Io ti ho visto
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Io ti ho visto
GIOVANNA PITTALUGA Io ti ho visto UUID: 7a4ffa38-0a08-11e5-95e3-4fc950d1ab4a T h i s e b o o k w a s c r e a t e d w i t h B a c kTy p o ( h t t p : // b a c k t y p o . c o m ) by Simplicissimus Book Farm Indice dei contenuti 1 5 2 7 3 12 4 16 5 19 6 25 7 27 8 31 9 37 10 45 11 50 12 59 13 64 14 66 15 73 16 85 17 93 18 94 19 100 20 102 21 106 22 109 23 123 24 126 25 129 26 130 27 144 28 147 29 149 30 154 31 156 32 164 33 166 34 170 35 172 36 175 37 177 38 181 39 183 40 196 41 203 42 208 43 212 44 217 45 222 46 231 47 235 48 243 49 250 50 257 51 275 52 281 53 283 54 288 55 303 56 305 Che Dio stia tra te e il male in tutti gli spazi vuoti del tuo cammino. Da una tomba dell’antico Egitto A chi se non a te, amore mio? 1 Prologo L’angoscia stava diventando insopportabile. Come un animale ferito cercava un rifugio in cui nascondersi, ma non riusciva a controllare il tremito delle mani. A stento raggiunse il suo ufficio. “Bastardo…– sussurrò – figlio di puttana, traditore… bestia ingrata, verme schifoso… come hai potuto… e sorridevi… brutto bastardo…” Per qualche minuto rimase in silenzio, immobile. Il battito del cuore era accelerato, il respiro affannoso, le mani fredde, la vista confusa. Poi nel profondo della mente nacque come un’ombra, il fantasma di un pensiero non ancora cosciente, che, alimentato dal dolore, crebbe, assunse una forma, un contorno e un carattere, si trasformò nell’abbozzo di un’idea, si raffinò nell’odio e divenne un progetto. Nel chiuso della sua tana, l’animale spaventato aveva trovato la cura per le ferite e la strategia da seguire per annientare chi aveva voluto ucciderlo. Adesso lo spirito era calmo, il cuore regolare, il respiro tranquillo. 2 Sei mesi dopo Chiuso nello studio al Dipartimento di Matematica dell’Università, l’emerito professore Luigi Silva stava controllando la stesura definitiva di un lavoro di cui era particolarmente compiaciuto. Ogni tanto scriveva qualcosa e lo sfregare della matita sui fogli era l’unico rumore che si poteva udire nella stanza. Il silenzio venne improvvisamente rotto dalla sirena di un’ambulanza. Il professore alzò il capo e poi girò lo sguardo verso l’orologio. “Cazzo! – esclamò, alzandosi come una molla – i grissini!” Quella sera avrebbe dovuto affrontare un incontro con la cognata Antonia e con il di lei marito Edoardo, chirurgo spocchioso, pieno di boria, di alterigia e di denaro. Elvira, moglie di Luigi, aveva ordinato i grissini in un panificio del centro, ‘unico rimasto a lavorare come Dio comanda’. “Andrò io a ritirarli – le aveva promesso il marito – tranquilla!” Ma, se non fosse passata l’ambulanza, sarebbe tornato a casa a cena iniziata. “Speriamo venduto che i il panettiere maledetti non grissini…” abbia pensò, raccogliendo velocemente i fogli. Uscì a razzo, e vide che il dottor Righetti, trentenne e valido ricercatore, stava chiudendo la porta del suo ufficio. Chiacchierando, percorsero il corridoio fino all’androne, giurata. dove Usciti incrociarono dal palazzo, la guardia camminarono velocemente sul marciapiede lungo la facciata dell’edificio. Quando arrivarono all’angolo della via, Righetti si fermò di botto. “Mi scusi professore, ho dimenticato sulla scrivania i compiti che devo finir di correggere.” disse il giovane e, con calma, ritornò indietro. Entrò nel Dipartimento, si fece da parte per lasciare uscire due studenti abbracciati e si diresse verso il suo ufficio. Sulla destra una lunga parete di vetro lo separava da due grandi aule le cui finestre si affacciavano su di un vasto cortile interno adibito a parcheggio. Tale destinazione d’uso di un’area comune, aveva richiesto mesi di liti infuocate, alla fine delle quali si era giunti ad un accordo: accesso gratuito per le biciclette, a pagamento per le auto. Una sbarra apribile con telecomando, avrebbe impedito l’entrata ai soliti furbi. Il dottor Bruno Righetti, vide, attraverso le vetrate, che l’Audi del professore stava aspettando di poter uscire, mentre la sua nuovissima Cinquecento nera era parcheggiata contro il muro di fondo. A quel punto si scatenò l’inferno. Due boati quasi contemporanei ruppero la quiete di quella tranquilla sera d’aprile. Chi si trovava all’interno del palazzo non fece neppure in tempo a domandarsi cosa mai fosse successo, che una terrificante deflagrazione ruppe tutti i vetri delle finestre del piano terra e la luce di un violento incendio rischiarò l’intero cortile. Bruno visse in diretta la distruzione totale della sua piccola FIAT. Dapprima la parte anteriore della macchina deflagrò, e, dopo alcuni secondi, il serbatoio pieno di benzina prese fuoco. La vettura sembrò sollevarsi in aria, e poi esplose come una bomba trasformandosiin una palla di fuoco. Dopo un attimo di silenzio tombale, cominciarono a sentirsi delle grida di terrore. Righetti si riscosse. Fatti due passi, vide l’Audi semidistrutta avvolta da un fumo sinistro. Il professore era vivo, aveva aperto la portiera e si era gettato fuori. Con le gambe orrendamente maciullate, tentava di allontanarsi dalla sua macchina, trascinandosi dietro quell’atroce ammasso di carne e di sangue. Bruno spalancò l’uscita di sicurezza, volò i cinque scalini sconnessi e, preso per le ascelle il ferito, cercò di portarlo in salvo. Capì che non ne avrebbe avuto il tempo e neanche le forze. Si gettò allora sul professore, facendogli scudo col proprio corpo. L’Audi scoppiò e prese fuoco. I vetri interni delle aule ricevettero direttamente l’onda d’urto ed esplosero, cospargendo il corridoio di milioni di schegge. Un pezzo di lamiera colpì la spalla del coraggioso ricercatore, profondamente. e la incise Il giovane perse conoscenza. 3 I boati delle esplosioni delle due auto si erano sentiti a parecchi isolati di distanza. Tutti i servizi di pronto intervento, di protezione civile, di polizia, compresi vigili urbani, carabinieri e caserme militari, furono invasi da telefonate, con richieste di aiuto e di soccorso. Il primo a giungere sul luogo della tragedia era stato Cosimo Imbesi, la guardia giurata, che, dopo aver salutato i due professori, aveva continuato il giro di ronda al primo piano del palazzo. Da cui era sceso di corsa, dopo qualche attimo di smarrimento. Arrivato nel corridoio, lo aveva trovato cosparso di vetri e solo grazie agli stivali di ordinanza era potuto arrivare a vedere l’orrenda scena di un uomo con le gambe ridotte ad un ammasso di carne maciullata coperto da un altro, svenuto e con la giacca zuppa di sangue. Il commissario Ferrero arrivò dopo le ambulanze. L’ispettore Dario Nicolasi gli andò subito incontro. “Dottore, qui è successo una catastrofe!” “Ci sono vittime?” “Due feriti, uno gravissimo.” Il professor Silva, le cui condizioni erano parse subito disperate, era già stato portato al pronto soccorso. Un medico stava medicando il Righetti che tremava in modo parossistico ed era pallido come un morto. Venne caricato sulla seconda ambulanza e portato in ospedale. “Chi ha dato l’allarme?” chiese il commissario. “La guardia giurata, un certo Cosimo Imbesi.” “Dov’è? Gli hai già parlato?” “Dottore, quando sono arrivato, qui sembrava di essere in guerra. Sono riuscito a individuare qualche professore che al momento dell’esplosione era nel palazzo. La stanno aspettando negli uffici della direzione, insieme alla guardia e a un paio di studenti.” “La Scientifica? ” “È nel cortile, ma per andarci le conviene fare il giro esterno dell’edificio perché questo corridoio è una trappola mortale.” Ferrero entrò nel parcheggio notando che la sbarra che ne bloccava l’accesso era inclinata a 45 gradi, e subito pensò che, se l’auto che stava uscendo fosse esplosa dopo essersi immessa nella via, la tragedia si sarebbe trasformata in una carneficina. I tecnici delle Scientifica stavano lavorando. Le due carcasse annerite, il fumo, l’odore di bruciato, una larga pozza di sangue, le vetrate distrutte, non erano altro che lo scenario di un attentato. “Savino che ne pensi?” disse il commissario, rivolgendosi a uno degli uomini in tuta bianca. “Cosa posso dirti, Marco, questa è opera di un pazzo criminale, le macchine non hanno preso fuoco da sole, quando le avremo esaminate saremo in grado di darti delle informazioni più precise.” Ferrero rimase qualche minuto a guardare il grosso cortile, su cui si affacciavano le finestre del palazzo. “Qualcuno avrà ben visto qualcosa – si domandò – mica staranno sempre a far conti.” Rientrò poi nell’edificio per andare a parlare con i testimoni. 4 Il primo ad essere interrogato fu Cosimo Imbesi, la corporatura guardia giurata. minuta, poco L’uomo, più di che quarantenne, aveva lo sguardo perso, tra l’attonito e lo spaventato e stringeva i braccioli della sedia per mascherare il tremito che lo scuoteva. “Signor Imbesi – esordì il commissario – quali sono i suoi compiti e qual è il suo orario di lavoro? ” “Io arrivo qui tutte le mattine verso mezzogiorno e ci rimango fino alle sette e mezza di sera. Giro continuamente per i corridoi, controllo le aule e i laboratori, nel pomeriggio verifico che tutti gli uffici abbiano le porte chiuse e che dentro non ci siano intrusi. Ogni tanto faccio anche un giro nel cortile, dove sono parcheggiate le macchine.” “E oggi?” “Oggi è stato un giorno come gli altri, ero al mio ultimo giro, ho visto uscire i poveri Silva e Righetti. Mi hanno salutato e sono usciti. Io ho preso lo scalone per salire al primo piano, non ero neanche arrivato in cima che si è scatenato il finimondo. Ricordo di essere rimasto paralizzato dalla paura, non ho neanche avuto il tempo di chiedermi cosa fosse successo che un boato mi ha fatto perdere l’equilibrio, ho sentito dei vetri che si rompevano, ho scorso la luce di un fuoco e sono sceso di corsa per la scala. Appena arrivato in fondo altro boato, peggiore ancora del primo, e ho visto le vetrate delle aule esplodere in milioni di schegge. Sono vivo per miracolo, se fossi già entrato nel corridoio sarei stato fatto a pezzettini…mi son subito venuti in mente i professori che avevo appena visto uscire e camminando sui vetri sono andato verso la porta di sicurezza e ho visto una scena orribile: il povero professor Silva con le gambe maciullate, e addosso a lui il Righetti, immobile, con uno squarcio sulla spalla. E sangue poi, ce n’era dappertutto, e la macchina che ancora bruciava e la puzza, terribile . . .” “Durante quel suo ultimo giro, ha incontrato qualcun altro?” “No, nessuno, a parte una coppia di ragazzi che si baciavano…” “Oggi o nei giorni passati, non ha notato niente di strano o di insolito?” “Guardi, ci ho già pensato, ma non ho visto niente che non fosse più che normale.” “Un’ultima cosa. Immagino che non tutte le persone che lavorano qui, professori e no, si fermino sempre fino alle sette di sera.” “Certo, le lezioni finiscono alle sei. A fermarsi fino a tardi sono pressoché sempre gli stessi, compreso un collega delle due povere vittime… un giovane professore che ha l’ufficio proprio davanti alla porta di sicurezza e che per sua fortuna non c’era.” Marco gli chiese allora di fare l’elenco di chi si fermava abitualmente fino a dopo l’orario di chiusura del Palazzo. Poi chiamò Nicolasi. “Senti – gli disse – prendi le generalità dei testimoni oculari, convocali in Questura per domani mattina, possibilmente scaglionati di almeno mezz’ora e fammi parlare subito con chi non è in questo elenco.” 5 Per prima entrò una giovane ricercatrice, Saveria Candeli, una donna graziosa, ma vestita in modo trasandato, con un bel caschetto di capelli scuri alla ‘maschietta’ e così magra da sembrare anoressica. Marco la fece accomodare e le sorrise. “Dottoressa, potrebbe raccontarmi la sua versione dei fatti?” “La mia versione sarà del tutto simile a quella degli altri – esordì con tono tranquillo – purtroppo non ho visto nulla che possa essere utile per le indagini.” Il commissario aspettò che proseguisse. “Oggi sono stata tutto il giorno chiusa nel mio ufficio che è al primo piano dell’edificio. Quando ho sentito le prime due esplosioni pressoché contemporanee, ho pensato che fosse successo qualcosa all’impianto di riscaldamento, che è stato appena rifatto. Non mi ero neanche alzata dalla scrivania quando c’è stato il secondo botto…sono uscita di corsa, pronta a scappare, attraverso le finestre del corridoio ho visto la luce delle fiamme e il professor Silva steso in terra fuori dalla macchina semidistrutta. Mi sono allora messa a correre giù dalle scale, ero solo alla fine della prima rampa, quando è successo il finimondo. Ricordo di essermi rannicchiata su uno scalino aspettando che tutto mi crollasse addosso. Poi ho sentito delle grida e ho visto gente arrivare.” “È sua abitudine fermarsi in Istituto fino ad oltre le sette di sera?” domandò il commissario. Saveria distolselo sguardo. “No – gli disse – solitamente esco alle quattro per andare a prendere la mia bambina all’asilo nido. Oggi però ci hanno pensato i miei genitori, e così ne ho approfittato per fermarmi a lavorare.” Ferrero rimase in silenzio. La giovane si tormentava con le dita di una mano i polpastrelli dell’altra, in una sorta di tic che denotava uno stato di nervosismo. “Vede commissario – riprese dopo aver fatto un profondo respiro – io convivo da cinque anni con una compagna, una farmacista che questa sera è di turno fino a mezzanotte. La bambina è nostra figlia, anche se l’ho concepita in provetta. I miei genitori son bravissime persone, ma religiose e bigotte da far paura. Che la loro unica figlia sia gay è una cosa che proprio non riescono a digerire. Questa sera sarei dovuta andare a cena da loro e so già che non avrei retto più di tanto alle severe critiche di mio padre e alle lacrime di mia madre. Ecco perché procrastinavo al massimo il momento di abbandonare la tranquillità della mia stanza.” Il commissario, dopo averla congedata, prese alcuni appunti. Secondo lui aveva detto la verità. “Commissario, ci sarebbe ancora un professore, un certo Mario Aliberti.” “Fallo entrare, Nicolasi, poi andiamo tutti a casa.” “Professore buonasera. So che è tardi ma le assicuro che faremo più in fretta possibile.” “Non si preoccupi, io mi considero un animale notturno, vivo solo e non ho nessuna fretta.” Piccolo, rotondetto e semicalvo, il professor Aliberti non era quel che si dice un bell’uomo, ma aveva uno sguardo così vivace ed ironico e un modo di porsi talmente amabile, da risultare immediatamente simpatico. Il commissario lo giudicò subito per quel che in effetti era: uno scapolone impenitente, che amava i piaceri della vita e le grazie delle donne. La sua testimonianza fu del tutto concorde a quella della Candeli, i loro uffici erano adiacenti e non avrebbero potuto vedere o sentire qualcosa di diverso. Quella sera Aliberti, di cui stava mettendo a punto la tesi. “A momento delle esplosioni – disse al commissario – ero era nel mio studio con una laureanda e ho pensato subito a un atto di terrorismo. Mi aspettavo che da un momento all’altro entrasse un pazzo a sequestrarci e sono uscito soltanto quando ho cominciato a sentire le sirene dell’ambulanza e dei pompieri.” “Senta, professore, qual è la sua opinione su tutta questa vicenda?” “Anche se non ho la più pallida idea di chi possa essere il colpevole, sono però convinto che sia da ricercare tra chi lavora in questo Dipartimento. Credo che l’esplosione delle macchine avesse lo scopo di uccidere i due proprietari. Cosa che in effetti si sarebbe verificata se Righetti non fosse tornato indietro e non avesse dimostrato un coraggio da leone nel salvare la vita al povero Luigi. Le vetture devono quindi essere state ‘minate’ e fatte esplodere con un comando a distanza. Infatti, poiché nessuno di noi ha orari rigidi, il potenziale assassino ha dovuto aspettare che le sue vittime uscissero insieme dal palazzo.” “E se non fossero uscite rispose l’Aliberti contemporaneamente?” “Bella domanda – sorridendo – ma quel che le dirò dimostra la mia tesi. Perché vede, il colpevole doveva per forza conoscere il carattere e le abitudini di Silva e di Righetti. I due non potrebbero essere più diversi. Luigi è un uomo sanguigno, amante della compagnia, della buona tavola e, resti tra noi, delle belle donne. Il Righetti è un giovane introverso, tutto casa e matematica, vive ancora con la mamma e nessuno l’ha mai visto con una ragazza. Noi lo prendiamo un po’ in giro perché è una via di mezzo tra l’ombra e il lacchè di Silva. Che naturalmente si diverte e sostiene che il poveretto, sperando di fare carriera, stia tutte le sere in attesa del momento in cui lui esce dall’ufficio per schizzare fuori e fare insieme un pezzetto di strada. Questa cosa è risaputa, ma fuori dal nostro ambiente nessuno può conoscerla. Non riesco però a trovare qualcosa che accomuni il Righetti e il professore. Luigi è un matematico importante, può aver dato noia a qualcuno, ma il giovane ricercatore cosa c’entra?” “Secondo lei, potrebbe essere stato uno studente?” “Come le ho già detto, avrebbe dovuto conoscere bene le nostre abitudini. Inoltre il Righetti va a far lezione ai chimici, mentre Luigi tiene i suoi corsi qui, ai matematici della laurea specialistica. In parole povere, non hanno interferenze. Potrebbe indubbiamente essere stato un caso, ma più ci penso, più mi convinco che sia stato un colpo architettato, e anche bene, a tavolino.” “La ringrazio per le sue ottime argomentazioni, l’aspetto domani mattina in Questura…” “Non troppo presto, spero!” Il commissario lo congedò sorridendo. 6 Marco tornò a casa poco prima di mezzanotte. Si tolse le scarpe e a piedi nudi andò a guardare i suoi tre bambini addormentati. Il cane Ugo, steso nel lettino di Paolo, il suo figlio più piccolo, si limitò ad aprire gli occhi e ad agitare un poco la coda. Il commissario si sentì invadere dalla tenerezza e dal solito incoercibile senso di colpa. Si accorse di essere terribilmente stanco, ma prima avrebbe dovuto mangiare perché i giorni successivi sarebbero stati ancora più lunghi e faticosi. Si mise poi in poltrona, con un bicchiere di nebbiolo in una mano e il cellulare nell’altra. Chiamò Elisa che rispose al primo squillo. “Ciao amore – disse la giovane – ho ascoltato i notiziari tutta la sera, ti ho pensato tanto e aspettavo che tu mi chiamassi, chissà come sarai stanco…” Marco si allungò di più sulla poltrona, bevve un sorso di vino e sorrise. “Prima o poi respirerà – pensò divertito – e mi lascerà parlare!” “Immagino di non poter dirti nulla che tu già non sappia, non abbiamo neppure ancora stabilito con certezza l’esatta dinamica della tragedia… no, io non penso ad un attentato, mi sembra di più un fatto interno, che so, gelosie o sgarbi gravi, …. no, il professore più anziano è vivo, ma han dovuto amputargli le gambe sotto al ginocchio… quello più giovane non è grave… di testimoni oculari finora non ne è comparso nessuno...speriamo che Scientifica scopra qualcosa di decisivo…” la 7 Alle sette e mezzo di quella stessa sera, la signora Elvira era in ansia. “Speriamo solo che Luigi non si dimentichi i grissini!” pensava. Alle otto l’ansia di Elvira si era trasformata in panico. Luigi non rispondeva al cellulare, il panettiere aveva chiuso bottega e lei stappava bottiglie e serviva salatini per far passare il tempo dell’angosciosa attesa. Quando finalmente sentì suonare il campanello, le parve di rinascere. Elvira andò volando ad aprire la porta. Quando si vide davanti una coppia di poliziotti in uniforme, le si strozzò in gola la frase aggressiva con cui pensava di accogliere il consorte ritardatario. I due agenti le dissero, con il maggior tatto possibile, che il professor Silva Luigi era in ospedale in condizioni abbastanza preoccupanti. “È stato un incidente di macchina?” domandò Elvira, sentendosi svenire. “Quasi.” rispose la giovane agente. Elvira e i due figli rimasero nella sala d’attesa del pronto soccorso. A mezzanotte un medico uscì dalla sala operatoria e si diresse verso di loro con un sorriso incoraggiante. “Suo signora marito – Purtroppo ha – disse, subito abbiamo rivolgendosi ferite dovuto molto alla gravi. amputargli i piedi…” La poveretta scoppiò in un pianto dirotto. “…quando è arrivato in ospedale temevamo che non sarebbe sopravvissuto. Ora i suoi parametri vitali si sono stabilizzati, per un paio di giorni resterà in terapia intensiva…” “Possiamo vederlo?” “No, è in coma farmacologico, non potrebbe neppure parlarle…Vi consiglierei anzi di andare a casa, domani mattina telefonate e vi daremo notizie.” Elvira tornò a casa piangendo. “E gli zii?” domandò la figlia Celeste, pensando in cuor suo che il parente chirurgo avrebbe ben dovuto accompagnarli al pronto soccorso o chiamarli per avere notizie. “Forse ci stanno aspettando.” rispose Elvira speranzosa. “Per me se ne sono andati.” ribatté la figlia. “Anche secondo me.” disse il figlio Angelo, che non era un gran parlatore, ma aveva una buona capacità di giudizio. Quando aprirono la porta di casa, trovarono buio e silenzio. Ma scoprirono di peggio. Edoardo e Antonia avevano deciso che se lo spirito soffre, il corpo non deve patire, per cui si erano abbondantemente serviti di tutte le portate della cena tragicamente mai iniziata, e mangiato a quattro palmenti l’intero menu, dall’antipasto al dolce. Avevano anche bevuto una bottiglia di pregiato vino rosso e poi se ne erano andati lasciando sul tavolo un laconico biglietto di saluto, insieme ai piatti sporchi. Elvira annichilì. Pazienza non andare in ospedale, pazienza non chiedere notizie, pazienza venire a cena senza neanche un mazzo di fiori, pazienza non invitarla mai, ma considerare la sua casa un ristorante e lei una cameriera era un’offesa intollerabile. “Mamma – disse Celeste con una smorfia di scherno – come avranno fatto senza grissini?” “So ben io dove se li dovrebbero mettere.” aggiunse Angelo. “Nel culo.” gli rispose la madre, apprezzando una volta tanto la volgare allusione. 8 La mattina seguente Ferrero convocò Nicolasi e Minici. “Abbiamo notizie dei feriti?” domandò. “Si, le condizioni del professore più anziano sono migliorate, ma i sanitari dicono che potremo interrogarlo tra non meno di due giorni. Quello giovane è stato dimesso, perché sua sorella è un medico e se ne è assunta la responsabilità.” “Bene. Allora tu Dario parla a Imbesi, Candeli e Aliberti. Registra le deposizioni e falle firmare. Tu Rocco fatti dare l’elenco di tutti i dipendenti, professori e no, con tanto di indirizzo e numero telefonico. Convocateli a piccoli gruppi e vedete di scoprire cosa hanno fatto ieri e soprattutto cosa hanno visto. Intanto io chiamo la Scientifica e poi interrogo gli stakanovisti dei numeri che son qui fuori e poi faccio un salto a casa di Righetti. Ci sentiamo per fare il punto della situazione subito dopo pranzo, ricordatevi che alle quattro abbiamo appuntamento col Questore.” Il primo professore, ad dal entrare viso fu Furio aperto, Scarpa, sorridente e gioviale. Alto, biondo e dagli occhi chiari, aveva uno sguardo intelligente e simpatico. “Professore, mi può dire tutto ciò che ricorda di ieri pomeriggio, soprattutto se ha visto o sentito qualcosa di inconsueto?” “Commissario, vorrei tanto poterle essere utile, ma ieri sono stato dalla mattina alla sera chiuso nel mio studio a rifinire la presentazione di un lavoro per un convegno a Chicago. Che vuole, a casa non riesco a combinare nulla, ho un bambino piccolo e vivacissimo…Come tutti ho pensato che i primi scoppi fossero dovuti a qualche fuga di gas, ma poi quando ci sono state quelle terrificanti esplosioni, l’unica idea è stata quella del dinamitardo. Però invece stamattina la televisione ha detto che le macchine sono state fatte saltare con un comando a distanza…” “Son proprio contento – si disse il commissario – che la televisione sia più informata di me!” Poi entrò Armando Micheletti: grigio, stempiato e segaligno, tutto ispirava, tranne simpatia, ma la cosa che colpiva di più era lo sguardo, una via di mezzo tra il triste, il deluso e il perennemente incazzato. “– “Buongiorno professore – esordì il commissario – per noi è importante conoscere le impressioni e i ricordi dei testimoni. Mi pare che lei si fermi sempre fino a tardi la sera. Potrebbe dirmi se ieri ha notato qualcosa di diverso?” “Sì, io cerco sempre di sfruttare al massimo le ore della giornata e solitamente lavoro anche al sabato mattina, al pomeriggio vado a far commissioni, perché mia moglie se ne è andata tre mesi fa con i nostri due figli e ora vivo con mia madre, una settantacinquenne lagnosa e ipocondriaca, decisamente insopportabile. Comunque ieri non ho visto nulla, né ho idea di chi possa essere stato, o forse ne ho troppe, perché sa, anche tra noi c’è chi non ha voglia di lavorare e guai a dirglielo...” “Quindi lei pensa che uno o più persone del Dipartimento potrebbero aver architettato un simile atto criminale?” “Io? Io non penso proprio niente, e ancor meno potrei farle dei nomi. So solo che viviamo in un mondo dove comportamenti da sempre ritenuti riprovevoli vengono accettati come normali espressioni dei propri diritti, che la moralità, il buon gusto e la disciplina sono valori di cui al più ci è consentito vergognarci ….” “Lei pensa che ciò sia sufficiente a tentare di uccidere due persone e danneggiare un intero palazzo?” “Le ho già detto che io non penso niente. Mi limito a fare considerazioni.” “C’è qualcuno che secondo lei avrebbe potuto trarre vantaggi dalla morte di Silva e Righetti?” “No, il Righetti è una nullità, come matematico di sicuro, come uomo non so, ma almeno è uno che è sempre presente sul posto di lavoro. Per me il colpevole si trova tra i ‘fankazzisti’ non tra gli sgobboni.” “Mi dica ancora una cosa, professore, lei ieri sera al momento delle esplosioni era nel suo ufficio?” “Certamente.” “Anche il suo è al primo piano?” “Sì, il mio è subito dopo quello di Aliberti.” “Era solo?” “Sì, ho finito di far lezione alle quattro del pomeriggio e dopo sono entrato nel mio studio e ci sono rimasto.” “Quando ha sentito i boati cosa ha fatto e cosa ha pensato?” “Fatto, nulla. Me ne sono rimasto impietrito. Pensavo… le confesso di aver pensato che presto sarei morto.” “Lei è tra quelli che hanno creduto di trovarsi sul luogo di un attentato.” “Verissimo. E poiché il palazzo è seicentesco, ho deciso che sarebbe imploso su se stesso.” “Ieri o nei giorni precedenti, ha visto o sentito qualcosa di insolito?” “Meno di niente, commissario. Io poi non ho grandi relazioni, qui dentro…” Dopo aver congedato il professor Micheletti, Marco rimase seduto per più di un quarto d’ora cercando di fare una prima schematica ricostruzione mentale della successione degli eventi della sera precedente. “Allora – si disse – chi c’era in quel disgraziato palazzo, lavorava chiuso in una stanza. Tolta la guardia giurata che stava salendo le scale e il Righetti che si è salvato grazie a una dimenticanza. Le due macchine esplodono in contemporanea, la Scientifica ci dirà di sicuro che è stato usato un comando a distanza e che quindi, qualcuno deve aver aspettato che i due uscissero. Ma aspettato dove?” Il commissario chiamò l’ispettore Minici. “Rocco, appena Dario finisce di interrogare i professori, andate a parlare con i proprietari e i commessi dei negozi delle vie confinanti. Da qualche parte il ‘bombarolo’ deve essere ben stato.” “A meno che fosse dentro al palazzo o in una delle case vicine.” “Ragazzi, tutto è possibile, le indagini hanno bisogno di lavoro, ma anche di un po’ di culo. Intanto telefono al Righetti e, se è in grado di parlare, vado a trovarlo.” 9 Il professor Righetti abitava in un piccolo condominio di una elegante ed esclusiva zona della città con vista sul fiume e sulla collina. Il commissario non ebbe bisogno di suonare il campanello. Il portoncino gli venne aperto e una voce femminile lo invitò a salire al primo piano. Una donna di circa sessant’anni con grembiule azzurro e colletto bianco, lo fece entrare in una grande sala ricca di mobili antichi. Marco rimase in piedi, colpito dallo stile retrò vecchio piemontese della famiglia Righetti. Quando, dopo pochi secondi, vide il professore, rimase impietrito. Il volto del poveretto era pieno di lividi, il braccio sinistro, fasciato fino alla spalla, era sostenuto da un tutore, la mano era gonfia e violacea.Ma la cosa più inquietante era il pallore mortale del viso e lo sguardo attonito, tipico di chi ha subìto una qualche forma di violenza e non ha ancora superato la paura e il dolore. “Buongiorno, commissario, la stavo aspettando e l’ho vista arrivare.” “Buongiorno a lei, professore, come si sente?” “Diciamo che ho visto tempi migliori. Stavo per prendere un caffè, se le fa piacere Rosa ne farà uno anche per lei.” La cameriera entrò portando due tazzine su un vassoio d’argento. “A essere sincero – continuò il professore – ho male un po’ dappertutto, ma grazie a Dio ci sono i sedativi. La cosa peggiore è stata la notte. Se mi addormento, ho degli incubi terribili, non riesco a leggere e meno che mai a lavorare, non ho neanche la concentrazione per guardare la tv o ascoltare musica; insomma, chiacchierare con lei non potrà farmi che bene.” “La sua testimonianza sarà senza dubbio molto importante. Le sono davvero grato per la sua disponibilità. Abbiamo già ricostruito, a grandi linee, la dinamica dell’evento, e sappiamo con certezza che lei era un bersaglio e che alla sua macchina era stato applicato un esplosivo. Sarebbe importante stabilire quando e dove. Per favore, mi racconti in dettaglio i suoi spostamenti di ieri.” “Sono uscito di casa verso le nove di mattina e sono andato, a piedi, al vicino Dipartimento di Chimica. La mia macchina era chiusa nel garage dalla sera precedente. Sono rimasto in aula fin verso la mezza, poi son tornato a casa e ho pranzato con mia mamma. Alle tre del pomeriggio ho preso la macchina per andare nel mio ufficio all’Università. Ho lavorato ininterrottamente fino a quando sono uscito con il professor Silva. Il resto lo conosce.” “Quando è entrato nel cortile del suo Dipartimento, quali altre macchine ha visto?” “Ricordo tre automobili – rispose il Righetti dopo un lungo silenzio – quella della guardia giurata in fondo a sinistra, una Yaris di colore chiaro a destra vicino all’entrata e, contro il muro di fronte, la Volvo del professore di fianco a cui ho parcheggiato la mia.” “Lei quindi è sicuro che le vostre due auto fossero vicine.” “Sicurissimo. Ricordo anche che, scendendo, mi sono caduti i compiti degli studenti che avevo messo in una di quelle orribili cartelline di plastica scivolose, aperte di fianco. Mi sono dovuto chinare nello spazio tra le due macchine per raccoglierli e poiché erano un po’ troppo vicine, ho fatto anche fatica.” “Quindi la sua Cinquecento era a destra della Volvo.” “Sì, come ogni giorno.” “Le mettete sempre allo stesso posto, anche quando il cortile è mezzo vuoto?” “Sì, la storia di quel parcheggio è quasi una telenovela. Alla fine della ristrutturazione del palazzo, si è trasformato il cortile in parcheggio per i dipendenti mettendo una sbarra e dando a tutti una tessera e un posto contrassegnato da un numero. Ma quando si è chiesto un contributo annuo minimo, la maggior parte dei miei colleghi ha rinunciato e saremo rimasti sì e no una decina. Però abbiamo conservato l’abitudine di parcheggiare sempre nei vecchi posti che ci erano stati assegnati.” “Quando è entrato nel cortile e poi nel Palazzo, non ha notato niente di insolito?” “Mi creda, commissario. È da ieri sera che ci penso, non ho fatto altro tutta la notte. Devo però dirle che, da quando sono entrato nel mio ufficio, non ne sono uscito che al momento di tornare a casa.” “Sulle possibili cause, lei che idea si è fatto?” “Questo è ancora più misterioso. Io ho un carattere un po’ chiuso, non frequento nessun collega al di fuori delle riunioni di lavoro, e neppure ho mai avuto problemi, discussioni o liti con i miei studenti. Non vedo una ragione al mondo per cui qualcuno vorrebbe vedermi morto. Siete sicuri che anche la mia macchina sia stata fatta esplodere intenzionalmente?” “Purtroppo siamo sicurissimi.” “Il professor Silva certamente avrà dato noia a qualcuno. In fin dei conti riveste un ruolo importante nell’ambito matematico e le gelosie sono all’ordine del giorno… ” In quel momento squillò il cellulare del commissario. “Era la Scientifica – continuò dopo aver parlato per qualche minuto – mi hanno confermato l’uso di un esplosivo artigianale innescato da una chiamata telefonica. Volevo ancora domandarle una cosa, poi le prometto di andarmene. Lei e il professore Silva siete sempre stati molto abitudinari nei vostri spostamenti di lavoro?” “Sì, io sono entrato a far parte del Dipartimento come dottorando, appena dopo la laurea e, ovviamente, mi sono uniformato agli orari del professore, che poi sono diventati una consuetudine.” “La maggior parte dei giovani…o meglio dei meno vecchi – continuò sorridendo – pranzano in uno dei tanti bar della zona. Io invece torno sempre a casa, e lo stesso fa il professore che è un uomo del novecento, un po’ all’antica…” “E quali sono i vostri orari standard?” “Come quelli degli impiegati statali! Dalle nove fin quasi all’una e dalle tre del pomeriggio fin verso le sette di sera.” “Non capita mai che lei rimanga a lavorare a casa, come fanno molti dei suoi colleghi?” “Praticamente mai. Vede – aggiunse, abbassando la voce e voltandosi a controllare che la porta fosse chiusa – mia mamma è molto invadente. Entra nella mia stanza quando vuole, per qualsiasi motivo, spesso solo per parlare un po’. Io la capisco, a far niente si annoia...” “Lei ha anche una sorella.” “Sì, Stefania, medico ospedaliero. A parte il fatto che è più impegnata di me, ha anche un fidanzato con cui esce tutte le sere.” “Professore, la ringrazio – disse alzandosi – Adesso vada a mettersi a letto, perché mi sembra che ne abbia bisogno. Ovviamente non esiti a chiamarmi in caso le venisse in mente qualsiasi insignificante.” particolare, anche Arrivato in ufficio Marco telefonò alla mamma per avere notizie dei suoi bambini che, come quasi tutti i sabati, erano stati portati dal nonno nella casa in collina. Con Ugo, naturalmente. “Com’è la situazione?” domandò alla madre. “Per ora tutto tranquillo. Siamo ancora nella fase del ‘vogliamoci tanto bene’, ma mi aspetto che tra un po’ scoppino i primi litigi!” Oltre ai suoi figli, Eugenio, Giovanna e Paolo, di sette, sei e quattro anni, c’erano le tre bambine di sua sorella Adelina. Sei piccoli scalmanati che non vedevano l’ora che arrivasse il fine settimana per sfogare la loro energia stringendo mutevoli patti di alleanza e di ostilità, con inevitabili bisticci, pianti e rappacificazioni. Due anni prima Elena, la moglie di Marco, era stata investita dalla macchina di un pregiudicato in fuga ed era morta sul colpo, salvando la vita a Paolo che teneva in braccio. Il bambino aveva subito un grave trauma e per molti mesi non aveva più parlato. Marco, oltre al dolore, era stato a lungo tormentato da rimorsi e sensi di colpa, e senza l’aiuto dei genitori, delle sorelle e di Ingrid, la colf bambinaia, non sarebbe stato in grado di superare la depressione in cui era caduto. 10 Il Questore, dottor Nicola Sacerdote, non nascondeva la sua preoccupazione per la mancanza di indizi che potessero almeno orientare il proseguimento delle indagini. “Abbiamo trovato un testimone – disse Nicolasi – un certo Santo Fioroni, il titolare del bar davanti all’entrata dell’Università. Al momento dell’esplosione era fuori dal locale e stava fumando una sigaretta; ricorda che i due professori sono usciti insieme e che poi il più giovane è tornato indietro da solo. Giura di non aver visto nessuno che stesse tenendo d’occhio il portone del palazzo.” “Il che – aggiunse Ferrero – escluderebbe la presenza del dinamitardo all’esterno dell’Università.” “Come intendete procedere?” domandò il Questore. “Abbiamo finito gli interrogatori di chi solitamente rimane a lavorare fino a sera. Ora dobbiamo contattare gli altri, poi passeremo agli studenti.” “Il colpevole – aggiunse Ferrero – è quasi sicuramente uno che ha a che fare con l’Università, poiché le due vittime non avevano alcuna relazione comune esterna al luogo di lavoro. Lunedì verificheremo eventuali assicurazioni sulla vita.” “Abbiamo telefonato – disse Minici – a Giuseppe Corsi, il professore che ha lo studio accanto a quello di Righetti e che ogni fine settimana torna a Pavia. Ha sempre collaborato con i due colleghi feriti e magari saprà dirci qualcosa di più.” “A proposito – aggiunse rivolgendosi al commissario – domani alle nove verrà a parlarle. È un ragazzo molto cortese e si è spontaneamente dichiarato disponibile a tornare stasera stessa.” Dallo sguardo di Ferrero, Minici capì di aver detto qualcosa di sbagliato. “Stammi bene a sentire Rocco – esordì il commissario appena furono usciti dalla Questura – adesso tu prendi il telefono e chiami il professore tanto cortese. Lo chiami finché non ti risponde e gli dici che, domani, venga nel mio ufficio alle undici, hai capito? Alle undici. Sarà o no domenica anche per noi?” Il povero Minici capì. Meglio tardi che mai. “E già che ci sei – continuò – chiama l’ospedale, chiedi come sta Silva e quando potrà essere interrogato.” Marco decise di non tornare in ufficio. Per oltre vent’anni era vissuto in campagna e sentiva nel sangue il risveglio della primavera. Era irritato, una bella camminata a passo veloce gli avrebbe disteso i nervi. Elisa era una donna giovane e sensuale, innamorata di Marco fin dal primo incontro, avvenuto l’anno precedente nella scuola elementare in cui la giovane era maestra di Eugenio, figlio primogenito del commissario. Avevano programmato da tempo la serata: bambini dai nonni, Ingrid dalla sorella, nessun impegno di lavoro. all’Università aveva Purtroppo guastato l’attentato non poco l’atmosfera. Ma un paio di bicchieri di vino, una cena stimolante e l’ambiente intimo avevano cancellato dalla mente il ricordo delle esplosioni e l’angoscia dell’indagine. I due rimasero vicini a chiacchierare fin dopo mezzanotte, quando decisero che fosse ora di andare a letto. Per la prima volta avrebbero dormito a casa di lei. Elisa aveva una bella gatta tricolore, Artemisia, affettuosa, invadente e viziata, che ogni notte si stendeva di fianco alla sua padrona e dormiva ronfando leggermente. Quando quella sera Artemisia vide il bipede umano sdraiarsi nel suo letto vicino alla sua padrona, si ammutolì. Entrò silenziosamente in camera sistemazione e si in accinse fondo a al cercarsi una materasso. Pur nell’impeto della passione Marco la sentì e senza farsene scrupolo le assestò una poderosa pedata ributtandola sul pavimento. Elisa, per fortuna, aveva altro a cui pensare e non se ne accorse. Forse Artemisia pensò che Marco stesse malmenando la sua padrona, forse, più semplicemente decise di difendere il suo territorio dall’intruso ingombrante, forse reagì alla violenza subita. Fatto sta che entrò in azione con tutti i mezzi fornitole da madre natura. L’urlo che uscì dalla gola di Marco, difficilmente sarebbe stato scambiato per la conclusione liberatoria di un orgasmo paradisiaco. Per cercare di togliersi di dosso l’animale inferocito che con venti unghie e quattro canini gli stava attaccato alla carne nuda della schiena e della spalla destra, si arcuò all’indietro velocemente, troppo velocemente, procurandosi in tal modo una distorsione dolorosa in una parte molto più intima, provvista di organi che, generalmente, sono morbidi particolari e malleabili, circostanze e per ma che, in esigenze di funzionalità, la natura provvede a modificare radicalmente, facendoli diventare più rigidi e più possenti, ma assai meno flessibili. La serata finì malissimo: per Artemisia, che venne relegata in bagno, per Elisa che non finiva più di scusarsi, di disinfettare e fare impacchi di ghiaccio e per Marco, che non sapeva dire cosa gli facesse più male, amor proprio compreso. 11 La mattina successiva alle undici Marco entrò nel suo ufficio. Non aveva chiuso occhio ed era ancora dolorante, ma l’adrenalina che aveva in circolo gli dava una notevole carica di energia. “Buongiorno, commissario – lo salutò Minici – spero si sia potuto riposare. Il professore è già arrivato e la sta aspettando.” Il povero ispettore aveva voluto essere gentile e rimediare all’errore di valutazione del giorno prima. Ma dall’occhiata di fuoco che gli lanciò Ferrero, capì che qualcosa doveva essere andato storto. D’ora in avanti sarebbe stato zitto e non avrebbe più preso iniziative. Giuseppe Corsi era quel che si può definire ‘un bravo ragazzo di buona famiglia’. Di corporatura slanciata aveva fattezze regolari e un bel viso sorridente e cordiale. Marco rimase colpito dalla stretta di mano forte e salda del giovane e dal modo franco e deciso con cui si presentò, senza impacci o timidezze. “Commissario, può dirmi come sta il professor Silva?” “Ho appena avuto notizie dall’ospedale. Beh, come saprà hanno dovuto amputargli le gambe, ma ha ripreso conoscenza e pare non ci siano pericoli per la vita. Lei da quanto tempo lo conosce?” “Io sono entrato al Dipartimento il primo novembre dell’anno scorso, ma conoscevo il professore già da un paio d’anni. Mi creda, è una bravissima persona, generosa ed affabile. A volte sembra aggressivo e può capitare che con gli studenti ‘sbotti’, ma poi li promuove tutti con voti che non si meriterebbero.” “Penso che lei conosca bene il professor Righetti…” “Povero Bruno, gli ho anche telefonato ieri sera perché avevo sentito dal telegiornale che era già a casa. Mi ha raccontato a grandi linee la storia, ma si stancava a parlare… Certo che è stato coraggioso, non so chi altri avrebbe fatto un gesto come il suo.” “Secondo lei, può avere dei nemici nell’ambiente dell’Università?” “Anche se lo conosco da pochi mesi, mi sento di escluderlo nel modo più tassativo. Bruno è un ottimo professore, preciso e sempre disponibile, un gran lavoratore e un figlio devoto. L’unico difetto sta, mi scusi se mi permetto, nella sua natura: chiuso a riccio e un poco avaro, anche di sentimenti. Ma educato e cortese – aggiunse sorridendo – i colleghi mi hanno detto che vive in casa con la mamma e la sorella, come potrà immaginare qui tutti lo prendono un po’ in giro…” “E con le ragazze?” “Beh, non ho informazioni precise, nessuno l’ha mai visto con una donna, ma posso garantire che con le studentesse è correttissimo” “Se ben ricordo il suo studio è confinante con quello di Righetti.” “Sì, l’ufficio di Bruno è tra quello del professore ed il mio. Le stanze sono anche comunicanti per mezzo di porte a vetri che per privacy lasciamo sempre chiuse.” “Ha mai sentito il Professore o il Righetti usare parole di minaccia o di paura o di rabbia verso qualcuno, o raccontare qualche fatto spiacevole capitatogli o parlare di qualche offesa ricevuta?” “Commissario – rispose il giovane – il professor Silva ha un temperamento sanguigno, e ogni tanto, come le ho già detto, si lascia prendere dall’ira. Ma sono esternazioni più coreografiche che altro, gli studenti lo conoscono e non fanno una piega. Con i colleghi, con la moglie e con i figli è sempre gentilissimo. Bruno poi è un pavido. Quest’anno io e lui teniamo lo stesso corso, alle due squadre dei Chimici del primo anno. Ovviamente facciamo esami insieme, non l’ho mai sentito alzare la voce e tantomeno litigare con qualcuno. Mi pare impossibile che ci sia un criminale che abbia pensato di farlo bruciare nella sua amatissima Cinquecento.” “Mi hanno detto che anche lei si ferma sino a tardi la sera.” “Sì, è vero. Solitamente rimango nel mio ufficio fin verso le otto.” “Quindi lei tutti i giorni vede uscire i suoi vicini di stanza.” “Sì, il professore e Bruno tornano a casa tra le sette e le sette e mezza di sera.” “Insieme?” “Sempre – rispose sorridendo – la cosa, come presumo le abbiano già detto, è argomento inesauribile di battute più o meno piccanti. Nessuno, nemmeno il professore, che è il primo a riderci su, sa come diavolo faccia il Righetti a essere sempre pronto ad uscire al momento giusto. Pensiamo che rimanga in ascolto vicino alla porta di comunicazione…” “Quindi è risaputo che escono dal parcheggio contemporaneamente.” “Credo che lo sappiano anche i muri…” “Posso domandarle come mai lei è uno degli ultimi ad uscire dal palazzo?” “Beh, la mia situazione è particolare. Io sono arrivato circa sei mesi fa e dovrò rimanere qui per almeno cinque anni. La mia settimana lavorativa è di soli quattro giorni, poiché ogni venerdì dopo pranzo vado a prendere il treno e me ne torno a Pavia. Il lunedì mattina riparto e torno indietro e più o meno all’una di pomeriggio aumentare la sono già speranza in di ufficio. poter Per essere richiamato nella mia città devo fare il maggior numero di pubblicazioni su riviste di prestigio. Poiché la didattica mi porta via una quantità enorme di tempo, non mi resta che far fruttare quello che mi rimane.” “Chi l’ha avvertita del disastro?” “Mia sorella. Mi ha chiamato sul cellulare mentre ero a una festa di amici. Quando sono tornato a casa, ho acceso la televisione e ho visto lo sfracello. Mi piacerebbe andare a dare un’occhiata, lei pensa che mi facciano entrare?” “È escluso, ma se vuole la posso accompagnare, così potremo parlare ancora un po’. Chissà che non le venga in mente qualcosa…” Quando il professor Corsi vide le vetrate esplose, le macchie di sangue e i due crateri anneriti scavati in cortile dalle auto esplose, impallidì visibilmente. L’aula di devastata: informatica i computer era a letteralmente terra, le sedie accatastate, la grande lavagna fatta a pezzi. La mente di Giuseppe si perse nell’enormità del danno, e nel breve attimo di obnubilamento della coscienza un’idea si fece strada dalle zone più profonde professore della parve ragione. svegliarsi Il giovane con la consapevolezza di aver avuto un sospetto, vergognoso e non coerente con i fatti avvenuti. Si sentì in colpa e lo nascose anche a se stesso. Parlandone, avrebbe potuto salvare delle vite. Soprattutto la sua. Marco entrò per la prima volta negli studi di Corsi e delle due vittime. La stanza di Silva denotava un grande fervore lavorativo: dappertutto c’erano fogli, cartelline e armadio era libri, montagne pieno di di scatole libri, un numerate, contenenti le pubblicazioni del professore in ordine cronologico. L’ufficio di Righetti sembrava finto. Sulla scrivania c’erano una lampada, un portapenne semivuoto e un calendario. I ripiani di una libreria contenevano parecchi volumi divisi secondo l’argomento, una decina di raccoglitori con etichette esplicative erano custoditi in un armadio, insieme alla cancelleria di riserva. L’unica cassettiera era chiusa a chiave. “Bruno – spiegò Corsi sorridendo – teme che qualcuno gli rubi le idee. Non ho mai visto quello che scrive, tantomeno calcoli o appunti delle lezioni. Io invece non nascondo neppure i registri degli esami, e la mia stanza è un vero caos.” “È stata una fortuna per lei essere assente venerdì pomeriggio – commentò il commissario – se fosse uscito nel corridoio dopo le prime esplosioni avrebbe potuto essere ferito in modo gravissimo dalle schegge di vetro.” “Secondo lei è lecito pensare che il colpevole di tutto questo disastro ha scelto il giorno giusto perché io non venissi ferito?” “È più l’assassino che lecito. volesse Penso uccidere anch’io solo che Silva e Righetti.” Il professor Corsi non poté mai sapere come tale supposizione fosse sbagliata. La scelta del giorno non aveva lo scopo di salvargli la vita, ma quello di prolungare l’attesa gratificante di una vendetta programmata. Nel pomeriggio Marco passò da Elisa. Con lei sarebbe andato in collina a prendere i bambini e a riportarli a casa. “Come va la belva? –le domandò baciandola – non lo dico per scherzo, ma quella gatta è molto pericolosa.” “Laura, la tua amica veterinaria – continuò Elisa a voce bassa –mi ha detto che Artemisia era convinta che tu mi stessi aggredendo. In fin dei conti non ha visto altri uomini entrare nel mio letto.” Marco provò persino un moto di simpatia per la bestiaccia a cui poco prima avrebbe fatto una bella e definitiva iniezione letale. La frase di Elisa aveva rafforzato la sua convinzione di essere il solo e unico gallo del pollaio e anche se la spalla gli bruciava e gli organi bassi lo obbligavano a usare qualche cautela, decise di continuare ciò che la gatta aveva interrotto. 12 La mattina dopo alle sette il commissario convocònel suo ufficio gli ispettori Minici e Nicolasi. Dopo un breve riassunto di quanto emerso dall’incontro con il professore di Pavia, fecero il piano della giornata. Dario avrebbe controllato le assicurazioni delle auto distrutte ed eventuali polizze vita delle due vittime. Rocco avrebbe cominciato a occuparsi degli studenti che erano stati bocciati almeno una volta. “Non è da escludere – aggiunse Ferrero – che lo scopo dell’attentato fosse l’uccisione di uno solo dei due professori e l’altro una semplice copertura…anche se mi sembra impossibile che si ammazzi per un esame fallito. Beh, io intanto vado all’ospedale, sperando che Silva sia in grado di connettere e ci dia almeno un’idea da cui poter partire. Alle tre abbiamo un nuovo appuntamento col Questore, puntuali, mi raccomando.” Il professor Silva era stato trasferito in una camera singola del reparto di ortopedia. Quando Marco lo vide, rimase impressionato dal pallore del volto pieno di lividi, dalle mani bendate e dall’evidente mancanza di una parte delle gambe. Pur riuscendo subito a riprendere il controllo, guardò il letto, dove le lenzuola aderivano al materasso là dove normalmente i piedi le tengono sollevate. Accanto a lui, terrea e lacrimante, c’era la signora Elvira, che si alzò in piedi e belando una specie di saluto uscì dalla stanza. “Buongiorno professore – disse cercando di sorridere in modo educato – mi hanno detto che oggi sta un pochino meglio.” “Buongiorno commissario, la stavo aspettando.” Lo sguardo del poveretto era vivace e il tono di voce debole, ma deciso. “Come potrà immaginare sono venuto per farle qualche domanda. Spero di non stancarla…” “Guardi, mi dispiace dire una cattiveria quando sono appena stato miracolato, ma mia moglie mi stressa come lei neppure immagina…” “Immagino benissimo!” pensò Marco, sforzandosi di rimanere impassibile. “… ma vederla piangere e disperarsi tutto il giorno, come se avessero tagliato le gambe a lei e non a me, mi irrita in un modo tale…” Il povero professore chiuse gli occhi, continuò dopo respirando a fatica. “Allora, commissario – essersi ripreso – presumo che lei mi voglia chiedere se ho visto qualcosa di sospetto. Mi dispiace deluderla. Da quando ho ripreso conoscenza non ho fatto altro che pensare, darei non so cosa per poter mettere le mani su quel delinquente, balordo assassino, cosa ho mai fatto e a chi per meritarmi una cosa del genere!” Marco lasciò che si sfogasse, in fin dei conti ne aveva tutte le ragioni. “Professore – gli disse con la maggior calma possibile – vedrà che lo piglieremo. Ora mi racconti ciò che ha fatto venerdì sera dopo essere uscito dalla sua stanza.” “Erano le sette e un quarto, lo so perché ero in ritardo e dovevo andare a ritirare dei i grissini…” Pausa. “Uscendo ho visto come sempre il Righetti, che il Signore lo rimeriti, mi ha salvato la vita e io mi sento in colpa per averlo preso in giro più di una volta. Insieme siamo arrivati fino all’angolo, poi lui è tornato indietro, aveva dimenticato qualcosa…” “Si ricorda di aver incontrato qualcuno?” “No, nessuno, anzi aspetti un momento, abbiamo salutato la guardia giurata.” “E fuori per strada?” “Non lo so, avevo molta fretta ed ero preoccupatissimo. Poi son salito in macchina ed ero quasi arrivato all’androne quando il cofano della vettura è esploso. Non ho neppure sentito dolore, solo una grande paura. Ho cercato di scendere dall’auto, ma sono caduto a faccia in avanti urlando, c’era un forte odore di fumo e ho sentito un terribile boato, dalla mia macchina cominciavano a uscire delle fiamme e ho pensato che stavo per saltare in aria. Mi ha salvato il Righetti. Mi ha trascinato come ha potuto e si è sdraiato su di me. Ricordo ancora un rumore spaventoso e una soffocante puzza di bruciato. Poi ho perso conoscenza e mi sono svegliato in ospedale.” “Quando è entrato nel cortile, ha visto qualcuno o qualcosa di insolito?” “Nulla, meno di niente.” “Negli ultimi mesi, ha avuto qualche discussione con colleghi o col personale o con degli studenti?” “Guardi, le discussioni son all’ordine del giorno. Ma son cose burocratiche, non ci sono veri interessi personali. Con gli studenti ho sempre avuto un ottimo rapporto. Bruno poi, cosa c’entra? Se c’è uno tranquillo e invisibile è proprio lui. Chi mai ha potuto volerlo morto?” “Professore, che idea si è fatto della vicenda?” “Un’idea ce l’ho, ma sarebbe meglio che non gliela dicessi. Penso che ci sia un pazzo, una sorta di killer seriale che ha preso di mira l’Università. Vorrei sbagliarmi, ma ci saranno altri feriti o, peggio, altri cadaveri.” 13 Intanto il Nicolasi aveva parlato con la compagnia di assicurazioni della Volvo di Silva. Il professore non aveva voluto cautelarsi contro atti vandalici e si sarebbe dovuto comperare una nuova macchina a sue spese. Sempre che fosse ancora in grado di guidarla. Bruno era stato più prudente, o meglio più fortunato. La signora Milanesi era la titolare dell’agenzia che assicurava la casa e le auto della famiglia Righetti da oltre quarant’anni. Avvenente e giovanile, era una gran chiacchierona e non fu difficile farla parlare. “Guardi, commissario…” esordì. “Ispettore…” “Ispettore, commissario, per me son tutti uguali. Guardi, signor poliziotto, il dottore Righetti figlio - il padre è mancato qualche anno fa, ma era un mio fedelissimo cliente e tanto una brava persona - il figlio, dicevo, è venuto da me alla fine di marzo tutto contento perché si era comperato una Cinquecento nuova. Voleva spendere il meno possibile, dicendo che la sua auto era sempre ben custodita. ‘Cosa ci vuole, gli ho detto io, a incontrare una delle tante manifestazione e prendersi un sanpietrino sul parabrezza?’ Se non fosse stato per me, sarebbe nei guai, invece adesso la mia compagnia gli pagherà quasi per intero il costo della macchina.” “Le risulta – chiese Nicolasi – che il dottore abbia un’assicurazione sulla vita?” “Lo escludo! In quella famiglia son tutti superstiziosi e non ne vogliono sapere. Comunque non ne hanno bisogno. Prima o poi la signora toglierà il disturbo, e i due figli avranno di che vivere senza bisogno di lavorare. Perché sa, l’avvocato ha intestato sempre tutto a lei, e quando è morto i ragazzi hanno ereditato solo le briciole.” Dario fece altre ricerche, ma in effetti nessuna delle due assicurazione sulla vita. vittime aveva una 14 Quando Marco tornò in Questura, l’appuntato Coppola gli disse di telefonare con urgenza ad un certo professor Paolo Andreoli, il direttore del Dipartimento di Matematica. Un quarto d’ora dopo Andreoli entrava nell’ufficio di Ferrero. Era un uomo massiccio, con una testa grossa e sproporzionata. “Ha problemi di cuore – pensò Marco sentendolo respirare a fatica – dovrebbe mettersi a dieta, anche perché avrà almeno settant’anni.” Il professore, dopo essersi messo in poltrona, cominciò un’affannosa esplorazione in tutte le tasche. “Mi scusi, sto cercando…ah ecco!” disse, estraendo una scatolina di pasticche alla menta, che si mise in bocca una dopo l’altra per tutta la durata del colloquio senza neppure fare il gesto di offrirne. “Dottore – continuò, succhiando la prima – sono sconvolto. Venerdì ero a Palermo, per mia fortuna, perché con il cuore che mi ritrovo sarei potuto morire. Stamattina ho tentato di entrare nel m i o Dipartimento, ma, nonostante avessi spiegato chi sono, non mi hanno fatto passare.” “Purtroppo, professore, dobbiamo aspettare che la Scientifica finisca di fare i rilievi. So che lei è il direttore e quindi conosce bene le due vittime di questo crimine…” “Luigi è un mio carissimo amico – dichiarò con la seconda pastiglia – non so dirle come mi addolori quel che gli è successo. Mario mi ha detto che ora è fuori pericolo, anche se hanno dovuto amputargli le gambe, immagino lo stato di disperazione di Elvira…” “Presumo che Mario sia il professor Aliberti.” “Sì, mi scusi, anche lui è un grande amico, – aggiunse, con la terza caramella – l’unico che mi ha telefonato per raccontarmi tutta la tragedia. Stamattina ho chiamato il Preside e il Rettore. Dovremmo incontrarci oggi pomeriggio per fare un primo punto della situazione. Può darmi qualche notizia sulle indagini? ” Marco notò che per il povero Righetti il Direttore non aveva speso neppure una parola. “Tutto quel che posso dirle e che peraltro sta scritto sui giornali, è che l’attentatore si è mosso come un fantasma. Al momento nessuno ha visto nulla di sospetto o anche solo di diverso dal solito. Penso che dovremmo ricercare più il movente che il colpevole. O i colpevoli, maschi o femmine che siano. Siamo propensi a credere che la mano criminale provenga dall’interno, tra chi per qualunque ragione ha familiarità con l’ambiente universitario. Potrei chiederle la sua idea in proposito?” “La mia idea è che sia stato uno squilibrato. – esclamò con in bocca l’ennesima pastiglia – Non riesco a trovare una ragione per cui una persona sana di mente possa voler uccidere Luigi.” E ridagliela! “E il professor Righetti?” “Già, poverino, è stato un vero eroe. Io lo conosco pochissimo, non credo di averlo mai sentito parlare. È un giovane tranquillo, pare sia un buon docente… Qui da noi commissario, l’ambiente è tutto sommato tranquillo. E sa perché? – continuò, sempre succhiando – Perché non abbiamo motivo di scannarci. Noi lavoriamo per la gloria e per un minimo di potere. Il denaro e il sesso sono, lei mi insegna, le due ragioni principali per cui la gente è disposta anche ad uccidere. Qui di soldi manco l’ombra, e di sesso…Luigi ha i suoi anni e penso abbia tirato i remi in barca, il Righetti non so, ma da quel che si dice…insomma non mi faccia parlare…” Marco tornò nel suo ufficio, prese alcuni appunti e convocò Nicolasi e Minici. Meglio raccogliere le idee prima dell’incontro con il Questore. Dario relazionò quanto aveva saputo dalle società di assicurazioni. Nulla di utile ai fini delle indagini. Rocco aveva trovato l’elenco degli universitari bocciati e li stava contattando. “Finora ho parlato con la madre o il padre di undici studenti. Me ne mancano quattro, nel pomeriggio spero di finire. Tra l’altro sono tutti allievi di Righetti. Negli appelli dell’ultimo anno il professor Silva non ha bocciato nessuno.” “E i genitori, come ti sono sembrati?” “Beh, nessuno dava un’importanza eccessiva all’insuccesso del figlio o della figlia. In fin dei conti sono matricole, un esame fallito è ritenuto fisiologico. In compenso ho scoperto uno studente di Silva che è andato dodici volte alla prova scritta senza mai consegnarla. Il ragazzo in questione, che ragazzo non è più poiché ha 39 anni, si chiama Antimo Ferrasi, vive ad Asti con i genitori ed è un personaggio particolare. Sono riuscito a parlare con un paio di suoi compagni, mi hanno detto che è un tipo eccentrico, da prendere con le molle, non parla né saluta nessuno e scrive in modo incomprensibile. Pare che abbia anche un temperamento aggressivo e che una volta abbia infastidito una compagna; insomma se a quell’età non si è ancora laureato, non lavora e non si gode la vita, potrebbe avere problemi mentali.” “Nicolasi, i genitori dei quattro ragazzi bocciati possono aspettare. Dopo la riunione vai con Minici da questo Ferrasi. Poi riferitemi le vostre impressioni. In caso di dubbio, lo convochiamo in Questura.” “Dottor Ferrero – esordì il Questore con una certa veemenza – stamattina mi ha chiamato il Prefetto che a sua volta era stato contattato dal Rettore dell’Università, siamo su tutti i giornali che intervistano chiunque e danno versioni fantascientifiche del tentativo di omicidio. Duplice, per giunta.” “Finora ci siamo limitati a consolidare certe posizioni – rispose il commissario con una certa fermezza – e mi creda, non è cosa da poco. In meno di tre giorni, abbiamo interrogato una cinquantina di persone; tenga presente che il palazzo è un luogo aperto, addirittura pubblico, non vi è nessuna forma di controllo se si esclude una guardia giurata che si limita a fare il giro dei corridoi e a verificare che negli uffici non vi siano degli intrusi. Dalla mattina alla sera il via vai è continuo, gli studenti sono centinaia, poi ci sono i professori, il personale tecnico e amministrativo e, come se non bastasse, ci son pure i corsi dell’Università popolare. Finora non abbiamo trovato un movente, tutti gli interrogati indistintamente dichiarano di non esser mai venuti a conoscenza di screzi o di litigi di portata più grave di una normale discussione di lavoro. Eppure tutto porta a credere che il colpevole sia all’interno del Dipartimento.Ho parlato stamattina con il professor Silva e ieri con l’eroe della vicenda, il povero Righetti. potrebbero essere Purtroppo un le gesto esplosioni puramente dimostrativo di uno schizofrenico esaltato che prima o poi si farà vivo con qualche richiesta o volantino o proclama…” “…del cazzo!” pensò, ma non lo disse. “C’è il grosso rischio di essere solo all’inizio di un’escalation.” “Ci auguriamo di no, ma è sicuramente possibile.” “Ora stiamo contattando gli studenti – disse Nicolasi – oggi stesso andremo ad Asti, da un trentanovenne fuoricorso dal carattere un po’ prepotente, l’unico finora su cui possiamo avere qualche sospetto.” 15 Nicolasi e Minici arrivarono verso le cinque del pomeriggio davanti alla casa di Antimo Ferrasi. Era una modesta villetta alla periferia della cittadina, con un piccolo giardino molto ordinato, ma completamente spoglio. Tutto era grigio e silenzioso. Ad aprire il cancello venne un uomo anziano, piccolo di statura, calvo e con un aspetto rassegnato. presentarono I due mostrando i poliziotti si tesserini di riconoscimento. “Siete qui per mio figlio?” “Sì, vorremmo solo parlargli un momento.” Ferrasi li guardò in silenzio e li fece accomodare nel salotto, una stanza triste e poco illuminata. “Vado a chiamarlo.” disse, e uscendo chiuse la porta. I due ispettori si sedettero a quello che doveva essere il tavolo da pranzo, su cui poggiarono i loro taccuini. Dopo almeno un quarto d’ora, entrò lo studente. Mingherlino, curvo di spalle, con radi capelli biondicci, pallido e con lo sguardo arcigno, tutto ispirava fuorché cordialità e simpatia. Si sedette di fronte ai poliziotti, senza rispondere al loro saluto. “Come saprà – esordì Nicolasi con la massima calma – venerdì scorso il professor Silva, che lei conosce bene, ha subìto …” Antimo balzò in piedi e gli sferrò un potente diretto all’occhio sinistro, poi cominciò a urlare frasi incomprensibili su certi stronzi, non meglio identificati, che lui si proponeva di distruggere, dando, a evidente scopo dimostrativo, micidiali pugni al piano del tavolo. Nicolasi non fece in tempo a scansare il colpo. Per un momento vide tutto nero, e si sentì svenire. Ma Minici era più svelto di un gatto, si gettò di peso sul Ferrasi scaraventandolo sul pavimento, gli torse le braccia dietro la schiena e riuscì ad ammanettarlo. Di colpo, così come era cominciato, tutto finì. Antimo si lasciò mettere in piedi, si sedette tranquillo e quando, dopo pochi minuti arrivò una pattuglia, salì sulla volante senza opporre resistenza. I due ispettori restarono nella casa per interrogare i genitori. Nicolasi aveva più male di quanto volesse far credere, ma aveva la speranza di aver catturato il colpevole e per nulla al mondo avrebbe rinunciato a verificarlo. Il padre e la madre di Antimo erano due poveri vecchi che avrebbero fatto pena alle pietre. “Nostro figlio è nato quando mia moglie aveva quarantadue anni – disse l’uomo – e quel bambino ci sembrò un vero miracolo. La nostra felicità non durò molto. Fin dalle elementari Antimo si dimostrò aggressivo e non imparò mai a scrivere bene. Ma in matematica era bravo, e aveva un’ottima memoria. Nessun medico riuscì a dirci quale malattia avesse, parlarono di dislessia schizofrenica… con il passare degli anni la situazione non fece che peggiorare, più il ragazzo si accorgeva di non essere come gli altri, più si incattiviva. Se la prendeva con tutti, specialmente con noi. Siamo sempre stati convinti che prima o poi ci avrebbe uccisi.” “Avete provato a farlo ricoverare?” “Signore, lei sa benissimo che in Italia è impossibile imporre delle cure senza l’approvazione del malato. Nostro figlio è tutt’altro che stupido, al momento di firmare si rifiutava e si guardava bene dal dare in escandescenze.” “Vi ricordate cosa ha fatto venerdì pomeriggio?” “Le giornate di Antimo sono tutte uguali. Viaggia in treno, parte al mattino alle otto e torna alla sera alle sette, tranne i fine settimana e i giorni di vacanza in cui a volte non scende dal piano di sopra neppure per mangiare.” “Anche venerdì?” “Sicuramente, altrimenti ci saremmo preoccupati.” “Possiamo vedere la sua stanza?” chiese Nicolasi. I due vecchi genitori si guardarono. “Penso di sì, ma bisognerebbe rompere il lucchetto con cui chiude sempre la porta– disse la mamma – è da circa venti anni che non entro nella sua stanza.” Nella camera di Antimo i mobili erano ridotti all’essenziale: un letto contro il muro, un mobile tra due finestre, una scrivania con computer e un imprecisato numero di scaffali che coprivano tutte le zone libere delle pareti fino al soffitto. In una parte degli scaffali erano allineati in altezza decrescente dei testi di matematica. Tutti gli altri ripiani sostenevano dei fogli così ben impilati da sembrare appena usciti da una copisteria. Migliaia di pagine interamente ricoperte da parole, numeri, formule, scarabocchi illeggibili, scritti con una calligrafia veloce e minuta, sovrapposti gli uni agli altri, orientati a caso, dall’alto in basso, di traverso, da destra a sinistra, come fossero stati elaborati sotto l’effetto di allucinogeni. L’insieme aveva un aspetto metafisico, una sorta di quadro moderno con un suo messaggio subliminale. I cassetti contenevano penne e matite, cancelleria varia, DVD, chiavette usb e la carta d’identità, con l’unica fotografia di Antimo adulto.Minici la prese. L’armadio conteneva il modesto vestiario dello studente. I capi erano puliti, il colore andava dal grigio-beige a un marroncino slavato, nessun jeans, nessuna polo, nessun cardigan, solo abiti che nessun giovane uomo avrebbe mai indossato, neppure sotto tortura. La perquisizione della stanza durò pochi minuti. Uscendo presero il cellulare di Antimo, rilasciando regolare ricevuta. Sigillarono poi la porta della stanza, dicendo alla coppia di anziani genitori di non toccare nulla fino all’arrivo degli esperti. “Senti Dario – disse Minici – giacché siamo qui mi piacerebbe interrogare il controllore del treno che Ferrasi prendeva ogni sera. Tu puoi restare in macchina, perché con l’occhio che ti trovi non sei presentabile.” E così fecero. Il capostazione, dopo non poche insistenze e qualche velata minaccia, consentì a Rocco di parlare per cinque minuti, non uno di più, con il capotreno, che provvide ad avvertire telefonicamente. “Certo che lo conosco – sbottò il ferroviere vedendo la foto di Antimo – ma le dico subito che questo qui non è del tutto finito. Pensi che si siede sempre nello stesso posto, in fondo al vagone, nell’unico sedile singolo. Per tutto il tragitto legge libri di matematica senza mai scambiare parola con qualcuno e con uno sguardo incazzato che più non si può.” “Lei ricorda se venerdì scorso era sul treno?” “Non ricordo che ci fosse, ma le garantisco che se non ci fosse stato me ne sarei accorto. Come oggi, gli è forse successo qualcosa?” Un’ora dopo arrivarono nell’ufficio del commissario. L’occhio di Nicolasi aveva nel frattempo raggiunto, oltre ad una notevole dimensione, un colorito viola rossastro tendente al blu. Quando Marco lo vide, accusò Minici di totale incoscienza. “Dario – domandò in tono aggressivo – riesci a vedere bene?” “Dall’occhio sinistro, non tanto…” “Rocco, adesso tu lo prendi e lo porti immediatamente al pronto soccorso. Poi vieni a riferirmi.” All’ospedale i medici lo ricoverarono per la notte. Alle nove di sera Minici ritornò in Questura. Ferrero, che per la fame vedeva meno di Nicolasi, lo portò in pizzeria. Avrebbero chiacchierato mangiando. “Commissario, non so se il Ferrasi è il nostro dinamitardo, certo che squilibrato lo è di sicuro.” Marco convenne. In effetti durante il viaggio sulla volante Antimo era rimasto muto e tranquillo. Poi, dopo essere stato rinchiuso in camera di sicurezza aveva cominciato a dar fuori da matto, picchiando la testa contro il muro, urlando come un forsennato frasi incomprensibili contro le forze oscure che lo perseguitavano, e, per calmarlo, era stato necessario chiamare un medico con tanto di infermieri per tenerlo fermo. Quando poco prima di mezzanotte Marco tornò a casa, venne accolto da un cane stranamente agitato e festante. Sapendo che di notte doveva star zitto, cercava di manifestare la sua impellente e improcrastinabile necessità con grandi andirivieni verso la porta di uscita. Non solo il suo padrone non dava segno di aver recepito il messaggio, ma aveva appena iniziato una telefonata che aveva tutta l’aria di andare per le lunghe. L’animale pensò che fosse giunta l’ora di dar fuoco ai cannoni. In cinque minuti la stanza venne invasa da una puzza dall’inequivocabile natura ed origine, la chiacchierata con Elisa fu interrotta e il bombardiere a quattro zampe si fiondò giù dalle scale incoraggiato da un’affettuosa pedata. Nella fretta Marco commise un tragico errore: non prese il guinzaglio. In fin dei conti era notte fonda, in due minuti il problema si sarebbe risolto. Purtroppo le cose andarono diversamente. Infatti una schnauzerina in calore, aveva scelto quella sera per eludere la stretta sorveglianza cui era sottoposta momentanea e a causa naturale della sua indisposizione e fuggire in cerca di un amante focoso e appassionato. Ugo, ancora vergine ma consapevole della sua gagliarda vis amatoria, ne sentì l’afrore allettante; l’istinto gli mandava messaggi inequivocabili che il suo sensibile olfatto canino non poteva ignorare, e in men che non si dica corse ventre a terra verso la sua prima indimenticabile notte di passione. Marco gli intimò di fermarsi. Fatica sprecata. Il botolo malefico sembrava volare sulle corte zampette, e in breve sparì nella bruma notturna. “E adesso cosa faccio?” si domandò il commissario. Vagò per un paio d’ore per le strade del quartiere cercando dimenticandosi mezz’ora di di attesa, Elisa stava il che, cagnolino, dopo una cominciando a preoccuparsi. E a chiamarlo sul cellulare, che Marco aveva lasciato sul tavolo di cucina. Lo squillo ripetuto svegliò Ingrid, che, non vedendo né Ugo né il suo padrone, decise che fossero semplicemente esigenza dell’animale, usciti ma per qualche quando Elisa agitatissima le spiegò che da quasi un’ora Marco non dava notizie, si sentì prendere dall’ansia. “Senta – le disse – venga qui. Aspetteremo insieme.” Quando ormai erano decise a chiedere aiuto alla polizia, sentirono aprirsi la porta di casa. Alle due giovani tornò l’aria nei polmoni, ma appena videro lo sguardo disperato di Marco capirono subito che qualcosa di grave doveva essere successo. L’assenza di Ugo ne era una conferma. Il poveretto si lasciò cadere su una sedia senza neppure rispondere. Era stanco, così stanco che non riusciva a pensare a come affrontare la situazione, terrorizzato al pensiero di cosa avrebbe potuto dire ai bambini quando tra poco si sarebbero svegliati. Quando finalmente cominciò a raccontare di come Ugo si fosse perso inseguendo una probabile femmina, e di come lui avesse camminato per ore cercandolo senza successo, Ingrid, stremata dall’attesa, scoppiò a piangere. “Cerchiamo di non perdere la testa – esclamò invece Elisa, molto più razionale – il piccolino è intelligente e furbo, sa attraversare le strade e non si lascerà prendere da nessuno. Anche perché, sarà anche simpatico, ma non è certo una bellezza da esposizione.Chi volete che lo rubi? Appena la fregola gli sarà passata, tornerà a casa.” Alle sette del mattino la custode dello stabile aprì il portone per dare una scopata al marciapiede. “Ugo, cosa fai qui tutto solo? Sei sporco da far paura, vai a casa ché ti staranno aspettando.” disse, vedendo il piccolo meticcio accoccolato davanti all’ingresso, in evidente attesa di qualcuno che lo facesse entrare. Ugo non se lo fece dire due volte: infilò le scale a gran velocità, facendo i gradini a tre per volta, con la lingua fuori per la sete, per la paura dell’abbandono e per la consapevolezza di aver trasgredito alle regole. Marco ed Elisa dormivano, l’una con la testa sulla spalla dell’altro, ma il loro inconscio era vigile, in attesa che si realizzasse ciò che non osavano sperare. Quando udirono il leggero rumore di un raschio sulla porta, si svegliarono entrambi di colpo: Ugo era tornato. Puzzolente da far paura, sbavato e ansimante, ma era tornato. 16 La mattina seguente il commissario arrivò in Questura un po’ più tardi del solito. Era riuscito a dormire per un paio d’ore, ma sentiva male dappertutto e aveva un’emicrania che neppure due aspirine avevano per il momento attenuato. “Salve, Rocco – disse entrando – ci sono novità?” “Niente di buono, dottore – rispose Minici – ma abbiamo già la risposta dei nostri colleghi che hanno analizzato il computer di Ferrasi. ” “E cosa dice?” “Una cosa bella e una brutta. La prima è che lo studente sarà anche un bravo matematico, ma come informatico è un vero principiante. Per cui si sentono di escludere che abbia mai navigato su siti proibiti, dove si insegna a costruire bombe ed esplosivi. Insomma, potremmo eliminarlo dalla rosa dei possibili indiziati.” “Questa sarebbe la buona notizia? E la cattiva?” “Si è appurato che il Ferrasi è un bel porco. Almeno ora sappiamo cosa mai facesse giorni interi chiuso nella sua stanza: guardava siti porno, di ogni tipo, ordine e grado. In quello pare sia stato bravissimo.” “Oggi proveremo a interrogarlo…. Hai notizie di Dario?” “Sì, dimenticavo, l’hanno dimesso, ma dovrà stare a riposo due giorni.” “Ha anche chiamato il Questore che ha indetto una conferenza stampa per le due del pomeriggio. Naturalmente si aspetta che sia lei a rispondere alle domande dei giornalisti.” “E ti pareva! Hai per caso contattato i genitori a cui ieri Nicolasi non era riuscito a parlare?” “Tutto fatto, dottore. Nessuno ha fatto un dramma per la bocciatura del figlio. O della figlia, anche se mi sembra improbabile che il colpevole sia una ragazza…Commissario, guardi che le sta suonando il telefono.” “Vado, vado…. Ciao, Savino! Hai qualcosa di nuovo da dirmi?” “Ciao, Marco. Le novità sono purtroppo poche e di scarsa importanza. Gli ordigni sono di fattura artigianale e sono stati attaccati al pianale delle auto corrispondenza, con un nella Audi, magnete al sedile in del passeggero, mentre nella cinquecento è stato piazzato sotto al conducente. Quindi se Righettifosse salito sull’automobile, sarebbe stato fatto a pezzi dalla bomba e poi incenerito dall’esplosione del serbatoio. Mentre il professore più anziano ha avuto solo, faccio per dire, i piedi maciullati, perché la maggior parte della potenza della deflagrazione ha distrutto la parte destra dell’automobile. Di conseguenza siamo in grado di sapere come e quando il potenziale assassino ha piazzato gli esplosivi. Sappiamo che le macchine erano parcheggiate una a fianco dell’altra, in fondo al cortile contro il muro. Per cui il nostro uomo…” “O donna…” “…o donna, si è chinato in mezzo alle due vetture tenendo con le mani i pacchi magnetici e senza neanche sdraiarsi in terra ha allungato le braccia sotto le piattaforme attaccandoli al metallo. Tutta l’operazione è sicuramente stata fatta nello stesso pomeriggio di venerdì perché le calamite usate erano tali da non sopportare sbalzi o scossoni. Alla prima frenata si sarebbero staccate.” L’incontro con i media fu meno tumultuoso del previsto. Il commissario leggermente euforico per gli analgesici che gli avevano finalmente eliminato l’emicrania, parlò a lungo e rispose alle domande con sincerità e senza reticenze. Tutti ovviamente chiedevano delucidazioni in merito all’arresto del giorno precedente, di cui erano stati informati dai soliti ignoti. “Più che un arresto – rispose il Ferrero – si è trattato di un fermo cautelativo. In effetti avevamo dei sospetti su uno studente con problemi di instabilità emotiva … sì è vero, ha aggredito un poliziotto, nulla di serio però, ora gli verrà fatta una perizia psichiatrica, ma al momento delle esplosioni era su un treno.” La conferenza soddisfazione stampa generale. La finì polizia nella aveva dimostrato efficienza e spirito collaborativo. C’era speranza che si arrivasse presto alla soluzione del caso. Tornato in ufficio, il commissario incontrò Nicolasi. Il volto era ancora variamente colorato, ma la tumefazione all’occhio si era di molto attenuata. “Dario, cosa fai qui? Non dovresti stare a riposo?” “Dottore, a casa mi annoio. In ospedale mi han detto che non ho avuto lesioni alla retina, la vista mi è tornata normale e poi devo parlarle.” “Sediamoci.” disse il commissario, pensando che a Nicolasi fosse venuto in mente qualche particolare importante sulla vicenda Ferrasi. “Come lei sa – esordì l’ispettore – ieri sera sono stato tenuto in ospedale. Nella camera con me c’era un signore di mezza età operato per qualcosa di grave. Per tutta la notte sua moglie è rimasta vicino a lui, seduta su una sedia di ferro: gli teneva la mano, gli dava da bere e gli parlava. Lui le rispondeva, e a sua volta cercava di confortarla. Ed è allora che ho capito cosa significa quando si dice ‘due corpi in un’anima sola’.” Marco non era nella predisposizione di spirito adatta a discorsi melensi. Insieme all’emicrania, gli era anche passato l’effetto rilassante degli analgesici, che Dario venisse al dunque perché non vedeva l’ora di tornarsene a casa. “E allora?” domandò. “Mi scusi, dottore, se le faccio perdere tempo. Ma la cosa è importante.” Il Ferrero si rimise comodo, in fin dei conti anche un piccolo spiraglio che facesse intravvedere la soluzione del caso, meritava un po’ di pazienza. “Come lei sa – ripartì Nicolasi – io sono originario del Veneto. Tutti i miei abitano in provincia di Rovigo …” Quale potesse essere il collegamento tra i coniugi dell’ospedale, i parenti di Dario e l’Antimo Ferrasi, restava per Marco un rebus insolubile. “E allora?” si azzardò a domandare. “Come lei sa – ripeté per la terza volta Nicolasi – ho una fidanzata, Adriana.” In Questura la conoscevano tutti: bella ragazza prosperosa, compaesana di Dario. I due erano innamoratissimi, ma a causa dello spirito possessivo di lui e della gelosia di lei, litigavano spesso e volentieri. Le risse finivano sempre in gloria, ossia in una notte di passione da cui l’ispettore emergeva distrutto e per tutto il giorno dopo rimaneva in uno stato di tristezza post coitum, come diceva. Il problema grave era un altro: la fanciulla avrebbe desiderato sposarsi e metter su famiglia, ma Dario era più testardo di un mulo. “Come lei sa…” “Aridagliela!” pensò il commissario. “…sono sempre stato contrario al matrimonio. Bene, stanotte ho capito l’importanza di vivere in due. Adriana ed io a giugno ci sposeremo. Sarebbe un onore se lei volesse farmi da testimone.” “E l’Antimo?” “Chi? Lo studente paranoico?” “E chi se no!” “Scusi, commissario, ma cosa c’entra? Mica dovrò invitarlo alla cerimonia.” Lo sfortunato Nicolasi non avrebbe potuto scegliere una data più infelice per la sua luna di miele. Marco era sempre più nervoso. La dichiarazione di intenti di Dario avrebbe dovuto commuoverlo, mentre l’istinto era stato quello di mandare a quel paese lui, il matrimonio e pure l’Adriana dalle grandi tette. Per rilassarsi decise di fare una lunga camminata a passo veloce per i viali della città. A poco a poco si accorse di star pensando a se stesso e alla sua attuale situazione affettiva. “Così non può più andare avanti – si diceva – è giunto il momento di prendere una decisione.” In effetti doveva dividere il suo tempo libero tra Elisa e i bambini, verso cui si sentiva doppiamente in colpa, come padre e come unico genitore. La sua vita, specialmente quando capitavano gravi atti di criminalità, era davvero stressante; a volte partiva da casa mentre tutti ancora dormivano e ritornava la sera tardi quando erano già andati a letto. “Se almeno servisse – pensava – ma finora non abbiamo neppure un sospetto…” 17 La pioggia, attesa da settimane, arrivò violentissima nella notte. Il vento faceva oscillare i rami degli alberi e i lampioni della strada. La luce filtrava attraverso le imposte, proiettando delle ombre mobili sulle pareti della stanza. Nel letto si intravvedeva la forma di un corpo sotto le lenzuola. Nel capo, appoggiato su un cuscino, risaltavano gli occhi spalancati, dallo sguardo cattivo e soddisfatto. Lo scroscio dell’acqua copriva il debole rumore del respiro. I pensieri cantavano silenziosi inni di vittoria. “E uno – dicevano alla mente – adesso c’è l’intervallo, poi ci sarà il secondo atto.” 18 Due mesi dopo Nei due mesi successivi accaddero molte cose importanti. Marco chiese a Elisa di trasferirsi a vivere con lui. L’idea la faceva impazzire di gioia e di desiderio, era certa che sarebbero stati in grado di superare tutti i problemi, compresa la forzata convivenza di Ugo e Artemisia. In ogni caso decisero di approfittare delle vacanze estive, quando si ha maggior tempo libero e lo spirito è più rilassato e disteso. Nicolasi fissò la data del matrimonio con l’amatissima Adriana al terzo martedì di giugno. Tutti gli domandarono perché mai di martedì, e lui rispose, giustamente, che era un giorno come un altro. “Tanto – concluse – giugno è un mese a bassa criminalità. Anche i delinquenti vanno in ferie.” Le classiche ultime parole famose. Nonostante le indagini non fossero mai state interrotte, non si riuscì a trovare il colpevole delle esplosioni e neppure un movente. Vennero riascoltati tutti i professori, si convocarono in Questura gli studenti delle due vittime, si interrogò a lungo il personale tecnico e amministrativo, la polizia svolse un lavoro immane senza risparmio di tempo e di energie per incrociare le diverse testimonianze. Non si trovò nulla, tutti dissero le stesse cose, i soliti pettegolezzi benevoli su Righetti, la proverbiale ira bonaria di Silva, l’assoluta mancanza di un litigio così violento da generare una volontà omicida. Insomma, dopo due mesi non ci si era mossi dal punto di partenza. In compenso la città reagì all’attacco in modo ammirevole. Si raccolsero fondi per la ricostruzione e privati cittadini, spontaneamente, parteciparono alla raccolta di denaro, perché l’offesa alla loro immagine era stata insopportabile. Quindici giorni dopo il disastro, il palazzo fu messo in sicurezza. Transennate le parti devastate, si ricominciò a far lezione. Inoltre si videocamere pensò per di il inserire controllo delle nel Dipartimento. E qui scoppiò il putiferio. La scusa accampata da molti era, al solito, la privacy. Per cui si istituì una commissione, il cui presidente eletto all’unanimità fu, incredibile ma vero, Bruno Righetti. Il quale nel frattempo aveva subìto una radicale trasformazione. Dopo essere stato intervistato decine di volte da giornalisti che pubblicavano poi le sue parole e la sua fotografia sotto titoli altisonanti dove la parola ‘eroe’ era la più frequente, aveva persino trovato il coraggio di partecipare a un talk show televisivo. Tra i colleghi l’invidia strisciava come un serpente velenoso. Righetti riuscì a coordinare la commissione egregiamente. Per dare il buon esempio, accettò che la prima telecamera fosse piazzata su una colonnina della luce proprio davanti alla porta del suo ufficio, rivolta verso l’entrata del palazzo. La parte finale del corridoio, si cui si affacciavano alcuni studi, tra cui quello di Corsi, l’uscita di sicurezza e la famigerata porta dei gabinetti non sarebbero stati ripresi. La privacy sarebbe almeno in parte stata rispettata. Si decise poi di mettere altre telecamere soprattutto nel parcheggio, in modo da registrare le entrate e le uscite di mezzi motorizzati e persone. Si stabilì inoltre che i filmati sarebbero stati chiusi a chiave in un apposito armadio nell’ufficio del direttore, uno tra i più agguerriti sostenitori dell’inutilità dei sistemi di controllo. Il professor Andreoli si assumeva la responsabilità della loro segretezza. In poco più di due mesi la vetrate furono rifatte, scrivanie, computer e lavagne sostituiti, le tracce del sangue e degli incendi cancellate e l’intero cortile fu ricoperto da uno spesso strato di ghiaia e pietrisco. Due mani di vernice e una nuova sbarra automatica all’ingresso del parcheggio, eliminarono ogni traccia del criminoso disastro e i faretti delle cineprese accuratamente disposti e quasi invisibili, contribuirono a ridare tranquillità e sicurezza a chi per lavoro o per studio passava buona parte della sua giornata all’interno del Dipartimento. Poiché erano ancora avanzate alcune migliaia di euro, il professor Andreoli decise di fare una festa per la riapertura del palazzo a cui sarebbero state invitati, oltre alSindaco, al Prefetto, al Rettore e al Preside di Facoltà, il commissario capo della polizia, tutto il personale docente, tecnico e amministrativo e, ovviamente, i giornalisti. Nella stessa occasione, si sarebbe festeggiato il professor Silva che aveva ripreso a camminare con le protesi ultratecnologiche che gli erano state fornite dall’ospedale, e che quello stesso giorno, lunedì 21 giugno, sarebbe entrato per la prima volta nel suo amato posto di lavoro. Il professor Aliberti disse che gli sarebbe parso giusto dare al Righetti un attestato di merito. Il Micheletti si oppose, secondo lui Bruno aveva agito d’istinto, come avrebbe fatto chiunque altro. “A dire il vero – gli disse Aliberti – l’istinto di sopravvivenza avrebbe consigliato a ognuno di noi, te compreso, di fuggire a gambe levate da una macchina in fiamme. Mi sembra che anche tu al momento delle esplosioni sia rimasto rintanato nel tuo ufficio e che non ti sia neppure venuto in mente di andare a vedere se qualcuno avesse bisogno di aiuto.” L’osservazione fu accolta da un applauso. 19 La domenica prima della cerimonia era il giorno d’inizio della convivenza di Elisa e Marco. I bambini e il cane erano dai nonni, Ingrid dalla sorella, e Artemisia avrebbe avuto qualche ora per familiarizzarsi con la nuova casa. Elisa cominciò a sistemare negli armadi ciò che si era portata da casa, Marco si offrì di darle una mano e nel giro di pochi minuti si trovarono abbracciati, travolti dalla passione. La cosa si ripeté più di una volta; quando tutto fu a posto, le borse e le valigie svuotate, si accorsero che era calata la sera. Affamati simisero a tavola decisi a mangiare tutto il ben di dio che Ingrid aveva preparato per loro mentre Artemisiasi rifugiò sotto al letto. Quando fu ora di andare a dormire, cercarono di stanarla con offerte di croccantini e pezzi di carne. Ma la bestia lì era e lì intendeva rimanere. Marco pensò cose irripetibili, compresa quella di sparare al felino rompicoglioni. Poiché anche la pazienza di un santo ha un limite, il poliziotto si allungò sotto il letto, afferrò la gatta per una zampa posteriore e cominciò a tirare, ma Artemisia si voltò come una furia e affondò i dentinella carne del nemico. Poi fuggì a nascondersi dietro al frigorifero. Il commissario contò fino a dieci e poi fino a cento. Quando riemerse non proferì verbo, il suo sguardo era più eloquente di mille parole. “Povero Ugo – disse alla fine – non sa cosa lo aspetta!” Caddero ridendo sul letto. La mano ferita gocciolava sangue, ma non se ne curarono. 20 Lunedì 21 giugno La cerimonia all’Università riuscì nel migliore dei modi. A Righetti venne assegnato l’onore di accogliere il professor Silva sul maestoso portone del palazzo tra i lampi dei fotografi, Luigi abbracciò il suo salvatore con autentica commozione, e nonostante lo stare in piedi gli costasse una grande fatica, si leggeva nel suo sguardo l’orgoglio e la determinazione di chi ha trovato dentro di sé la forza per superare una prova terribile. Il serpentello dell’invidia era diventato grande come un boa constrictor. I discorsi furono contenuti, gli applausi sinceri e il rinfresco elegante. Il commissario visitò le zone ristrutturate in compagnia del professor Aliberti. “Allora, commissario, ci sono novità sul fronte delle indagini?” “Meno di niente, purtroppo. Non abbiamo idea di chi possa aver ricavato un utile da un simile sfracello.” “Ho pensato che potrebbe essere stata solo una specie di prova generale…” “…per qualcosa di molto peggio. È quel che abbiamo temuto anche noi, siamo stati in allarme per molte settimane, ma fortunatamente non è successo nulla né qui né in altre città italiane. In ogni caso mi complimento per quel che siete riusciti a fare.” Cosimo Imbesi era ovviamente stato invitato alla cerimonia essendo stato uno degli attori principali dell’attentato criminoso. Alle sette di sera di quello stesso giorno imboccò il corridoio del pianterreno, dove due mesi prima erano esplose le vetrate. Vide il Righetti e il Corsi in piedi davanti all’ufficio di quest’ultimo. Stavano parlando. “Buonasera – disse la guardia – sempre a lavorare fino a tardi!” “Io esco con lei – rispose Righetti – devo andare a ritirare un pacco in un negozio prima che chiuda, altrimenti mia sorella mi uccide.” “Io mi fermo ancora un po’ – disse Corsi – buonasera a lei. Ciao Bruno, a domani.” Imbesi e il camminarono giovane insieme ricercatore lentamente fino all’androne del palazzo, poi si salutarono. Un’ombra scivolò lungo i muri. Nell’ufficio di Corsi la scrivania era rivolta verso la finestra, e chi vi stava lavorando dava le spalle all’ingresso. La porta era in vetro smerigliato, come quella delle altre stanze in fondo al corridoio. Giuseppe sentì bussare. “Avanti!” disse, ruotando la poltrona, per vedere chi stesse entrando. I due scambiarono poche parole. Corsi, sorridendo, si rigirò chinandosi a leggere un foglio che una mano nuda aveva posato sul tavolo. Non vide che l’altra mano era protetta da un guanto e stringeva una sorta di lungo pugnale di metallo. Non vide neppure il braccio alzarsi minaccioso e quando la lama gli trapassò la schiena e, dopo aver attraversato un polmone, gli spaccò in due l’aorta, non ebbe neanche la forza di gridare. La mano guantata spinse in avanti la poltrona, in modo che il corpo ormai inerte venisse compresso tra lo schienale e la scrivania. Dopo aver ripreso il foglio, l’ombra controllò che il corridoio fosse sempre deserto. Poi se ne andò. Quando Imbesi fece l’ultimo giro, vide attraverso il cristallo, la sagoma del giovane professore. Come tutte le sere, stava ancora studiando. “E poi dicono che i ragazzi non hanno voglia di lavorare!” pensò. Prima di uscire, chiuse a chiave il portone del palazzo. 21 Martedì 22 giugno Martedì mattina Marika era veramente felice. Arrivata dalla Romania cinque anni prima, aveva sempre fatto la badante finché Lavinia, sua amica e compaesana, le aveva trovato un posto quale lei non avrebbe mai osato sperare. Il lavoro consisteva nel pulire un palazzo dell’Università, ossia ‘fare’ i bagni, togliere la polvere e vuotare i cestini degli uffici, e, una o due volta alla settimana, scopare e lavare i pavimenti di tutto l’edificio. Alle sette e trenta di quella mattina Marika vide che la luce di un ufficio era stata dimenticata accesa. Lesse il nome sulla targhetta: professor Giuseppe Corsi. Allevata secondo ferree leggi di lotta allo spreco, cercò la chiave giusta e aprì la porta. Entrò solo quel tanto necessario a trovare l’interruttore, ma il suo sguardo venne attirato da un corpo steso in terra, di fianco alla scrivania. “Capì subito che l’uomo era inequivocabilmente morto. Nel volto bluastro spiccavano gli occhi spalancati, lo sguardo immobile e la bocca aperta in una inutile richiesta di aiuto. Marika pensò che fosse stato stroncato da un infarto. Poi vide la grossa impugnatura di metallo che spuntava dalla schiena del cadavere. In un lampo la felicità si trasformò in orrore, si accasciò in terra e cominciò gridare. Accorsero un paio di colleghe che scapparono urlando, Lavinia ebbe la forza di chiamare il 113. Marco si era svegliato col mal di testa. “Tanto per cambiare.”si disse, cercando un analgesico. Lo prese col caffè, sdraiato in poltrona. Emicrania a parte, era sereno e soddisfatto. Quando la sera del giorno prima era tornato a casa dal lavoro e Elisa lo aveva accolto sorridendo, si era reso conto di aver definitivamente chiuso un capitolo della sua vita. Il mal di testa si era di molto attenuato. Il commissario era tranquillo, aveva stabilito i turni in Questura, in modo che lui, Minici e relative signore potessero andare al matrimonio di Nicolasi di cui erano anche testimoni. Alle otto Elisa, ancora assonnata, entrò in cucina. “Amore, non stai bene?” domandò, vedendo la faccia tirata di Marco. E si chinò a baciarlo. “Mi ha svegliato un’emicrania martellante, ma ora va meglio. Tu sei sempre bellissima… Se mi porti un altro caffè ti …” non finì la frase. Lo stavano chiamando dalla Questura. Il commissario guardò il cellulare con odio, come fosse un crotalo con la coda tintinnante. “È certamente successo qualcosa di grave… Pronto…” Per un minuto ascoltò senza dire nulla. “Va bene, arrivo.” “Allora? Ti senti bene?” chiese Elisa. “E adesso chi glielo dice a Nicolasi?” fu l’unica laconica riposta. 22 Quando Ferrero arrivò davanti al palazzo da cui era uscito meno di ventiquattro ore prima, gli sembrò di rivedere un vecchio film. Volanti della polizia, ambulanza, giornalisti, curiosi e un Minici dall’aria desolata. “Com’è?” “Un disastro, commissario. Qualcuno ha pugnalato il professor Corsi.” “Gesù! E il medico legale?” “È già arrivato.” Marco entrò nell’androne e girò a sinistra nel corridoio. Arrivato davanti all’ufficio si fermò. Il dottor Gribaudo aveva appena finito il primo sommario esame del cadavere. “Buongiorno, commissario, – disse sfilandosi guanti e camice – ha una faccia che non mi piace. È sicuro di star bene?” “Buondì, dottore, per il momento non sono ancora un suo paziente – rispose abbozzando un sorriso – però ha ragione, sono davvero sconvolto e dispiaciuto.” “Penso che lei conoscesse la vittima.” “Abbastanza bene. Era un gran bravo ragazzo, intelligente e volonteroso, studiava come un disperato per poter tornare nella sua città entro pochi anni.” “Venga, commissario, andiamo a prendere un caffè.” In quel momento arrivarono gli uomini della Scientifica. Solitamente il dottor Gribaudo era un uomo dai modi scherzosi, ma spicci. Si era però reso conto che Marco aveva bisogno di incoraggiamento. “Allora, l’ora del decesso è tra le sette e le nove di ieri sera. La vittima ha avuto la grazia di una morte pressoché istantanea, per una emorragia interna che l’ha portato all’incoscienza in una manciata di secondi. Sulla t-shirt vi sono tracce ematiche verticali, ossia parallele alla spina dorsale. Da questo e dai lividi del volto, si deduce che il cadavere è rimasto in posizione seduta per qualche ora. Poi il peso del corpo e il sopraggiungere del rigor, devono aver fatto spostare la poltrona, montata su ruote. Allora il giovane è scivolato in terra. La stranissima arma del delitto sembra essere la baionetta di un vecchio fucile. Gli esperti ci diranno quale.” Il commissario si recò nello studio della vittima per farsi un’idea personale del luogo del delitto. Dopo aver indossato una tuta, si guardò attorno sforzandosi di richiamare alla memoria la disposizione dell’ufficio. Non notò nulla di strano, sulla scrivania c’erano dei fogli scritti sparsi in modo ordinato,una biro era caduta in terra. Evidentemente il professore stava lavorando quando il suo assassino era entrato nella stanza e lo aveva colpito a tradimento. Giuseppe doveva conoscerlo e lo aveva accolto senza sospetto, tanto da non essersi alzato dalla poltrona. “Marco – chiese Savino Calabresi – chi ha scoperto l’omicidio?” “Le donne della pulizia.” “Dovremmo vederle, prendere le impronte e sapere cosa hanno toccato.” Il commissario si chinò sul cadavere con rispetto e commozione. Poi uscì dalla stanza deciso a cercare Minici. “Dottore, sono quasi le dieci! Come facciamo per Nicolasi?” “Merde! Me ne ero quasi dimenticato. Adesso andiamo a parlare con l’impresa di pulizia, poi decideremo cosa fare.” “Commissario, non c’è nessuna impresa. Ci sono solo tre donne terrorizzate, e una completamente fuori controllo.” Le poverette erano state sistemate negli uffici della direzione. “Cazzo, cazzo, cazzo!” pensò il commissario, solitamente non uso a ragionare a parolacce. Avrebbe dovuto fare in fretta, ma come si faceva a interrogare una testimone in lacrime sperando di ottenere risposte sensate? Ci voleva pazienza, tatto e tempo. Che era l’ultima cosa che lui e Minici avevano, causa cerimonia.” Dal cellulare di Ferrero arrivarono le note della la suoneria che aveva riservato ad Elisa. “Senti – le disse – qui è successa una tragedia, come già ti ho detto. Tu vestiti e vai in chiesa. Noi cercheremo di arrivare, tanto le spose sono sempre in ritardo.” “In jeans?” “Che jeans?” “Marco, vuoi fare il testimone vestito con un paio di jeans e una polo?” “Cazzo! Portami una giacca estiva. Ti comunico che Minici non è vestito meglio di me. Adesso vado. Ciao.” Con uno sguardo teso, entrò nell’ufficio cercando di ostentare la massima calma, si fece dare nome e generalità delle signore, le ascoltò, rassicurò Marika e infine disse alla poliziotta di portare tutto il gruppetto dal collega Calabresi. “Rocco, dobbiamo andare, e anche in fretta.” “Ma commissario, siamo in jeans!” “Ah – sbottò Marco – ti ci metti pure tu. Telefona a tua moglie che ti porti una giacca, nessuno si accorgerà di niente. E sbrigati, cazzo, ché dobbiamo attraversare tutta la città.” Quando finalmente arrivarono alla chiesa, trovarono Elisa e una furente signora Minici con le giacche in mano. Gli sposi stavano chiacchierando con il giovane prete di colore. Marco sorrise, si avvicinò al sacerdote e lo portò in fondo all’altare. “Padre – esordì a voce bassa e imperiosa – veda di fare una cerimonia breve.” “Breve come, scusi?” “Breve, possibile.” breve, ossia che duri il meno “E come dovrei fare?” “Tagli tutti le cose superflue. Due minuti per la predica, nessuna dichiarazione o lettura di parenti e amici. Io devo andare a risolvere un omicidio.” Poi Marco, camminando all’indietro perché non si vedesse la polo arancione sotto la giacca scura, ritornò al suo posto alla destra di Nicolasi. Gli invitati si stupirono della breve durata della cerimonia, della predica essenziale, della mancanza dei soliti amici che vanno a leggere e dell’eterna messa cantata. A tutti sembrò di essere stati graziati da un miracolo della Madonna. Al momento delle firme, Marco spiegò a Nicolasi perché lui e Minici fossero arrivati in ritardo e, pur spiacenti, dovessero lasciare, in loro rappresentanza, Elisa e la moglie di Rocco, sempre più inferocita. Le due giovani reclute, Valerio Signorini e Carmen Arteri, lasciate di guardia all’Università, avevano svolto egregiamente il loro compito. “Innanzitutto abbiamo – requisito esordì le il poliziotto registrazioni – delle telecamere di sorveglianza e le abbiamo consegnate al dottor Calabresi, che la prega di contattarlo al più presto.” “Sono riuscita a interrogare la signora Marika. – intervenne la poliziotta – Ci ha detto che l’ufficio del Corsi aveva la luce accesa, lei è entrata per spegnerla, utilizzando la chiave numerata.” “Adesso abbiamo anche il classico giallo della stanza chiusa?” “No, le porte a vetri hanno come maniglie dei pomoli d’ottone. Quello esterno ha il solito nottolino, quello interno invece ha un pulsante che, quando è premuto, blocca la serratura anche quando si esce. Come ha sicuramente fatto l’assassino prima di andarsene.” “Esiste passe-partout?” “No, ogni chiave ha un numero inciso corrispondente a quello di un solo ufficio.” “Commissario – intervenne Valerio – abbiamo pensato che fosse inutile tenere qui le donne delle pulizie. Però abbiamo fatto rimanere Imbesi e Righetti, gli ultimi a vedere la vittima viva. La famiglia è stata avvertita e andrà direttamente all’obitorio.” “Vai con Carmen ad aspettarli. Verrò anch’io a parlare con loro.” Cosimo Imbesi si era quasi rattrappito. “Commissario, siamo in presenza di un serial killer?” “È troppo presto per dirlo. Solitamente gli omicidi seriali seguono uno schema fisso, mentre l’attentato e l’omicidio non presentano analogie.” “Signor Imbesi, – continuò – mi dica con calma tutto ciò che ricorda di ieri sera.” “Guardi, di diverso dal solito non c’è stato assolutamente nulla. Durante il mio penultimo giro, ho visto i due giovani professori chiacchierare tra loro davanti alla porta del povero Corsi. Righetti è uscito con me, mentre l’altro mi ha salutato dicendo che avrebbe lavorato ancora un po’. Come sempre. Quando dopo un quarto d’ora sono ripassato davanti all’ufficio, ho visto la sagoma del professore dietro il vetro smerigliato. Seduto alla scrivania, sembrava chino in avanti, come se stesse scrivendo.” “La luce era accesa?” “Si, sicuramente. Se le lampade fossero state spente, non avrei visto nulla e forse avrei controllato che la porta della stanza fosse chiusa.” “Nel suo qualcuno?” ultimo giro, ha incontrato “In quel corridoio nessuno, al primo piano c’era Aliberti con alcuni studenti. Per fortuna questa volta ci sono le telecamere. Se l’assassino non è un uccello, lo prenderete.” Bruno Righetti aveva l’aspetto di un uomo su cui fosse passato un pesta-pietre. “Dottore – esordì senza preamboli – le confesso di essere terrorizzato. Qui c’è un pazzo che ci ha presi di mira e uno dopo l’altro ci ammazzerà tutti.” “Professore, si calmi. Non è detto che i due fatti siano collegati.” “Senta, penso che anche voi siate convinti che la mano assassina sia la stessa. Il prossimo chi sarà? Un altro, o uno dei due che sono riusciti a sopravvivere alle esplosioni? E poi perché?” Il commissario non sapeva proprio cosa rispondergli, più che dargli ragione onestamente non poteva, l’unica speranza erano le telecamere. “Professore, la prego di sforzarsi di pensare con molta calma. Ieri è venuta tanta gente estranea all’ambiente universitario, lei ha notato anche solo un particolare che l’ha in qualche modo stupito?” “Tutto mi è parso nella norma, l’ultima cosa che avrei potuto immaginare è che qualche disgraziato potesse far del male a Giuseppe. Era un ragazzo eccezionale…” “Quando l’ha visto l’ultima volta?” “Ieri sera, poco dopo le sette. Mi sono fermato a parlargli davanti alla sua porta. Io avevo fretta, dovevo andare a ritirare un paio di scarpe in un negozio qui vicino. Ho visto anche la guardia giurata con cui sono arrivato fino all’androne.” “Il suo collega le è parso tranquillo?” “Tranquillissimo. Mi dispiace di non poterle essere utile, ma sono sconvolto. E onestamente ho paura.” Il cellulare del commissario suonò. Era Carmen Arteri. I genitori della vittima erano arrivati all’obitorio. “Arrivo.” le rispose. Marco fece un respiro profondo. “Coraggio!” si disse entrando nella sala d’aspetto di medicina legale dove la famiglia Corsi, padre, madre e due sorelle, erano seduti vicini, in totale silenzio. Gli occhi che si alzarono a guardare chi fosse entrato, con la speranza assurda di una apparizione miracolosa, si riempirono di lacrime. Gocce incessanti scivolavano dalle guance alle mani intrecciate, ma i familiari di Giuseppe non le asciugarono, né si mossero e neppure parlarono. “Buonasera…” disse il commissario, accorgendosi di aver esordito con una parola infelice. Interrogare la famiglia di una vittima era un incarico penoso a cui non avrebbe mai fatto l’abitudine. Non poté finire la frase, per l’arrivo di Carmen e di un inserviente dell’obitorio. “Signor Corsi, se vuol venire…” dissero. La salma era pronta per essere riconosciuta. Tenendosi per mano, seguirono l’infermiere e la poliziotta. Marco andò nell’ufficio del dottor Gribaudo. “Salve commissario, stavo giusto finendo di scrivere il referto dell’autopsia.” “È emerso qualcosa di nuovo?” “L’unica cosa che potrebbe essere interessante, è la certezza del momento della morte: tra le sette e le otto di lunedì sera. Inoltre il corpo è rimasto in posizione seduta per almeno sei ore, poi il cadavere è scivolato in terra. L’assassino è certamente un uomo, perché il pugnale è stato spinto nel dorso della vittima fino al blocco trapassato muscoli legamenti, è e entrato del reciso nel manico, ha tendini polmone e e ha letteralmente diviso in due l’arco aortico. Anche se l’arma si è infilata in uno spazio intercostale, uno sfracello del genere ha richiesto una forza e un’energia che nessuna donna potrebbe avere.” “Se ho ben capito l’omicida era alle spalle della vittima.” “Sicuramente, il professore era seduto in poltrona, l’altro in piedi alla sua sinistra. La baionetta è un’arma micidiale. Questa,progettata per il moschetto Carcano modello 91/38, ha una lama ripiegabile lunga circa venti centimetri dalla doppia affilatura.” “Quindi l’omicida non era mancino.” “Anche questa è una cosa certa. Il pugnale è entrato tra la scapola destra e la colonna, a livello della seconda vertebra dorsale, diretto al centro con inclinazione verso sinistra e verso il basso. Se il pugnale avesse incontrato una costa, il Corsi non sarebbe morto subito, si sarebbe alzato in piedi urlando e avrebbe di certo tentato una difesa.” I famigliari di Giuseppe trovarono la forza di andare in Questura nell’ufficio del Commissario. La madre confermò che il figlio era di ottimo umore, che si era inserito bene nel nuovo ambiente di lavoro e che confidava di poter rientrare nella sede di Pavia entro pochi anni. La sorella più giovane avrebbe voluto aggiungere qualcosa, l’ombra di un sospetto che suo fratello aveva avuto e che le aveva confidato. Ma non ne ebbe il coraggio o le sembrò una inutile cattiveria. E, anche lei, purtroppo, tacque. Marco si accorse all’improvviso di essere stanco, così stanco da non avere la forza di alzarsi e andare a casa. “Dottore, abbiamo i filmati delle telecamere di sorveglianza. – disse Minici entrando nell’ufficio – se vuole possiamo cominciare a visionarli.” “Ma questo ha la carica a molla?” pensò il commissario, ricordandosi che avrebbe anche dovuto telefonare a Savino. “Senti Rocco – rispose – adesso tu prendi le pellicole o i CD o quel che diavolo sono e li chiudi in cassaforte. Poi chiami il dottor Calabresi e gli dici che ci sentiremo domani. Valerio mi aveva detto che voleva parlarmi, ma me ne sono dimenticato. Inventa una scusa qualsiasi. Quel che era urgente, l’abbiamo fatto, il resto può aspettare.” 23 Intanto Nicolasi stava andando nella sua nuova casa con la giovane novella consorte ancora vestita di bianco. La mattina dopo sarebbero partiti per il viaggio di nozze a Parigi. Il pranzo seguito alla cerimonia era stato devastante. Più il tempo passava, più Dario si convinceva di aver fatto un errore irrimediabile. La mente gli mandava immagini di libertà perduta, sostituite da visioni terrificanti dei suoi giorni futuri. Quando l’auto si fermò, ebbe la tentazione di scappare. Invece prese per mano Adriana, salì sull’ascensore e le fece varcare la soglia tenendola in braccio. Finalmente soli. Dario non vedeva l’ora di togliersi la corazza da cerimonia e la cravatta-capestro e di farsi una doccia. Quando emerse dal bagno, trovò che tutte le luci erano state spente. La camera da letto era in penombra e, davanti all’unica lampada accesa c’era Adriana, in piedi, completamente nuda. La giovane si era tolta, insieme all’abito bianco, la pudicizia che aveva frenato fino a quella sera la sua naturale e prepotente carica erotica. Dario la guardò come fosse la prima volta. Vide la sua esplosiva bellezza, i seni voluttuosi, la vita sottile, la pancia morbida e tesa, il triangolo nero e riccioluto, le si avvicinò come fosse un miraggio e quando scorse la curva arrotondata delle natiche, sentì crescere dentro di sé un’onda di passione e di desiderio. Le prese il volto tra le mani e cominciò a baciarla sugli occhi, sulla bocca, sul collo, sui capezzoli, sempre più giù finché la marea li avvolse, il tempo si fermò e il piacere fuse insieme i loro corpi avvinghiati. All’alba si addormentarono, distrutti dall’amore. Il loro volo per Parigi era alle sette di mattina. Arrivarono all’aeroporto alle nove e mezza. “Può fare qualcosa?” domandò Nicolasi, mostrando i biglietti alla giovane francese del check-in. “Sa – aggiunse lo sposo – questo è il nostro viaggio di nozze…” “Ah, l’amour!” pensò l’hostess di Air France. “Aspettate.” disse allontanandosi con biglietti e documenti. Era la persona giusta. Aveva appena lasciato un ingegnere belga ricco, fedele e noioso per un pilota italiano traditore e bugiardo, nonché figlio di puttana. Ma le sue mani sapevano farla vibrare come un violino, era bello come un dio e, in fatto di sesso, aveva più fantasia del diavolo. Sapeva bene la francesina che per amore si può perdere la testa, il buon senso e la dignità. Altro che un aereo. Riuscì ad imbarcarli sul primo volo per Parigi. 24 Dario aveva affidato la moglie di Rocco alle cure di Elisa che aveva provveduto a tenerle il bicchiere del vino sempre mezzo pieno. Alla fine dell’interminabile pranzo nuziale, la povera Elvira dava chiari segni di eccitazione alcolica e dichiarava a voce sempre più stentorea che avrebbe chiesto il divorzio, perché era arcistufa di far sempre la parte della vedova, nella prossima vita avrebbe sposato un bancario. Martedì sera Rocco tornò a casa spiritualmente preparato a sorbirsi una serie di lamentele peggiore delle solite. Elvira era seduta in poltrona, immobile e muta, con l’aspetto sofferente e la boule dell’acqua mangiato calda. e In preda soprattutto all’ira bevuto in aveva modo sconsiderato ed ora il suo stomaco si rifiutava di svolgere il compito cui era preposto, e cercava di far uscire dall’alto ciò che avrebbe dovuto scendere verso il basso. “Amore, ti senti male?” le chiese premurosamente il marito. “Malissimo…” rispose in un soffio. Fece appena in tempo a raggiungere il bagno. Rocco passò la notte a detergerle il sudore e a preparare limonate. “Grazie…” gli sussurrò la moglie quando, dopo un numero imprecisato di corse, ricominciò a sperare di poter sopravvivere, e, riconoscente, lo perdonò. La stessa sera, Marco arrivò a casa sognando di sdraiarsi sul letto e di dormire per dodici ore. “Ciao amore.! – disse Elisa andandogli incontro. Marco la baciò chiedendole come fosse andata la festa di nozze. “Dipende dai punti di vista. Per la maggior parte degli invitati, benissimo, ma il pranzo è durato decisamente troppo...” “E la moglie di Minici?” “Ah, un vero spasso. Era davvero imbestialita, impossibile farla ragionare, certo che il povero Rocco avrà una serata difficile.” 25 L’aria notturna faceva oscillare i rami degli alberi. La luce filtrava attraverso le imposte, proiettando delle ombre mobili sulle pareti della stanza. Nel letto si intravvedeva la forma di un corpo sotto le lenzuola. Nel capo, appoggiato su un cuscino, risaltavano gli occhi spalancati, dallo sguardocattivo e soddisfatto. I pensieri cantavano silenziosi inni di vittoria. “Giustizia è stata fatta – dicevano – che provino a prendermi.” 26 Mercoledì 23 giugno La mattina successiva il commissario arrivò in Questura alle sette e mezza. Minici lo stava aspettando per la visione dei filmati. “Da quando cominciamo?” domandò. “Dalle riprese di lunedì, dopo le sei di sera, quando il Corsi era ancora vivo e vegeto.” Il film era chiarissimo, le persone che transitavano nel corridoio erano ben riconoscibili, la speranza di vedere in faccia l’assassino cominciava a crescere. “Commissario, come mai non si vede l’ufficio della vittima?” “Per la stramaledetta privacy, perché è situato di fronte ai gabinetti, e si sa, quelli intelligenti non pisciano come noi poveri mortali. Comunque se l’assassino non è entrato volando, dovrebbe essere stato ripreso dalla videocamera.” Si vide Righetti mentre parlava con qualcuno che a tratti compariva sullo schermo, quanto bastava però per riconoscerlo per il povero Giuseppe; Imbesi con cui successivamente Bruno percorse arrivò tutto il corridoio verso l’uscita. L’orologio segnava le 19.10. Alle 19.25 ricomparve la guardia giurata, che dopo un minuto tornò indietro. Tutto secondo copione. Poi, fino al mattino, più nulla. I due poliziotti riguardarono le immagini a diversa grandezza e risoluzione. Alla fine decisero che l’assassino si fosse nascosto durante la cerimonia della mattina. Fu a quel punto che arrivò la convocazione del Questore. “Ragazzi – esordì – la nostra città sta dando al mondo una pessima immagine di sé. Come è possibile che un criminale distrugga un palazzo seicentesco, ferendo persone importanti, e poi, nello stesso luogo e a soli due mesi di distanza, ammazzi impunemente un giovane professore? Il Prefetto, il Rettore, il Preside di Facoltà e pure il Sindaco mi hanno telefonato, sono tutti in allarme, ragazzi, dovete assolutamente fermare questo disgraziato prima che il panico dilaghi. A che punto siete con le indagini?” Il commissario parlò, raccontando con calma quel che avevano fatto e quel che contavano di fare. Purtroppo dovette riconoscere che per il primo crimine non si era trovato un movente che non fosse quello del gesto sconsiderato di un pazzo. Cosa che, alla luce del secondo omicidio, era stata definitivamente scartata. Nessuno più dubitava che i due eventi delittuosi fossero opera della stessa mano. “Tutti sono convinti che se non troviamo un assassino la colpa sia nostra. – scoppiò a dire il commissario appena tornato in ufficio – Poi, se lo prendiamo, lo compatiscono e a gli danno, oltre al minimo della pena, sconti e benefici come fossero caramelle. Così quelli escono e delinquono e a noi tocca riprenderli.” “Rocco, vi voglio tutti nel mio ufficio tra un’ora.” “Allora, ragazzi – esordì il Ferrero all’inizio della riunione – spero che Minici vi abbia illustrato la situazione.” I due giovani poliziotti annuirono. “Bene, dobbiamo scoprire in che modo l’assassino è arrivato all’ufficio della vittima. Potrebbe essersi nascosto in una delle tre stanze situate al fondo del corridoio, poi, la sera sia venuto fuori, abbia pugnalato il poveretto e se ne sia andato servendosi dell’uscita di sicurezza. Il nostro uomo avrà probabilmente approfittato della confusione di lunedì mattina, per cui dovete controllare sui filmati il percorso di ogni singola persona, verificando se dopo essere entrata nel corridoio ne è poi uscita Ci sarà un certo numero di uomini o donne che non vedrete tornare indietro. lasciato il Sono palazzo quelli attraverso che hanno il cortile. Segnatevi queste persone, poi cercheremo di sapere chi sono e di interrogarle. Minici vi darà una mano. Io intanto vado a rivedere il luogo del delitto.” Il commissario impiegò pochi minuti ad arrivare davanti al Dipartimento. Era di cattivo umore, il problema che lo tormentava era la mancanza di un movente plausibile, l’unico filo che legava le tre vittime era la vicinanza nel luogo di lavoro e l’analogia dei loro campi di ricerca. Potevano aver rubato un’idea vincente a qualcuno? Corsi era lì da sei mesi, cosa poteva aver fatto di tanto terribile da meritare la condanna a morte? Marco entrò nel corridoio, grande e deserto anche se il palazzo era agibile al pubblico. Il commissario bussò alla porta di Righetti. Nessuno rispose. “Evidentemente non se l’è sentita di venire. Se la starà facendo sotto dalla paura.” Pensò. Decise di provare con gli ultimi tre uffici, situati in fondo in una zona non ripresa dalla telecamera, assegnati ai professori Riccardo Guidoni, Renata Ventura e Ennio Pastrengo Il professor Guidoni gli aprì e lo fece entrare. “Buongiorno commissario, si accomodi.” Marco si ricordò di averlo visto in Questura, nei giorni tumultuosi dell’indagine per l’attentato. Era un uomo di cinquant’anni, di statura media, con barba e capelli ancora folti e scuri, e uno sguardo vivace ed arguto. “Purtroppo siamo ancora qui, professore. Cosa ne pensa di questa nuova tragedia?” “Sono sconvolto, come tutti i miei colleghi.” “Lei lunedì era presente alla cerimonia…” “Sicuro.” “…ed è tornato a casa alle…” “…cinque, più o meno.” “Quindi lei dopo il rinfresco è rientrato nel suo ufficio.” “Certamente, nessuno di noi è andato a pranzo!” Il commissario si alzò in piedi e fece il giro della stanza. “Pensate che l’assassino si sia nascosto da qualche parte? Come può verificare, qui non ci sono mobili in cui cacciarsi, né rientranze e ancor meno tendaggi.” “Penso che voglia chiedermi se ho un alibi – aggiunse sorridendo – ce l’ho e anche bello solido. Ieri sera alle sette sono andato con mia moglie alla stazione a prendere i suoi genitori che arrivavano dalla Calabria. Tra l’altro mio suocero è un ex carabiniere… Però l’ufficio successivo al mio è vuoto poiché Pastrengo è a un convegno in Canada.” Il commissario tirò fuori dalla tasca un taccuino. “Ennio Pastrengo quarantanove, – anche lesse due mesi – anni fa era all’estero.” “Vero, è in anno sabbatico e gira il mondo.” “Chi ha la chiave del suo studio?” “Sicuramente le donne delle pulizie, il centro stampa… e poi sinceramente non so.” Finalmente era spuntato qualcosa di concreto. Nel corridoio, Marco si imbatté in una bella signora bionda che stava uscendo dall’ufficio di fronte. “Lei deve essere la professoressa Renata Ventura – le disse – sono il commissario Ferrero, e dovrei farle un paio di domande. Ha qualche minuto?” Le risposte furono all’incirca le medesime di Guidoni. La signora era rientrata nella sua stanza alla fine del rinfresco per ritirare borsa e cartella. Se ci fosse stato qualcuno lo avrebbe visto. Dopo si era precipitata a casa, aveva preso suo figlio più piccolo e lo aveva portato a una delle terribili feste di bambini ed era riuscita a trascinarlo fuori non ricordava bene l’ora, ma sicuramente tardi. Marco telefonò a Minici. “Allora, Rocco, come sta andando?” “Bene, direi, ma fino a domani non avremo i risultati.” “Non preoccupatevi, l’importante è non commettere errori. Tu però adesso dovresti venir qui e mettere i sigilli allo studio di un certo Pastrengo, che pare sia sempre all’estero. Il suo ufficio è l’unico in cui potrebbe essersi nascosto l’omicida.” Il commissario si sistemò in un bar all’aperto davanti al palazzo, in una larga via pedonale. Era la prima giornata veramente calda, dopo un inverno gelido e una primavera grigia a piovosa. Si godeva quel momento di relax notando come la luce del sole fosse sufficiente a infondere un po’ di ottimismo. Pensò ai suoi bambini, che non sentiva da due giorni. Era il momento giusto per una telefonata tranquilla. “Ciao, mamma, come va la gestione dell’asilo?” “Ciao, Marco. Qui sono tutti in forma e pieni di vita. Però i tuoi figli hanno la nostalgia del loro papà.” “Hai ragione, ma siamo in vera emergenza, per giunta un ispettore è in viaggio di nozze…” “Aspetta che sta arrivando Giovanna…” “Ciao, papalino! Quando vieni a trovarci?” chiese, senza troppi preamboli. “Domani sera.” rispose Marco, che aveva un debole per quella bambina simpaticissima. “Che bello! Domani il nonno ci porta tutti a mangiare la pizza.” “Tutti chi?” “Tutti, tutti, anche gli zii e Ugo.” “Benissimo, ciao amore, ripassami la nonna.” “Mamma, cos’è questa idea della pizzeria? Mica sarete ammattiti ad andarci con sei bambini!” “E un cane.” “Ma Ugo non può stare a casa?” “Senti, caro, io alle mie cose ci tengo, e il tuo cane quando è chiuso in una stanza gratta la porta e urla come un pazzo.” “Non potete lasciarlo in giardino?” “Ah, ma allora non conosci tuo figlio. Paolo farebbe una scena madre, dice che Oscar lo sbrana.” L’Oscar in questione, era il pastore tedesco dei nonni, un bestione tanto grosso quanto pacifico, la cui unica aspirazione era quella di dormire in un posto tranquillo senza che Ugo gli saltasse addosso mordicchiandogli le orecchie. Quando finì la telefonata il commissario si accorse di non sorridere più. Il pensiero di dover gestire i desideri, le richieste, le indecisioni, le macchie sui vestiti, l’acqua versata, i pianti, i dispetti, le voci soverchianti, gli sguardi infastiditi, la pizza caduta, e soprattutto il cane questuante, senza poter riportare la calma con due urlacci, quattro scapaccioni e una bella pedata, lo rendeva nervoso più di quanto avrebbe voluto. Salì allora al primo piano, e bussò alla porta dell’ufficio del professor Andreoli. Lo aveva visto ad aprile e già non gli era parso in buona salute. Ma ora gli sembrò decisamente peggiorato. “Professore buongiorno!” gli disse Ferrero. “ B u o n d ì , commissario, la stavo proprio aspettando. Si accomodi e mi dica se possiamo sperare in una veloce soluzione dell’indagine.” “Qualche passo forse lo abbiamo fatto, sono qui proprio per chiedere la sua collaborazione.” “Siamo tutti disponibili, ispettore, per noi l’omicidio del povero Corsi è una doppia tragedia. Non solo abbiamo perso un valido docente, ma Dipartimento l’immagine ne è uscita del nostro fortemente compromessa. Mi dica cosa posso fare per lei.” “Come saprà, abbiamo requisito le registrazioni delle telecamere di sorveglianza. Purtroppo circa la metà del corridoio al pianterreno non è visibile…” “Di questo sono purtroppo responsabile anch’io, e me ne dispiace, ma ero convinto che le esplosioni fossero opera di un pazzo e che non corressimo altri pericoli.” “Una delle ipotesi è che l’omicida si sia nascosto nello studio del professor Pastrengo approfittando della confusione della mattina, e ci sia rimasto fino alla sera. Vorremmo essere autorizzati a far entrare la Scientifica.” Mentre stava parlando, la curiosità del commissario era stata attratta da un sigaretta elettronica. “Signor detective, sono certo che Ennio non avrebbe nulla in contrario a farvi esaminare il suo ufficio. Vedo che ha notato la mia finta sigaretta, è un fumatore anche lei?” “Non più, un anno fa ho deciso di smettere e mi è passata anche la voglia.” “Beato lei, io sto sempre peggio. Ho preso questo surrogato sperando che servisse a qualcosa, Purtroppo ma è stata secondo una il spesa inutile. cardiologo, se continuassi a fumare, non arriverei alla fine dell’anno, e allora cerco di farmi passare il nervosismo mangiando caramelle. Ma mi dica, scusi se l’ho interrotta...” “Vorrei solo sapere chi ha le chiavi di tutti gli uffici.” “Soltanto l’impresa di pulizia e i tecnici del centro stampa. La segreteria ne tiene una copia nella cassaforte per i casi di emergenza. Ma le consiglio di chiedere ad Aliberti, l’ho visto poco fa…” “Professore, grazie di tutto. E, non mangi troppe caramelle…” “Ci proverò, signor poliziotto, sappia che aspetto notizie.” Marco pensò di non essere mai stato chiamato in tanti modi differenti in così poco tempo. Tanto per cambiare l’Aliberti era in compagnia di una studentessa. “Professore – disse ridendo il commissario dopo che la fanciulla fu uscita – il direttore mi ha detto di chiederle dove vengono tenute le copie delle chiavi degli uffici.” “A quanto mi risulta il Centro stampa ha una copia delle chiavi in una bacheca chiusa con un lucchetto. Lei pensa che il bastardo che ha ucciso Giuseppe ne abbia rubata qualcuna?” “Sì, una in particolare.” “La cosa più semplice è andare a chiedere. Venga con me.” Risultò che il cosiddetto Centro stampa non veniva mai lasciato incustodito, nessuno aveva scassinato la porta e il lucchetto non era stato rotto. Restavano le donne delle pulizie. “Ora è troppo tardi – disse Aliberti – sono andate a casa. Se ha urgenza, potremmo telefonare alla responsabile.” “Signora Lavinia, buongiorno, sono il commissario Ferrero…” “Cosa è successo?” esclamò la responsabile dell’impresa di pulizia. Marco ci mise un po’ a tranquillizzarla, indubbiamente il ritrovamento del cadavere non era stato un bel momento per nessuno. A quanto disse, nessuna delle sue dipendenti era entrata bell’ufficio di Pastrengo dopo il giorno dell’omicidio. Lavinia conservava le chiavi nell’antibagno del corridoio a piano terra e ne aveva particolare cura: alla fine di ogni giornata controllava che non ne mancasse nessuna e le chiudeva in un armadio di cui nessuno aveva forzato la serratura. Il commissario scese le scale. Minici aveva sigillato la stanza di Pastrengo e ora aspettava l’ordine di convocare la Scientifica. “Rocco, cosa ne pensi? Ti sembra plausibile l’idea che l’omicida se ne sia rimasto tutto il giorno nascosto in un angolo dell’ufficio, aspettando il momento giusto per saltar fuori e pugnalare il povero professore?” “In fondo si trattava solo di aver pazienza...” “La domanda è: come ha fatto ad entrare? C’è un’unica porta e nessuno ne ha mai rubato la chiave.” “Commissario, ma ‘ste serrature le apre anche un bambino. Vada su internet e le insegnano come fare.” I due passarono in Questura per vedere come procedesse il controllo di filmati. I giovani avevano fatto un ottimo lavoro. Finora avevano individuato sei persone che presumibilmente erano uscite dal portone del cortile. Tra loro poteva nascondersi l’assassino. “Bravi – disse il commissario – adesso andate a casa a riposare gli occhi. Rocco tu contatta la Scientifica, io voglio prendere qualche appunto finché ho le idee chiare. Domani arriverò non prima delle otto, ricordati che il Questore ci aspetta. E poi dà una controllata agli armadietti delle chiavi e verifica che davvero non sia stato possibile prendere quelle dell’uscita di sicurezza.” 27 Giovedì 24 giugno La mattina dopo Marco era di ottimo umore. “Allora?” chiese a Minici. “I ragazzi sono già al lavoro e la Scientifica è andata a fare i rilievi nella stanza del Pastrengo.” “Venendo qui mi è venuta un’idea. E se il nostro uomo fosse direttamente entrato dalla porta di sicurezza?” “E come avrebbe fatto? Le serrature delle uscite di impossibile emergenza aprirle senza sono particolari, chiavi e senza scasso.” “Rocco, come vedi il nodo di tutto il problema sono le stramaledette chiavi.” “Certo che la guardia giurata avrebbe avuto tempo e modo per commettere l’omicidio.” “Idem per gli esplosivi. Ma è troppo indiziato per essere colpevole, mi sentirei di mettere la mano sul fuoco che è del tutto innocente.” La riunione col Questore fu abbastanza burrascosa. Uscendo, il commissario si fermò a parlare con i giornalisti, giusto per rettificare le fantasie che avevano scritto. Poi passò il resto della giornata con Minici, Arteri e Signorini. Era ora di tirare le somme sui risultati delle videocamere. Le persone sospette erano cinque. Tre erano professori già interrogati durante l’indagine del primo crimine. I restanti, un uomo e una donna, erano dei perfetti sconosciuti. “Rocco, cerca i numeri di telefono dei docenti, chiamali e convocali. Ci devono dire perché se ne sono andati prima della fine e dove erano tra le sette e le otto di lunedì sera. Uno di questi è il professor Micheletti, un essere astioso e antipatico, di tutti è quello che più si avvicina all’immagine di un assassino. Agli individui misteriosi ci penso io.” Ferrero andò a cercare Mario Aliberti. “Non le farò perdere troppo tempo, professore, vorrei solo che mi dicesse se riconosce chi sono queste due persone che erano alla cerimonia di lunedì.” “Questa – disse indicando la signora – è la moglie di Carlo Besozzi che ad aprile era in ospedale. L’altro dovrebbe essere un architetto dell’ufficio tecnico dell’Università, ma non so come si chiami. Posso sapere perché vi interessano queste persone?” “Perché se ne sono andate passando dal cortile.” “L’architetto si sarà rotto le palle, la signora Besozzi immagino che avesse fretta. Hanno un bambino con grossi problemi e devono sempre andare a prenderlo a scuola.” “Rocco! – gridò il commissario dopo aver parlato con Aliberti – io adesso vado a casa.” Minici lo raggiunse sulle scale. “Ho già contattato i tre professori, Besozzi dovrebbe arrivare tra poco, gli altri due mi aspettano all’Università domani verso mezzogiorno.” “Bene. Speriamo che salti fuori qualcosa.” 28 La serata in pizzeria fu un disastro annunciato. I bambini erano stanchi, nervosi ed eccitati dall’attesa dell’evento straordinario. Il loro tavolo era nel mezzo di un vasto locale senza aria condizionata, l’umidità e il caldo erano del definire mezz’ora, tutto le insopportabili. ordinazioni l’attesa ci Solo volle successiva fu più per di snervante, metà delle bibite venne versata sulla tovaglia con conseguenti pianti e accuse reciproche, ma il clou della serata fu il momento in cui Ugo piombò tra i piedi di un giovane cameriere che portava in equilibrio sulle braccia tre grossi piatti con pizze fumanti. Il ragazzo riuscì a non rovesciarne nessuna, ma l’occhiata che lanciò al cane e ai suoi padroni avrebbe fuso l’iceberg del Titanic. Marco si scusò e poi con voce ferma e sibilante comunicò ai bambini che dovevano mangiare, stare zitti e non piangere, alla prima lacrima l’intero asilo sarebbe stato portato a casa. “Adesso chiudo Ugo in macchina – aggiunse – Paolo provati solo a dire qualcosa e giuro che lo picchio.” Non fu un’idea felice. Quando uscirono, il cane li accolse con frenetici saltelli all’interno di un’auto in cui sembrava fosse nevicato. In meno di mezz’ora, il piccolo animale aveva rosicchiato i sedili strappando le fodere e facendo uscire tutta l’imbottitura. Marco cacciò ammutolirono. un urlo, gli altri 29 Venerdì 25 giugno La mattina successiva Marco portò la macchina in carrozzeria. “Ma cos’avete? Un sanbernardo?”domandò il meccanico, quando seppe chi aveva causato un simile sfracello. Alla vista del preventivo di spesa, il commissario si sentì salire la pressione alle stelle. In Questura Minici lo stava aspettando con uno strano brillio malizioso negli occhi, come avesse importanti novità da comunicargli. “Allora Rocco, cos’hai da dirmi?” “Nulla di buono, purtroppo. La Scientifica ha finito i rilievi nello studio di Pastrengo, secondo il dottor Calabresi dopo le donne della pulizia nessuno è più stato nella stanza e tantomeno si è nascosto.” “L’unica ipotesi rimane quindi quella che l’assassino sia entrato dall’uscita d’emergenza.” “A proposito, per quanto riguarda le chiavi della porta di sicurezza, nessuno può averle usate perché sono ancora sigillate da una specie di guscio di plastica.” “Qualcuno ha guardato i video del parcheggio?” “Sì. Al mattino il cortile era pieno di auto, che sono uscite pressoché tutte entro le diciotto. Sono rimaste la Panda della guardia e la nuova Cinquecento di Righetti. Alle 19.50 se n’è andato l’Imbesi, e alle 19.25 il professore portando, oltre alla solita cartella, una specie di grosso pacco regalo.” “Chi chiude il portone di ingresso la sera?” “La guardia giurata. Per entrare dopo le venti ci vuole la chiave, ma uscire è sempre possibile.” “Il nostro assassino potrebbe essere rimasto immobile contro il muro dell’ufficio di Corsi per andarsene quando il palazzo era deserto. Ma il problema resta sempre lo stesso: da dove diavolo è entrato? Le telecamere non hanno ripreso il passaggio di qualcuno a piedi?” “No, fino alla mattina di martedì, quando è arrivata la signora Lavinia, non è più entrato nessuno. Anche nel cortile i video registrano solo una parte; l’androne, la sbarra e la bussola con la porta di sicurezza che collega il parcheggio al corridoio del pianterreno, non si vedono.” “Quindi chiunque potrebbe essere uscito… Va beh! Altro?” “Ieri sera ho parlato colprofessor Micheletti. È un vero stronzo, ha sputato veleno su tutto, cerimonia, rinfresco, invitati; su Righetti poi aveva solo più da sparare, deve avere un’invidia che lo rode fin nel midollo… purtroppo ha un alibi a prova di bomba. Sostiene di aver portato la madre a Cuneo dalla sorella e di essere rimasto a cena dalla zia fino alle dieci di sera.” “Bene. Comunque stanotte ho scritto l’elenco delle persone il cui alibi dovrà essere controllato, sicuramente aggiungeremo o cancelleremo dei nomi, sarà un lavoro lungo e l’assenza di Nicolasi si farà sentire.” “Forse Dario arriva già questa sera.” “Questa sera? Ma non doveva restare almeno una settimana nella ville lumière?” “Ecco!” “Ecco cosa?” “Ecco…hanno avuto problemi di salute.” “Problemi gravi?” “Ecco…Adriana è andata al pronto soccorso.” “Misericordia, cos’ha visto?” “Un’infiammazione.” Minici arrossì. Marco non era nelle condizioni di spirito adatte alla pazienza. “Rocco, mi vuoi dire o no quale è stata la causa dell’infiammazione di Adriana, cazzo!” “Ecco…” “Rocco, se ancora una volta mi rispondi ‘ecco’ ti mando a dirigere il traffico. Vuoi parlare in modo chiaro o no?” “Ecco… Dario mi ha fatto giurare che non l’avrei detto a nessuno.” “Perché?” “Perché si vergogna…” rispose, sempre più rosso e imbarazzato. “Rocco, ho avuto una serata da incubo e una notte insonne, per cui adesso ti ordino …” nella mente del commissario si fece strada un’idea che avrebbe spiegato la ritrosia del povero ispettore. Sogghignò. “Non mi dire che il nostro Nicolasi, alto, magro e palliduccio si è rivelato un vero toro da monta.” Rocco annuì, visibilmente sollevato. “E per troppo sesso ha spedito la giovane moglie all’ospedale!” Marco si appoggiò allo schienale della poltrona e scoppiò in una risata che in un colpo spazzò il nervosismo e la rabbia accumulata per l’ingente danno provocato da Ugo. “Rocco, raccontami quello che sai.” “Ieri la poverina ha cominciato a sentire male, Dario l’ha portata al pronto soccorso…In ospedale le hanno dato antibiotici e le han detto di tornare in Italia perché a volte occorre operare.” “Presumo che per maggiori dettagli dobbiamo aspettare che ‘cazzo bollente’ torni a lavorare!” concluse cercare di contenersi. ridendo senza più 30 All’Università la vita era tornata normale. In una delle stanza un dito pigiò il pulsante di accensione del computer. Dopo pochi secondi di attesa il video si illuminò, due mani si mossero veloci sulla tastiera per aprire la casella di posta. “Quanti messaggi inutili!” pensò la mente. Il mouse evidenziò quelli da eliminare. Il puntatore si bloccò in corrispondenza di un ‘oggetto’ inquietante: Giuseppe Corsi. Il mittente era criptato. Si udì il rumore del doppio clic e sullo schermo comparvero le parole che avrebbero cambiato per sempre la vita del destinatario: IO TI HO VISTO Nell’ufficio il silenzio divenne solido come una pietra. La mente sentì il cuore fermarsi per poi riprendere a battere in modo parossistico. Il messaggio doveva essere subito cancellato. Forse era uno scherzo, forse un sospetto, forse un errore, forse un incubo creato dalla sua fantasia. Forse. Perché mandare quel messaggio anziché far denuncia alla polizia? L’idea del ricatto aumentò lo stato di paura. Cosa avrebbe dovuto dare in cambio del silenzio? Si rese conto di non poter nascondere il terrore da cui si sentiva invadere, meglio uscire dalla allontanarsi stanza, dal andare palazzo, in strada e camminando il cervello si sarebbe sbloccato e avrebbe avuto un’idea, perché una soluzione c’è sempre, basta trovarla. Il computer si spense prima che la porta dell’ufficio venisse chiusa a chiave. 31 “Rocco!” gridò il commissario. “Siediti – gli disse, appena se lo vide davanti – facciamo una ricapitolazione dei fatti. Mi sembra che stavolta i media non abbiano torto…” “Andiamo bene!” pensò Minici senza battere ciglio. “… pazienza chi e perché, ma almeno come e quando dovremmo essere in grado di stabilirlo.” “Beh, il quando più o meno lo sappiamo…” “Più o meno, appunto! Una forbice di un’ora in cui l’Imbesi e il Righetti sono passati varie volte nel corridoio, ed entrati e usciti dal parcheggio, ti pare un’informazione precisa? Sul come ho una quasi certezza: lo stronzo assassino è arrivato dal cortile. Dobbiamo assolutamente scoprire come abbia aperto la porta di emergenza. Intanto incarica le reclute di trovare il nome dell’architetto dell’ufficio tecnico invitato al rinfresco. È di sicuro estraneo al delitto, ma è meglio essere prudenti.” Ferrero e Minici andarono a fare una visita illuminante del luogo del delitto. Percorsero il corridoio molto lentamente, fermandosi davanti all’uscita di sicurezza. “È sicuramente passato di qui – disse quasi tra sé il commissario – abbiamo stabilito che non si è nascosto in un ufficio e neppure nei bagni e che tutte le persone entrate sono poi uscite molto prima dell’ora dell’omicidio; allora se l’assassino non è l’uomo ragno, deve essere stato in grado di aprire questa stramaledetta porta.” “Rocco – aggiunse – sai se la Scientifica ha controllato la serratura?” “Certo! E giurano che non è mai stata forzata.” Il commissario provò ad aprire la porta e a lasciarla andare. Si chiudeva sempre da sola. “Però – disse il Ferrero – sarebbe sufficiente una piccola pietra o un pezzetto di legno che tenga il battente appena accostato. Così si potrebbe entrare dall’esterno senza dover usare la chiave.” “Dottore, facciamo in fretta a fare una prova.” I due poliziotti sentirono dei passi provenire dal corridoio. Istintivamente di voltarono, rimanendo di stucco. “Vergine do’ Carmine!” esclamò a bassa voce Minici, vedendo Righetti ridotto in pochi giorni all’ombra di se stesso. Il professore aveva in mano un bicchiere di plastica e stava rimestando lo zucchero di un cappuccino con una barretta trasparente. La cosa assorbiva in tal modo la sua attenzione da impedirgli di vedere i due uomini che lo stavano osservando, esterrefatti: lo sguardo spento, il colorito grigiastro, un certo tremito nei movimenti avevano trasformato un giovane uomo in un vecchio cadente. “Professore buongiorno.” disse il commissario avvicinandosi. “Buongiorno commissario.” rispose a bassa voce. “Possiamo parlarle un momento?” domandò Ferrero. Non avevano nulla da chiedergli, ma gli sembrava poco caritatevole liquidarlo in mezzo minuto. Righetti si sedette alla scrivania, sempre mescolando il cappuccino, e i due poliziotti gli si accomodarono di fronte. “Professore – esordì il commissario, guardandolo bere a piccoli sorsi – la vedo molto giù di morale…” “Mi creda – rispose Bruno quasi sussurrando – sto malissimo. Oggi sono venuto perché mia mamma è sempre più insopportabile, ma quando sono entrato e ho visto la porta di Giuseppe chiusa dai vostri striscioni (piccolo sorso)… sarei scappato via. Questo delitto mi ha shoccato più del precedente dove ero stato coinvolto e avevo visto tutto quel sangue…” “È normale, non siamo delle macchine, se un colpo riusciamo a reggerlo, il secondo ci coglie nel momento in cui stiamo superandolo, e non abbiamo forze sufficienti a reagire. Ha provato a parlare con un medico?” “Per carità, ne ho uno in casa e tanto mi basta. Solo capaci a dar pillole che fanno rimbambire (piccolo sorso)…” “Professore vorrei dirle, in anteprima assoluta, come pensiamo che si sia svolto l’omicidio di Corsi. Pensa di farcela a darci la sua opinione?” “Ci proverò.” rispose, finendo il cappuccino. “Allora, la prima parte della tragedia è avvenuta nel pomeriggio, quando il nostro uomo ha infilato qualcosa tra i due battenti della porta di sicurezza, bloccandone la chiusura automatica. Poi, dopo le sette di sera, è entrato dal cortile, è scivolato lungo il muro passando dietro il pilastro su cui è montata la videocamera, ha svolto il compito che si era prefisso, ed è uscito nello stesso modo.” Righetti fissò in silenzio la parete di fronte, poi a voce più alta e sicura domandò: “Quando esattamente?” “Ad esempio mentre lei era nel negozio e l’Imbesi faceva l’ultimo giro…” “Come avrebbe fatto a sapere che dovevo andare a fare una commissione?” “Potrebbe essere rimasto nell’ufficio di Corsi fino alla chiusura completa del palazzo.” “Mi pare che la sua ricostruzione non faccia una piega…” “Ancora una volta le chiedo se si ricorda di aver visto qualcosa di insolito entrando nel parcheggio, lunedì pomeriggio.” “Guardi, la cosa che ricordo di più è che ero veramente felice… Era anche una giornata luminosa, con un venticello leggero che rendeva gradevoli i raggi del sole… per la prima volta ho guardato le vetrine del negozio di sport, poi sono entrato, ho pagato e ritirato il pacco … infine sono uscito e non ho visto nessuno, nel senso che mi sembra di non aver incontrato né un uomo né una donna, che vuole, ero in uno stato di grazia…” La dimostrazione dell’ipotesi sull’invisibile apertura dell’uscita di emergenza, riuscì al primo colpo. Marco si allontanò per rispondere al cellulare. “Ciao, amore – disse il commissario rispondendo al ‘trillo del diavolo’– scusa se non ti ho chiamato tutto il giorno, ma questa inchiesta è peggio delle altre.” “Volevo solo ricordarti che questa sera dobbiamo andare in collina a prendere i bambini.” “Tranquilla, entro le sette di sera sarò a casa. Però dovremo prendere la tua Panda…” Ferrero e Minici andarono in Questura. “Se la nostra ipotesi è giusta – decretò il commissario – il colpevole deve necessariamente essere tra chi, dopo le tre del pomeriggio, è passato nel corridoio.” “Il che significa controllare tutti gli alibi, anche di quelli che in precedenza avevamo scartato. Meno male che lunedì dovrebbe tornare Dario…” “Domani comunque vediamoci nel mio ufficio, in modo da stabilire un piano di lavoro. Intanto potresti anche telefonare a Nicolasi in via amichevole, chissà che non abbia voglia di mollare alla suocera la sposa impenetrabile…” Le giovani reclute Signorini e Arteri riferirono di aver parlato con l’architetto dell’Università, che, all’idea di essere sospettato di omicidio aveva dato fuori da matto e fornito come alibi la sua presenza, già verificata, ad una riunione dei dirigenti dell’ufficio tecnico durata dalle sei alle nove di sera. Alle otto e mezza di quella sera, Marco aveva fatto salire in macchina l’intera figliolanza. Elisa si mise alla guida e cominciò a scendere dalla collina e quando arrivarono a casa, spiegò ai bambini come si sarebbero dovuti comportare con il nuovo quadrupede. “E Ugo?” domandò Paolo. “Ugo resterà nel corridoio.” rispose suo padre con un tono che non ammetteva repliche. Artemisia, accucciata sulla sua sedia preferita, si limitò ad alzarsi e a guardare i bambini ad uno ad uno più con stupore che con apprensione. Come tutti i felini aveva un sesto senso molto sviluppato e non le ci volle molto a capire che quei piccoli essere umani non erano pericolosi. Riportò i baffi in avanti e si rimise comoda. Giovanna era al colmo della gioia. Artemisia era più di quanto avrebbe mai desiderato. Ugo, dietro la porta chiusa, diventava sempre più nervoso. Tentò e ritentò finché riuscì ad appendersi alla maniglia della porta, ad aprirla e a catapultarsi in cucina. Artemisia non fuggì, si gonfiò fino a trasformarsi in una palla di pelo arruffato ed emise un basso bramito continuo e minaccioso. Il cane mostrò i denti e ringhiò, la schermaglia andò avanti per cinque minuti, poi i due quadrupedi decisero di accettarsi, in fin dei conti il mondo è grande e c’è posto per tutti. Quando venne l’ora di andare a dormire, Giovanna prese in braccio la gattina e la mise sul suo letto. Artemisia si stese contro il corpo della bambina e, ronfando, si addormentò. 32 Era stato un torrido giorno d’estate, le finestre delle case erano aperte e un vento leggero rinfrescava i corpi dei cittadini addormentati. L’aria notturna faceva oscillare i rami degli alberi carichi di foglie. La luce filtrava attraverso le imposte, proiettando delle ombre mobili sulle pareti della stanza. Le lenzuola del letto erano tese, il cuscino era gonfio. Nel buio si intravvedeva una figura seduta a un tavolo. Improvvisamente lo schermo di un computer si accese e la camera si rischiarò. La figura rimase ferma a lungo, poi le dita si mossero agili sulla tastiera; dopo un ultimo clic, sul video comparve la scritta inquietante IO TI HO VISTO Gli occhi rimasero immobili a fissare la frase lapidaria e terrificante, la paura ebbe il sopravvento sull’abituale autocontrollo, i battiti del cuore aumentarono e il respiro divenne affannoso. Lentamente la ragione riuscì a riportare l’ordine tra i pensieri che si agitavano nella mente, occorreva essere calmi per decidere le mosse da fare. La freccia del mouse si mosse, sullo schermo il messaggio venne sostituito dalla lista delle mail arrivate nel pomeriggio. Lo sguardo si riempì di terrore: un’altra aveva come oggetto ‘Giuseppe Corsi’. Era stata spedita subito dopo e diceva DOVRAI UCCIDERE ANCORA La stanza ritornò buia. Sul letto un corpo si agitava in preda a incubi di morte. Nel capo, appoggiato sul cuscino, risaltavano gli occhi spalancati, dallo sguardo folle e pieno di sgomento. I pensieri urlavano in un turbine oscuro, generato dalla pazzia e dall’orrore per la prossima fine di una libertà sciagurata. 33 Sabato 26 giugno Alle otto di mattina, Marco telefonò alla carrozzeria. “Dottore – gli disse il meccanico – venga verso l’una e troverà la sua macchina rimessa a nuovo.” Arrivò in Questura di pessimo umore, la giornata cominciata male non dava segni di miglioramento, lo aspettava un lavoro poco entusiasmante che l’istinto gli diceva essere del tutto inutile. Il suo umore cambiò di colpo vedendo Minici e Nicolasi che lo stavano aspettando. “Dario – esclamò – come stai? E soprattutto come sta Adriana?” “Commissario, ha saputo?” “Ho saputo che si è ammalata e che avete dovuto interrompere il viaggio di nozze.” “Adesso sta meglio?” domandò, cercando di assumere un tono serio. “Sì, per fortuna, ma deve rimanere a letto ancora qualche giorno.” “Complimenti comunque.”Non seppe mai il perché di questa uscita infelice. “Per cosa si complimenta con me, commissario?” I neuroni di Marco si scambiarono messaggi alla velocità della luce. “Voglio complimentarmi con te – rispose Ferrero – per ben due motivi: il primo è la bravura che hai dimostrato nel gestire il disturbo di Adriana in una città straniera, e il secondo viene da Elisa, che mi ha raccontato le meraviglie del vostro ricevimento di nozze.Spero che tu sia venuto per darci una mano…Immagino che tu conosca cosa è successo.” “Beh, ho letto i giornali e poi Rocco mi ha fatto un resoconto delle indagini.” “Il problema è che siamo arrivati a un punto morto. Più o meno sappiamo come si devono essere svolti i fatti, ma su un possibile colpevole o movente è buio completo.” “Minici – disse, rivolgendosi all’ispettore – dai a Nicolasi tutti i verbali e le relazioni. Chissà che leggendoli non gli venga un’idea. Una mente vergine come la sua può esserci molto utile…” Ferrero si domandò poi perché mai avesse usato una parola così inusuale. Fatto sta che Rocco uscì a razzo dalla stanza, seguito a ruota dal commissario, mentre Dario restò a chiedersi cosa avessero di così urgente da fare. Finita la crisi di ilarità, Marco decise di andare a far visita al povero Righetti. Venne ad aprirgli una giovane signora dal portamento elegante. I tratti del viso, non bello ma seducente, denunciavano lo stretto legame di sangue con Bruno, di cui in effetti era la sorella. “Buon giorno commissario – disse sorridendo – che piacere conoscerla! Ho sentito tanto parlare di lei!” “Immagino che lei sia Stefania – rispose Marco – sono passato per fare una chiacchierata con suo fratello e sapere come sta.” “Entri, commissario, Rosa non c’è ma penso di essere in grado di offrirle un caffè decente!” aggiunse con fare ammiccante. “Accidenti, che differenza di carattere! – pensò Marco – Non sembrano neppure parenti.” In effetti Stefania parlava e si muoveva con estrema disinvoltura, come una donna determinata e sicura di sé. “Bruno sta dormendo – disse dopo aver chiuso la porta della cucina – gli ho dato un tranquillante perché era in uno stato deplorevole. Non fa altro che ripetere che c’è un pazzo che li vuole tutti morti…” “Tutti chi?” “Forse quelli del pianterreno? In effetti non vedo altre analogie.” “Quel che è peggio, neppure noi le vediamo.” dottoressa, è che 34 Domenica 27 giugno Marco aveva deciso che avrebbe dormito più del solito, in fin dei conti era domenica anche per lui. Quindi comunicò alla famiglia che sarebbero andati dai nonni, a prendere il sole sul bordo della piscina. Gattacompresa. Alla sera durante il viaggio di ritorno Elisa e Marco, finalmente soli, chiacchierarono del loro futuro. La loro convivenza era stata finora molto piacevole, ma era ancora presto per poter decidere di renderla stabile. Approfittarono della tranquillità del momento, per parlare delle prossime vacanze. “Al solo pensiero di passare due settimane in Puglia con genitori, sorelle, cognati, figli, nipoti, cani e gatta, mi viene mal di pancia. Tu non immagini cosa significhi…” disse il commissario. “Perché non possiamo andare in un alberghetto in Liguria io, te e i bambini?” “Perché mia madre si offenderebbe da morire, e i miei figli starebbero tutto il giorno a pensare a come sarebbe stato meraviglioso vivere come selvaggi… Ma io avrei un sogno: vorrei spedire infanti e animali nella casa al mare e partire con te per un viaggio culturale in qualche città europea. Sempre che prima si riesca a catturare l’assassino dell’Università e che quel figlio di buona donna non ammazzi qualcun altro…” 35 Lunedì 28 giugno Lunedì mattina il commissario entrò in Questura animato da un evidente buonumore. Nicolasi e Minici erano alla macchinetta del caffè. “Dario, vieni con me all’Università. Ti faccio vedere il luogo del delitto. Poi vorrei parlare con Silva, magari potrebbe avere avuto un’intuizione brillante…” Ferrero e Nicolasi entrarono nell’ufficio del professore assassinato. Vi aleggiava un inquietante senso di morte, reso più vivo dalle macchie di sangue, dall’odore di chiuso e dalla tristezza dei fogli abbandonati e sparsi sul piano della scrivania. Il commissario illustrò nei dettagli lo svolgimento presunto del crimine, i passaggi della guardia giurata, il battente dell’uscita d’emergenza tenuto aperto, la posizione delle inutili videocamere. “Perché non le hanno piazzate due metri indietro – domandò Dario – in modo da riprendere tutto il corridoio?” “‘Per privacy’. Le hanno messo solo per l’insistenza di Righetti che giustamente pretendeva un minimo di controllo, ma pare abbiano discusso per settimane. Comunque grazie alla loro riservatezza, il povero Corsi è stato ammazzato.” Silva accolse con grande piacere la visita dei due detective. “La vedo in splendida forma – esordì Ferrero – le presento il mio collega, l’ispettore Nicolasi che il giorno di quest’ultima tragedia era in viaggio di nozze. Professore, immagino che i suoi calcoli le siano mancati.” “Non ne potevo più di rimanere a casa. Mia moglie continua a piangere, io mi sforzo di pensare che sono vivo e lucido di mente, riesco a camminare anche se con un po’ di fatica…Ma ditemi, avete qualche novità?” “Sappiamo come dovrebbero essersi svolti i fatti, ma non abbiamo un movente. Volevamo giusto chiederle se lei ci avesse pensato.” “Mi creda, non ho fatto altro. Né io, né Bruno, né Giuseppe siamo ricchi o abbiamo amanti segrete e in fatto di potere…” “Professore, non credo che in questo Dipartimento vi vogliate tutti bene come fratelli, ci saranno pur degli attriti, delle liti o delle invidie…” “Poco ma sicuro. Qui c’è gente che non si parla da anni, per motivi di gelosia, di concorsi vinti in modo non sempre limpido, di sospetti più o meno fondati, di raccomandazioni, di privilegi…i leccaculo ci sono dappertutto, ma nessuno si è mai sognato di superare il limite della civile convivenza.” Un’idea attraversò come un lampo la mente del professore. Gli sembrò talmente ignobile da seppellirla sotto un sorriso di circostanza. Purtroppo non ebbe il coraggio di esternarla. 36 In un altro ufficio sullo schermo del computer comparve la scritta VAI A PRENDERE LA POSTA SEGUI LE ISTRUZIONI Due occhi spaventati lessero quello che in effetti era un ordine in cui si celava la solita mortale minaccia. Una figura scivolò lungo i corridoi, salutando con un sorriso chi incontrava, senza fermarsi a parlare perché la voce non lasciasse trapelare l’agitazione. Poco dopo ritornò, aprì la porta della stanza e la richiuse a chiave. Si adagiò sulla poltrona appoggiando il capo allo schienale: stava per avere un attacco di panico e non sapeva come affrontarlo. Si impose di fare respiri profondi e lentamente ritornò a uno stato di accettabile normalità. Aprì la lettera che aveva ritirato dalla casella di posta e cominciò a leggerla. Iniziava con il nome della futura vittima. Poi lesse le poche frasi in cui in modo dettagliato si illustravano le fasi dell’esecuzione della condanna capitale. “Semplicemente geniale!” sussurrò e dopo aver nascosto la busta in un cassetto, se ne uscì a prendere un caffè. 37 Sul cellulare di Ferrero squillarono le trombe di guerra. “Signor Questore buongiorno – rispose –sì certo… sì… va bene…non dubiti…” “Ci ha convocati per le due nel suo ufficio. – disse – Dario, avverti subito Rocco, intanto andiamo a vedere se le nostre reclute hanno scoperto qualcosa.” “Commissario – esordì Carmen appena lo vide – abbiamo ricontrollato i filmati. Dopo le tre di lunedì pomeriggio molte persone sono transitate nel corridoio. Sono tutti docenti o tecnici che ormai conosciamo, e come lei ci ha detto abbiamo verificato gli alibi solo di chi non è uscito dal portone principale. A parte la guardia giurata, gli unici entrati più tardi sono stati cinque ragazzi, che verso le diciassette si sono diretti oltre il pilastro con la telecamera. Mezz’ora dopo sono usciti tutti insieme.” “Meglio controllare. Telefonate a Guidoni e Ventura, uno di loro li riconoscerà.” “Allora – tuonò il Questore – spero ci siano novità. Nicolasi, ma lei non era in viaggio di nozze?” “Purtroppo, dottore, mia moglie si è ammalata…” “Bene, bene – disse, accorgendosi subito di aver commesso una gaffe – bene nel senso che deduco che ora stia meglio.” “Allora – continuò – come vanno le indagini?” “Siamo riusciti a ricostruire le modalità dell’omicidio. Attualmente, il maggiore indiziato è la guardia giuratache ovviamente non ha alibi, lì era perché lì doveva stare. Lavora da anni nel Dipartimento, che vantaggio potrebbe aver avuto dalla morte dei tre professori?” “Inoltre – continuò – mi ha chiamato un certo Carlo Besozzi, un tecnico espertissimo di armi. Ha fatto un’indagine tra le armerie e tra gli antiquari, chiunque abbia comperato un moschetto Carcano è stato controllato dalla polizia locale. Tutti lo custodivano con la baionetta innestata. L’assassino potrebbe averla avuta in casa, oppure averla trovata in un mercatino pubblicato la di paese. fotografia Abbiamo sui anche giornali, ma nessuno si è fatto vivo.” “Siete sempre convinti che il colpevole sia lo stesso in ambedue i casi.” “Non solo, signor Questore, ma siamo pressoché certi che lavori al Dipartimento. Per organizzare così bene i due reati e nascondere tutte le tracce, era indispensabile conoscere alla perfezione le abitudini delle vittime e l’ambiente in cui vivevano.” “E sul movente?” “Buio assoluto. Le tre vittime hanno due soli legami: la vicinanza degli uffici e l’analogia dei loro argomenti di ricerca. I tre professori potrebbero qualcuno avere urtato la sensibilità copiandogli, di magari involontariamente, un’idea.” “Gli interessati cosa dicono?” “Uno è morto, un altro è fuori di testa e vive nel terrore, il terzo, che è rimasto invalido in modo molto grave, è l’unico a cui possiamo fare riferimento, ma non ha il minimo sospetto.” “Mica taceranno per paura?” “Abbiamo pensato anche a questa eventualità, ma non ci sembrano delitti legati al crimine organizzato, questa è solo una fucina del pensiero…Qui c’è un pazzo intelligente che sta perseguendo uno scopo. Quale non si sa, ma di sicuro esiste.” “Ragazzi – disse il commissario uscendo dall’incontro col Questore – ognuno di noi rilegga i rapporti e i verbali. Rocco vai a vedere a che punto sono i nostri giovani.” Arteri e Signorini avevano scoperto che lunedì pomeriggio i cinque ragazzi ripresi dalla telecamera erano andati a parlare con il professor Guidoni. “Ora sappiamo come si chiamano – disse Valerio – domani li contatteremo.” 38 Era stato un torrido giorno d’estate, le finestre delle case erano aperte e un vento leggero rinfrescava i corpi dei cittadini addormentati. L’aria notturna faceva oscillare i rami degli alberi carichi di foglie. La luce filtrava attraverso le imposte, proiettando delle ombre mobili sulle pareti della stanza. Le lenzuola del letto erano tese, il cuscino era gonfio. Una figura accese una forte lampada da tavolo. Due mani sicure liberarono il piano illuminato della scrivania, vi stesero un grande tovagliolo e sistemarono con ordine quel che era stato comperato seguendo le istruzioni: siringa, aghi, boccette, guanti, pasticche. A mezzanotte l’arma del nuovo delitto era pronta ad entrare in azione. La stanza ritornò buia. Sul letto un corpo riposava tranquillo, pregustando il piacere del prossimo omicidio. Nel capo, appoggiato sul cuscino, risaltavano gli occhi aperti, soddisfatti di sé, alla paura di un ricatto si era sostituita la gioia di aver trovato un complice, per ora misterioso, ma animato dallo stesso odio e dal medesimo desiderio di vendetta. 39 Martedì 29 giugno All’Università tutti si aspettavano una giornata rovente, e non solo dal punto di vista meteorologico. Nel primo pomeriggio ci sarebbe stata la presentazione del nuovo piano didattico, si prevedevano liti, proteste e contestazioni. Il professor Andreoli avrebbe dato una mano per poter fumare una sigaretta, nel suo ufficio c’era un continuo via vai di colleghi e di rappresentanti di area, ognuno con problemi o richieste, mai nessuno che fosse contento e chi lavorava di meno era sempre quello che protestava di più. Niente di peggio per il suo cuore malandato. “Non dovrebbe venire più nessuno – pensò, mangiando l’ultima caramella – posso fare il riepilogo della situazione.” Non aveva neppure iniziato a scrivere, che sentì bussare alla porta. “Avanti! – gridò – ah, è lei, venga e si accomodi. Spero non mi porti altri guai…” “No, niente che lei già non sappia. Queste sono le nostre disponibilità…” e così dicendo, posò un foglio sulla scrivania e prese dalla tasca una scatola di pastiglie. Ne tolse una e se la mise in bocca. “Posso offrirle una pasticca, professore?” “Grazie, ho appena finito la mia scorta.” “Ma allora gliele lascio tutte!” “Lei è un angelo! È stata una mattina infernale. Sono così nervoso che fumerei un intero pacchetto di sigarette, tanto se non mi uccide il tabacco, mi uccideranno le caramelle.” Parole sante. Per una mezz’ora Andreoli rimase tranquillo, a far schemi e riassunti e a succhiare le pastiglie che un’anima misericordiosa gli aveva lasciato. Ricevette ancora Aliberti, suo grande amico di memorabili convivi, e Saveria Candeli, con cui Andreoli, maschilista per età, educazione e temperamento, non aveva un grande feeling. Ambedue avevano richieste accettabili e di immediata attuazione. Riprese quindi il noioso compito di verifica, allungando ritmicamente la mano verso la scatolina, ormai praticamente vuota. Stava per finire, quando avvertì un leggero senso di nausea. “Devo avere mangiato troppe caramelle – si disse – vado a prendere un caffè.” Mentre sovrapponeva i fogli sparsi sulla scrivania, gli parve di vederli sfocati. “Ho esagerato a lavorare per tante ore di seguito – aggiunse tra sé – non ho più l’età, dovrei abituarmi a non abusare delle mie forze.” Alzando lo sguardo, si accorse di non riuscire a distinguere i colori, la stanza gli sembrava grigia e avvolta nella nebbia. A quel punto si sentì male, il cuore impazzito alternava violente tachicardie a improvvisi diventando rallentamenti,la nausea incontrollabile, stava aveva allucinazioni e si sentiva soffocare. Pensando che gli stesse per venire un attacco cardiaco, prese la confezione di digitale, cheportava sempre con sé, e ingoiò rapidamente il doppio della dose consigliata dal medico. Poi chiuse gli occhi cercando di rilassarsi nell’attesa che il farmaco facesse effetto. In pochi minuti la situazione precipitò. Preso dal panico cercò di chiedere aiuto, ma non riuscì ad articolare parola. Con la forza della disperazione barcollando, studenti lo si raggiunse videro alzò in la uscire piedi porta. nel e, Alcuni corridoio: pallidissimo, gli occhi stralunati, rantolava frasi incomprensibili. Fece due passi e cadde in avanti, con un tonfo molle a cui fece eco l’urlo isterico di una ragazza e le grida dei compagni. Le porte si spalancarono, i professori accorsero a vedere quale nuova disgrazia fosse successa, la paranoia dell’assassino seriale aveva ormai contagiato anche le menti più razionali. Quattro giovani sollevarono il corpo inerte e lo portarono nell’ufficio, stendendolo su un divano. Mentre si sentiva la sirena dell’ambulanza, una mano prese il pacchetto di pastiglie alla menta posato sulla scrivania, lo appallottolò e, con noncuranza, se lo mise in tasca. Nella confusione generale nessuno ci fece caso. Il personale medico del 118 era ancora chiuso dentro l’ufficio del direttore, quando arrivarono Ferrero e Nicolasi. “Professore – chiesero ad Aliberti – cosa accidente è successo?” “Forse nulla che interessi la polizia. Lei conosce il nostro direttore, Paolo Andreoli…” “Eccome…” “Si deve essere sentito male, è uscito nel corridoio ed è stramazzato in terra. Speriamo si tratti di un semplice malore.” Marco si maggior guardò parte dei attorno, conosceva presenti per la averli interrogati almeno una volta. Avevano tutti uno sguardo attonito e spaventato, tra la folla risaltavano gli occhi sbarrati del povero Righetti. “Professore, come sta? – gli chiese – la vedo meglio della scorsa settimana.” “Buongiorno commissario, ho saputo da mia sorella che è venuto a trovarmi a casa. La ringrazio, ma devo riconoscere che le medicine cominciano a farmi effetto. Ora dormo di più e riesco a lavorare…” “Mi scusi.” lo interruppe il Ferrero vedendo aprirsi la porta dell’ufficio del direttore. Passando davanti a tutti mostrò il tesserino al medico che stava uscendo. “Mi dispiace – gli disse il dottore facendolo entrare – abbiamo provato a rianimarlo per oltre mezz’ora, ma non c’è stato nulla da fare.” “Si è fatto un’idea della causa del decesso?” chiese, col terrore di una risposta che avrebbe scatenato il panico generale. “Penso che il professore fosse malato di cuore, come e da quanto tempo, lo dirà il medico curante. Oltre all’età avanzata, era fortemente sovrappeso e, dai portacenere sparsi nella stanza, deduco che sia stato un fumatore accanito. Oltretutto quando fa così caldo sarebbe stessero a meglio casa.Sulla che i cardiopatici scrivania c’è una confezione aperta di un farmaco a base di digitale, per cui immagino che si sia accorto di avere un attacco e abbia preso delle pastiglie.” “Dovrete fare l’autopsia?” “A mio parere non mi sembra ci siano dubbi sulle cause naturali della morte. Ma non sta a me decidere.” “Mi auguro che lei abbia ragione. Il nostro medico legale, dovrebbe essere qui a momenti. Come saprà, in questo palazzo un delinquente ha già colpito due volte…” “Lei pensa vittima?” che questa sia una nuova “Spero tanto di no, ma sento una gran puzza di bruciato.” Il personale dell’ambulanza uscì dalla stanza trasportando gli apparecchi della rianimazione; la folla si ammutolì, negli occhi di tutti si leggeva la stessa domanda, ma nessuno ebbe il coraggio di formularla. Il dottor Gribaudo era arrivato e stava esaminando la salma. “Dario – chiamò il commissario – telefona in Questura e dì a Rocco di raggiungermi. Tu passa a prendere Carmen e vai a casa del professore ad avvertire la moglie. Fatti dare il nome del cardiologo che l’aveva in cura.” “Cosa ne pensa?” domandò Marco al medico legale. “Potrebbe essere stato avvelenato – rispose – mi sembra l’unico modo per ucciderlo senza lasciare segni evidenti. Non capisco perché ti ostini a credere che non sia spirato naturalmente. Guarda che la maggior parte della gente, per fortuna loro e anche mia, muore nel suo letto per cause naturali.” “Lei crede all’istinto?” “Solo fino a un certo punto. La tua mi sembra di più un’ossessione. Comunque ti prometto che farò un’autopsia accuratissima. Intanto tu indaga e vedi se scopri qualcosa.” Il commissario uscì e con un tono angosciato che non aveva bisogno di fingere, annunciò la morte del professor Andreoli. “È stato assassinato?” domandò Micheletti che, oltre a essere antipatico, aveva la delicatezza di un rinoceronte. Anche se, a onor del vero, si era limitato a esprimere brutalmente il pensiero collettivo. Alla domanda diretta Marco non seppe se o cosa fosse meglio rispondere. Venne salvato dal provvidenziale arrivo di Rocco e degli infermieri del carro funebre. La salma uscì dal palazzo tra due ali silenziose di una piccola folla visibilmente commossa. Guardandoli ad uno ad uno il commissario pensò, con un misto di rabbia e di impotenza, che, tra quei volti emozionati, si doveva nascondere quello dell’assassino. “Avrei bisogno di parlare – disse rompendo il silenzio – a chi ha visto per ultimo il professore.” “Io sono andata da lui verso mezzogiorno meno un quarto.” disse Saveria Candeli. “E io subito dopo.” aggiunse Audiberti. Gli altri risposero o di non essere mai entrati nella sua stanza, o di averlo fatto molto prima. Ferrero, Minici e Candeli rientrarono nell’ufficio del direttore. “Professoressa – esordì Marco – quando lei questa mattina è entrata in questa stanza, le è sembrato che il professore fosse sofferente?” “Assolutamente no. Sarò rimasta qui tre minuti… Ha detto che non vedeva l’ora di finire il suo mandato perché era arcistufo di certi colleghi rompicoglioni. E mentre parlava succhiava ininterrottamente delle grosse pasticche che prendeva da una scatolina decorata con rametti di menta.” “Dov’era?” “Sulla scrivania, vicino a lui.” Marco e Rocco si alzarono. Cercarono dappertutto, ma di scatole con o senza foglie di menta non trovarono neppure l’ombra. Audiberti, interrogato subito dopo, ne confermò l’esistenza. “La scatoletta era pressoché vuota – disse – anche perché rosicchiava caramelle a un ritmo impressionante…” “A lei è parso che stesse bene?” “Ansimava sempre un po’, ma non era diverso dal solito.” “Lei dovrebbe essere stato l’ultimo ad averlo visto vivo.” “Questo non posso saperlo. Ma perché mi fa tutte queste domande?” “Guardi, nulla lascia supporre che non sia stata una morte naturale, ma io ho un sospetto che mi rode, l’istinto mi dice che qualcosa non è chiaro… Adesso ci si mette pure la scatoletta sparita…” “Potrebbe averla messa in tasca…” “Gli abbiamo tolto tutto prima che lo portassero via…” “…o è andato in bagno e l’ha gettata chissà dove…” “Il mio collega sta controllando tutti i bidoni del palazzo. Perché poi avrebbe lasciato sul ripiano della scrivania confezioni, carte e involucri di ogni tipo di caramelle? Perché avrebbe dovuto nascondere o distruggere solo l’ultima scatoletta, magari quando già cominciava a sentirsi male?” “Lei pensa quindi che le pastiglie potessero essere state avvelenate.” “Precisamente, ho quel terribile sospetto. L’autopsia ci darà una risposta.” Quando Nicolasi e la giovane collega ritornarono, il commissario volle sapere come se la fossero cavata. “La signora – disse Carmen – appena ci ha visto ha capito cosa fosse successo. Ci disse che il cuore di suo marito era più malato di quanto avessero detto a lui, e da tempo era rassegnata a perderlo.” “Avete saputo il nome del medico curante?” “Certo!” risposero all’unisono. Il cardiologo Alberto Rubini fu estremamente disponibile. “Avevo in cura il professore da una decina d’anni. Quando l’ho visto la prima volta fumava tre pacchetti di sigarette al giorno, mangiava e beveva troppo. Alla fine si è convinto a vivere in modo più sano, a scapito però di un netto peggioramento del carattere.” “Lei si aspettava una morte così improvvisa?” “A dire il vero no. Però, come si sa, la medicina non è una scienza esatta.” “Abbiamo trovato sulla sua scrivania un farmaco a base di digitale…” “Sì, glielo avevo prescritto io in caso di un attacco. Gli avevo detto di tenerlo sempre a portata di mano.” “Potrebbe averne preso troppo?” “La mia opinione, ma badi che è solo una opinione, è che il povero Andreoli abbia avuto una crisi cardiaca importante, che abbia cercato di tamponarla con la digitale e che non abbia voluto o potuto telefonare a me o al 118. Il caldo e l’agitazione hanno fatto il resto. Mi dispiace molto perché era una persona iraconda, ma simpaticissima.” In Questura, Signorini non aveva perso tempo. Ritracciati tutti e cinque gli studenti che il giorno dell’omicidio di Corsi erano andati a parlare al professor Guidoni, li aveva convocati per le nove della mattina seguente. “Cercherò di essere presente anch’io – disse Ferrero – sempre che in quel cazzo di Università non capiti qualche altra disgrazia. Prima le due bombe, poi il cadavere pugnalato con una baionetta, adesso quest’altro che muore in pubblico schiantandosi a terra in modo a dir poco spettacolare. E nessuno mi toglie dalla testa che anche al direttore cardiopatico sia stata data una spintarella per fargli raggiungere l’aldilà. Comunque adesso vado a scrivere il rapporto e poi me ne torno a casa. Ragazzi, ci vediamo domani.” Marco e Elisa cenarono in terrazza e rimasero seduti a lungo a chiacchierare. La giornata era stata caldissima, ma di sera l’aria fresca proveniente dalle montagne, rendeva piacevole stare all’aperto. Era una stupenda serata di luna piena, tenera e romantica. Marco alzò gli occhi al cielo e si sentì pervadere da un senso di pace: la certezza che la legge dell’amore fosse l’unica vera forza motrice dell’universo rese insignificanti i problemi, le angosce e lo stress da cui era tormentato. Abbracciò Elisa e la strinse a sé. In silenzio, lasciarono che i corpi si parlassero, si abbandonarono alle carezze, ai baci e al sensuale contatto della pelle, sostennerola crescita del desiderio finché, in quella magica notte stellata, il fuoco rovente della passione li avvolse e li trasportò insieme nel mondo del piacere senza tempo. 40 Mercoledì 4 giugno Alle nove di mattina i cinque studenti erano in attesa davanti all’ufficio del commissario. Avevano tutti un’espressione tesa, non conoscendo l’esatto motivo per cui erano stati convocati. Marco li guardò in silenzio, uno per uno. Nei loro occhi lesse incredulità, paura e innocenza. Prima ancora di interrogarli, ebbe la certezza che non avessero nulla a che fare con l’assassino. Le cinque giovani matricole, neppure conoscevano la vittima ed erano entrati nel palazzo della tragedia proprio in quel maledetto pomeriggio perché il professor Guidoni aveva l’orario di ricevimento studenti. Passando nel corridoio non avevano incontrato nessuno, cosa confermata dalla telecamera. “Tra un’ora in sala riunioni – disse il Ferrero allo staff di poliziotti – ora andiamo a prendere un caffè e a farci venire qualche idea.” “Ragazzi – cominciò il commissario sedendosi a capotavola – lo scopo di questa riunione è quello di confrontare i due tragici eventi. Come sapete siamo al classico punto morto, dobbiamo necessariamente dare una svolta alle indagini perché almeno un assassino esiste e ci sta prendendo…” “…per il culo!” dissero tutti in coro. “Allora, quali sono le caratteristiche comuni ai due crimini? Primo, sono stati compiuti nello stesso palazzo.” “Secondo – disse Minici – il loro scopo era quello di uccidere e, terzo, le vittime avevano gli uffici confinanti.” “Questo è un particolare importante, di cui non abbiamo tenuto conto a sufficienza.” “Quarto – aggiunse Nicolasi – i mezzi utilizzati sono artigianali: gli esplosivi fatti in casa leggendo le istruzioni su internet e la baionetta poi, roba da medio evo… per cui non dobbiamo cercare un killer prezzolato, ma un fai da te casalingo” “Quinto: ambedue i crimini non hanno avuto testimoni.” disse Signorini. “Incredibile! In un pomeriggio di aprile, una persona attraversa il cortile, si infila tra due auto parcheggiate, si china a terra e attacca due bombe ai pianali delle macchine, poi si alza e se ne va. Sarebbe stato sufficiente che qualcuno fosse passato in un corridoio, avesse gettato l’occhio nel cortile, e voilà, avremmo avuto il caso risolto. Che cazzo fanno, mi domando, chiusi tutto il giorno nelle loro stanze?” La giovane Carmen ebbe il barlume di un’idea, ma purtroppo la veemenza con cui il commissario si era espresso unita alla parolaccia urlata, la bloccarono. “Forse non è importante – disse invece – ma i due crimini sono avvenuti all’incirca alla stessa ora.” “Tutto è importante – le rispose il commissario – evidentemente l’omicida ha aspettato che negli uffici del pianterreno rimanessero solo le vittime prescelte.” “Un altro punto comune – aggiunse Minici – sta proprio nella precisa conoscenza dei movimenti dei tre professori e delle loro abitudini.” “L’unica differenza tra i due fatti – disse Nicolasi – è nel classico modus operandi, d’altronde sarebbe stato impossibile farli fuori tutti e tre nella stessa maniera.” “L’assassino doveva aver programmato una morte melodrammatica e sicura per il povero Corsi, di qui la scelta del venerdì per l’attentato, proprio per evitare che venisse ferito.” “Questa nostra riunione – aggiunse – è servita a stabilire che il movente è da ricercare nella comunanza di lavoro delle tre vittime e che il colpevole è una persona che lavora nello stesso Dipartimento. Quel maledetto lunedì c’è stato un terribile via vai nel corridoio a pianterreno. Alle tre del pomeriggio la guardia ha chiuso la porta di sicurezza attraverso cui è passato l’assassino per andare a pugnalare il povero professore. Quindi è tra le persone che sono transitate nel corridoio dopo le quindici. Sappiamo chi e quante sono. Chiunque abbia superato la zona controllata dalla telecamera, ha avuto modo di mettere un fermo alla porta di sicurezza: fosse anche il Papa, dovrà essere interrogato, fornire un alibi verificabile e convincente. Ripeto: il solo modo per arrivare alla porta dell’ufficio di Corsi senza essere ripreso e filmato, è quello di passare dal cortile ed entrare dall’uscita d’emergenza .” “Ora sapete cosa fare, per qualsiasi dubbio chiamatemi. Io, tanto per cambiare, ho un appuntamento col Questore, fatemi gli auguri…” Il dottor Sacerdote accolse il commissario con un sorriso poco spontaneo. “Come potrà immaginare – gli disse – i media sono in fermento. Le congetture sull’ultima morte avvenuta coram populi nella sede stanno universitaria occupando più le maledetta prime d’Italia, pagine dei giornali, per non parlare delle televisioni. Spero che lei mi porti qualche notizia rassicurante.” “Riguardo quest’ultima disgrazia saprò essere più preciso quando il medico legale avrà finito l’autopsia. Siamo riusciti a individuare un gruppo di persone tra cui si trova il criminale che stiamo cercando. Il lavoro finora svolto è stato meticoloso e incessante, nessuno ha perso tempo e non abbiamo trascurato alcuna ipotesi.” “Va bene, con i media mi arrangerò dicendo le solite cose. Se l’ultimo decesso non è stato un omicidio, conto di prendermi qualche soddisfazione…” Marco non era tranquillo, c’era qualcosa che sapeva di aver trascurato, una parola o una frase sentita durante la riunione della mattina si agitava nel suo inconscio; ma per tanto che si sforzasse non ricordava quale fosse e neppure chi l’avesse detta. Decise di smettere di pensarci, prima o poi sarebbe venuta a galla. Il dottor Gribaudo lo accolse con la consueta cordialità. “Allora, carissimo, ho da darti una bella notizia. O brutta, dipende dai punti di vista. Il professore aveva un cuore tenuto con lo scotch, l’aorta era un po’ ingrossata e i polmoni neri come il carbone. La parete dello stomaco era tappezzata da residui di caramelle, giuro che è la prima volta che mi capita di vedere una cosa simile. Il tutto mischiato a un po’ di digitale, come del resto ci aspettavamo. Gli altri organi bene o male erano normali per la sua età e il suo stato di salute. Non ha ingoiato nessun veleno, è morto di arresto cardiaco, il cuore malandato, la stanchezza, il caldo, la respirazione difficile e il fatto che fosse fortemente sovrappeso lo hanno ucciso. Non ci sono assassini da cercare, almeno per questa volta…” Marco uscì per nulla convinto. L’istinto gli diceva che il criminale era riuscito in qualche diabolico modo a simulare l’attacco cardiaco mortale del direttore. L’unica prova era la sparizione della scatolina con le foglie di menta, a cui nessuno sembrava dare importanza. Ma come gli assassini sono fatti di carne ed ossa e non passano attraverso i muri, così gli oggetti di carta non svaniscono nel nulla. Qualcuno l’aveva presa, per cancellare impronte o tracce o indizi che avrebbero generato dei sospetti. Andando a casa, comunicò al Questore la notizia che stava aspettando: la Scienza aveva stabilito che il professor Paolo Andreoli era morto in modo del tutto naturale.” 41 Alle dieci e mezza di quella sera, Marco e Elisa stavano guardando alla tv un film giallo noiosissimo. La cavalcata delle valchirie, suoneria del cellulare riservata alla nonna Caterina, li risvegliò. “Ciao mamma, è successo qualcosa?” chiese Marco un po’ preoccupato. “Ciao caro, scusa l’ora, ma ho aspettato che i bambini fossero tutti addormentati, preferivo che non sentissero quel che ho da raccontarti.” “C’è qualcuno che sta male?” “Stanno tutti benissimo. Il problema è Artemisia.” “Artemisia?” “Cosa le è capitato?” chiese Elisa sullo sfondo. “Nulla che non le piacesse. Ieri era scomparsa, ma stamattina l’ho vista in mezzo al prato.” “Viva?” “Non solo viva, ma più vispa che mai. Inutile usare giri di parole: si stava facendo scopare da un grosso gattaccio nero, e, quel ch’è peggio, ce n’erano altri due che stavano aspettando il loro turno…” Marco fece il tipico sorriso tra il complice e il furbastro con cui i maschi sono soliti esibirsi ogni volta che si parla di prestazioni sessuali. Perché Elisa non avesse dubbi sul comportamento della sua virtuosa micetta vi aggiunse un gesto poco signorile quanto esplicativo. “…sono nata e vissuta in campagna, ma una cosa simile non l’avevo mai vista. Alla fine i gatti se ne sono andati per la loro strada e lei si è venuta a strusciare contro le mie gambe facendo le fusa come se niente fosse.” “E allora – le rispose Marco ridacchiando – che c’è di strano?” “A parte il fatto che per fortuna i bambini non hanno visto la scena poco edificante, tra qualche mese la vostra amata Artemisia scodellerà tanti bei gattini.” “Cazzo!” “Se puoi evita di parlar male, ma in effetti non so proprio cosa dire.” La veterinaria venne subito interpellata. “Ciao Laura – esordì il commissario che aveva già meno voglia di ridere – abbiamo un problema non da poco. La nostra gatta si è accoppiata con almeno tre maschi, secondo te è rimasta incinta? “Penso proprio di sì. Mai vista una gatta sterile.” “Ha meno di un anno, non è un po’ troppo piccina?” “Tanto piccola da essere in grado di sfornare mezza dozzina di cuccioli.” “Tra quanto tempo?” “Circa nove settimane. Entro il 10 settembre avrete una bella famigliola di micetti.” “C’è un’alternativa?” “Sì, una sola purtroppo: operarla e farla abortire.” Rimasero intesi che entro un paio di giorni avrebbero preso una decisione. Quando Elisa sentì la draconiana risposta, le venne da piangere. “Sai già che sono contraria!” disse con foga. “Ma tesoro, sono gatti, mica sono bambini!” “E cosa cambia? Sono sempre creature viventi.” “Forse che i conigli, i vitelli, i pesci e le zanzare non lo sono?” Dopo avergli lanciato un’occhiata di fuoco, Elisa se ne andò a letto e non ci fu più verso di farla ragionare. “Ah, le donne!” pensò Marco, prima di addormentarsi. Era notte e stava correndo dietro all’assassino, un uomo nero e senza volto. Sapeva che tra poco lo avrebbe raggiunto e finalmente avrebbe scoperto chi fosse. Ma quando allungò la mano per prenderlo, l’orribile individuo si disintegrò ed esplose in milioni di fogli bianchi e luminosi che planando volarono via, lontano lontano… Marco si svegliò di soprassalto. “Misericordia, già quel bastardo mi rovina le giornate, adesso lo sogno anche la notte.” si disse alzandosi di pessimo umore. Ingrid era in cucina. Mentre prendevano il caffè, le raccontò le ultime novità sulla quasi certa gravidanza di Artemisia.Sperava tanto di farsi un’alleata, in fin dei conti la giovane rumena era una donna di origine contadina, piena di senso pratico e senza tante sovrastrutture buoniste. “Anch’io non voglio che si uccidano i piccoli di Artemisia…” fu l’inatteso commento di Ingrid. “Ho allevato una serpe in seno.” pensò Marco uscendo di casa senza dire più una parola. 42 Entrò in Questura prestissimo, incazzato come una iena. Alle nove uscì dall’ufficio con un gran sbattimento di porte. “Dario!” urlò. “Mi dica commissario.” “State controllando gli alibi?” “Sì, certo, siamo a buon punto.” “Bravi, continuate. Io vado all’Università a parlare con Silva, ho un dubbio da chiarire. E tu ricordati di non far figli o almeno di non prendere animali.” Con questo suggerimento traboccante ottimismo, se ne andò. “E stavolta che cazzo gli sarà successo?” esclamò Dario dopo essersi accertato che Ferrero fosse uscito dalla Questura. “Professore buongiorno – disse Marco entrando nell’ufficio di Silva – spero di non disturbarla.” “Commissario si accomodi, ho sempre piacere di vederla. Mi auguro che abbia qualche novità da raccontarmi.” “Niente di sostanziale. Dovremmo aver ristretto la rosa degli ipotetici colpevoli a una dozzina di persone. Mentre i miei collaboratori stanno controllando gli alibi, io ho deciso di concentrarmi sul perché.” “Mi creda, non faccio altro che pensarci. Se non avessi le mie ricerche – e con un gesto il professore indicò i fogli che aveva davanti, pieni dei soliti incomprensibili caratteri – sarei già caduto in preda a una depressione molto più grave della mia invalidità.” “Ho una domanda che mi tormenta: cui prodest ? Perché se qualcuno ha tentato di ucciderla insieme a Righetti e poi è riuscito a togliere di mezzo Corsi, qualche vantaggio l’avrà ben avuto. O quantomeno avrà pensato di poterlo avere. Ma quale?” “Le rispondo subito: nessuno vantaggio, solo danni perché ben sei corsi sarebbero stati senza docenti e i nostri colleghi avrebbero dovuto sostituirli. C’è però una cosa che mi domando: perché si è cercato di eliminare l’intero staff di un unico settore disciplinare?” “Scusi, cosa sarebbe?” “Detto in parole molto semplici, i settori sono gli ‘argomenti’ fondamentali di ogni corso di laurea. Perché e chi abbia voluto decimarci, è un mistero che mi leva il sonno. Pensare poi che sia stato un collega…” “Poiché l’unico a perdere la vita è stato il povero Corsi, potremmo ipotizzare che l’attentato sia stato un diversivo per distogliere l’attenzione dal vero movente dell’omicidio?” “Che sarebbe?” “Ad esempio prendere il posto di Corsi, o vendicarsi per non averlo avuto. Le sembra un’ipotesi plausibile?” Il professor Silva rimase qualche minuto in pensiero. “Il concorso di un anno fa – disse come parlando tra sé – è stato vinto da Giuseppe con un ampio margine di voti. Quel ragazzo era veramente brillante, studioso e intuitivo. La commissione, di cui ero presidente, non ha avuto il minimo dubbio a metterlo in cima alla graduatoria.” “Non c’erano candidati interni a questo dipartimento?” “Sì, due, il Righetti e la Candeli.” “Secondo lei, si aspettavano di vincere?” “Non credo, avevano troppo pochi titoli, e nessuna pubblicazione su riviste di alto prestigio. Sicuramente ne erano consapevoli, hanno solo voluto, giustamente, fare un’esperienza.” “Quindi lei non ha avuto l’impressione di gelosie o risentimenti mascherati da indifferenza, ma che continuassero a bruciare sotto la cenere?” “Io mi sento di escluderlo, comunque può sempre parlarne con gli interessati.” Marco salutò il professore e, guardando i fogli sparsi sulla scrivania, sentì una sorta di stringimento salirgli dallo stomaco al cervello, una specie di dejà vu che tentava di trasmettergli un messaggio, un’informazione indecifrabile che attribuì al sogno angosciante della notte. Si rendeva conto di sapere qualcosa a cui non aveva dato importanza, che invece sarebbe stato un indizio fondamentale che l’avrebbe fatto uscire dal pantano in cui si erano invischiati. Tornò a piedi in Questura continuando a pensare, pur rendendosi conto che solo attraverso il vuoto della mente avrebbe potuto nell’inconscio. sapere cosa stava celato 43 Giovedì e venerdì 1-2 luglio Nei due giorni successivi non vi fu nessuno sviluppo nelle indagini. Giovedì Marco partì prestissimo per Sondrio, dove era atteso in tribunale per una deposizione in un processo per omicidio. Il giorno dopo si era prefisso di fare una bella chiacchierata con Righetti e Candeli. Purtroppo non riuscì a far nulla. Al mattino partecipò al funerale di Corsi, dove sicuramente era presente il colpevole a cui stavano dando la caccia. Vennero autorità cittadine e religiose, il Rettore, Presidi, familiari, colleghi, studenti e curiosi. Gli interminabili discorsi delle cariche istituzionali uniti al caldo afoso trasformarono il commovente elogio della splendida figura del defunto come marito, padre, amico e soprattutto grande matematico, in e un proficuo incubo ricercatore da cui tutti cercavano solo un modo per sottrarsi senza perdere la faccia. Il magnifico cortile del rettorato chiuso da portici con stupende colonne e balconate, era diventato un forno senz’aria in cui si faticava a respirare. Una giovane dottoressa perse i sensi e fu portata fuori da una decina di uomini cui non parve vero di aver trovato un ottimo motivo per defilarsi. Quando anche la vedova si accasciò, qualcuno, in quel consesso di cervelli, decise che fosse giunto il momento di interrompere la cerimonia e di lasciare che la salma raggiungesse, senza far altre vittime, il luogo dell’eterno riposo. Il commissario aveva un’idea nata come un assurdo, che molto lentamente stava prendendo forma nella sua mente. Se ci pensava, gli pareva impossibile, ma non voleva lasciarla andare, in fin dei conti tutto ciò che era logico non aveva fornito risultati, tanto valeva sprecare un po’ di tempo sguazzando nell’immaginifico. deciso a fare Andò qualche al Dipartimento, domanda un po’ scomoda e forse offensiva, ma purtroppo quel pomeriggio era il sacro momento delle lauree, meglio rassegnarsi e rimandare a lunedì. Il commissario ritornò a piedi in Questura, continuando a congetturare varie ipotesi di svolgimento dei crimini costruite su quella sua nuova idea rivoluzionaria. A poco a poco i tasselli sembravano incastrarsi a formare un quadro realistico, gli pareva di aver anche individuato un movente plausibile, senza peròriuscire a trovare l’ombra di una prova. Tutto stava nel saper gestire i prossimi colloqui in modo astuto, cercando di far cadere la volpe nella rete. Durante il fine settimana e gli sarebbe venuta l’illuminazione decisiva. Marco entrò nell’ufficio dove la sua equipe stava finendo di controllare gli alibi dei possibili colpevoli. Dal loro sguardo capì che il classico ragno era ancora ben rintanato nel buco. La cosa peggiore era la generale perdita di entusiasmo, al gusto della caccia si stava poco a poco sostituendo l’accettazione della sconfitta. “Ragazzi – disse, con un tono forzatamente ottimista – mi sa che abbiamo bisogno di staccare per qualche giorno. Adesso ce ne andiamo a casa. Un bel fine settimana di relax ci spetta di diritto.” Dario, Rocco, ringraziarono Carmen con e sguardi Valerio e lo sorrisi riconoscenti. Quando alle cinque del pomeriggio Marco tornò a casa, Elisa si accorse che qualcosa doveva essere cambiato. “Avete trovato il colpevole?” gli domandò dopo averlo baciato. “Non ancora, ma ci stiamo avvicinando. Ti prometto solennemente che sabato e domenica sarò tutto per voi.” Avrebbe fatto meglio a non impegnarsi. “A proposito – aggiunse Elisa – lo sai che tua mamma ha invitato mia sorella a pranzo?” “Davvero? Che bello!” rispose, cercando disperatamente una scusa per poter rimanere ad arrostire nel silenzio della sua casa deserta. Perché la sua quasi-cognata Alessandra, si sarebbe trascinata dietro Giorgio, suo marito, pseudo giornalista in grado, forse, di vincere il Pulitzer, ma di sicuro non un campionato di cordialità e di allegria, e due bimbe piccole, Rebecca e Rachele, di tre e cinque anni. A letto quella sera si accorse di essere un amante distratto. “Sono molto stanco – disse per scusarsi – questa indagine mi sta ossessionando… Domani sera ti costringerò a supplicarmi di smettere!” stretta. aggiunse ridendo e tenendola 44 Sabato 3 luglio Sabato arrivarono in collina verso le dieci, seguiti a ruota dalla Volvo ultimo modello dell’antipatico paparazzo e relativa famiglia. I figli di Marco gli corsero incontro, abbracciandolo. “Lo sai che presto Artemisia farà tanti gattini?” fu la prima cosa che disse Giovanna. “Ma no?” le rispose il padre proponendosi di strangolare chi avesse dato la lieta novella ai bambini. “Sì, ho sentito la nonna dirlo a mia mamma!” aggiunse Ambra, la più grande delle cuginette. “Mamma, possiamo avere un bel micio anche noi?” domandarono Rebecca e Rachele. “Non se ne parla neanche.” rispose con tono perentorio il padre padrone. A Marco venne voglia di soffocare madre e sorella, riservare lo stesso trattamento alla gatta puttana e portare nella casadell’altezzoso quasi-cognato una bella cesta con tutti i cuccioli di Artemisia. Rendendosi conto dell’impossibilità di attuare i suoi nefasti progetti, si avviò verso casa. Era incazzato nero e non aveva la minima intenzione di mascherare i suoi sentimenti. Era stato chiarissimo: i bambini non dovevano sapere nulla, solo così si sarebbe potuta prendere una decisione sensata. Adesso non restava che accettare l’inevitabile, con tutti i problemi e i guai che gliene sarebbero derivati. Gli venne allora incontro con un’andatura vezzosa, innocente e amichevole la dolce Artemisia. La bestiola non avvertì l’animosità di quello padrone, che ormai tanto che considerava emise un il suo miagolio indistinto e si avvicinò per farsi accarezzare. Mai idea fu più nefasta. Marco si guardò rapidamente intorno: nessuno. Una simile occasione per scaricare i nervi non gli si sarebbe più presentata. Magari avrebbe potuto generare una benefica interruzione di gravidanza. Alzò la gamba e sferrò al fondo schiena dell’animale una poderosa pedata. Artemisia attraversò la stanza volando, con un miaoooo di terrore e, dopo essere atterrata indenne sulle quattro zampe, se ne fuggì soffiando col pelo dritto come quello di un istrice. Marco non fece in tempo a sorridere di soddisfazione: si eraben guardato intorno, ma non in basso. Paolo era così vicino che non lo aveva visto, in compenso il bambino aveva assistito con orrore alla scena brutale. Quel che seguì fu peggio di una tragedia greca. Pure Ugo ci si mise, ululando di dolore per dare il proprio contributo ai pianti infantili. Oscar si limitò a controllare cosa mai fosse successo, unico forse a schierarsi dalla parte del colpevole. Caterina e i vari parenti adulti erano costernati. Elisa non disse una parola, ma lo sguardo con cui prese in braccio la sua non più vergine cuccia, espresse in modo inequivocabile il suo pensiero. Marco passò all’istante da vittima a carnefice, con ben pochi argomenti a sua difesa. Più che ammettere di esser stato tradito dal suo proprio sangue, di dire che le donne parlano sempre troppo, di sostenere che in fondo era stata un’affettuosa pedatina che la timidezza di Paolo aveva scambiato per un gesto aggressivo, che sì, magari si era lasciato prendere dall’ira, ma che con tutti i guai che aveva un minimo di comprensione se la sarebbe anche aspettata, e che diamine!, – e a questo punto partì al contrattacco – in fondo stavano tutti facendo di una pulce un elefante, quando era piccolo sua mamma menava scapaccioni ogni due per tre e adesso se solo alzavi la voce chiamavano il telefono azzurro, e che palle! – continuò col viso sempre più violaceo – era ora di finirla, d’ora in poi avrebbe amministrato l’alta e la bassa giustizia secondo i suoi principi, e che nessuno gli rompesse i coglioni perché già glieli rompevano i giornali, e dicendolo lanciò un’occhiata torbida al quasi-cognato esterrefatto, i criminali, il Questore, il Prefetto, il Sindaco e tutti gli stronzi dei politici, e poi – aggiunse rivolgendosi alla madre allibita – forse che alle galline non si tira il collo? E lui non aveva diritto di dare una sacrosante pedata a una gatta che tra due mesi avrebbe sfornato mezza dozzina di piccoli quadrupedi scagazzanti? Due gliene avrebbe date, e una anche a quel deficiente di cane capace solo di dar manforte alla congrega e far più danni di un kamikaze… Elisa e Caterina si guardarono. Capirono che il poveretto era allo stremo, forse era il caso di dargli una mano anziché considerarlo un crudele aguzzino. E così tutto finì in gloria. I bambini fecero i bambini, e gli altri rimasero seduti a tavola chiacchierando fino a tardi. Alle dieci di sera decisero di tornare a casa. Marco stava salutando i suoi figli, quando il cellulare squillò. “Chiami subito il 118, io arrivo tra poco.” disse in modo concitato. “Un altro morto?” domandò Elisa terrorizzata. “Quasi, ma spero per cause naturali.” le rispose, costringendosi ad essere ottimista. 45 In casa Righetti il sabato era il giorno dedicato alla mamma. La signora Fernanda si alzava molto tardi, e Bruno doveva pranzare con lei, poi giocare a carte e ascoltarla rievocare sempre gli stessi eventi della vita passata. Rosa, la cameriera, se ne andava dopo aver rigovernato la cucina. Quel sabato la sorella era rientrata alle cinque del pomeriggio portando un’insolita allegria. Alla sera sarebbe andata a teatro col suo amore, già era stata dal parrucchiere e aveva comperato un elegante vestito nero che le stava d’incanto. Dopo cena un leggero colpo di clacson annunciò l’arrivo del fidanzato. “Divertitevi!” le dissero mamma e fratello trasferendosi in salotto a vedere il Tg5.Alla fine del telegiornale, prepararsi per la notte. Fernanda andò a Bruno rimase a scorrere i vari programmi della serata poi andò in cucina a preparare la solita tazza di latte caldo e miele e la portò alla mamma che nel frattempo si era già messa a letto. Prese i blister di tre medicinali da cui tolse tre diverse pastiglie, le diede alla madre e aspettò che le inghiottisse con un sorso di latte. Dopo averla sfiorata con un bacio se ne uscì chiudendo la porta. La sua giornata da badante era finalmente terminata. La madre non si sarebbe più mossa fino al mattino seguente e lui era libero di sdraiarsi seminudo sul letto, accendere il computer, mettersi in testa le cuffie e navigare in santa pace sui siti porno più o meno sadomaso. E, ovviamente, masturbarsi alla grande. Il poveretto aveva superato i trent’anni senza mai insomma essere era stato vergine con e una poiché donna: qualche ormone doveva ben averlo, ma era sprovvisto di motivazioni per sublimare gli istinti carnali, non poteva far altro che accontentarsi di praticare svariate tecniche di autoerotismo. La madre stava facendo come ogni sabato sera le parole crociate. Aveva appena finito di bere il latte quando sentì nel petto come un frullio d’ali. Si appoggiò al cuscino aspettando che passasse. “Che accidenti mi capita?” pensò. Non fece in tempo a darsi una risposta, che il cuore cominciò a battere sempre più forte. “Bruno, aiuto!” cercò di gridare senza riuscirci. Prese allora il cellulare, che le sfuggì di mano e finì in fondo alla stanza. La vista cominciava ad alterarsi, i contorni erano sfocato e i colori soffusi. Con la forza della disperazione scese dal letto, barcollò e, per tenersi in piedi, si aggrappò al tavolino. Cadde trascinandoselo addosso con tutto quello che c’era sopra. Il fracasso fu notevole, tanto che Bruno, pur con i sensi offuscati dall’eccitazione e dalle cuffie, lo percepì. Si infilò il pigiama, spense il computer e andò a vedere quale fosse stata la causa di quello strano rumore. Quando entrò nella camera della mamma la trovò stesa in terra priva di conoscenza. Bruno venne assalito da una soffocante crisi di panico, non sapeva che fare e tantomeno chi chiamare. La sorella era a teatro, parenti e amici non ne avevano, l’unica luce nel buio di quel tragico momento era l’uomo con cui aveva parlato più a lungo negli ultimi mesi: il commissario Ferrero. Gli telefonò. Marco entrò nella casa della famiglia Righetti mentre il medico del 118 stava cercando di rianimare la signora Fernanda. Bruno sembrava reggersi in piedi per miracolo. Il commissario rimase sconvolto dall’aspetto del professore: con enormi occhiaie scure e sguardo perso nel vuoto, non riusciva a parlare e balbettava frasi farneticanti. “Sua sorella dov’è?” gli domandò. “A teatro.” Intanto Fernanda stava per essere portata in ospedale. Il commissario chiese al medico come fosse la situazione della paziente. “Niente buona – rispose a voce bassa – potrebbe aver avuto un’ischemia o un problema cardiaco. Non possiamo fare altro che portarla in fretta al pronto soccorso.” Marco non se la sentì di lasciare al suo destino il professore inebetito, per cui, dopo averlo costretto a infilarsi qualcosa di decente, lo caricò in macchina e lo portò all’ospedale. Prima di uscire di casa, infilò nella porta un biglietto per la sorella Stefania. A mezzanotte la videro arrivare correndo nella sala d’aspetto, dove da più di un’ora stavano aspettando qualche notizia confortante. Bruno scoppiò a piangere. “Finalmente! – pensò il commissario – ora me ne posso andare.” Ma Stefania era un medico e senza chiedere permesso aprì le porte del pronto soccorso per andar a controllare di persona come stesse la madre. Appena la vide, capì che non c’era più nulla da fare. Quando Bruno vide lo sguardo della sorella, capì all’istante completamente di orfano. essere Nel rimasto frattempo il commissario fu avvicinato da un medico. “Volevo dirle che la morte della signora è sospetta, nel senso che non siamo riusciti a stabilirne la causa. La collega mi ha detto che lei è un poliziotto, per cui saprà che in casi come questo siamo costretti a denunciare il decesso alle forze dell’ordine. Cosa che è già stata fatta. Abbiamo richiesto l’autopsia e i test tossicologici, domani magari la situazione si risolverà.” “Pensate che possa essere stata avvelenata?” “Sicuramente non è deceduta per infarto o per emorragia cerebrale.” Marco uscì e chiamò l’ispettore Minici. “Rocco – esordì – so che starai dormendo e che vi avevo promesso due giorni di completo relax. Scusami, ma ho bisogno che tu mi dia una mano.” “Non si preoccupi, commissario – rispose – mi dica cosa devo fare.” Il commissario gli spiegò succintamente la situazione. “Raggiungimi a casa del professore.” Rocco entrò nel grande salone dei Righetti, si presentò e strinse la mano alla figlia della defunta. Guardando il professore che non si era neppure alzato per salutarlo, rimase di sasso. Bruno sembrava invecchiato di trent’anni: le spalle curve, lo sguardo disperato, le mani tremolanti, era l’immagine di un uomo senza futuro. “Penso che un caffè farebbe bene a tutti.” disse Stefania per rompere il ghiaccio. “Vieni con me a prepararlo.” aggiunse rivolta al fratello. I due poliziotti, rimasti soli, si guardarono. “Secondo te, potrebbe avere avvelenato la madre?” “Chi? Il professore? Ma scusi, quello tra un po’ si suicida, soltanto stasera ha tagliato il cordone ombelicale. La vecchia si sarà uccisa da sola, o è trapassata del suo…” “Ma che vecchia! Non aveva neppure sessanta anni.” In cucina Stefania parlava a Bruno in modo affettuoso. “Senti – gli disse – quando stasera hai portato alla mamma la sua tazza di latte hai guardato la data di scadenza?” “No, non l’avevo mai fatto.” “Non sarebbe comunque grave, ma controlla per favore.” Bruno tolse dal frigo la bottiglia del latte. “No – disse, dopo averla girata in tutti i sensi – scade tra qualche giorno.” “Meno male, vieni, portiamo il caffè.” Finita la cerimonia del caffè, Marco cercò di farsi spiegare dal professore cosa fosse successo quella sera prima della tragedia. “Riassumendo – disse Marco – fin verso le sette e mezza di sera siete rimasti tutti tre assieme. Vostra madre ha mangiato la minestra preparata e niente altro. Poi Stefania è uscita e lei Bruno è venuto in salotto con sua mamma. Ricorda se ha mangiato o bevuto qualcosa …” “Sì, un paio di cioccolatini… da quella scatola là.” Marco trovò in un posacenere due carte stagnole appallottolate . “Dopo che la signora è andata in camera, le ha preparato una tazza di latte caldo con miele. Saranno state le nove di sera. Giusto?” “Giusto.” “Quindi lei ha dato a sua mamma le pastiglie di tre medicine, che ha ingoiato con un po’ del liquido caldo. Giusto?” “Giusto.” “Lei dice che i tre blister sono ancora nel cassetto del tavolino da notte.” “A meno che siano caduti.” “La signora cosa stava facendo quando lei l’ha lasciata?” “Le parole crociate.” “Infine lei è uscito e per circa un’ora ha ascoltato musica con le cuffie lavorando al computer. Giusto?” “Sì.” “C’è qualcosa che non vuol dire – pensò il commissario – perché non ha detto ‘giusto’.” “Verso le dieci ha sentito un rumore, è andato a vedere e ha trovato sua madre riversa per terra.” “Giusto.” rispose con un gemito. Per qualche minuto rimasero in silenzio. “È molto tardi e siamo tutti stanchi. – disse il commissario – Portiamo nella stanza della signora tutto quello che, nel peggiore dei casi, dovrà essere analizzato. Poi mettiamo i sigilli alla porta e ce ne andiamo a dormire.” Alle tre di notte Marco scivolò nudo sotto le lenzuola. Una volta tanto mantenne fede alla promessa della sera precedente. Elisa, stremata dall’amore, si addormentò alle prime luci dell’alba. 46 Domenica 4 luglio Marco fu svegliato dalla luce che entrava nella stanza. Si accorse di essere ancora abbracciato ad Elisa, che dormiva tranquilla appoggiata alla sua spalla. Si soffermò a guardarle i lineamenti del viso: le lunghe ciglia nere, le labbra morbide, la pelle chiara, appena arrossata sul naso e sugli zigomi dal sole d’estate. Sentì che dentro di lui qualcosa si sgretolava, nel muro di rimorso, vergogna e paura dietro cui si era celato per nascondere a sé e al mondo le sue colpe, si stavano formando spiragli e fessure che permettevano al fulgore della libertà di rischiarare il buio del carcere dove si era rinchiuso: la forza del pentimento e l’accettazione dei suoi limiti di uomo avevano fatto il miracolo. Era pronto a perdonarsi, a lasciare andare la rabbia, l’odio e il desiderio di vendetta, a smettere di anelare alla sofferenza come a un giusto riscatto per i peccati commessi. Si sentiva nuovamente degno di poter essere felice. Fu travolto da un’onda impalpabile di amore, avvolto da un ultimo lieve abbraccio d’addio, alleggerito dal peso di un’anima che per egoismo aveva tenuto legata alle miserie della terra e che allontanandosi gli mandava incorporei messaggi di gratitudine. Respirò profondamente, guardò le ombre che la luce creava sulle pareti, tenui fantasmi che il sole nascente affievoliva; rimase immobile a vivere come in un sogno quel momento incantato, finché tutto sparì nel bagliore del nuovo giorno. Si chinò su Elisa, appoggiò teneramente le labbra sulle sue, la vide aprire gli occhi e guardarlo. “Ti amo tanto.” le sussurrò. Lei capì di essere a una svolta della loro vita, ma ebbe la sensibilità di non domandarne la ragione. Il commissario arrivò in ufficio sperando di trovare l’esito degli esami tossicologici. Anche Minici era andato in Questura rinunciando a una sacrosanta domenica in famiglia. Mezz’ora dopo arrivò il responso del laboratorio. “Allora commissario – gli disse il patologo – la Righetti, è morta per avvelenamento da digitale. La dose che ha preso avrebbe ucciso un elefante.” “Sei sicuro?” “Sicurissimo. Oggi faranno l’autopsia e lo confermeranno.” “Potrebbe essere stato un omicidio?” “Beh, il detective sei tu. Io posso solo garantirti che non è morta del suo. Ci sono tracce dei farmaci che, a quanto ho letto sulla cartella, prendeva tutti i giorni. Nulla di nocivo, comunque. Stammi bene e fammi sapere.” Il commissario riuscì a mormorare un ‘grazie’ di cortesia, mentre Minici aveva capito che le prossime ore sarebbero state convulse. Per qualche minuto Marco rimase seduto alla scrivania senza dir nulla, voleva lasciare tempo ai pensieri di organizzarsi. “Rocco – disse poi – siamo nella merda. Secondo me il professore ha avvelenato la madre.” “Con cosa?” “Con una dose massiccia di digitale.” “Chi cazzo gliel’ha data? La sorella?” “Dici che potrebbero aver deciso insieme di farla fuori?” “Dotto’, in questo mondo ne stanno capitando di tutti i colori.” “Ma lei è un medico, sa benissimo che la cosa sarebbe saltata fuori. Ora dobbiamo muoverci in fretta. Chiama Nicolasi, Arteri e Signorini. Convoca anche la Scientifica, che tra un’ora si trovi sul posto. Io avverto il Questore. Quando ci siamo tutti, andiamo a fare una perquisizione d’urgenza a casa dei Righetti. Ah, devo telefonare a Elisa…” “Ciao amore – le disse – immagino che tu abbia già capito. Qui la situazione è drammatica e non so quando ne verremo fuori…sei un angelo…va bene, vai su tu e per i bambini…sì, prometti qualcosa, sai che mi sento in colpa…no, un altro gatto no, ti prego… un giro a Gardaland mi sembra simpatico… poi ti chiamo, bacia tutti da parte mia, ciao amore ciao.” 47 Alle dieci del mattino Stefania sentì suonare alla porta. “Che succede?” mormorò, quando si vide davanti i quattro poliziotti. Il commissario la accompagnò in salotto e la fece sedere in poltrona. “Dottoressa, sua mamma è morta per aver preso una forte dose di digitale. Come lei sa, gli esami sono inequivocabili.” La giovane si guardò intorno smarrita. Si strinse nella vestaglia per una sorta di istintiva difesa e rimase muta scrutando i tre uomini e la donna che la sovrastavano. “Dov’è suo fratello, Stefania?” le domandò Ferrero in tono più amichevole. “Sta ancora dormendo.” “Mi dispiace, ma lo dobbiamo svegliare.” “Dottoressa, sua mamma soffriva di cuore?” “No, era solo leggermente ipertesa e aveva qualche problema renale. Nulla di serio, però.” “In casa tenevate della digitale?” “No assolutamente.” “Lei per caso ne aveva nella sua borsa da medico?” “No, sono radiologa, non ho mai farmaci con me.” “Allora come pensa che sua madre abbia potuto avvelenarsi?” La poveretta rimase impietrita, con gli occhi sbarrati. Una lacrima le scivolò lungo la guancia, l’asciugò con un veloce gesto della mano. A salvare la scena imbarazzante, arrivarono, silenziosi, ma efficienti, due uomini della Scientifica. “Marco – disse Savino – Spiegami un po’ la situazione.” I due si appartarono a parlare, mentre Stefania, accompagnata da Carmen che aveva il compito di non lasciarla mai sola, andò nella camera di Bruno. Era completamente intontito, sparuto e scarno da far paura. La sorella lo costrinse a bere un caffè e nessuno gli disse che lo si sospettava di omicidio. Calabresi e il suo collega si infilarono le tute bianche per passare al setaccio la camera della defunta. Il commissario e Nicolasi si misero i guanti ed entrarono nella stanza del professore. Non ci fu molto da cercare. Quando il commissario aprì un’anta del mobile, vide una piccola scatola decorata con foglie di menta. “Ragazzi…” si limitò a dire. A quel punto medicinali. videro Marco ne due prese boccette una, di lesse l’etichetta, poi guardò i colleghi. “Tombola! – esclamò – è digitale.” Sullo stesso ripiano, trovarono delle siringhe, ancora chiuse nell’involucro sterile. Ogni tanto Marco guardava le boccette, le siringhe e le scatoline con le foglie di menta. Gli sembrava di aver davanti la soluzione di un problema, ma non riusciva a incastrare i vari pezzi del puzzle. A un certo punto non solo vide la figura del rompicapo, ma ebbe anche la soddisfazione di sapere che, ancora una volta, il suo istinto aveva avuto ragione. Prese il cellulare e chiamò il Questore. “Dottor Sacerdote – esclamò – gli indizi che stiamo trovando sembrano comprovare l’intervento attivo del professor Righetti nella morte della madre…ma c’è di più!” Nicolasi, Minici e Signorini si fermarono a guardarlo. “Potrebbe anche aver ucciso il professor Andreoli, quello stramazzato nel corridoio dell’Università.” “Ma non era morto per un attacco cardiaco?” “Io, se mi consente, signor Questore non sono mai stato d’accordo con il referto dell’autopsia. L’attacco è stato, come dire…, indotto artificialmente mediante pasticche avvelenate.” “Ferrero, è sicuro di quel che sta dicendo?” “Dottore mi creda, non si tratta di semplici sospetti. Se interrogassi il Righetti, sono certo che confesserebbe. Preferisco aspettare che le prove siano più solide e poi lo porto in Questura.” “Commissario, cosa dice?” domandò Rocco. “Guardate! –rispose mettendo contro sole una delle pastiglie delle scatoline – Vedete? È piena di un liquido che il Righetti ha sostituito con della digitale.” “E come?” “Con una semplice siringa. Il povero Andreoli era un divoratore di caramelle. Quel figlio di un demonio ha fatto il gentile gesto di regalargli la bella scatolina nuova, piena di bonbon avvelenati, e poi, quando è accorso sul luogo della tragedia, ha approfittato della confusione generale per trafugare l’unica prova del crimine.” “Il movente?” “Mi è del tutto oscuro. Ma credo di sapere di più.” In poco più di dieci minuti raccontò come gli fosse balenata quell’idea così strana e irragionevole, che però era in grado di ricostruire l’esatta dinamica degli eventi. Il commissario prese il computer del professore e lo portò al collega Savino. “Impacchettatelo e portatelo con voi – gli disse – l’ingegner Sansoni riuscirà ad estrarne anche i pensieri di Righetti.” “Qui abbiamo finito – rispose Calabresi – abbiamo preso le impronte anche se non serviranno. Il resto lo porto subito ad analizzare.” “Savino, senti, non posso spiegarti tutto perché mi ci vorrebbe troppo tempo. Ma la situazione è molto più complessa di quanto possa sembrare. Qui sotto c’è una sorta di verminaio che non ci saremmo aspettati. Il tutto per dirti che avremmo bisogno, subito, dell’esame del latte nella bottiglia e sul fondo della tazza.” Nel pomeriggio arrivò Rosa, sconvolta e piangente. Rimase a lungo abbracciata a Stefania, Bruno era duro più di un pezzo di legno e neppure la salutò. Poco dopo arrivò la telefonata che tutti aspettavano. “Allora Marco – tuonò Calabresi – il latte nella scodella è digitale con un po’ di miele, quello della bottiglia potrebbe anche berlo un neonato. La minestra è assolutamente commestibile. Idem per i cioccolatini.” “In poche parole il figlio di puttana ha messo la digitale direttamente nella tazza.” “Così sembrerebbe, non vedo alternative.” “E il gusto?” “Beh, io non l’ho assaggiato, mi sembra che la digitale pura sia sgradevole, ma con tutto quel miele…” Il commissario si chiuse in cucina con lo staff al completo, lasciando i Righetti in compagnia di Rosa. Per prima cosa convocarono Stefania. “Dottoressa – le disse il commissario – si sieda per favore.” La poveretta muoveva lo sguardo intorno alla stanza, come una preda che cerchi un modo per sfuggire agli artigli dovrei farle una del suo carnefice. “Stefania, semplice e terribile. Se la domanda sente di rispondermi?” “Sì.” rispose in un soffio. “Pensiamo che Bruno abbia ucciso sua madre avvelenandola. Io credo che lei ne avesse già il sospetto.” La giovane incrociò le dita delle mani e le strinse finché le nocche diventarono bianche. Abbassò lo sguardo sul tavolo e rimase così, ansimando un poco, lasciando che le lacrime le scivolassero sul volto. Poi guardò il commissario dritto negli occhi: con immensa tristezza fece con il capo un cenno di assenso. “Ha un posto dove andare a dormire per qualche giorno?” le chiese. “Potrei stare dal mio fidanzato, e Bruno?” Marco la guardò senza rispondere. Era certo che avrebbe capito. Prima di uscire di casa, Stefania si avvicinò al fratello e lo strinse tra le braccia. Il professore si limitò a guardarla andar via senza manifestare la minima emotività. Di sicuro non si era reso conto della situazione in cui si trovava e di quale sarebbe stato il suo futuro. “Io direi di portarlo in Questura – concluse Ferrero – chissà che un ambiente diverso non riesca a sbloccarlo.” 48 Dopo aver avvertito il magistrato di turno e aver messo i sigilli alla porta, Minici e Ferrero uscirono tenendo tra loro l’indiziato. Il presunto colpevole venne portato nella stanza degli interrogatori, un locale spoglio, con un tavolo, quattro sedie e nessuna finestra, provvisto però di specchi unidirezionali, videocamere e microfoni. Il commissario si sistemò di fronte al Righetti, Minici e Nicolasi rimasero in piedi appoggiati alle pareti, mentre i due giovani poliziotti ascoltavano e vedevano tutto dall’altra stanza. Marco esordì in modo estremamente soft. “Allora, professore, siamo qui per avere da lei dei chiarimenti. L’avverto che tutto sarà registrato.” Non ci fu neanche un battito di ciglia. “Professore, ha capito quello che le ho detto?” Lieve cenno di assenso. “Le dispiacerebbe rispondere a voce alta, per favore?” “Sì.” disse in una sorta di belato. “Professore, vuole chiamare il suo avvocato?” “Perché?” Tutti si convinsero di aver davanti una persona non del tutto normale. “Perché alcune domande saranno imbarazzanti. Lo vuole o no questo avvocato?” “No.” rispose con un tono quasi imperioso. Ferrero pose sul tavolo il sacchetto con i due piccoli flaconi di digitale. “Professore, questi li abbiamo trovati in un armadio nella sua stanza. Li riconosce?” Bruno rimase a fissarli per cinque minuti, senza muoversi né proferire parola. Poi fece un profondo respiro e sembrò rilassarsi. “Sì – rispose – li conosco.” “Mi sa dire come se li è procurati?” “Li ho comperati in farmacia.” “E la ricetta?” “L’ho scritta io.” “Lei?” “Sì, quando mio papà aveva bisogno di una medicina, io andavo a prendere il ricettario e compilavo uno dei fogli.” La spiegazione era esauriente e inattaccabile. “Va bene. – continuò il commissario – Così lei non ha avuto difficoltà a procurarsi della digitale. E poi cosa ne ha fatto?” “Ho eseguito gli ordini.” “Gli ordini di chi?” “Non lo so.” “Professore, ricapitoliamo. Allora lei ha scritto la ricetta ed è andato in farmacia a comperare queste due boccette. Giusto?” “Giusto.” “Sapeva cosa farne?” “Si, avevo letto le istruzioni.” “Dove, nel bugiardino?” “No – esclamò divertito – le istruzioni erano sulla lettera che ho ricevuto.” “Molto bene – disse Marco con tono incoraggiante – e dov’è ora questa lettera?” “L’ho nascosta nel mio ufficio – riprese dopo cinque minuti di silenzio – nel primo cassetto della scrivania.” “Su questa lettera le si diceva cosa fare del farmaco.” “Giusto.” “E lei ha ubbidito.” “Giusto.” “Perché non si è rifiutato?” “Perché avevo ricevuto delle minacce sulla posta elettronica …” “Che tipi di minacce?” “Gravi.” “Ricorda cosa c’era scritto nella lettera?” “Certo. Mi si diceva di andare a comperare delle scatole di caramelle…” “Sta parlando del delitto di Andreoli!” pensarono i poliziotti. “…in un certo bar tabaccheria.” Silenzio. “E poi?” “Poi c’era scritto di usare una siringa per togliere lo sciroppo di menta e di riempirle col liquido dei flaconcini.” “Li ha usati tutti e due?” “Sì, tutti e due.” “Come mai ha conservato le boccette?” “Perché io tengo tutto, mi è sempre piaciuto…” “Mi scusi professore. Usciamo un momento a prendere un caffè. Vuole portiamo uno?” “Grazie, con tanto zucchero.” che gliene Ferrero, Nicolasi e Minici andarono nell’altra stanza. “Allora, ragazzi, che ne pensate?” domandò il commissario. “Pare che lei abbia visto giusto – rispose Dario – ma mi sembra che il Righetti abbia cancellato dalla mente l’omicidio della madre.” “E dei flaconcini che ha adoperato per avvelenare il latte, cosa diavolo ne ha fatto? In casa abbiamo trovato solo i primi due.” aggiunse Rocco. “Bravo, é la prima cosa che mi sono chiesto, ho preso la scusa del caffè per parlarne con voi. Non so se sia meglio lasciarlo andare a ruota libera, o metterlo davanti all’amara verità.” “Io sarei per una domanda diretta.” disse Minici. Nicolasi approvò. Non fu una bella idea. Rientrarono poco dopo. Il commissario posò sul tavolo davanti al professore la tazzina di caffè. “Spero sia abbastanza dolce – esordì – lo beva e poi mi dica perché non ha conservato le boccette della digitale che ha versato nel latte di sua madre.” Bruno rimase immobile a guardarlo con gli occhi sgranati, come se avesse visto un marziano. Di colpo parve ricordarsi della tragedia che lo aveva colpito. “Mia mamma – biascicò – mia mamma è morta…” Cominciò a tremare, a ripetere ossessivamente …è morta …, a passarsi le mani sulla testa dalla nuca alla fronte, come per un inconscio desiderio di nascondersi alla realtà. In pochi minuti sembrava essersi risucchiato all’interno di se stesso a formare una sorta di bozzolo da cui fuoriusciva un viso animalesco, gli occhi a fessura coperti dai capelli, la bocca semiaperta in un urlo di muta disperazione. “Professore – disse Rocco, decidendo di intervenire – lei sa che sua mamma è stata avvelenata nello stesso modo del professor Andreoli. Ci può dire perché l’ha fatto?” Finalmente Bruno capì. La reazione fu tanto inaspettata quanto violenta. Prendendo forza dall’odio e dalla rabbia verso chi lo aveva accusato, lanciò un urlo di gola da vero cavernicolo, si alzò in piedi, prese la tazzina di caffè e ne gettò il contenuto in faccia all’ispettore, poi si scagliò addosso al commissario tempestandolo di pugni. Marco gli bloccò le braccia, ma non poté fermarne l’impeto; il professore inferocito più di una belva riuscì a raggiungerlo e, in mancanza di meglio, lo azzannò nel collo. Fortunatamente giovani e aitanti. inchiodarono a Dario e In pochi terra e, Rocco a erano secondi lo fatica, lo ammanettarono. Dopo aver chiamato il 118, lo infilarono in un’ambulanza e a sirene spiegate lo portarono in ospedale. 49 Sei mesi prima c’erano state in Questura vivaci discussioni circa il tipo di distributore di caffè da mettere nei corridoi. Alla fine avevano optato per la macchinetta a cialde, che restava accesa dalla mattina alla sera. Così l’acqua era sempre caldissima e l’espresso ottimo. Tutto ciò per dire che il liquido che il Righetti impazzito aveva gettato addosso al povero Minici era prossimo all’ebollizione. Mentre l’indagato veniva trasferito alla neuro-deliri, Rocco elencava a gran voce tutto il vasto repertorio di parolacce e oscenità italosiculo-piemontesi, da coglione bastardo, a và rumpiti i cuoairna, dal più gentile figlio di puttana, al più colorito balengu ‘d merda. La faccia dell’inferocito ispettore si stava riempiendo di bolle rossastre, le palpebre stavano lievitando tipo krapfen, e a mano a mano che gonfiavano coprivano gli occhi del malcapitato con una semisfera di pelle vescicolosa e molliccia. Marco aveva il collo sanguinante e un male dell’accidente, anche se all’apparenza il morso del professore non sembrava aver procurato ferite gravi. “Rocco – continuò Nicolasi che era l’unico dei tre a non aver avuto danni – devo portarti subito all’ospedale.” “Andiamo al traumatologico – disse Ferrero – avverto una mia amica che ti faccia vedere da un medico del centro ustionati.” L’amica in questione, la dottoressa Margherita Valiani, era un primario piuttosto noto. Marco l’aveva incontrata nel corso di diverse indagini su incidenti dolosi e mai avrebbe dimenticato l’aiuto e il sostegno da lei avuto nei tragici giorni della morte di Elena e del successivo lungo ricovero del piccolo Paolo. La dottoressa Valiani li stava aspettando. Dopo aver fatto stendere Rocco su un lettino, guardò il collo di Marco che continuava a sanguinare. “Non mi piace per nulla – disse – sdraiati su questa barella e non muoverti. Torno subito.” Poco dopo rientrò in compagnia di un medico e di un’infermiera. Si occuparono subito delle ustioni di Minici, che stavano visibilmente peggiorando. “Tra pomata poco è il dolore miracolosa.” diminuirà, lo questa incoraggiava il dottore toccandogli con molta delicatezza le bruciature del viso. Poi ricoprirono con bende e cerotti quasi tutta la faccia del paziente. Palpebre comprese. Avrebbe dovuto tenerli fino al controllo del giorno dopo. Sistemato l’ispettore si rivolsero al commissario. “Non sei grave – gli disse l’amica primario – se prometti di star fermo con la testa, non ti mettiamo neppure i punti. Ma devi tenere il bendaggio almeno fino a venerdì.” Dopo averlo pulito e disinfettato, lo incerottarono dall’orecchio sinistro a metà del mento. Quando uscirono, sembravano reduci dal Carso. Tra una battuta e l’altra si avviarono verso l’auto di servizio, non vedevano l’ora di mettere la parola fine a quella giornata da incubo. Era destino che dovessero ancora soffrire. Di colpo vennero accecati da decine di flash, circondati da paparazzi e cameraman urlanti, aggrediti dauna selva di microfoni fallici, frastornati da domande, richieste di commenti, pretese di interviste. Minici che era un vero rompighiaccio di folle, non riusciva neppure a stare in piedi. Rammollito da antibiotici e sedativi avrebbe fatto o detto qualunque cosa pur di andare a casa e mettersi a letto. Ferrero si trovava all’incirca nella stessa situazione, oltretutto poteva solo guardare davanti, per la prima volta sentiva il panico dell’uomo impotente di fronte alla violenza del branco. Nicolasi faticava a tener testa all’orda incalzante, dovendo anche far da cane guida e da sostegno ai due colleghi infortunati. Non restava che arrendersi. Raccontarono il minimo possibile promettendo per il giorno dopo alle quindici una esauriente conferenza stampa. Poi salirono in macchina. “Nicolasi – disse Ferrero prima di scendere davanti a casa – ora spetta a te telefonare al Questore.” “A quest’ora?” “Certo, si lamenta o no che lo teniamo sempre all’oscuro di tutto? Tu lo chiami e gli racconti come sono andate le cose. Sicuramente dirà che è colpa nostra, che avremmo dovuto prevedere la reazione violenta dell’indagato e via discorrendo. Tu non sei stato ferito e riesci a stare più calmo. Io gli spiegherei senza mezzi termini dove deve andare, cosa deve fare, con chi, quando e perché e voi vi trovereste a dover ubbidire a un capo ancora più stronzo di me…” Evelina, la moglie di Rocco, aspettava da ore il ritorno del marito. Col passare del tempo la rabbia si era trasformata in ira incontenibile, alimentata da incessanti recriminazioni su quel che le era stato promesso e non mantenuto. Vale a dire che una giornata rilassante,loro due soli, senza bambini e, perché no?, con finale erotico-amoroso, si era trasformata per lei in una squallida domenica tra le pareti domestiche. Ogni volta che stava per cedere al sonno, si faceva un caffè. Era giunta al dodicesimo, quando sentì arrivare l’ascensore. Allorché si vide davanti quella sorta di mummia con i vestiti del marito, cacciò un urlo di terrore così potente che, amplificato dalla cassa di risonanza della tromba delle scale, penetrò in tutti gli alloggi dei sette piani della casa. Rocco aveva riacquistato un poco dell’usuale vigore. Pur mezzo accecato dalle medicazioni, balzò addosso all’Evelina sostenendola con una mano mentre con l’altra cercava di soffocarne le grida. “Stai calma – le sussurrò – non è nulla di grave.” L’infelice perse all’istante ogni baldanza. Pallida più di un cencio, cominciò a piangere e a tremare come una foglia, favorita anche dalla potente dose di caffeina che aveva ingurgitato nell’arco della serata. Forse, per il povero Minici, sarebbe stato meglio sorbirsi una delle solite querimonie a cui, tutto sommato, aveva fatto l’abitudine. Il rientro in casa del commissario fu meno sensazionale. Elisa lo guardò spalancando i grandi occhi neri. “È ancora più bella.” pensò Marco, sforzandosi di sorridere per tranquillizzarla, accorgendosi solo allora di aver perso ogni energia. “Amore, cosa ti è successo?” domandò lei, abbracciandolo con delicatezza. “Tesoro, se mi siedo non mi alzo più. Per cui ascolta, vado a fare una mezza doccia, poi mi metto a letto. Se mi porti una tisana e ti siedi vicino a me ti racconterò quello che è successo. Insieme alla tisana Marco prese l’antidolorifico che gli era stato dato dalla Valiani. Steso, con due cuscini sotto il collo, con la pelle fresca di Elisa contro il suo corpo febbricitante condizionatore, e il si lieve sentiva ronzio in del paradiso. Cominciò a parlare, lentamente, rallentando a mano a mano che il dolore si affievoliva, facendo lunghe pause, sempre più lunghe e sempre più frequenti, finché chiuse gli occhi e si addormentò. 50 Lunedì 5 luglio Lunedì fu il giorno risolutivo. Marco si svegliò alle dieci di mattina e subito si accorse di stare decisamente meglio. Non sarebbe certo rimasto a casa e tantomeno nel letto. Rocco invece dormì fino a mezzogiorno. Evelina lo aiutò e lo nutrì come fosse stato un reduce dalla ritirata di Russia. Lo accompagnò in taxi all’ospedale e quando vide che sotto i cerotti la pelle del volto dell’amato era appena più rosea del normale e che il suo uomo non era rimasto un invalido, fece ciò che meglio le riusciva: scoppiò a piangere. Mentre il commissario, con passo baldanzoso, si avviava verso la Questura, aveva la sensazione che sotto i portici la gente lo guardasse in modo diverso dal solito. Arrivato all’edicola, si fermò frugandosi nelle tasche alla ricerca delle monete. “Dottore – disse il giornalaio con un sorriso a trentadue denti – oggi mi permetta di regalarle La Stampa. Auguri e complimenti.” Marco lo guardò senza capire. Poi abbassò gli occhi sul banco dei quotidiani e gli parve di essere entrato nel palazzo degli specchi. Tutti riportavano in prima pagina una delle centinaia di fotografie scattate all’uscita del pronto soccorso. L’immagine di Rocco era spettacolare, lui era meno appariscente ma più coreografico: con il bendaggio, la testa all’indietro e i capelli diritti, sembrava un tacchino con il collo ingessato. In Questura venne accolto da un applauso. “Ragazzi – disse sforzandosi di stare serio – ci sono novità?” “Tanto per cominciare, commissario – rispose Nicolasi – il Questore vuole essere richiamato subito.” “Subito quando?” “Subito adesso.” “Dottor Sacerdote, sopravvissuto.” eccomi, sono “Ferrero, non ne ho mai dubitato, ma sono felice di sentirla. Allora, a quanto pare abbiamo trovato il nostro uomo.” “Mi sentirei di dirle di sì, anche se ci sono ancora molti punti oscuri.” “Indaghi, dottore, indaghi, interroghi e torchi il Righetti e vedrà che riusciremo ad avere la completa confessione. Ma mi raccomando, state più attenti…” “Attenti un cazzo!” pensò. “Sappia – continuò il commissario – che ho indetto una conferenza stampa per oggi pomeriggio alle tre.” “Benissimo, farò di tutto per esserci.” “Fatto – disse Marco – adesso veniamo alle cose serie. Ditemi le novità.” “Stamattina ho parlato col medico del reparto in cui è piantonato il Righetti. Pare sia stato tranquillo tutta la notte e non abbia più dato in escandescenze. Ha telefonato anche il dottor Calabresi che vorrebbe parlarle.” “E l’autopsia?” “Dovrebbe essere fatta in giornata.” “Finché non abbiamo qualcosa di nuovo, direi di lasciare dov’è il nostro matematico pazzoide, meglio che sbolla gli ardenti spiriti, noi intanto…Aspettate che mi suona il cellulare…” “Ciao Vittorio, non dirmi che hai già sviscerato il computer...” “Innanzitutto lascia che mi complimenti con voi per aver dato lustro alle forze dell’ordine. La vostra fotografia ci ha commossi…” “Sansoni, siamo già abbastanza incazzati senza che tu ci prenda anche per il culo!” “Giuro che se non avessi letto il nome, mai avrei riconosciuto Minici….Comunque a parte gli scherzi, come state?” “Rocco non lo abbiamo ancora sentito, io sono tutto impacchettato, ma posso lavorare. Hai qualcosa per me?” “Molto. Innanzitutto l’innocente professore è un emerito imbecille. Il signorino, che per inciso aveva vaste conoscenze di tutte le sfumature dei siti pornografici, ha studiato per circa un mese da bombarolo. Alla fine si è soffermato su un tipo di esplosivo che è quello che ha poi costruito per far saltare in aria le auto. Facendo anche delle modifiche, perché, così com’è, avrebbe avuto una potenza inferiore a quella sviluppata dai suoi ordigni.” “Mi confermi quel che pensavo, il cosiddetto attentato avrebbe dovuto avere un effetto assai meno devastante.” “Poi, e qui viene il mistero, ha cominciato a inviare dei messaggi a se stesso.” “Vale a dire?” “So che è incredibile, ma a un certo punto si è messo a spedire delle mail al suo indirizzo, oscurando però quello del mittente…” “Che era sempre lui…” “…infatti, dicevo, scriveva a se stesso frasi di minaccia, che poi ingenuamente cancellava. Lo faceva sempre alla stessa ora, tra le sette e mezza e le otto di sera, e si limitava a quattro parole in grassetto maiuscolo: IO TI HO VISTO. Poi la cosa si è evoluta, e si è auto ricattato: lasciava intendere che, o ammazzava di nuovo, o sarebbe stato denunciato, o meglio, si sarebbe denunciato da solo. La vittima designata era un certo professor Andreoli, che se ben ricordo è quello morto all’Università.” “Non parlava di una lettera…” “Sì, avrebbe dovuto ricevere una lettera con le modalità di esecuzione della condanna a morte della povera vittima.” “E poi?” “Poi più nulla, a parte qualche calcolo, messaggi di lavoro e visite a luci rosse stroboscopiche.” “Sei davvero impagabile. Come hai fatto a fare così in fretta?” “Te l’ho già detto: il vostro professore è un porco e un assassino, ma soprattutto è un imbecille.” “Ragazzi – disse il commissario ai colleghi – è roba da fantascienza. Adesso andiamo a mangiare, intanto vi racconto…” Nella stanza risuonò la cavalcata delle valchirie. “Misericordia – esclamò – mia madre! Mi son dimenticato di avvertirla!” “Ciao mamma, come… non ti ho detto nulla perché non ti preoccupassi… sai come sono i giornalisti, esagerano sempre…sì, si è scottato con del caffè…ma no, sta benissimo… su dai, ridi un po’…ma che piangere, non son mica morto…certo che sto lavorando… mi hanno solo messo un cerotto… no, stasera è impossibile che vi venga a trovare…ma cosa vuoi venire tu, chissà a che ora torno a casa… brava, nascondi il giornale ai bambini e se glielo dicono pazienza… stai tranquilla e smettila di piangere, ciao mamma, ciao.” “E voi per favore non azzardatevi a fare commenti – scandì a voce alta, con uno sguardo di fuoco – andiamo al bar.” Dopo essere tornati, stamparono la relazione di Sansoni sufficiente ad accusare il Righetti di omicidio premeditato e tentativo di strage. Giusto per cominciare. “Mi dispiace che non ci sia Rocco – disse il commissario a Minici, Arteri e Signorini riuniti nel suo ufficio – ma dobbiamo stabilire il piano d’azione. Siamo tutti convinti che il professore abbia anche pugnalato Corsi e avvelenato la madre. Il problema è farlo confessare. Speriamo di riuscirci nelle novantasei ore di fermo che ci concede la legge. Per cui mentre io vado a questo benedetto incontro con la stampa, voi andate a prelevare il Righetti all’ospedale. Mi raccomando le manette, e state attenti, come dice il Questore. Ah, dimenticavo, vedete di trovare un avvocato di ufficio che possa essere presente all’interrogatorio.” Alla conferenza stampa il Questore partecipò con un’aria di soddisfazione quale da tempo non aveva. Il commissario parlò a lungo dando prova della sua ben nota abilità diplomatica, minimizzò l’incidente della sera prima e neppure nominò esplicitamente Bruno Righetti mentrei giornalisti non ebbero una tale delicatezza e lo citarono sempre per nome e cognome. Diede quasi per certo il suo intervento nel decesso della madre e infine scagliò la bomba che fece impazzire gli addetti alla comunicazione dicendo che c’erano forti e circostanziati sospetti che il professor Andreoli non fosse morto per cause naturali. Circa l’omicidio del giovane Corsi non c’erano al momento prove che accusassero l’imputato, mentre per le esplosioni erano state trovate tracce che parevano condurre allo stesso colpevole. “Ma scusi – chiese Sara, una giornalista che con Marco aveva una certa confidenza – perché mai se lo scopo era quello di uccidere Silva, si è esposto a un grave pericolo per salvargli la vita?” La fanciulla aveva messo, come suol dirsi, il dito nella piaga. “Forse, ma badi bene che dico forse, l’intenzione non era stata quella di uccidere. Di più non le posso dire.” Rocco era andato direttamente dall’ospedale alla Questura. Marco fu veramente felice di rivederlo. Tutti insieme presero un caffè decidendo gli ultimi particolari sull’interrogatorio. “Allora – disse il commissario – a quanto pare Righetti rifiuta l’idea dell’omicidio della madre. Sarà un caso di ‘disturbo bipolare’, comunque non tocca a noi stabilirlo, l’importante è far in modo che confessi i delitti precedenti.” Il professore era seduto nella stanza degli interrogatori con le manette ai polsi e due agenti di scorta. Il commissario disse alle guardie di liberare l’indagato e di aspettare fuori. Con gli squilibrati era sempre meglio essere prudenti. Minici e Nicolasi entrarono con l’avvocato. Era poco più che un ragazzo, con una folta capigliatura castana riccioluta, il viso signorile, lo sguardo aperto e ironico. Elegante pur con abiti sportivi, emanava una coinvolgente carica di simpatia. “Piacere, Marcello Cocci.” rispose il giovane sorridendo. I poliziotti presero la stessa disposizione della sera precedente. La tensione era palpabile, l’unico a non avvertirla sembrava essere proprio Righetti a cui la notte in ospedale aveva ridato un minimo di vivacità. Pur con l’aspetto emaciato, squadrava i presenti con uno sguardo più consapevole, anche se non manifestava il minimo interesse alle evidenti cicatrici di Rocco e al palese bendaggio del collo di Marco. “Professore – esordì il commissario con tono duro – abbiamo fatto venire l’avvocato Cocci perché preferiremmo parlarle in presenza di un legale che possa consigliarlo.” Righetti si voltò a guardarlo, ci pensò un paio di minuti e poi gli tese la mano come per pattuire l’accordo. “Bene – continuò Marco – allora accetta la presenza dell’avvocato di ufficio? Mi risponda a voce alta, per favore.” “Sì, lo accetto.” Marcello si sedette accanto al suo nuovo cliente e l’interrogatorio poté finalmente iniziare. “Professore, lei ieri ci ha detto di aver sostituito il contenuto di certe caramelle con della digitale. Vorremmo sapere come ha effettivamente fatto.” Con la massima tranquillità Righetti raccontò che per ammorbidire le maledette pastiglie le scaldava sulla piastra di uno di quegli arnesi antizanzare elettrici. Così l’ago entrava facilmente. “Sarà anche pazzo, ma l’ingegno non gli manca. –pensò il commissario, aggiungendo a voce alta – Poi ha dato al professor Andreoli la scatoletta piena.” “Sì.” “Lo scatolino era simile a questo?” domandò Ferrero, ponendolo sul tavolo. “Si, esattamente.” “Lei aveva motivi di acredine verso Andreoli?” “Non particolarmente, anche se era amico di Silva…” “Perché allora l’ha avvelenato?” “Gliel’ho già detto, ho solo ubbidito agli ordini.” “Siamo tornati alla paranoia – pensò il commissario – vediamo di riportarlo sulla terra.” “Professore, lei sa che abbiamo controllato il suo computer.” Bruno non mosse un muscolo, si limitò a guardare ostentatamente il fondo della stanza. L’avvocato gli si avvicinò consigliandolo di rispondere. Silenzio. “Professore – ripartì il Ferrero – lei sa che siamo in grado di dimostrare che questa primavera ha cercato su internet come costruire degli esplosivi.” Bruno sembrò attraversato da una scossa elettrica. Dario e Rocco erano pronti come due puma a zompargli addosso e a immobilizzarlo. Non ce ne fu bisogno. In quel momento Righetti decise che tanto valeva finire alla svelta. Riconobbe di aver costruito le due bombe magnetiche, di aver parcheggiato la sua auto alla destra di quella di Silva, di aver fatto appositamente cadere dei fogli mentre scendeva dalla macchina e di aver attaccato i due ordigni quando si era chinato per raccoglierli. “Professore, si fermi un attimo. Vorremmo capire il perché di quello che ha fatto.” “Perché Silva era un bastardo, un bastardo, niente altro che un emerito schifoso bastardo.Ho lavorato anni per lui, ho sempre studiato, ho scritto, ho fatto tutto quello che mi chiedeva. Non gli ho mai detto di no, peggio di un cane sono stato, e per cosa? Perché facesse vincere quell’altro che manco conosceva! Quel posto era mio, mio lo capisce?, me lo era meritato, mi spettava di diritto, e sa come mi ha comunicato la bella notizia che lo avevo perso? Sorridendo, come se dovessi anche essere contento. Non so come ho fatto a non ucciderlo subito…” “È per quello che ha pugnalato Corsi?” chiese il commissario, buttando la micidiale domanda con una voluta nonchalance. Il disgraziato ingoiò l’amo e anche la lenza. L’avvocato tentò di bloccarlo, ma era come cercare di fermare un treno in corsa. “Certo, e che altro avrei dovuto fare?” “Dove ha trovato un’arma così insolita?” “In soffitta, dove mi mandavano a giocare da bambino. Mio nonno ha fatto la Grande guerra…” “Che vantaggio avrebbe avuto dalla morte di Corsi?” Cocci non tentò neppure di intervenire. “È molto semplice – rispose con un mezzo sorriso – sarebbero stati costretti a ribandire il posto, e questa volta Silva lo avrebbe dato a me. Specie dopo che gli avevo salvato la vita.” “Non ci è chiaro perché abbia prima tentato di ucciderlo e poi corso un grave rischio per salvarlo.” “In effetti ho commesso un errore. L’esplosivo avrebbe dovuto solo distruggergli la macchina. Quando l’ho visto in terra maciullato e sanguinante, ho capito che se fosse morto per me sarebbe stata la fine della carriera. Al suo posto avrebbero messo uno venuto da chissà dove che si sarebbe portato dietro un suo allievo…fanno tutti così, solo Silva si è comportato da bastardo…” “Insomma le esplosioni avrebbero dovuto avere un carattere esclusivamente dimostrativo…” “Sì, era necessario che voi credeste che ci fosse un serial killer all’Università e che io non venissi sospettato.” “Cosa perfettamente riuscita – pensò il commissario – evidentemente studiare matematica serve a sviluppare l’ingegno.” Poi si fecero raccontare le modalità di esecuzione dell’omicidio del povero Giuseppe, ottenendo piena conferma di quanto avevano immaginato. Marcello si domandava cosa mai fosse venuto a fare. Righetti si vantò di aver organizzato con incredibile precisione e meticolosità la morte del collega. Come fu poi dimostrato, il tempo speso per portare a termine il crimine, era stato inferiore ai sessanta secondi. L’avvocato Cocci avrebbe voluto farlo tacere o quantomeno costringerlo a dire prima a lui, in privato, quale ulteriore stronzata stesse per dichiarare. Non ci fu verso, Righetti era deciso a infilare la testa nel cappio, a stringerselo bene al collo e a saltare nella botola “Quando ho fatto parte della commissione preposta a studiare la messa in sicurezza dell’edificio – disse Bruno con evidente soddisfazione – sono riuscito a far in modo che fossero i miei colleghi a pretendere che nella seconda parte del corridoio del pianterreno non ci fossero telecamere, io dicevo che in fondo la privacy non è poi così importante, e più lo dicevo, più reclamavano il diritto di muoversi in libertà e andare in bagno senza essere registrati…” A quel punto decisero di fare un intervallo di un paio di ore. “Avvocato – disse il commissario – alle dieci riprenderemo l’interrogatorio. L’avverto che ci potranno essere difficoltà perché l’argomento che resta da chiarire è l’omicidio della madre. Veda se riesce di convincerlo a non dare in escandescenze.” I cinque poliziotti andarono in una vicina trattoria per una cena veloce. Marco chiamò il dottor Calabresi. “Savino – gli disse – hai qualche novità?” “Niente che già non sapessimo. Le impronte trovate nella stanza della signora sono sue, del figlio e della domestica. Sulla tazza ci sono quelle della defunta sovrapposte a quelle dell’amato figliolo, la cosa certa è che il professore è stato l’ultima persona che ha preso in mano la bottiglia del latte. È arrivato anche il referto dell’autopsia: la signora è morta avvelenata da una dose massiccia di digitale. E l’interrogatorio?” “Una passeggiata, il nostro uomo canta più di un usignolo. Domani dovreste andare dei Righetti dove il professore ha preso la baionetta. Magari ci trovate anche il fucile. Stasera riporteremo il discorso sulla morte della madre.” “Commissario – domandò Rocco – lei aveva già capito in precedenza come si erano svolti i crimini?” “Il sospetto mi è venuto dopo il mio ultimo colloquio con Silva. Avevo anche fatto un sogno che mi indicava il nome dell’assassino: quello che all’inizio delle indagini aveva dichiarato di aver lasciato inavvertitamente cadere dei fogli proprio tra le macchine a cui erano stati attaccati gli esplosivi. Certo che come attore non era niente male.” Alle dieci di sera si ritrovarono nella solita stanza, avvocato compreso. Il giovane Marcello aveva conferito con il ‘cliente’, spiegandogli che la sua situazione era già sufficientemente compromessa senza che la peggiorasse aggredendo un pubblico ufficiale. Ebbe la netta impressione di parlare a un muro. “Professore – esordì con decisione Ferrero – ora dobbiamo tornare ai fatti di sabato sera. Vorrebbe nuovamente dirci cosa è successo?” Bruno ripeté per filo e per segno gli avvenimenti di quella tragica giornata, dalla colazione del mattino al momento in cui era arrivata l’ambulanza. “Professore – ripartì il commissario – Oggi abbiamo ricevuto l’esito dell’autopsia fatto al corpo della sua povera madre.” Righetti contrasse i muscoli del volto. Nicolasi e Minici si scostarono dal muro. “Professore, non vuol dichiarato il medico legale?” sapere cosa ha L’interpellato strinse i denti. Nel silenzio tombale della stanza se ne udì lo scricchiolio. “C’è scritto che la signora Fernanda Righetti è morta per aver bevuto una tazza di latte in cui era stata sciolta e una quantità di digitale incompatibile con la vita.” Tutti rimasero immobili come in una foto ricordo. Dopo un minuto che parve eterno, Bruno si alzò in piedi urlando a squarciagola: “Non sono stato io!” Venne prontamente rimesso a sedere dai due ispettori che si erano mossi alla velocità della luce. Pur costretto a star fermo non smise di gridare come un pazzo, le due guardie che stazionavano nel corridoio si precipitarono all’interno della stanza, lo ammanettarono e lo portarono quasi di peso in camera di sicurezza. “Cosa facciamo? – chiese Ferrero – secondo me non c’è speranza di riuscire a farlo ragionare, domattina riproveremo, intanto i due giovani andranno nel suo ufficio a prendere la famosa lettera che si è scritto da solo.” 51 Martedì 6 luglio Le guardie passato dissero una notte che molto Righetti agitata. aveva Si era svegliato verso le cinque di mattina e da allora non aveva smesso di piangere, gridare incomprensibili discorsi farciti di insulti e oscenità varie e invocare il nome della mamma. Aveva pure rifiutato la colazione, o meglio l’aveva lanciata contro il muro. “Cominciamo bene – disse il commissario a Nicolasi e Minici – che si fa?” “Io aspetterei l’avvocato –rispose Rocco – se no che cosa lo paghiamo a fare?” Marcello entrò nella gabbia dell’ossesso e, in meno di mezz’ora, riuscì a compiere il miracolo. Bruno venne portato nella stanza degli interrogatori ammanettato e con gli occhi bassi. L’aspetto era pietoso, con la camicia macchiata, la barba lunga e l’andatura traballante sembrava un vecchio malato di Parkinson. Doveva essersi rifiutato di fare la doccia, per cui puzzava di sudore stantio e di umori corporei fermentati. Una vera delizia in una stanza senza finestre. “Professore – cominciò il commissario – vorremmo oggi parlare di ciò che è stato trovato nel suo computer.” Righetti alzò lo sguardo. Evidentemente l’argomento non lo intimoriva. “Abbiamo letto le frasi di minaccia di cui lei stesso ci ha parlato in precedenza, ricorda?” “Sì.” “Effettivamente in queste strane mail è stato oscurato il mittente. Lei ci ha detto che non sapeva chi gliele avesse mandate. Non intende modificare queste sue affermazioni?” Silenzio. “Professore, vedo di riformulare meglio la domanda. Lei conosceva o non conosceva chi le ha scritto quelle frasi minacciose?” “No, non lo conoscevo.” “Anche adesso lei non ha idea di chi possa essere stato?” “Ripeto che non so chi me le abbia mandate.” “A noi risulta che il computer da cui sono partiti i messaggi sia quello che lei aveva in camera sua.” Righetti stranamente capì il problema senza bisogno di farselo spiegare una seconda volta. Ancor più incredibile fu la reazione. “Commissario – disse ridendo – voi siete tutti matti o cercate di prendermi in giro! Chi potrebbe aver usato il mio portatile? Nessun estraneo entra mai in casa nostra, se pensate alla cameriera sappiate che non è neppure capace di mandare gli sms. Mia mamma è peggio di Rosa, Stefania è l’unica che in effetti sarebbe capace. Oltre tutto il mio computer ha una password di accesso che nessuno conosce! Voi voletefarmi passare per pazzo! – gridò – ma guardate che io vi denuncio tutti, razza di farabutti che non siete…” “Scusate – dissel’avvocato – potrei conferire in privato col mio cliente?” Ferrero, Minici e Nicolasi uscirono. “Secondo me – commentò il commissario – questo ha la doppia personalità. Sembra davvero non ricordarsi quello che ha fatto.” “Comunque a noi non interessa – aggiunse Rocco – abbiamo confessioni piene di due omicidi premeditati, di un vero e proprio atto terroristico con danni gravissimi a persone e cose,oltre aprove scientifiche dell’uccisione della propria l’aggressione madre, contro senza contare pubblici ufficiali nell’esercizio della loro funzione, più di così cosa volete? C’è materiale per tre ergastoli…” “Ragazzi – concluse Ferrero – andiamo a prendere un espresso. Intanto telefono al nostro informatico.” “Ciao, Vittorio – disse all’ingegner Sansoni – senti un po’. Qui il nostro uomo dice che il suo computer aveva una password, a te risulta?” “Scusa Marco, ti ho detto o no che è un imbecille? Password di otto caratteri alfanumerici: come si chiamava la madre? Fernanda!” Intanto erano arrivati Carmen e Valerio con la lettera recuperata all’Università, che, come poi risultò, era stata scritta con la stampante che il professore teneva in camera sua. Calabresi telefonò dicendo di aver trovato il vecchio moschetto del nonno Righetti nel solaio di famiglia. L’interrogatorio continuò senza nessuna sostanziale variante. Alla fine i poliziotti si arresero: il loro tempo era scaduto, ora toccava alla magistratura completare il quadro delle indagini. Il commissario, prima di scrivere la relazione al pubblico ministero, volle parlare ancora una volta con la cameriera. Passò a prenderla e la condusse nella casa dei Righetti, buia e silenziosa come un sacrario. “Signora Rosa – le domandò Marco – per quanti anni ha lavorato in questa famiglia?” “Trentacinque.” “Quali erano i suoi compiti?” “Mi occupavo dell’intera gestione della casa.” “Era quindi sempre lei ad acquistare il latte.” “Certamente, con cadenza costante. In famiglia erano tutti allergici, solo la signora ogni sera ne prendeva una tazza col miele. Doveva essere di una certa marca e in bottiglia di vetro. Lo comperavo il lunedì e il giovedì.” “Com’erano i rapporti tra la signora Fernanda e i suoi figli?” “Guardi, non si dovrebbe parlar male dei morti, ma la signora come madre e come moglie era un disastro. Bruno stravedeva per lei mentre Stefania era molto più dura di carattere. Il professore è sempre stato un infelice. Il padre non era contento di avere un figlio così poco maschio, della figlia invece era molto orgoglioso. Anche perché tutti la consideravano un piccolo genio.” “Penso che l’avvocato guadagnasse bene. Sa se aveva fatto testamento?” “I Righetti erano ricchi già in partenza, ma ogni cosa è intestata alla signora. I ragazzi alla morte del padre hanno ereditato quattro soldi. In questa famiglia c’era tutto: salute, classe, intelligenza, denaro, cultura, mancava solo l’amore." 52 Fine di agosto Dopo le vacanze Ferrero e Minici andarono a visitare il professore in carcere. La lista delle imputazioni era notevole, la Giustizia non aveva ancora deciso come si sarebbe svolto il processo, gli avvocati discutevano, i giornalisti continuavano a sfornare articoli e il colpevole, l’aggettivo presunto era stato definitivamente cancellato, aveva perso ogni fiducia nel futuro. I poliziotti stentarono a conoscerlo: in poche settimane era diventato l’ombra del giovane uomo che era stato. Fu lui a parlare per primo. “Commissario – disse con voce stentata – io non ho ucciso mia madre. Era l’unica persona che amavo, non le avrei mai fatto del male.” Poi si voltò e chiese di essere riportato in cella. L’incontro segnò il commissario più di quanto avrebbe pensato. Tutti gli assassini si dichiarano innocenti e le prove incriminavano Bruno al di là di ogni ragionevole dubbio; eppure tanta ostinazione nel negare l’evidenza lasciava Marco perplesso, non riusciva a liberarsi dall’ossessione di quel pluriomicida emaciato che con le poche forze rimastagli continuava a proclamarsi all’uccisione della madre. estraneo 53 Mercoledì 1 settembre Ligio alla promessa fatta ai suoi bambini, Marco aveva prenotato due camere in un albergo all’interno del parco di Gardaland per il primo fine settimana di settembre. Era mercoledì, stavano facendo colazione in terrazza e tutti erano già in fibrillazione. Restava un problema da risolvere: dove sistemare il cane di famiglia. La questione fu risolta al solito da Elisa. “Sentite – disse – portiamo la bestiola, tanto io sulle giostre non vado…le patisco e sto male.” Marco prese la bottiglia del latte per versarne un po’ nel caffè bollente. La tenne sollevata a mezz’aria come se fosse stato colpito da paresi. La piegò di lato, l’avvicinò agli occhi e mentre tutti si zittivano domandandosi cosa mai avesse visto, la posò. Si alzò da tavola e senza dire una parola uscì di casa. Salì in macchina e andò in un magazzino della polizia.Compilò un modulo e attese che gli portassero uno scatolone. Lo aprì e prese una bottiglia sigillata in un sacchetto di plastica; la guardò attentamente, trovando alla fine quel che cercava. Sentì l’adrenalina scorrergli violenta nelle vene, il cuore accelerò i battiti mentre il cervello elaborava velocemente i dati in suo possesso. Firmò un foglio e uscì correndo dallo stabile, portando la bottiglia. Partì mettendo sul tetto il lampeggiante. Era in preda a un furore parossistico, aveva visto aprirsi davanti a lui il baratro del male, della cattiveria intelligente e spietata, della totale mancanza di ogni forma di sentimento, aveva forse trovato i pezzi mancanti del mosaico, ma la figura che si stava formando era quella di un demonio senza scrupoli e senza morale, un immondo insetto capace di nutrirsi dei propri simili, un genio del crimine tradito da piccoli numeri insignificanti. In meno di mezz’ora arrivò alla centrale del latte. Fu subito ricevuto dal direttore che convocò il responsabile della distribuzione. Ogni parola che sentiva era una conferma dell’orrore. Telefonò a Minici che dal tono del suo capo capì che non era il momento di far domande. “Convoca anche i giovani – gli disse dopo avergli spiegato cosa gli serviva – entro un’ora dobbiamo essere pronti a muoverci.” Quando arrivò in Questura trovò tutti schierati e incuriositi. Rocco teneva in mano delle fotografie. “Venite nel mio ufficio.” Disse. Prese una piantina di un quartiere periferico della città e la divise in quattro parti. “Ognuno di voi – disse a Dario, Rocco, Carmen e Valerio – sarà responsabile di una di queste zone. Dovete entrare in ogni negozio di alimentari e in tutti i supermercati, far vedere ai commessi la fotografia chiedendo se la riconoscono. Io mi terrò in contatto telefonico con voi, in caso di bisogno chiamatemi.” Non ci fu molto da aspettare, al terzo tentativo Carmen ebbe fortuna. Si riunirono tutti nell’ufficio di un certo Anghel Lovinescu proprietario del piccolo ‘Taramea market’ in cui lavorava come cassiera Erjeta, giovane albanese, bionda e dai tratti delicati. “Certo che riconosco la signora – disse – e so anche il giorno in cui è venuta perché era la vigilia del mio matrimonio. Mi aveva colpito soprattutto perché era fuori luogo in questo negozio, qui solo con le sue scarpe una famiglia mangia per un mese intero.” Marco la portò in Questura per ratificare e scrivere la sua deposizione. Negli uffici della polizia giudiziaria la tensione era palpabile. Marco aveva chiamato il mago dell’informatica. “Ciao Vittorio – disse all’ingegner Sansoni – avrei bisogno che tu facessi un controllo sul computer di Righetti.” “Ma non è già stato incriminato?” “Sì, ma bisognerebbe prendere anche quello della sorella, che è ancora nella casa. Lo dovresti fare subito, mi servirebbe la risposta entro un’ora.” E gli spiegò rapidamente cosa avrebbe dovuto fare. Infine chiamò Calabresi. “Ciao Savino. Ti ricordi di quel fucile preso nel solaio…” “Il vecchio Carcano…” “Esatto! Vorrei che tu controllassi se ci sono impronte successive alla Grande guerra, e in tal caso, se potessi scoprire a chi appartengono.” Poco dopo arrivò la risposta. La squadra al completo si riunì nell’ufficio del commissario per rivedere, alla luce di quanto scoperto nelle ultime frenetiche ore, la presunta ricostruzione degli eventi. “Adesso è ora di andare a prendere la nostra dottoressa – disse Marco rivolgendosi a Minici e Nicolasi –a casa del suo compagno, un certo Enrico Ravina di professione farmacista. Il magistrato è stato avvertito e ha dato l’ok, per cui se dovesse rifiutarsi sapete cosa fare.” 54 “Stefania, c’è qui un poliziotto che chiede di te.” disse Enrico dopo aver aperto la porta del bilocale in cui vivevano. “Oh Dio – esclamò la dottoressa, ci sono novità relative alla mia casa?” “Può darsi.” rispose Rocco con un sorriso. “Fosse vero – esclamò Stefania – non ne posso più di vivere in questo buco...” Stefania salì sulla volante con fare spavaldo, cercando di controllare l’apprensione che un poco la inquietava. Marco aspettava nella solita stanza. “Buonasera accomodi. dottoressa Vuole un – caffè, le disse un – si bicchiere d’acqua…” “Nulla grazie, vorrei poter tornare a casa in fretta.” rispose, in modo risentito. Dario e Rocco appoggiati contro il muro, trattennero a stento un sorriso sarcastico. “Potrebbe dirmi, almeno lei – aggiunse con voce imperiosa – perché son dovuta venire in Questura?” Il commissario non le rispose. “Sono andato a trovare Bruno – disse invece – e mi è parso oltremodo debilitato. Pare che si nutra pochissimo, rifiuti l’ora d’aria e se ne stia tutto il giorno seduto a dondolarsi. Lei è andata a visitarlo?” “Sì, gli ho anche portato degli abiti di ricambio…” “Lo so…ma se non erro era la fine di luglio…” “Ha ragione, ci sono state le ferie e poi il mio lavoro mi impegna moltissimo… ma mi scusi – e qui alzò il tono di voce – mi ha portata qui facendomi saltare la cena per parlare dei rapporti affettivi tra me e mio fratello?” “Non vi amavate molto, non è vero?” “A parte il fatto che Bruno è un uomo senza colore, senza personalità, senza sentimenti, non bisogna dimenticarsi mai – e calcò su quest’ultima parola – che oltre ad essere un pluriomicida ha pure avvelenato nostra madre, per cui sinceramente non mi sembra giusto chiedermi di provare per lui qualcosa di diverso dalla compassione.” Nella stanza calò una cappa di gelo e di silenzio che si sarebbe potuta tagliare col coltello. I poliziotti rimasero immobili a guardarla. La donna sentì un brivido scenderle lungo la spina dorsale, si accorse di essere in pericolo e la sua mente agitata vide i demoni della vendetta tendere verso di lei i volti sogghignanti. Fu questione di un attimo, poi riprese il controllo di sé. “Lei sa – continuò il commissario – che da bambino Bruno per giocare veniva mandato in solaio?” “Certo.” “Andavate insieme?” “No, quando la tata è andata via io facevo già le superiori...” “Quindi lei in quella soffitta non è mai salita?” “Forse una volta, molti anni fa…” “Sa che suo fratello per uccidere Corsi ha usato la baionetta di un vecchio fucile di suo nonno?” “Sì, ne hanno parlato tutti i giornali e le televisioni.” “Lei non l’aveva mai vista?” “Mai, non sapevo neppure che ci fosse.” “Io penso che lei abbia dei vuoti di memoria.” le disse Marco dopo un minuto di silenzio. “Come si permette…” “Mi permetto ben di più e aggiungo che lei sta mentendo…” “Non ho intenzione di farmi insultare!” “Nega forse di aver sospettato di suo fratello, quando ha saputo dai giornali con quale strana arma era stato ucciso il giovane professore? Nega di essere andata in soffitta a verificare i suoi dubbi e di aver preso in mano in fucile del nonno?” “In effetti ho pensato che l’odio di Bruno per il collega, avrebbe potuto essere il movente per l’omicidio, ma ciò non significa nulla.” “Sul moschetto che lei dice di non aver mai visto, ci sono le sue impronte, cara signorina, recenti e sovrapposte a quelle di suo fratello.” Marco lasciò che la donna assorbisse il colpo ricevuto alla sua credibilità. “Stefania…” “Dottoressa, prego.” “Stefania, la avverto che da questo momento tutto quanto faremo e diremo in questa stanza sarà registrato. Ha capito?” “Perché?” “Le domande le facciamo noi. Risponda se ha capito.” “Senta, vada al diavolo, voglio il mio avvocato.” L’avvocato arrivò in meno di mezz’ora. Si chiamava Gherardo Scalfari, ed era un vecchio amico del defunto Righetti. “Di cosa è accusata la mia cliente?” domandò, immaginando subito che se era in quella stanza con quel contorno di detective, dovesse essere sospettata di qualcosa di serio. “Per ora di nulla – rispose il commissario – vorremmo solo che rispondesse ad alcune domande.” “Questi sono pazzi…” esplose la giovane, ma l’avvocato la zittì. Marco si chinò, prese una scatola e la posò sul tavolo. Lentamente estrasse una bottiglia di vetro. “Stefania – disse – la riconosce? Può prenderla in mano, non è quella originale.” Nello sguardo della giovane passò una fuggevole ombra di paura. “È una bottiglia del latte – disse col solito disprezzo nella voce – mi sembra dello stesso tipo di quello che prendeva mia madre.” “Le sembra o è sicura?” “Cosa vuole che sia sicura! Mi è capitato di vederla nel frigorifero, non ci ho mai fatto caso. Rosa le saprebbe rispondere meglio di me.” “Non ne ha mai comperata una?” Stefania si ravviò i capelli e guardò il muro di fronte. “No di certo – rispose – non avrei neanche saputo dove andare. In casa nostra faceva tutto la cameriera.” “Per cui – aggiunse – non ha mai avuto la curiosità di leggere l’etichetta.” “Le ripeto di non aver mai preso in mano una di queste maledette bottiglie – disse con un riso forzato – mi sono occupata di cose più importanti di quel che sta scritto sui prodotti alimentari.” L’avvocato si limitava ad ascoltare. Sapeva che in quella stanza, di fronte alle domande di poliziotti o magistrati, chiunque, anche la persona più irreprensibile, viene preso dalla paura e può dire o addirittura confessare cose non vere. Ma l’adorata figlia del suo collega, amico e confidente fin dai primi anni d’Università, gli sembrava più tesa di quanto avrebbe dovuto essere. Il commissario non si scompose. Prese in mano la bottiglia, la girò in orizzontale e la tese alla dottoressa. “Vede questa scritta minuscola sul bordo laterale dell’etichetta? Guardi con calma…” La giovane donna persuasa dall’avvocato, lesse una serie di numeri e di sigle. “Che accidente significano?” domandò in tono raggelante. “Significano poco, ma ci danno informazioni fondamentali. Le prime cifre corrispondono al giorno in cui la bottiglia è stata confezionata…” Stefania smise per un attimo di respirare, i muscoli del volto si irrigidirono, guardò l’innocuo oggetto di vetro che teneva in mano come se fosse stato un serpente a sonagli. Impiegò più di un minuto per riprendere il controllo. “E allora?” chiese, con un tono appena angosciato. Marco estrasse dalla scatola una seconda bottiglia sigillata in un sacchetto di plastica. “Questa – disse avvicinandola alla giovane – è quella che abbiamo preso dal frigorifero di casa sua. Ricorda che conteneva ancora circa un quarto di latte?” L’avvocato guardò la Righetti, che si sforzava di mantenersi impassibile. “E allora?” “Allora la data di confezione riportata sull’etichetta è quella del sabato in cui la sua povera mamma è morta avvelenata.” “E allora?” “Allora questa bottiglia è stata comperata proprio quel giorno e non il giovedì precedente.” Stefania trasalì visibilmente. L’avvocato le strinse una mano, non aveva ancora capito dove il commissario volesse andare a parare. “Mi scusi, ma io cosa c’entro?” domandò con una voce che tradiva un ferreo controllo. “È proprio ciò che vorremmo sapere. Perché vede, la cameriera ha giurato di aver preso il latte per la signora il giovedì mattina. Dice anche che quel sabato Bruno non è uscito tutto il giorno…” “Beh, Rosa potrebbe non volere dire di aver rotto la bottiglia e di averne dovuta comperare un’altra.” Rispose sorridendo e ravviandosi i capelli. “Ha ragione – disse – è proprio quello che abbiamo pensato anche noi. Però se lei guarda bene, vedrà che sempre sull’etichetta, dopo la data c’è una sorta di sigla.” Sia Stefania che l’avvocato si chinarono a leggere. Le mani della dottoressa avevano un leggero tremito. “Sa cosa significa?” La giovane continuò a stringersi le mani e aggiustarsi le ciocche di capelli dietro le orecchie. Segno evidente di enorme tensione. “A me l’ha spiegato il direttore della centrale del latte. Come saprà, tutta la lavorazione è automatizzata, ma l’imballaggio è diviso a seconda della destinazione. La sigla indica, in questo caso, il quartiere della città a cui era destinato.” La donna era impietrita. Tutti avevano l’impressione che, se l’avessero toccata, sarebbe caduta a terra sbriciolandosi come un’antica statua di terracotta. “Noi siamo testardi, cara signorina, e siamo riusciti a trovare, in quel rione dell’estrema periferia, un negozio dal nome strano, Teramea, una sorta di piccolo supermarket in cui lavora come cassiera una ragazza albanese, una certa Erjeta, che ha firmato una deposizione in cui afferma che lei, proprio lei dottoressa, è andata nelle prime ore del pomeriggio di quel sabato a comperare una bottiglia di latte, questa bottiglia di latte, cara Stefania.” L’avvocato capì al volo che la sua cliente era in un guaio grosso come una montagna. Chiese pertanto di poterle parlare in privato. “Voglio avvalermi della facoltà di non rispondere.” dichiarò subito la giovane donna quando i poliziotti rientrarono. “È nel suo diritto – rispose il commissario – ma mi permetta di ricostruire il suo presunto crimine, giusto perché sappiate di cosa la accuseremo. Scusatemi un attimo.” aggiunse leggendo un messaggio che gli era arrivato sul cellulare. “Allora – continuò Marco con un sorriso soddisfatto – lei ci ha a suo tempo dichiarato che nel pomeriggio di quel tragico sabato di luglio, è andata dal parrucchiere e ha fatto alcune commissioni. Naturalmente ha taciuto sul fatto di essersi poi recata in una zona periferica della città con il solo scopo di comperare una bottiglia di latte. Arrivata a casa ha nascosto quest’ultimo acquisto ed è quindi andata in salotto a conversare con madre e fratello. Approfittando poi del fatto che fossero impegnati in una partita a carte, ha versato la digitale nel latte che era in frigorifero. Dopo di che il suo fidanzato è venuto a prenderla per portarla a teatro; lei è medico, sapeva l’ora in cui sua madre avrebbe ingerito il veleno, ed era pertanto in grado di calcolare il momento in cui si sarebbe sentita male. Quando è rientrata nella sua abitazione, era certa che l’avrebbe trovata vuota. Allora ha preso la bottiglia nascosta in precedenza, ne ha gettato parte del contenuto in modo da lasciarne tanto quanto ce n’era nell’altra, e ha scambiato i tappi. È stata una mossa intelligente, non tutti i criminali ci sarebbero arrivati. Perché sui tappi ci sono le date di scadenza e lei temeva che ci potessimo chiedere come mai una confezione di latte durasse due giorni di più del normale. Dopodiché è uscita, ha gettato in un cassonetto le prove del suo reato e si è recata correndo al pronto soccorso. Infine, quando io stesso vi ho riaccompagnati a casa, lei è andata in cucina a preparare il caffè e ha voluto che Bruno la seguisse. Sono sicuro che con un inganno ha fatto in modo che lui lasciasse le sue impronte sulla nuova bottiglia del latte. Il resto è storia, Stefania, una storia molto triste che non avrei mai voluto scoprire.” “Brutto verme schifoso lurido bastardo!” esplose la donna non riuscendo a contenere la rabbia, la delusione e l’orrore di un futuro atrocemente diverso da quello che si era immaginato. Rocco e Dario le furono addosso in un attimo e la bloccarono sulla sedia. Si divincolava come una serpe e cercava anche di morderli. “Stefania, se riesce a calmarsi le racconto un’altra storia. Se non riesce, dovremo ammanettarla.” In pochi minuti, convinta dal povero avvocato Scalfari che mai si sarebbe sognato di vedere la famiglia del suo irreprensibile amico precipitare in un simile oceano di perfidia e crudeltà, si rimise composta. “Quello che ora le dico è al momento una ipotesi abbastanza consolidata. Secondo noi, quando la scomparsa della baionetta le ha fornito la prova della colpevolezza di suo fratello, lei ha iniziato a mandargli messaggi minacciosi e ricattatori usando astutamente il portatile che lui aveva nella sua stanza. Come faremo a provarlo? Beh, innanzitutto abbiamo controllato che nei giorni e nell’ora in cui le mail sono state spedite, lei non fosse in ospedale. Leggo nei suoi occhi che questa è una prova senza fondamento, nulla dimostra che lei, mentre Bruno e sua mamma mangiavano, fosse entrata nella camera del professore, perscrivere e inviare il messaggio. Operazione che non le avrebbe preso che una manciata di secondi.” Il commissario fece una pausa, per dare tempo all’avvocato di capire la dinamica degli eventi. “Le ripeto – riprese – che noi siamo pazienti e tenaci. Per cui abbiamo verificato che la lunga lettera in cui era dettagliatamente spiegato il modo in cui uccidere l’innocente professor Corsi, fosse stata scritta con la stampante di suo fratello e che ne fosse rimasta traccia nel suo stesso computer. Una domanda però ci ha sempre tormentati: come faceva Bruno a conoscere il nome del farmaco contenente la digitale e a sapere quale fosse la dose mortale?” Stefania rimase in silenzio, solo gli occhi urlavano come quelli di una belva feroce chiusa in gabbia. “Senza contare che una lettera così correttamente impaginata avrebbe richiesto tempo per essere scritta. Sarebbe stato un rischio troppo grosso farlo nella stanza di suo fratello, meglio invece comporla con calma, memorizzarla su una chiavetta, trasferirla nel portatile di suo fratello e stamparla. Poi cancellarla dappertutto. La polizia postale è riuscito a trovare tracce evidenti della lettera anche nel suo computer, cara la mia dottoressa. Ne ho avuto conferma pochi minuti fa. E questa mi sembra una prova inconfutabile, non le pare?” “C’è ancora una cosa che vorremmo sapere. Immaginiamo di conoscerla, ma è talmente spaventosa che è difficile crederla anche per chi, come noi, ha visto ogni sorta di crimine. Perché, Stefania, ha fatto uccidere il professor Andreoli dal suo debole fratello?” L’avvocato era sgomento, in attesa di una risposta che avrebbe reso indifendibile la sua assistita. “Noi pensiamo che lei l’abbia fatto solo perché con un tale precedente nessuno avrebbe dubitato che sua madre fosse stata avvelenata dalla stessa mano. Ossia da quella del figlio pluriomicida. Come lei l’ha appena definito.” Stefania cercò di sputare sulla faccia del commissario, vomitando insulti irripetibili. Dario e Rocco intervennero a fermarla, e questa volta la ammanettarono. Marco interruppe la registrazione. “Voglio dirle ancora una cosa a livello strettamente personale. Lei ha ucciso sua madre, probabilmente per soldi. Questo è già un ignobile delitto. Ma lei ha fatto di peggio, ha usato la sua non comune intelligenza per architettare qualcosa di veramente diabolico. Ciò che ha fatto a suo fratello, la pone al di fuori dell’umana pietà.” 55 La dottoressa superiore a oppose quella dei una resistenza peggiori mafiosi incalliti. Alla fine, messa a confronto del fratello, crollò. Confessò tutto, maledisse la sua famiglia, la ricca madre che si teneva i soldi, il fidanzato che minacciava di lasciarla se non gli avesse comperato una farmacia, il fratello stupido che sapeva solo studiare, gridò al mondo la disgrazia di quel suo primo e unico folle amore, la sventura di un padre che aveva occhi solo per una moglie insensibile, la tristezza di un’infanzia senza un bacio, l’orrore per un futuro di segregazione e solitudine. Tentò anche di uccidersi, finché un giorno, qualche mese dopo la condanna, cominciò a piangere e a chiedere perdono. Uscì dal carcere a cinquant’anni e andò a fare il medico in una missione. A Bruno venne data la seminfermità mentale. Continuò a studiare, divenne più socievole, accettò il carcere come giusta espiazione. Dopo cinque anni di carcere, uscì per buona condotta, poi fu assunto come professore di matematica in una scuola privata. A quarantacinque anni si innamorò una coetanea insegnante di educazione fisica; si sposarono e trascorsero una vita tranquilla e molto serena. 56 Domenica 5 settembre Questa volta Marco riuscì a mantenere la promessa e a portare a Gardaland l’intera figliolanza. Per due giorni Elisa fece grandi passeggiate con un Ugo un po’ riluttante, ma rassegnato a stare al guinzaglio. La domenica sera partirono quando cominciava ad imbrunire. I bambini non fecero in tempo a salire in macchina che erano già addormentati, stanchi come non mai, ma felici. Il loro solennemente papà che a aveva promesso maggio dell’anno successivo sarebbero ritornati. Ugo si trascinò in braccio al suo fratello putativo e cadde in un sonno comatoso. Elisa era più sorridente del solito. “Ti sei annoiata?” le domandò Marco. “Per nulla!” rispose lei sussurrando. Intanto era scesa la sera, con i colori tenui dell’autunno imminente. I due giovani si godevano quel silenzio capace di parlare solo al cuore degli uomini e delle donne che si comprendono e si amano. “Abbiamo passato una bella estate – disse Marco, che voleva dimenticare l’indagine conclusa – mi sembra di essere rinato.” “Dovresti pensare di più a te stesso – rispose Elisa – non devi farti coinvolgere in modo così totale.” “Più del lavoro, mi angoscia il poco tempo che posso dedicare ai bambini. Per non parlare delle infinite promesse non mantenute.” “Penso che anche quella che hai fatto oggi farà la stessa fine.” “Perché mai, non essere pessimista…” “Vedi, c’è una cosa che volevo dirti, che magari ti sconvolgerà. La nostra famiglia sta per crescere…” “Elisa per favore non ricominciare – rispose con la tipica mancanza di intuito maschile – lo sai che ti amo, ma un cucciolo della gatta non lo voglio. Per fortuna ci penseranno mia mamma e le mie sorelle a dividersi la nidiata.” “Guarda che Artemisia non è l’unica a poter essere messa incinta da un amante focoso…” Marco capì, continuò a guidare in silenzio cercando di assorbire la notizia. Fermò la macchina in uno spiazzo dell’autostrada, si slacciò la cintura, si girò verso Elisa e la abbracciò con una tenerezza mai provata prima. Rimasero così a lungo, senza parlare, nel buio rotto a tratti dai fari delle automobili. “Sei contento?” gli chiese. “Sono felice.” “Anche se i problemi aumenteranno?” “In due li risolveremo.” “Cosa preferiresti?” gli domandò con gli occhi che ridevano. Non fece in tempo a rispondere. Dal sedile posteriore arrivò assonnata di Giovanna. “Una femmina, naturalmente.” la vocetta