ottone composta da barre mobili, assemblate con dadi e filettature, costituisce l’elemento di raccordo tra gruppo illuminante, fissato al soffitto, e la croce. Tale struttura è stata studiata per disegnare la lettera “Y” rinviante al Gesù Cristo, Figlio di Dio Salvatore. La scelta di utilizzare delle barre larghe circa due centimetri, ma spesse solo due millimetri, collocate in una visione prospettica che le rende percepibili nella sezione più esile dello spessore, consente una tenuta ottimale e il graduale annullamento ottico della struttura stessa, così da renderla invisibile allontanandosi dall’altare e avere la conseguente percezione del crocefisso sospeso nel vuoto. La ricerca di un’ottimale l’illuminazione è stata oggetto di esperimenti avvenuti presso lo studio di restauro, nel quale si è ricostruito uno spazio virtuale, riprodotto in scala ridotta, con lo scopo di creare una suggestiva ambientazione che oggi è possibile percepire nella vista d’insieme dell’architettura arnolfiana. La scelta iniziale di proiettare le fonti di luce direttamente dall’alto, sia per l’illuminazione dell’altare sia per il Cristo, non ha dato gli esiti sperati nella fase progettuale, poiché la fonte di luce indirizzata alla Croce era deviata dalla postura reclinata della testa del Cristo, tale da provocare un evidente cono d’ombra sul corpo. Prima dell’intervento l’altare era illuminato da un unico faretto a luce alogena dicroica, il cui cono di luce si presentava ristretto alla porzione centrale del piano di lettura e corrispondeva ad appena 80 lux (valore di misura di corretta illuminazione su un piano di lettura). L’attuale sistema illuminotecnico genera invece una superficie di 350 lux grazie alla sovrapposizione dei due coni di luce generati dagli altrettanti faretti alogeni. L’illuminazione del crocefisso è stata invece, in seguito, sperimentata collocando faretti alogeni dicroici nei punti di connessione tra i capitelli e lo scarico degli archi della campata arnolfiana. La necessità di creare un’illuminazione indefinita, tale da esaltare la dimensione di mistero della luce stessa come se venisse generata dal Cristo, ha imposto la progettazione e la realizzazione di micro portalampade in ottone con snodi direzionabili. La misura ridotta di tali manufatti ha consentito di dissimulare nel modo più adeguato la fonte di luce tecnica e produrre l’effetto che oggi si può percepire alla vista dell’altare, senza incorrere nella individuazione delle lampade. L’accensione della campata arnolfiana avviene grazie all’uso di un telecomando che può essere attivato grazie ad un ponte radio in grado di scindere l’illuminazione dell’altare da quella del Cristo. Dall’originaria unica linea di accensione si è inoltre provveduto alla modifica dell’impianto centrale ora funzionante su due linee: quella relativa all’illuminazione del catino absidale e quella che dovrà invece illuminare l’altare.