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RIATTIVARE L'ATTACCAMENTO
Anna Maria Sorrentino – Matteo Selvini
Esaminando il lavoro del terapeuta familiare nella prospettiva della teoria
dell’attaccamento, potremmo considerare ciò che facciamo quotidianamente come
uno sforzo per riattivare l’attaccamento dei nostri pazienti ai loro familiari, stimolando
nel contempo in questi ultimi le funzioni di protezione e cura, disorientate dai loro
problemi relazionali ed esistenziali e dall’erompere della malattia.
La prospettiva dell’attaccamento, come Holmes (1989) la presenta infatti nel
suo ultimo libro, costituisce una sorta di metamodello cui si può fare riferimento per
descrivere ogni processo terapeutico. Anche la terapia familiare è debitrice a questo
costrutto di spunti conoscitivi e di linguaggi utili a descrivere le proprie ipotesi ed i propri
interventi. Come terapeuti familiari vediamo vicende relazionali dove i traumi e le
carenze
hanno
pesantemente
interferito
con
l’appropriato
sviluppo
di
un
attaccamento sicuro, sia nei nostri pazienti che, prima ancora, nei loro genitori,
vedendo tragicamente confermato l’assioma dei pionieri della terapia familiare
quando affermavano che la sofferenza psichica si trasmette attraverso le generazioni.
Il modello dell’attaccamento ben si presta, infatti, a dare ragione di questa
trasmissione attraverso i debiti ed i crediti non saldati che ciascuna generazione
trasmette alla successiva (Borzomeiny-Nagy 1973).
Vedremo tuttavia che il modello proposto dalla teoria dell’Attaccamento, pur
nelle sue forme più articolate, classificate da Crittenden (Crittenden 1999), rimane
molto semplice e non esaustivo rispetto alla complessità che i nostri pazienti ci
presentano, in special modo quando sono portatori di gravi disagi. Vedremo più oltre in
questo articolo la difficoltà di inquadramento, rispetto al sistema dell’attaccamento,
delle patologie psicotiche dove tratti discontinui e frammentati della personalità
faticano ad essere inclusi in strutture ordinate, quali quelle proposte dagli autori citati in
riferimento alla prospettiva dell’attaccamento. Proprio la natura di confusione e di
difficile ricostruibilità di storie apparentemente semplici e carenziali, che presentano poi
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esiti drammatici, ci interroga sulla opportunità di affidare a questo unico sistema di
riferimento la nostra chiave interpretativa
Difficile ad esempio, spiegare solo in termini di attaccamento le diverse
sfumature dell’ansia, che appare a volte più legata alla prestazione ed a volte legata
ad una matrice abbandonica, nella classica forma di ansia da separazione.
Quest’ultima si attaglia ad ipotesi correlate ai bisogni di attaccamento, mentre la
prima ne mostra correlazioni meno evidenti, pur se ravvisabili, dopo alcune
considerazioni sulle soluzioni difensive individuali, sui possibili effetti di un attaccamento
evitante nella formazione della personalità. Risulta ipotizzabile, infatti, che un soggetto
evitante non tolleri di aver dubbi sulle proprie capacità su cui è abituato a contare,
non disponendo facilmente di offerte empatiche e supportive da parte di figure di
riferimento. I soggetti autarchici sopportano bene la solitudine e la perdita, a cui sono
abituati, mentre vanno in crisi quando si sentono giudicati o invalidati, e percepiscono
in sé stessi dubbi circa il proprio valore.
Come mostrato nei nostri precedenti lavori, ci sembra necessario utilizzare uno
schema teorico che dia spazio alla multi-coincidenzialità dei fattori di rischio evolutivo
(Selvini Palazzoli et al. 1988 e 1998; Cirillo, Selvini e Sorrentino, a cura di 2002; Selvini M.,
2004), per dar ragione dello spettro psicopatologico e della sua eziopatogenesi. Negli
ultimi anni abbiamo considerato particolarmente importante un’attenzione alle
componenti descrittive del funzionamento difensivo individuale, componenti prese
come base per fare ipotesi sul come mai quel particolare soggetto ha affidato la sua
difesa dalla sofferenza a quei meccanismi piuttosto che ad altri, di segno opposto. Per
questo motivo ci lascia ad esempio perplessi la diagnosi di personalità che associa
tratti dipendenti a tratti evitanti, poiché, a meno che non ci si trovi in presenza di
situazioni correlate ad un attaccamento disorganizzato, le due scelte difensive
apparirebbero
antitetiche,
facendo
riferimento
ciascuna
a
forme
diverse
di
attaccamento.
Interessante, a proposito di questo dibattito, il contributo di Johnson (1994) che
distingue un dipendente definito “orale”, da un dipendente di tipo simbiotico. Entrambi
presentano tratti di attaccamento ambivalente, ma mentre l'orale si organizza
difensivamente nel senso della compiacenza,
ricercando un’accettazione in cui a
priori intimamente dispera, il simbiotico ha imparato dai modelli ansiosi genitoriali ad
essere diffidente sulle proprie risorse, più ancora che sul sostegno interpersonale,
sperimentando ansia di fronte ad ogni prospettiva di separazione che lo confronti con
le proprie capacità.
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Nell'estrema complessità dei nostri casi, tuttavia, la guida che ci viene dei
modelli
dell’attaccamento
rappresenta
un’utile
semplificazione,
necessaria
a
consentire una qualche operatività. Mentre cerchiamo di capire qualcosa di molto
complesso, che spesso richiede un diligente lavoro di approfondimento che può
durare anni, suggerire semplici indicazioni che favoriscano oltre ad una trasparenza
comunicativa, una empatia verso il sentimento di impotenza del paziente di fronte alla
propria confusione ed angoscia , si è rivelato molto utile sia per il terapeuta, che sente
di avere una strategia operativa dall’utilizzabilità immediata, sia per il paziente che può
sentirsi accolto e guidato nella ricerca di un senso della propria sofferenza, sia per i
familiari cui è possibile dare qualche suggerimento sul che fare, suggerimento
supportato da una logica condivisibile e comunicabile.
In questo lavoro iniziale di accoglienza e di presa in carico della famiglia
sofferente è infatti utile dare una prima spiegazione psicologica della crisi del paziente
(Selvini M.,2003), connettendola ai tratti distintivi del suo carattere e della sua
personalità così come è venuta a strutturarsi nel tempo. Queste caratteristiche della
personalità divengono comprensibili se lette sullo sfondo degli eventi della storia
familiare, che possono aver interferito con l’appropriatezza degli accudimenti primari
e, da qui, con la forma dell’attaccamento che sembra aver caratterizzato il primo
sviluppo del soggetto. In tal modo è possibile dar ragione ai membri della famiglia del
funzionamento del paziente all’interno della storia delle sue relazioni, richiamando i
genitori ad una presa di coscienza della loro involontaria attinenza col problema e
facilitandone
la
responsabilizzazione
nella
direzione
del
cambiamento.
L’organizzazione difensiva del paziente, che rappresenta il limite pervasivo e
disadattativo del suo funzionamento, viene collegata alle difficoltà esistenziali, di
relazione e di organizzazione difensiva delle figure di riferimento, a causa delle quali
difficoltà i genitori hanno fallito nel loro compito di prendersi cura di quel figlio con una
adeguata responsività. Responsività che ora, più consapevoli e supportati dal lavoro
terapeutico, possono cercare di mettere in atto.
Vediamo ora nel dettaglio che uso é possibile fare delle indicazioni che ci vengono dai
teorici dell’Attaccamento.
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La Teoria dell’Attaccamento al servizio dell’ipotizzazione
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Dal punto di vista del terapeuta familiare un primo utilizzo della teoria
dell’attaccamento è rappresentato dal suo proporsi come mappa inferenziale che lo
aiuta nel lavoro di ipotizzazione.
Se mi trovo davanti, ad esempio, un adolescente mutacico e bloccato, con
importanti ossessioni dismorfofobiche, dagli evidenti tratti evitanti, trascinato in terapia
da una madre che si dichiara sollecita e preoccupata, potrò, dopo un’accurata
indagine sulla storia dell’organizzazione difensiva del ragazzo, ipotizzare che la
sollecitudine materna debba aver avuto in passato, durante lo sviluppo del bambino,
importanti falle, così da rendere necessario per il figlio ritirarsi nella modalità del “far da
solo” che ora lo imprigiona.
Come
mai
questa
donna,
che
ora
mostra
una
capacità
di
sana
preoccupazione per il blocco evolutivo del ragazzo, può aver fallito nel proprio
compito di fornirgli una base sicura che lo avviasse ad una serena esplorazione del
mondo, potendo contare sulla sua comprensione? Cosa è accaduto a questa madre?
Le risposte che emergeranno dalla storia della sua vita dovranno fornirci una risposta
esaustiva. Così, ad esempio, ci risulterà illuminante sapere che la donna è figlia di una
paziente psichiatrica, infantile e richiedente, a cui la nostra madre non ha mai potuto
appoggiarsi neppure nell’infanzia. Ci colpirà inoltre constatare che anche il marito, per
altro buon professionista, s'atteggia a modalità che non consentono alla donna un
appoggio
e
un'intimità,
permettendosi
nell’ambito
domestico
“esternazioni”
denigratorie e aggressioni verso i figli, che considera competitori nel suo diritto
pretenzioso di possesso delle attenzioni della moglie. Questa, dal canto suo, si è sempre
aspettata che i figli se la cavassero, sopportando la “seccatura” delle male parole del
padre, senza difenderli, quasi attualizzando l’aspettativa inconscia del suo passato che
a ciascuno tocca un genitore pazzo da sopportare!
Naturalmente
questi
dati
ci
avrebbero
comunque
interessato,
anche
prescindendo dalla sottolineatura che il tema dell’attaccamento ci permette di fare, e
cioè che la donna ha offerto al figlio un attaccamento evitante avendo dovuto
sviluppare a sua volta un attaccamento evitante con una madre molto poco
responsiva, attaccamento che ha conservato verso il marito, con il quale non ha
sviluppato alcuna esperienza di complicità.
Forse però ci saremmo attardati sul suo atteggiamento di sana preoccupazione che
ora appare nella seduta di consultazione, demonizzando come maggiormente
patogena la figura del padre, senza rendere ragione al paziente, alla donna stessa ed
al marito, degli atteggiamenti non tutelanti
dalla madre, messi in atto nella
convinzione che il ragazzo avesse un po’ “delle storie”, con il suo blocco e la sua
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depressione. Avremmo investito sul suo essere madre, “prendendo per oro ciò che
luccica”, senza aiutarla a rivedere se stessa prima di spingerla a star vicino a suo figlio.
In questo caso lei avrebbe eseguito il compito come una brava scolaretta, ma senza
quella autenticità che ora la spinge a mettere in dubbio la propria competenza, senza
limitarsi a gettare sul marito la responsabilità del malessere del figlio paziente.
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Teoria dell’Attaccamento e competenza narrativa
La ricostruzione delle vicende che hanno caratterizzato la storia della madre,
del figlio paziente e di tutti gli altri membri della famiglia nucleare rappresenta un utile
allargamento della prospettiva di ciascuno, decentrando l’attenzione al di fuori di sé,
per cercare il senso dei propri comportamenti in una storia che si dipana tra le
generazioni. Questa visione d’insieme rappresenta una lettura accettata solitamente
come evidente dai pazienti e dai familiari, ponendo tutti sullo stesso piano di “vittime”
del destino e, ad un tempo, di possibili artefici del cambiamento. La messa a fuoco
delle involontarie mancanze fa risultare ipotizzabile un cambiamento possibile.
L’esternazione del proprio dolore infantile,
nel contenitore empatico della
seduta, muove i sentimenti di tutti alla relativizzazione dei propri vissuti soggettivi ed alla
tolleranza verso i limiti degli altri. Autorizza inoltre il paziente a vivere le proprie reazioni
come appropriate e non più frutto di malattia, riconoscendo la legittimità della propria
sofferenza e della protesta sintomatica. I genitori, avendo ricevuto la comprensione dal
terapeuta, che accanto alla sofferenza del figlio, accoglie anche la loro, spesso
ritrovano la forza di impegnarsi con lui per aiutarlo, accettando e contenendo lo sfogo
reattivo, spesso celato dietro l’area sintomatica, senza sentirsene minacciati o distrutti.
L’esito di una buona fase di consultazione, che occupa le prime sedute di una
terapia familiare, è quindi una dimensione di riconoscimento ed accettazione
condivisa da tutti i membri di una famiglia dell’intrecciarsi delle storie di ciascuno. Solo
su questa base è possibile impostare il difficile lavoro del cambiamento.
Nel caso presentato, la madre è stata aiutata a cogliere la radice dei propri
sentimenti sottilmente distanzianti verso i figli e verso il marito. Reagiva ai segni evidenti
del loro malessere minimizzandoli e prendendo le distanze nella convinzione di averli
viziati col proprio accudimento puntuale. Era sempre stata dedita all’andamento
domestico ed aveva in effetti garantito alla famiglia un regolare menage, ma poco
era stata empatica sia con la figlia primogenita, ansiosa e malaticcia, sia col marito,
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alle cui pretese si sottometteva come chi da ragione ad un pazzo, considerandolo più
un paziente che un compagno ed un interlocutore, sia al figlio maschio che
silenziosamente era cresciuto accanto a lei senza dare problemi, pur solitario e chiuso,
e che ora le presentava il “conto” con il suo angosciarsi bloccato.
Il padre, dal canto suo, è stato aiutato a dare peso, pur tra molte resistenze, ad
un’infanzia difficile, di durezze e di abbandoni, che lui definiva “formativa”,
mostrandogli come questa fosse la radice dei suoi atteggiamenti denigratori verso i figli
e di pretese risarcitorie verso la moglie, inducendolo a “darsi una regolata” anche con
l’aiuto di un supporto farmacologico per correggere un suo grave problema di
insonnia,
che lo tormentava, retaggio di un’adolescenza di tensione, che non facilitava
certo il suo carattere. Accettare per lui il ruolo di paziente, anziché quello di uomo
duro, padre di un figlio “smidollato”, aiutò il ragazzo a percepire sé stesso come
soggetto di diritti e non solo di colpe, ma anche a prendere coscienza della grande
rabbia che covava in sé senza osare darle un nome. Con pochissime parole, alzando
finalmente gli occhi che teneva sempre abbassati e guardando in faccia il padre, gli
contestò, con l’aiuto della sorella, gli episodi stupidi e crudeli di cui era stato vittima.
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Teoria dell’Attaccamento come traccia per il processo di cambiamento
La fase terapeutica che segue la consultazione esprime, attraverso l’uso delle
convocazioni, la sintesi del bilancio terapeutico di valutazione delle risorse del sistema
familiare.
Riprendendo il caso dell’adolescente mutacico e dismorfofobico, ad esempio,
valutammo che investire sul padre, anziché sulla madre, come fattore di cambiamento
a
lungo termine, avrebbe
avuto minor
efficacia
e
minor
congruenza
con
l’organizzazione naturale del sistema familiare. La madre era di fatto emotivamente
l’unico genitore: il padre aveva al massimo potuto accettare di assumere una
dimensione meno distruttiva e competitiva nei confronti del figlio maschio, ma molto
modeste erano le sue capacità di affiancarlo, sostenendolo empaticamente ad
esprimersi. Abbiamo quindi accettato che i due uomini si evitassero, per una prima
fase, sperando poi di indurre il figlio a comprendere il disfunzionamento paterno per
riaccostarsi a lui con una modalità meno reattiva e sofferente in una fase successiva
del trattamento. Ad un bilancio iniziale, la struttura di personalità del padre appariva
più stabile, dati i nuclei narcisistici, rispetto alla struttura di personalità del figlio, che non
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era ancora consolidata, tenuto conto della sua giovane età e della dipendenza che
mostrava di richiedere ancora alla madre. L’asse portante della terapia passava quindi
dalla modificazione di questo rapporto, aiutando la signora ad offrire al figlio un
sostegno sensibile e responsivo, difendendolo, quando necessario, dagli attacchi
paterni, ed incoraggiandolo ad appoggiarsi e a confidare le proprie angosce. In
questo lavoro la signora sarebbe stata sostenuta dalla co-terapeuta, supervisore,
mentre il paziente avrebbe potuto utilizzare colloqui individuali col terapeuta diretto
che lo avrebbe aiutato ad aprirsi verso una figura “paterna” meno compromessa.
La dimensione evitante del ragazzo veniva così ad essere messa in discussione,
assieme alla dimensione evitante della madre, che non era abituata a chiedere per sé.
Le sedute individuali con entrambi non erano molto frequenti rispettando le loro fatiche
ad accettare il coinvolgimento. I temi trattati con la madre, oltre la sua storia personale
con la famiglia d’origine, hanno riguardato la particolare dimensione dismorfofobica
presentata dal figlio e la sua origine nel rapporto con lei. Colpiva infatti la frequente
giustificazione della signora riguardo alle sue scelte, coniugali ad esempio, legate a
quanto il marito fosse bello, o la sua intolleranza per il fidanzato della figlia, in quanto
brutto e affetto da una patologia poco compromettente che, a suo dire, ne metteva
in crisi la prestanza fisica. Nella sua scala dei valori, la bellezza e la fisicità avevano
molto significato, al contrario di quanto potesse sembrare in apparenza: donna colta e
riservata, molto poco esibitiva nei modi, negli abiti, nello stile. Essa considerava bello il
paziente (e sé stessa) come il padre, mentre considerava la figlia malriuscita e
malaticcia. Questa, effettivamente, era preda, fin dall’infanzia più tenera, di una
diffusa patologia ansiosa con molte somatizzazioni che ne avevano compromesso la
fioritura giovanile. Su un terreno del genere, l’ossessione dismorfofobica del figlio
acquistava sfumature importanti di significato. L’origine di questa enfasi sulla bellezza
era stranamente legata all’unica complicità che la signora aveva goduto con la
propria madre, con cui condivideva il costume di giudicare le persone, il loro valore e
la loro capacità, in base all’infantile criterio di quanto apparissero belli, curati e
prestanti. Riflettere su questi temi, su quanto avesse cercato una vicinanza ed una
dipendenza da sua madre, accontentandosi di compiacerla nelle espressioni infantili
del suo narcisismo aiutò la signora ad avvicinare il figlio con una coscienza più riflessiva
e sensibile ai bisogni di “ben apparire” del ragazzo, bisogni che lei stessa aveva
instillato.
Attraverso
i
percorsi
paralleli
la
terapia
familiare
favorisce,
offrendo
contenimento, confrontazione e riflessione, una ripresa dei naturali attaccamenti,
aiutando le persone a liberarsi dalle difficoltà e dai vincoli inconsci che impediscono
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loro di allevare figli sani, pur col loro stile peculiare. Il terapeuta familiare attiva i legami
naturali, limitandosi a dare un supporto sostitutivo solo nel caso in cui difettino le risorse
del sistema.
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Teoria dell’Attaccamento come aiuto per modellare la risposte del terapeuta
Nel caso che ci ha fatto da guida fin qui, è stato opportuno offrire al paziente
un lavoro individuale, lavoro accettato in modo collaborativo solo dopo che le
chiarificazioni fatte nelle sedute familiari avevano permesso al ragazzo di rendersi
conto dalla sua propria resistenza al cambiamento, permettendogli di accettare una
consulenza psichiatrica (dallo stesso professionista a cui si erano rivolti sia il padre che
la sorella), consulenza che prima aveva sempre rifiutato, e di aprire una dimensione di
dialogo paritario con la sorella, che si era schierata al suo fianco, e con il di lei
fidanzato, riuscendo a riprendere qualche semplice attività sportiva in loro compagnia.
Le sedute individuali tuttavia erano estremamente faticose per il collega,
poiché il ragazzo si esprimeva a stento, nonostante fosse indubbiamente un soggetto
dotato. Appariva privo di pensieri su sé stesso e sui suoi, dichiarava di ricevere conforto
dalla madre, ma anche in sedute congiunte con lei, proposte per superare l’empasse,
si esprimeva a monosillabi in risposta alle sollecitazioni del terapeuta. Il collega aveva
continuamente la tentazione “di buttare la spugna” per la sensazione scoraggiante
che sperimentava, sentendosi poco utile. Ciò che lo indusse a perseverare fu la
coscienza che il paziente andava abituato a ricevere calore per “scongelarsi” e
imparare a chiedere aiuto. Il ragazzo, infatti, si presentava fedelmente alle sedute,
anche se veniva da un’altra città, in periodi in cui faticava molto ad uscire di casa.
Queste considerazioni spinsero il terapeuta ad avere pazienza e ad accontentarsi,
utilizzando i riferimenti del modello dell’Attaccamento per leggere sia il proprio
movimento di frustrazione che le resistenze del ragazzo, validando ad un tempo le
proprie ipotesi e modellizzando la propria risposta in termini empatici, misurati,
appropriati alle esigenze del paziente.
Gravi patologie e valutazione degli attaccamenti
Esistono storie dove i modi di funzionamento dei pazienti non appaiono così
lineari come nel caso che ci ha fatto da guida fino ad ora. Casi che presentano
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modelli di funzionamento instabili e alternati che è difficile inquadrare anche per il
terapeuta familiare esperto. Tali modelli sono correlati a storie familiari che si
presentano con tratti contraddittori, quali quelli che troviamo sia nell’Attaccamento
confuso che disorganizzato. In questi casi non è facile diagnosticare il tipo di legame
prevalente su cui si è strutturata la personalità di un giovane o di un adulto.
Può rivelarsi utile, in questo caso, ricorrere al costrutto, proposto da G. Attili
(2001), di attaccamento confuso. E’ possibile pensare infatti che una figura di
attaccamento attraversi fasi della vita che mutano in maniera sostanziale il suo stato
psichico, facendo transitare il suo mondo interiore, e quindi i suoi Modelli Operativi
Interni, da stati di accettabile fiducia e serenità che le consentono di essere
abbastanza disponibile, ad altri di forte disagio che chiamano in causa difese assai più
rigide. Passando attraverso questi stati emotivi, la figura di attaccamento può
trasmettere messaggi confusi che possono modificare, se il bambino è abbastanza
piccolo e incapace di comprenderli, gli adattamenti organizzati da questo, e quindi i
suoi MOI in via di formazione, predisponendolo a mostrare tratti incongrui di reazione di
fronte a situazioni di disagio.
E’ possibile pensare inoltre che una seconda, non irrilevante, figura di
attaccamento a cui il figlio si rivolge quando la figura di riferimento è in crisi, proponga
in parallelo un diverso protocollo di attaccamento, contribuendo a rendere instabile la
formazione di un unico modello di risposta agli agenti stressanti.
Le due modalità di funzionamento appaiono cronologicamente ben distinte nel
loro alternarsi, e si susseguono come se fossero in fase di sperimentazione e non ancora
stabilizzate (cosa probabilmente connessa anche alla giovane età del paziente). Non
è così invece nell’Attaccamento disorganizzato dove gli stili di funzionamento
relazionale si sovrappongono e si alternano, dando appunto la sensazione di
disorganizzazione così tipica del rapporto con le personalità bordeline.
Attaccamento disorganizzato e psicosi
Selvini si è occupato di questo tema in un suo recente lavoro (L'approccio
sistemico alle più gravi psicopatologie, 2005), di cui ci sembra utile riprendere alcuni
brani sull'argomento che stiamo trattando.
Nel 1969 Burnham (Burnham et al., 1969) parlò del dilemma bisogno-paura
come caratteristica della condizione esistenziale dello schizofrenico. La mia
personale casistica conferma un intrecciarsi di tratti relazionali contraddittori
dove importanti tratti di dipendenza del tipo schizoide o ossessivo, sono
"accostati" a importanti tratti di dipendenza (incapacità di sostenere un
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conflitto, gravi ansie di separazione, accettazione di serie umiliazioni pur di non
perdere un rapporto ecc.) [...].
Complessivamente l'elemento fondamentale è proprio dato dalla co-presenza
non integrata di tratti del tutto eterogenei. Possiamo così riscoprire l'esistenza
di un'acuta intuizione nel termine stesso di "schizofrenia" (mente divisa) così
come in tutta la tradizione psicoanalitica che ha parlato di "frammentazione"
dell'Io, legata a quel dilemma bisogno dell'altro, paura dell'altro cui ho fatto
cenno [...].
Facendo riferimento alla teoria dell'attaccamento, posso ipotizzare che chi
presenta una personalità psicotica non abbia vissuto un attaccamento sicuro,
ma nemmeno abbia potuto organizzarsi o riorganizzarsi su basi ambivalenti o
evitanti, bensì è rimasto in una continua e complessa oscillazione tra i due poli
opposti. Il soggetto è continuamente oscillante tra il bisogno di dipendenza cioè
di guida, sostegno, condivisione, vicinanza emotiva e la paura di essere
criticato, ignorato, umiliato, deriso, attaccato. Nelle storie dei miei pazienti
schizofrenici ho trovato clamorose oscillazioni di questo genere:
Arianna è del tutto isolata per l'intera adolescenza, dal punto di vista diagnostico si
presenta il classico dubbio tra un suo essere "evitante" (il terrore del giudizio altrui) e
"schizoide" (paura e disprezzo verso il mondo). Complessivamente pare collocarsi su un
filone autosufficiente ed autarchico, studia con ossessività ed efficienza, già molto
giovane vive sola nell'appartamento accanto a quello dei genitori (è figlia unica).
All'inizio dell'università con grande fatica inizia ad avere una vita sociale, incontra i primi
ragazzi, usa il sesso per stabilire un contatto che altrimenti le riesce assai arduo. Quando
però uno di questi ragazzi, di cui si è infatuata, inizia ad usarla come puro oggetto
sessuale, frequentandola esclusivamente per sbrigativi amplessi, Arianna non riesce a
dire di no ed inizia a scompensarsi in senso delirante ed allucinatorio.
Vediamo così come tratti autarchici si mescolino con tratti che nella logica
affettiva sono specularmente opposti: essere disponibile a qualsiasi umiliazione
pur di non perdere la vicinanza dell'oggetto amato: il tratto più smaccatamente
patologico nel quadro del disturbo dipendente di personalità [...].
Un'ipotesi legata alla disorganizzazione dell'attaccamento è stata già proposta
da Liotti (1994) per i disturbi dissociativi e i disturbi di personalità borderline e
credo possa essere riproposta anche per tutta l'area psicotica, nei termini di
ulteriore accentuazione della disorganizzazione. Infatti anche il paziente
borderline alterna fasi e tratti di profonda dipendenza a fasi autarchiche di
rottura delle relazioni: il tema dell'auto-sabotaggio, a differenza di quanto
sostenuto dalla Benjamin (1996), a mio parere rimanda al tema autarchico
della sfiducia nell'altro. Una differenza importante potrebbe essere data dalla
tematica del trauma e quindi del disturbo da stress che è stato spesso
associato alla problematica borderline. Nelle schizofrenie non molto
frequentemente si incontrano eventi traumatici significatici nella vita dei
pazienti [...].
Ipotizzo quindi che la matrice della disorganizzazione, cioè il contatto
prolungato con le figure di attaccamento spaventate e/o spaventanti, accomuni
tutta l'area delle gravi psicopatologie. È questa la matrice di fondo della paura
dell'altro e dell'impossibilità di soddisfare i fisiologici bisogni di dipendenza.
Ipotizzo anche che un attaccamento organizzato, nelle forme ambivalenti o
evitanti, possa portare a disturbi della personalità, anche non di area psicotica.
Ci siamo domandati quale può essere la causa di questi differenti esiti di risposte
psicopatologiche più o meno devastanti ed abbiamo ipotizzato, con il supporto di
osservazioni cliniche che nel caso della psicosi gli agenti stressanti siano più taciti e
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pervasivi che in altri disturbi di personalità, e meno riconoscibili da un soggetto
immaturo come può essere un bambino piccolo. Ad esempio, ricordiamo lo stupore di
una madre di un paziente schizofrenico ingestibile che ci guardava perplessa quando
sottolineavamo la gravità del fatto che il bambino fosse stato allevato da una nonna
psicotica (depressa e spesso catatonica) per tutta la prima infanzia, visto che i genitori
dovevano lavorare. La signora raccontava che la madre era sempre chiusa nei suoi
pensieri e il bambino, dal passeggino su cui era seduto, cercava di interessarla con
"offerte votive", ad esempio pezzi di pane che stava smangiucchiando, per smuoverla
dalla sua apatia. Invano, tuttavia, perché la nonna che lo accudiva fisicamente,
appariva irraggiungibile.
Quindi nelle psicosi si può ipotizzare che la relazione di attaccamento sia
sottoposta ad agenti stressanti meno evidenti di quelli che troviamo nei disturbi
borderline della personalità, ma più pervasivi e carenzianti. Il bambino, futuro paziente,
è posto nell’impossibilità di
identificare le cause del malessere delle figure di
Attaccamento, non riesce così a difendersi, subendo un danno a livello di pensiero e di
esame della realtà. Interessante a questo proposito il contributo della ricerca di Fava
Viziello (1994) sui figli di genitori psicotici. I traumi, i vistosi abbandoni, così come il
maltrattamento e l’abuso invece, sono eventi disturbanti identificabili anche da una
mente infantile come ingiusti e negativi, comunque anomali, e non vengono ad
intaccare troppo distruttivamente il mondo delle aspettative che riguardano la
valutazione della realtà. Invece, angosce antiche ed intense, comunicate all’interno di
una relazione primaria dove la nutrice è profondamente turbata, ma appare
inconsapevole di sé stessa e del proprio turbamento, che tiene prevalentemente
rimosso, intaccano più profondamente le difese del bambino, contaminandolo a livello
della
sua
teoria
della
mente.
Il
bambino
si
sente
angosciato
da
questa
contaminazione, ma si trova in relazioni che negano ce ne siano le ragioni,
per
conservare una qualche congruenza nelle proprie aspettative sul mondo e su sé stesso,
è costretto a modificare la sua
percezione della realtà stessa, giungendo nei casi
estremi, a delirare su di essa.
Limiti della Teoria dell’Attaccamento
Come abbiamo accennato all’inizio, ci sembra importante sottolineare che
dissentiamo dal tentativo di fare un utilizzo onnicomprensivo delle modellizzazioni che ci
vengono proposte dai teorici dell’attaccamento. Questa impostazione rischia innanzi
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tutto di minimizzare l’importanza di altri sistemi motivazionali, quali il sistema agonistico,
cooperativo e l’importante sistema sessuale, pure messi in luce dalla base biologicoevoluzionistica cui lo stesso attaccamento fa riferimento.
Per questo motivo, ci riferiamo spesso nella nostra presentazione dei dati, ai
tratti della personalità proposti e classificati dal secondo Asse del DSM IV, che pur se
riduttivi, consentono di identificare sfumature più dettagliate del comportamento dei
pazienti, aspetti necessari per identificare correttamente un’ipotesi riguardante
l’eziopatogenesi relazionale dei vari disturbi. Ci rendiamo conto infatti che è impossibile
trovare connessioni tra le relazioni che hanno caratterizzato lo sviluppo del paziente e
le patologie così come sono classificate sul primo Asse del DSM IV. In passato questa
convinzione non ci era chiara ed ancora fino a I giochi psicotici nella famiglia (1998)
avevamo l'obiettivo di identificare correlazioni tra una psicopatologia di I asse, ad
esempio l'anoressia, ed un peculiare gioco relazionale. Ora ci appare invece
interessante identificare il funzionamento individuale della persona nei suoi caratteri
distintivi, per poter fare qualche ipotesi circa le relazioni fondamentali di quel singolo
soggetto, del suo allevamento, del suo attaccamento come proposto anche nel libro
di L. Benjamin (1996). In questo testo la Benjamin fa ipotesi sulle modalità educative e
sugli stili interpersonali nei quali il paziente è stato allevato, fornendo indicazioni utili alla
presa in carico individuale.
Al terapeuta familiare rimane il compito affascinante di considerare i membri di
una famiglia come un insieme di soggetti individuali, che hanno regolato gli uni sugli
altri i propri modelli operativi interni, così da formare una trama, un copione condivisi
(Bying Hall 1999). Il gioco familiare è una risultante, un equilibrio costantemente in
evoluzione, frutto di queste interazioni reciproche. Riflettere su di esse aiuta a capirsi e,
ad un tempo, a capire le connessioni tra il proprio comportamento individuale e gli
effetti ed i vissuti degli altri, in special modo di coloro che da noi più direttamente
dipendono. Il doppio fuoco di attenzione alla persona ed alle sue relazioni, nel gioco
dei reciproci influenzamenti, rimane la caratteristica principale del nostro lavoro.
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