Io ti ho visto

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Io ti ho visto
GIOVANNA PITTALUGA
Io ti ho visto
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T h i s e b o o k w a s c r e a t e d w i t h B a c kTy p o
( h t t p : // b a c k t y p o . c o m )
by Simplicissimus Book Farm
Indice dei contenuti
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305
Che Dio stia tra te e il male in tutti
gli spazi vuoti del tuo cammino.
Da una tomba dell’antico Egitto
A chi se non a te,
amore mio?
1
Prologo
L’angoscia stava diventando insopportabile.
Come un animale ferito cercava un rifugio in
cui nascondersi, ma non riusciva a controllare
il tremito delle mani.
A stento raggiunse il suo ufficio.
“Bastardo…– sussurrò – figlio di puttana,
traditore… bestia ingrata, verme schifoso…
come
hai
potuto…
e
sorridevi…
brutto
bastardo…”
Per qualche minuto rimase in silenzio,
immobile. Il battito del cuore era accelerato, il
respiro affannoso, le mani fredde, la vista
confusa.
Poi nel profondo della mente nacque come
un’ombra, il fantasma di un pensiero non
ancora cosciente, che, alimentato dal dolore,
crebbe, assunse una forma, un contorno e un
carattere, si trasformò nell’abbozzo di un’idea,
si raffinò nell’odio e divenne un progetto.
Nel
chiuso
della
sua
tana,
l’animale
spaventato aveva trovato la cura per le ferite e
la strategia da seguire per annientare chi aveva
voluto ucciderlo. Adesso lo spirito era calmo, il
cuore regolare, il respiro tranquillo.
2
Sei mesi dopo
Chiuso nello studio al Dipartimento di
Matematica
dell’Università,
l’emerito
professore Luigi Silva stava controllando la
stesura definitiva di un lavoro di cui era
particolarmente
compiaciuto.
Ogni
tanto
scriveva qualcosa e lo sfregare della matita sui
fogli era l’unico rumore che si poteva udire
nella stanza.
Il silenzio venne improvvisamente rotto
dalla sirena di un’ambulanza.
Il professore alzò il capo e poi girò lo
sguardo verso l’orologio.
“Cazzo! – esclamò, alzandosi come una
molla – i grissini!”
Quella sera avrebbe dovuto affrontare un
incontro con la cognata Antonia e con il di lei
marito Edoardo, chirurgo spocchioso, pieno di
boria, di alterigia e di denaro.
Elvira, moglie di Luigi, aveva ordinato i
grissini in un panificio del centro, ‘unico
rimasto a lavorare come Dio comanda’.
“Andrò io a ritirarli – le aveva promesso il
marito – tranquilla!”
Ma,
se
non
fosse
passata
l’ambulanza,
sarebbe tornato a casa a cena iniziata.
“Speriamo
venduto
che
i
il
panettiere
maledetti
non
grissini…”
abbia
pensò,
raccogliendo velocemente i fogli.
Uscì a razzo, e vide che il dottor Righetti,
trentenne
e
valido
ricercatore,
stava
chiudendo la porta del suo ufficio.
Chiacchierando, percorsero il corridoio fino
all’androne,
giurata.
dove
Usciti
incrociarono
dal
palazzo,
la
guardia
camminarono
velocemente sul marciapiede lungo la facciata
dell’edificio.
Quando
arrivarono
all’angolo
della via, Righetti si fermò di botto.
“Mi scusi professore, ho dimenticato sulla
scrivania
i
compiti
che
devo
finir
di
correggere.” disse il giovane e, con calma,
ritornò indietro.
Entrò nel Dipartimento, si fece da parte per
lasciare uscire due studenti abbracciati e si
diresse verso il suo ufficio. Sulla destra una
lunga parete di vetro lo separava da due
grandi aule le cui finestre si affacciavano su di
un vasto cortile interno adibito a parcheggio.
Tale destinazione d’uso di un’area comune,
aveva richiesto mesi di liti infuocate, alla fine
delle quali si era giunti ad un accordo: accesso
gratuito per le biciclette, a pagamento per le
auto. Una sbarra apribile con telecomando,
avrebbe impedito l’entrata ai soliti furbi.
Il dottor Bruno Righetti, vide, attraverso le
vetrate,
che
l’Audi
del
professore
stava
aspettando di poter uscire, mentre la sua
nuovissima Cinquecento nera era parcheggiata
contro il muro di fondo.
A quel punto si scatenò l’inferno.
Due boati quasi contemporanei ruppero la
quiete di quella tranquilla sera d’aprile. Chi si
trovava
all’interno
del
palazzo
non
fece
neppure in tempo a domandarsi cosa mai
fosse
successo,
che
una
terrificante
deflagrazione ruppe tutti i vetri delle finestre
del piano terra e la luce di un violento
incendio rischiarò l’intero cortile.
Bruno visse in diretta la distruzione totale
della sua piccola FIAT. Dapprima la parte
anteriore della macchina deflagrò, e, dopo
alcuni secondi, il serbatoio pieno di benzina
prese fuoco. La vettura sembrò sollevarsi in
aria,
e
poi
esplose
come
una
bomba
trasformandosiin una palla di fuoco.
Dopo
un
attimo
di
silenzio
tombale,
cominciarono a sentirsi delle grida di terrore.
Righetti si riscosse. Fatti due passi, vide
l’Audi
semidistrutta
avvolta
da
un
fumo
sinistro. Il professore era vivo, aveva aperto la
portiera e si era gettato fuori. Con le gambe
orrendamente
maciullate,
tentava
di
allontanarsi dalla sua macchina, trascinandosi
dietro quell’atroce ammasso di carne e di
sangue.
Bruno spalancò l’uscita di sicurezza, volò i
cinque scalini sconnessi e, preso per le ascelle
il ferito, cercò di portarlo in salvo. Capì che
non ne avrebbe avuto il tempo e neanche le
forze. Si gettò allora sul professore, facendogli
scudo col proprio corpo.
L’Audi scoppiò e prese fuoco. I vetri interni
delle
aule
ricevettero
direttamente
l’onda
d’urto ed esplosero, cospargendo il corridoio
di milioni di schegge.
Un pezzo di lamiera colpì la spalla del
coraggioso
ricercatore,
profondamente.
e
la
incise
Il giovane perse conoscenza.
3
I boati delle esplosioni delle due auto si
erano sentiti a parecchi isolati di distanza.
Tutti
i
servizi
di
pronto
intervento,
di
protezione civile, di polizia, compresi vigili
urbani, carabinieri e caserme militari, furono
invasi da telefonate, con richieste di aiuto e di
soccorso.
Il primo a giungere sul luogo della tragedia
era stato Cosimo Imbesi, la guardia giurata,
che, dopo aver salutato i due professori, aveva
continuato il giro di ronda al primo piano del
palazzo. Da cui era sceso di corsa, dopo
qualche attimo di smarrimento. Arrivato nel
corridoio, lo aveva trovato cosparso di vetri e
solo grazie agli stivali di ordinanza era potuto
arrivare a vedere l’orrenda scena di un uomo
con le gambe ridotte ad un ammasso di carne
maciullata coperto da un altro, svenuto e con
la giacca zuppa di sangue.
Il
commissario
Ferrero
arrivò
dopo
le
ambulanze.
L’ispettore Dario Nicolasi gli andò subito
incontro.
“Dottore, qui è successo una catastrofe!”
“Ci sono vittime?”
“Due feriti, uno gravissimo.”
Il professor Silva, le cui condizioni erano
parse subito disperate, era già stato portato al
pronto soccorso.
Un medico stava medicando il Righetti che
tremava in modo parossistico ed era pallido
come un morto. Venne caricato sulla seconda
ambulanza e portato in ospedale.
“Chi
ha
dato
l’allarme?”
chiese
il
commissario.
“La
guardia
giurata,
un
certo
Cosimo
Imbesi.”
“Dov’è? Gli hai già parlato?”
“Dottore,
quando
sono
arrivato,
qui
sembrava di essere in guerra. Sono riuscito a
individuare
qualche
professore
che
al
momento dell’esplosione era nel palazzo. La
stanno aspettando negli uffici della direzione,
insieme alla guardia e a un paio di studenti.”
“La Scientifica? ”
“È nel cortile, ma per andarci le conviene
fare il giro esterno dell’edificio perché questo
corridoio è una trappola mortale.”
Ferrero entrò nel parcheggio notando che la
sbarra che ne bloccava l’accesso era inclinata a
45 gradi, e subito pensò che, se l’auto che stava
uscendo fosse esplosa dopo essersi immessa
nella via, la tragedia si sarebbe trasformata in
una carneficina.
I tecnici delle Scientifica stavano lavorando.
Le due carcasse annerite, il fumo, l’odore di
bruciato, una larga pozza di sangue, le vetrate
distrutte, non erano altro che lo scenario di un
attentato.
“Savino che ne pensi?” disse il commissario,
rivolgendosi a uno degli uomini in tuta bianca.
“Cosa posso dirti, Marco, questa è opera di
un pazzo criminale, le macchine non hanno
preso fuoco da sole, quando le avremo
esaminate saremo in grado di darti delle
informazioni più precise.”
Ferrero rimase qualche minuto a guardare il
grosso cortile, su cui si affacciavano le finestre
del palazzo.
“Qualcuno avrà ben visto qualcosa – si
domandò – mica staranno sempre a far conti.”
Rientrò poi nell’edificio per andare a parlare
con i testimoni.
4
Il primo ad essere interrogato fu Cosimo
Imbesi,
la
corporatura
guardia
giurata.
minuta,
poco
L’uomo,
più
di
che
quarantenne, aveva lo sguardo perso, tra
l’attonito e lo spaventato e stringeva i braccioli
della sedia per mascherare il tremito che lo
scuoteva.
“Signor Imbesi – esordì il commissario –
quali sono i suoi compiti e qual è il suo orario
di lavoro? ”
“Io
arrivo
qui
tutte
le
mattine
verso
mezzogiorno e ci rimango fino alle sette e
mezza di sera. Giro continuamente per i
corridoi, controllo le aule e i laboratori, nel
pomeriggio verifico che tutti gli uffici abbiano
le porte chiuse e che dentro non ci siano
intrusi. Ogni tanto faccio anche un giro nel
cortile, dove sono parcheggiate le macchine.”
“E oggi?”
“Oggi è stato un giorno come gli altri, ero al
mio ultimo giro, ho visto uscire i poveri Silva
e Righetti. Mi hanno salutato e sono usciti. Io
ho preso lo scalone per salire al primo piano,
non ero neanche arrivato in cima che si è
scatenato il finimondo. Ricordo di essere
rimasto
paralizzato
dalla
paura,
non
ho
neanche avuto il tempo di chiedermi cosa
fosse successo che un boato mi ha fatto
perdere l’equilibrio, ho sentito dei vetri che si
rompevano, ho scorso la luce di un fuoco e
sono sceso di corsa per la scala. Appena
arrivato in fondo altro boato, peggiore ancora
del primo, e ho visto le vetrate delle aule
esplodere in milioni di schegge. Sono vivo per
miracolo, se fossi già entrato nel corridoio
sarei stato fatto a pezzettini…mi son subito
venuti in mente i professori che avevo appena
visto uscire e camminando sui vetri sono
andato verso la porta di sicurezza e ho visto
una scena orribile: il povero professor Silva
con le gambe maciullate, e addosso a lui il
Righetti, immobile, con uno squarcio sulla
spalla. E sangue poi, ce n’era dappertutto, e la
macchina che ancora bruciava e la puzza,
terribile . . .”
“Durante quel suo ultimo giro, ha incontrato
qualcun altro?”
“No, nessuno, a parte una coppia di ragazzi
che si baciavano…”
“Oggi o nei giorni passati, non ha notato
niente di strano o di insolito?”
“Guardi, ci ho già pensato, ma non ho visto
niente che non fosse più che normale.”
“Un’ultima cosa. Immagino che non tutte le
persone che lavorano qui, professori e no, si
fermino sempre fino alle sette di sera.”
“Certo,
le
lezioni
finiscono
alle
sei. A
fermarsi fino a tardi sono pressoché sempre
gli stessi, compreso un collega delle due
povere vittime… un giovane professore che ha
l’ufficio proprio davanti alla porta di sicurezza
e che per sua fortuna non c’era.”
Marco gli chiese allora di fare l’elenco di chi
si fermava abitualmente fino a dopo l’orario di
chiusura del Palazzo. Poi chiamò Nicolasi.
“Senti – gli disse – prendi le generalità dei
testimoni oculari, convocali in Questura per
domani mattina, possibilmente scaglionati di
almeno mezz’ora e fammi parlare subito con
chi non è in questo elenco.”
5
Per prima entrò una giovane ricercatrice,
Saveria Candeli, una donna graziosa, ma
vestita
in
modo
trasandato,
con
un
bel
caschetto di capelli scuri alla ‘maschietta’ e così
magra da sembrare anoressica.
Marco la fece accomodare e le sorrise.
“Dottoressa, potrebbe raccontarmi la sua
versione dei fatti?”
“La mia versione sarà del tutto simile a
quella degli altri – esordì con tono tranquillo –
purtroppo non ho visto nulla che possa essere
utile per le indagini.”
Il commissario aspettò che proseguisse.
“Oggi sono stata tutto il giorno chiusa nel
mio ufficio che è al primo piano dell’edificio.
Quando ho sentito le prime due esplosioni
pressoché contemporanee, ho pensato che
fosse
successo
qualcosa
all’impianto
di
riscaldamento, che è stato appena rifatto. Non
mi ero neanche alzata dalla scrivania quando
c’è stato il secondo botto…sono uscita di corsa,
pronta a scappare, attraverso le finestre del
corridoio ho visto la luce delle fiamme e il
professor Silva steso in terra fuori dalla
macchina semidistrutta. Mi sono allora messa
a correre giù dalle scale, ero solo alla fine della
prima rampa, quando è successo il finimondo.
Ricordo di essermi rannicchiata su uno scalino
aspettando che tutto mi crollasse addosso. Poi
ho sentito delle grida e ho visto gente
arrivare.”
“È sua abitudine fermarsi in Istituto fino ad
oltre
le
sette
di
sera?”
domandò
il
commissario.
Saveria distolselo sguardo.
“No – gli disse – solitamente esco alle
quattro per andare a prendere la mia bambina
all’asilo nido. Oggi però ci hanno pensato i
miei genitori, e così ne ho approfittato per
fermarmi a lavorare.”
Ferrero rimase in silenzio. La giovane si
tormentava
con
le
dita
di
una
mano
i
polpastrelli dell’altra, in una sorta di tic che
denotava uno stato di nervosismo.
“Vede commissario – riprese dopo aver fatto
un profondo respiro – io convivo da cinque
anni con una compagna, una farmacista che
questa sera è di turno fino a mezzanotte. La
bambina
è
nostra
figlia,
anche
se
l’ho
concepita in provetta. I miei genitori son
bravissime persone, ma religiose e bigotte da
far paura. Che la loro unica figlia sia gay è una
cosa che proprio non riescono a digerire.
Questa sera sarei dovuta andare a cena da loro
e so già che non avrei retto più di tanto alle
severe critiche di mio padre e alle lacrime di
mia madre. Ecco perché procrastinavo al
massimo il momento di abbandonare la
tranquillità della mia stanza.”
Il
commissario,
dopo
averla
congedata,
prese alcuni appunti. Secondo lui aveva detto
la verità.
“Commissario,
ci
sarebbe
ancora
un
professore, un certo Mario Aliberti.”
“Fallo entrare, Nicolasi, poi andiamo tutti a
casa.”
“Professore buonasera. So che è tardi ma le
assicuro che faremo più in fretta possibile.”
“Non si preoccupi, io mi considero un
animale notturno, vivo solo e non ho nessuna
fretta.”
Piccolo, rotondetto e semicalvo, il professor
Aliberti non era quel che si dice un bell’uomo,
ma aveva uno sguardo così vivace ed ironico e
un modo di porsi talmente amabile, da
risultare
immediatamente
simpatico.
Il
commissario lo giudicò subito per quel che in
effetti era: uno scapolone impenitente, che
amava i piaceri della vita e le grazie delle
donne.
La sua testimonianza fu del tutto concorde a
quella
della
Candeli,
i
loro
uffici
erano
adiacenti e non avrebbero potuto vedere o
sentire qualcosa di diverso.
Quella sera Aliberti, di cui stava mettendo a
punto la tesi.
“A momento delle esplosioni – disse al
commissario – ero era nel mio studio con una
laureanda e ho pensato subito a un atto di
terrorismo. Mi aspettavo che da un momento
all’altro entrasse un pazzo a sequestrarci e
sono uscito soltanto quando ho cominciato a
sentire
le
sirene
dell’ambulanza
e
dei
pompieri.”
“Senta, professore, qual è la sua opinione su
tutta questa vicenda?”
“Anche se non ho la più pallida idea di chi
possa essere il colpevole, sono però convinto
che sia da ricercare tra chi lavora in questo
Dipartimento. Credo che l’esplosione delle
macchine avesse lo scopo di uccidere i due
proprietari. Cosa che in effetti si sarebbe
verificata
se
Righetti
non
fosse
tornato
indietro e non avesse dimostrato un coraggio
da leone nel salvare la vita al povero Luigi. Le
vetture devono quindi essere state ‘minate’ e
fatte esplodere con un comando a distanza.
Infatti, poiché nessuno di noi ha orari rigidi, il
potenziale assassino ha dovuto aspettare che le
sue vittime uscissero insieme dal palazzo.”
“E
se
non
fossero
uscite
rispose
l’Aliberti
contemporaneamente?”
“Bella
domanda
–
sorridendo – ma quel che le dirò dimostra la
mia tesi. Perché vede, il colpevole doveva per
forza conoscere il carattere e le abitudini di
Silva e di Righetti. I due non potrebbero essere
più diversi. Luigi è un uomo sanguigno,
amante della compagnia, della buona tavola e,
resti tra noi, delle belle donne. Il Righetti è un
giovane introverso, tutto casa e matematica,
vive ancora con la mamma e nessuno l’ha mai
visto con una ragazza. Noi lo prendiamo un
po’ in giro perché è una via di mezzo tra
l’ombra e il lacchè di Silva. Che naturalmente
si diverte e sostiene che il poveretto, sperando
di fare carriera, stia tutte le sere in attesa del
momento in cui lui esce dall’ufficio per
schizzare fuori e fare insieme un pezzetto di
strada. Questa cosa è risaputa, ma fuori dal
nostro ambiente nessuno può conoscerla. Non
riesco però a trovare qualcosa che accomuni il
Righetti e il professore. Luigi è un matematico
importante, può aver dato noia a qualcuno,
ma il giovane ricercatore cosa c’entra?”
“Secondo lei, potrebbe essere stato uno
studente?”
“Come le ho già detto, avrebbe dovuto
conoscere bene le nostre abitudini. Inoltre il
Righetti va a far lezione ai chimici, mentre
Luigi tiene i suoi corsi qui, ai matematici della
laurea specialistica. In parole povere, non
hanno interferenze. Potrebbe indubbiamente
essere stato un caso, ma più ci penso, più mi
convinco che sia stato un colpo architettato, e
anche bene, a tavolino.”
“La
ringrazio
per
le
sue
ottime
argomentazioni, l’aspetto domani mattina in
Questura…”
“Non troppo presto, spero!”
Il commissario lo congedò sorridendo.
6
Marco
tornò
a
casa
poco
prima
di
mezzanotte. Si tolse le scarpe e a piedi nudi
andò
a
guardare
i
suoi
tre
bambini
addormentati. Il cane Ugo, steso nel lettino di
Paolo, il suo figlio più piccolo, si limitò ad
aprire gli occhi e ad agitare un poco la coda. Il
commissario si sentì invadere dalla tenerezza e
dal solito incoercibile senso di colpa. Si
accorse di essere terribilmente stanco, ma
prima avrebbe dovuto mangiare perché i
giorni successivi sarebbero stati ancora più
lunghi e faticosi.
Si mise poi in poltrona, con un bicchiere di
nebbiolo in una mano e il cellulare nell’altra.
Chiamò Elisa che rispose al primo squillo.
“Ciao amore – disse la giovane – ho
ascoltato i notiziari tutta la sera, ti ho pensato
tanto e aspettavo che tu mi chiamassi, chissà
come sarai stanco…”
Marco si allungò di più sulla poltrona, bevve
un sorso di vino e sorrise.
“Prima o poi respirerà – pensò divertito – e
mi lascerà parlare!”
“Immagino di non poter dirti nulla che tu
già non sappia, non abbiamo neppure ancora
stabilito con certezza l’esatta dinamica della
tragedia… no, io non penso ad un attentato, mi
sembra di più un fatto interno, che so, gelosie
o sgarbi gravi, …. no, il professore più anziano
è vivo, ma han dovuto amputargli le gambe
sotto al ginocchio… quello più giovane non è
grave… di testimoni oculari finora non ne è
comparso
nessuno...speriamo
che
Scientifica scopra qualcosa di decisivo…”
la
7
Alle sette e mezzo di quella stessa sera, la
signora Elvira era in ansia.
“Speriamo solo che Luigi non si dimentichi i
grissini!” pensava.
Alle otto l’ansia di Elvira si era trasformata in
panico. Luigi non rispondeva al cellulare, il
panettiere aveva chiuso bottega e lei stappava
bottiglie e serviva salatini per far passare il
tempo dell’angosciosa attesa.
Quando
finalmente
sentì
suonare
il
campanello, le parve di rinascere. Elvira andò
volando ad aprire la porta. Quando si vide
davanti una coppia di poliziotti in uniforme, le
si strozzò in gola la frase aggressiva con cui
pensava di accogliere il consorte ritardatario.
I due agenti le dissero, con il maggior tatto
possibile, che il professor Silva Luigi era in
ospedale
in
condizioni
abbastanza
preoccupanti.
“È
stato
un
incidente
di
macchina?”
domandò Elvira, sentendosi svenire.
“Quasi.” rispose la giovane agente.
Elvira e i due figli rimasero nella sala d’attesa
del pronto soccorso. A mezzanotte un medico
uscì dalla sala operatoria e si diresse verso di
loro con un sorriso incoraggiante.
“Suo
signora
marito
–
Purtroppo
ha
–
disse,
subito
abbiamo
rivolgendosi
ferite
dovuto
molto
alla
gravi.
amputargli
i
piedi…”
La poveretta scoppiò in un pianto dirotto.
“…quando è arrivato in ospedale temevamo
che non sarebbe sopravvissuto. Ora i suoi
parametri vitali si sono stabilizzati, per un paio
di giorni resterà in terapia intensiva…”
“Possiamo vederlo?”
“No, è in coma farmacologico, non potrebbe
neppure
parlarle…Vi
consiglierei
anzi
di
andare a casa, domani mattina telefonate e vi
daremo notizie.”
Elvira tornò a casa piangendo.
“E
gli
zii?”
domandò
la
figlia
Celeste,
pensando in cuor suo che il parente chirurgo
avrebbe ben dovuto accompagnarli al pronto
soccorso o chiamarli per avere notizie.
“Forse ci stanno aspettando.” rispose Elvira
speranzosa.
“Per me se ne sono andati.” ribatté la figlia.
“Anche secondo me.” disse il figlio Angelo,
che non era un gran parlatore, ma aveva una
buona capacità di giudizio.
Quando aprirono la porta di casa, trovarono
buio e silenzio. Ma scoprirono di peggio.
Edoardo e Antonia avevano deciso che se lo
spirito soffre, il corpo non deve patire, per cui
si erano abbondantemente serviti di tutte le
portate della cena tragicamente mai iniziata, e
mangiato a quattro palmenti l’intero menu,
dall’antipasto al dolce. Avevano anche bevuto
una bottiglia di pregiato vino rosso e poi se ne
erano andati lasciando sul tavolo un laconico
biglietto di saluto, insieme ai piatti sporchi.
Elvira annichilì. Pazienza non andare in
ospedale,
pazienza
non
chiedere
notizie,
pazienza venire a cena senza neanche un
mazzo di fiori, pazienza non invitarla mai, ma
considerare la sua casa un ristorante e lei una
cameriera era un’offesa intollerabile.
“Mamma – disse Celeste con una smorfia di
scherno – come avranno fatto senza grissini?”
“So ben io dove se li dovrebbero mettere.”
aggiunse Angelo.
“Nel culo.” gli rispose la madre, apprezzando
una volta tanto la volgare allusione.
8
La
mattina
seguente
Ferrero
convocò
Nicolasi e Minici.
“Abbiamo notizie dei feriti?” domandò.
“Si, le condizioni del professore più anziano
sono migliorate, ma i sanitari dicono che
potremo interrogarlo tra non meno di due
giorni. Quello giovane è stato dimesso, perché
sua sorella è un medico e se ne è assunta la
responsabilità.”
“Bene. Allora tu Dario parla a Imbesi,
Candeli e Aliberti. Registra le deposizioni e
falle firmare. Tu Rocco fatti dare l’elenco di
tutti i dipendenti, professori e no, con tanto di
indirizzo e numero telefonico. Convocateli a
piccoli gruppi e vedete di scoprire cosa hanno
fatto ieri e soprattutto cosa hanno visto.
Intanto io chiamo la Scientifica e poi interrogo
gli stakanovisti dei numeri che son qui fuori e
poi faccio un salto a casa di Righetti. Ci
sentiamo per fare il punto della situazione
subito
dopo
pranzo,
ricordatevi
che
alle
quattro abbiamo appuntamento col Questore.”
Il
primo
professore,
ad
dal
entrare
viso
fu
Furio
aperto,
Scarpa,
sorridente
e
gioviale. Alto, biondo e dagli occhi chiari,
aveva uno sguardo intelligente e simpatico.
“Professore, mi può dire tutto ciò che
ricorda di ieri pomeriggio, soprattutto se ha
visto o sentito qualcosa di inconsueto?”
“Commissario, vorrei tanto poterle essere
utile, ma ieri sono stato dalla mattina alla sera
chiuso
nel
mio
studio
a
rifinire
la
presentazione di un lavoro per un convegno a
Chicago. Che vuole, a casa non riesco a
combinare nulla, ho un bambino piccolo e
vivacissimo…Come tutti ho pensato che i
primi scoppi fossero dovuti a qualche fuga di
gas, ma poi quando ci sono state quelle
terrificanti esplosioni, l’unica idea è stata
quella del dinamitardo. Però invece stamattina
la televisione ha detto che le macchine sono
state fatte saltare con un comando a distanza…”
“Son
proprio
contento
–
si
disse
il
commissario – che la televisione sia più
informata di me!”
Poi
entrò
Armando
Micheletti:
grigio,
stempiato e segaligno, tutto ispirava, tranne
simpatia, ma la cosa che colpiva di più era lo
sguardo, una via di mezzo tra il triste, il deluso
e il perennemente incazzato. “–
“Buongiorno
professore
–
esordì
il
commissario – per noi è importante conoscere
le impressioni e i ricordi dei testimoni. Mi
pare che lei si fermi sempre fino a tardi la sera.
Potrebbe dirmi se ieri ha notato qualcosa di
diverso?”
“Sì, io cerco sempre di sfruttare al massimo
le ore della giornata e solitamente lavoro
anche al sabato mattina, al pomeriggio vado a
far commissioni, perché mia moglie se ne è
andata tre mesi fa con i nostri due figli e ora
vivo con mia madre, una settantacinquenne
lagnosa
e
ipocondriaca,
decisamente
insopportabile. Comunque ieri non ho visto
nulla, né ho idea di chi possa essere stato, o
forse ne ho troppe, perché sa, anche tra noi c’è
chi non ha voglia di lavorare e guai a
dirglielo...”
“Quindi lei pensa che uno o più persone del
Dipartimento potrebbero aver architettato un
simile atto criminale?”
“Io? Io non penso proprio niente, e ancor
meno potrei farle dei nomi. So solo che
viviamo in un mondo dove comportamenti da
sempre ritenuti riprovevoli vengono accettati
come normali espressioni dei propri diritti,
che la moralità, il buon gusto e la disciplina
sono valori di cui al più ci è consentito
vergognarci ….”
“Lei pensa che ciò sia sufficiente a tentare di
uccidere due persone e danneggiare un intero
palazzo?”
“Le ho già detto che io non penso niente. Mi
limito a fare considerazioni.”
“C’è qualcuno che secondo lei avrebbe
potuto trarre vantaggi dalla morte di Silva e
Righetti?”
“No,
il
Righetti
è
una
nullità,
come
matematico di sicuro, come uomo non so, ma
almeno è uno che è sempre presente sul posto
di lavoro. Per me il colpevole si trova tra i
‘fankazzisti’ non tra gli sgobboni.”
“Mi dica ancora una cosa, professore, lei ieri
sera al momento delle esplosioni era nel suo
ufficio?”
“Certamente.”
“Anche il suo è al primo piano?”
“Sì, il mio è subito dopo quello di Aliberti.”
“Era solo?”
“Sì, ho finito di far lezione alle quattro del
pomeriggio e dopo sono entrato nel mio
studio e ci sono rimasto.”
“Quando ha sentito i boati cosa ha fatto e
cosa ha pensato?”
“Fatto, nulla. Me ne sono rimasto impietrito.
Pensavo… le confesso di aver pensato che
presto sarei morto.”
“Lei è tra quelli che hanno creduto di
trovarsi sul luogo di un attentato.”
“Verissimo. E poiché il palazzo è seicentesco,
ho deciso che sarebbe imploso su se stesso.”
“Ieri o nei giorni precedenti, ha visto o
sentito qualcosa di insolito?”
“Meno di niente, commissario. Io poi non ho
grandi relazioni, qui dentro…”
Dopo aver congedato il professor Micheletti,
Marco rimase seduto per più di un quarto
d’ora cercando di fare una prima schematica
ricostruzione mentale della successione degli
eventi della sera precedente.
“Allora – si disse – chi c’era in quel
disgraziato palazzo, lavorava chiuso in una
stanza. Tolta la guardia giurata che stava
salendo le scale e il Righetti che si è salvato
grazie a una dimenticanza. Le due macchine
esplodono in contemporanea, la Scientifica ci
dirà di sicuro che è stato usato un comando a
distanza e che quindi, qualcuno deve aver
aspettato che i due uscissero. Ma aspettato
dove?”
Il commissario chiamò l’ispettore Minici.
“Rocco, appena Dario finisce di interrogare i
professori, andate a parlare con i proprietari e
i commessi dei negozi delle vie confinanti. Da
qualche parte il ‘bombarolo’ deve essere ben
stato.”
“A meno che fosse dentro al palazzo o in una
delle case vicine.”
“Ragazzi, tutto è possibile, le indagini hanno
bisogno di lavoro, ma anche di un po’ di culo.
Intanto telefono al Righetti e, se è in grado di
parlare, vado a trovarlo.”
9
Il professor Righetti abitava in un piccolo
condominio di una elegante ed esclusiva zona
della città con vista sul fiume e sulla collina.
Il commissario non ebbe bisogno di suonare
il campanello. Il portoncino gli venne aperto e
una voce femminile lo invitò a salire al primo
piano. Una donna di circa sessant’anni con
grembiule azzurro e colletto bianco, lo fece
entrare in una grande sala ricca di mobili
antichi.
Marco rimase in piedi, colpito dallo stile
retrò
vecchio
piemontese
della
famiglia
Righetti.
Quando,
dopo
pochi
secondi,
vide
il
professore, rimase impietrito. Il volto del
poveretto era pieno di lividi, il braccio sinistro,
fasciato fino alla spalla, era sostenuto da un
tutore, la mano era gonfia e violacea.Ma la
cosa più inquietante era il pallore mortale del
viso e lo sguardo attonito, tipico di chi ha
subìto una qualche forma di violenza e non ha
ancora superato la paura e il dolore.
“Buongiorno,
commissario,
la
stavo
aspettando e l’ho vista arrivare.”
“Buongiorno a lei, professore, come si
sente?”
“Diciamo che ho visto tempi migliori. Stavo
per prendere un caffè, se le fa piacere Rosa ne
farà uno anche per lei.”
La cameriera entrò portando due tazzine su
un vassoio d’argento.
“A essere sincero – continuò il professore –
ho male un po’ dappertutto, ma grazie a Dio ci
sono i sedativi. La cosa peggiore è stata la
notte. Se mi addormento, ho degli incubi
terribili, non riesco a leggere e meno che mai a
lavorare, non ho neanche la concentrazione
per
guardare
la
tv
o
ascoltare
musica;
insomma, chiacchierare con lei non potrà
farmi che bene.”
“La sua testimonianza sarà senza dubbio
molto importante. Le sono davvero grato per
la sua disponibilità. Abbiamo già ricostruito, a
grandi
linee,
la
dinamica
dell’evento,
e
sappiamo con certezza che lei era un bersaglio
e che alla sua macchina era stato applicato un
esplosivo.
Sarebbe
importante
stabilire
quando e dove. Per favore, mi racconti in
dettaglio i suoi spostamenti di ieri.”
“Sono uscito di casa verso le nove di mattina
e sono andato, a piedi, al vicino Dipartimento
di Chimica. La mia macchina era chiusa nel
garage dalla sera precedente. Sono rimasto in
aula fin verso la mezza, poi son tornato a casa
e ho pranzato con mia mamma. Alle tre del
pomeriggio ho preso la macchina per andare
nel mio ufficio all’Università. Ho lavorato
ininterrottamente fino a quando sono uscito
con il professor Silva. Il resto lo conosce.”
“Quando è entrato nel cortile del suo
Dipartimento, quali altre macchine ha visto?”
“Ricordo tre automobili – rispose il Righetti
dopo un lungo silenzio – quella della guardia
giurata in fondo a sinistra, una Yaris di colore
chiaro a destra vicino all’entrata e, contro il
muro di fronte, la Volvo del professore di
fianco a cui ho parcheggiato la mia.”
“Lei quindi è sicuro che le vostre due auto
fossero vicine.”
“Sicurissimo. Ricordo anche che, scendendo,
mi sono caduti i compiti degli studenti che
avevo messo in una di quelle orribili cartelline
di plastica scivolose, aperte di fianco. Mi sono
dovuto
chinare
nello
spazio
tra
le
due
macchine per raccoglierli e poiché erano un
po’ troppo vicine, ho fatto anche fatica.”
“Quindi la sua Cinquecento era a destra della
Volvo.”
“Sì, come ogni giorno.”
“Le mettete sempre allo stesso posto, anche
quando il cortile è mezzo vuoto?”
“Sì, la storia di quel parcheggio è quasi una
telenovela. Alla fine della ristrutturazione del
palazzo,
si
è
trasformato
il
cortile
in
parcheggio per i dipendenti mettendo una
sbarra e dando a tutti una tessera e un posto
contrassegnato da un numero. Ma quando si è
chiesto un contributo annuo minimo, la
maggior parte dei miei colleghi ha rinunciato
e saremo rimasti sì e no una decina. Però
abbiamo
conservato
l’abitudine
di
parcheggiare sempre nei vecchi posti che ci
erano stati assegnati.”
“Quando è entrato nel cortile e poi nel
Palazzo, non ha notato niente di insolito?”
“Mi creda, commissario. È da ieri sera che ci
penso, non ho fatto altro tutta la notte. Devo
però dirle che, da quando sono entrato nel
mio ufficio, non ne sono uscito che al
momento di tornare a casa.”
“Sulle possibili cause, lei che idea si è fatto?”
“Questo è ancora più misterioso. Io ho un
carattere un po’ chiuso, non frequento nessun
collega al di fuori delle riunioni di lavoro, e
neppure ho mai avuto problemi, discussioni o
liti con i miei studenti. Non vedo una ragione
al mondo per cui qualcuno vorrebbe vedermi
morto. Siete sicuri che anche la mia macchina
sia stata fatta esplodere intenzionalmente?”
“Purtroppo siamo sicurissimi.”
“Il professor Silva certamente avrà dato noia
a qualcuno. In fin dei conti riveste un ruolo
importante
nell’ambito
matematico
e
le
gelosie sono all’ordine del giorno… ”
In quel momento squillò il cellulare del
commissario.
“Era la Scientifica – continuò dopo aver
parlato per qualche minuto – mi hanno
confermato l’uso di un esplosivo artigianale
innescato da una chiamata telefonica. Volevo
ancora domandarle una cosa, poi le prometto
di andarmene. Lei e il professore Silva siete
sempre stati molto abitudinari nei vostri
spostamenti di lavoro?”
“Sì,
io
sono
entrato
a
far
parte
del
Dipartimento come dottorando, appena dopo
la laurea e, ovviamente, mi sono uniformato
agli orari del professore, che poi sono diventati
una consuetudine.”
“La maggior parte dei giovani…o meglio dei
meno
vecchi
–
continuò
sorridendo
–
pranzano in uno dei tanti bar della zona. Io
invece torno sempre a casa, e lo stesso fa il
professore che è un uomo del novecento, un
po’ all’antica…”
“E quali sono i vostri orari standard?”
“Come quelli degli impiegati statali! Dalle
nove
fin
quasi
all’una
e
dalle
tre
del
pomeriggio fin verso le sette di sera.”
“Non capita mai che lei rimanga a lavorare a
casa, come fanno molti dei suoi colleghi?”
“Praticamente
mai.
Vede
–
aggiunse,
abbassando la voce e voltandosi a controllare
che la porta fosse chiusa – mia mamma è
molto
invadente.
Entra
nella
mia
stanza
quando vuole, per qualsiasi motivo, spesso
solo per parlare un po’. Io la capisco, a far
niente si annoia...”
“Lei ha anche una sorella.”
“Sì, Stefania, medico ospedaliero. A parte il
fatto che è più impegnata di me, ha anche un
fidanzato con cui esce tutte le sere.”
“Professore, la ringrazio – disse alzandosi –
Adesso vada a mettersi a letto, perché mi
sembra che ne abbia bisogno. Ovviamente
non esiti a chiamarmi in caso le venisse in
mente
qualsiasi
insignificante.”
particolare,
anche
Arrivato in ufficio Marco telefonò alla
mamma per avere notizie dei suoi bambini
che, come quasi tutti i sabati, erano stati
portati dal nonno nella casa in collina. Con
Ugo, naturalmente.
“Com’è la situazione?” domandò alla madre.
“Per ora tutto tranquillo. Siamo ancora nella
fase del ‘vogliamoci tanto bene’, ma mi aspetto
che tra un po’ scoppino i primi litigi!”
Oltre ai suoi figli, Eugenio, Giovanna e
Paolo, di sette, sei e quattro anni, c’erano le tre
bambine di sua sorella Adelina. Sei piccoli
scalmanati
che
non
vedevano
l’ora
che
arrivasse il fine settimana per sfogare la loro
energia stringendo mutevoli patti di alleanza e
di ostilità, con inevitabili bisticci, pianti e
rappacificazioni.
Due anni prima Elena, la moglie di Marco,
era stata investita dalla macchina di un
pregiudicato in fuga ed era morta sul colpo,
salvando la vita a Paolo che teneva in braccio.
Il bambino aveva subito un grave trauma e per
molti mesi non aveva più parlato. Marco, oltre
al dolore, era stato a lungo tormentato da
rimorsi e sensi di colpa, e senza l’aiuto dei
genitori, delle sorelle e di Ingrid, la colf
bambinaia, non sarebbe stato in grado di
superare la depressione in cui era caduto.
10
Il Questore, dottor Nicola Sacerdote, non
nascondeva la sua preoccupazione per la
mancanza di indizi che potessero almeno
orientare il proseguimento delle indagini.
“Abbiamo trovato un testimone – disse
Nicolasi – un certo Santo Fioroni, il titolare del
bar
davanti
all’entrata
dell’Università.
Al
momento dell’esplosione era fuori dal locale e
stava fumando una sigaretta; ricorda che i due
professori sono usciti insieme e che poi il più
giovane è tornato indietro da solo. Giura di
non aver visto nessuno che stesse tenendo
d’occhio il portone del palazzo.”
“Il che – aggiunse Ferrero – escluderebbe la
presenza
del
dinamitardo
all’esterno
dell’Università.”
“Come intendete procedere?” domandò il
Questore.
“Abbiamo finito gli interrogatori di chi
solitamente rimane a lavorare fino a sera. Ora
dobbiamo contattare gli altri, poi passeremo
agli studenti.”
“Il colpevole – aggiunse Ferrero – è quasi
sicuramente uno che ha a che fare con
l’Università,
poiché
le
due
vittime
non
avevano alcuna relazione comune esterna al
luogo
di
lavoro.
Lunedì
verificheremo
eventuali assicurazioni sulla vita.”
“Abbiamo telefonato – disse Minici – a
Giuseppe Corsi, il professore che ha lo studio
accanto a quello di Righetti e che ogni fine
settimana
torna
a
Pavia.
Ha
sempre
collaborato con i due colleghi feriti e magari
saprà dirci qualcosa di più.”
“A proposito – aggiunse rivolgendosi al
commissario – domani alle nove verrà a
parlarle. È un ragazzo molto cortese e si è
spontaneamente
dichiarato
disponibile
a
tornare stasera stessa.”
Dallo sguardo di Ferrero, Minici capì di aver
detto qualcosa di sbagliato.
“Stammi bene a sentire Rocco – esordì il
commissario
appena
furono
usciti
dalla
Questura – adesso tu prendi il telefono e
chiami il professore tanto cortese. Lo chiami
finché non ti risponde e gli dici che, domani,
venga nel mio ufficio alle undici, hai capito?
Alle undici. Sarà o no domenica anche per
noi?”
Il povero Minici capì. Meglio tardi che mai.
“E già che ci sei – continuò – chiama
l’ospedale, chiedi come sta Silva e quando
potrà essere interrogato.”
Marco decise di non tornare in ufficio. Per
oltre vent’anni era vissuto in campagna e
sentiva nel sangue il risveglio della primavera.
Era irritato, una bella camminata a passo
veloce gli avrebbe disteso i nervi.
Elisa era una donna giovane e sensuale,
innamorata di Marco fin dal primo incontro,
avvenuto
l’anno
precedente
nella
scuola
elementare in cui la giovane era maestra di
Eugenio, figlio primogenito del commissario.
Avevano programmato da tempo la serata:
bambini dai nonni, Ingrid dalla sorella, nessun
impegno
di
lavoro.
all’Università
aveva
Purtroppo
guastato
l’attentato
non
poco
l’atmosfera. Ma un paio di bicchieri di vino,
una cena stimolante e l’ambiente intimo
avevano cancellato dalla mente il ricordo delle
esplosioni e l’angoscia dell’indagine.
I due rimasero vicini a chiacchierare fin
dopo mezzanotte, quando decisero che fosse
ora di andare a letto. Per la prima volta
avrebbero dormito a casa di lei.
Elisa
aveva
una
bella
gatta
tricolore,
Artemisia, affettuosa, invadente e viziata, che
ogni notte si stendeva di fianco alla sua
padrona e dormiva ronfando leggermente.
Quando quella sera Artemisia vide il bipede
umano sdraiarsi nel suo letto vicino alla sua
padrona, si ammutolì. Entrò silenziosamente
in
camera
sistemazione
e
si
in
accinse
fondo
a
al
cercarsi
una
materasso.
Pur
nell’impeto della passione Marco la sentì e
senza farsene scrupolo le assestò una poderosa
pedata ributtandola sul pavimento. Elisa, per
fortuna, aveva altro a cui pensare e non se ne
accorse. Forse Artemisia pensò che Marco
stesse malmenando la sua padrona, forse, più
semplicemente decise di difendere il suo
territorio dall’intruso ingombrante, forse reagì
alla violenza subita. Fatto sta che entrò in
azione con tutti i mezzi fornitole da madre
natura.
L’urlo
che
uscì
dalla
gola
di
Marco,
difficilmente sarebbe stato scambiato per la
conclusione
liberatoria
di
un
orgasmo
paradisiaco. Per cercare di togliersi di dosso
l’animale inferocito che con venti unghie e
quattro canini gli stava attaccato alla carne
nuda della schiena e della spalla destra, si
arcuò
all’indietro
velocemente,
troppo
velocemente, procurandosi in tal modo una
distorsione dolorosa in una parte molto più
intima, provvista di organi che, generalmente,
sono
morbidi
particolari
e
malleabili,
circostanze
e
per
ma
che,
in
esigenze
di
funzionalità, la natura provvede a modificare
radicalmente, facendoli diventare più rigidi e
più possenti, ma assai meno flessibili.
La serata finì malissimo: per Artemisia, che
venne relegata in bagno, per Elisa che non
finiva più di scusarsi, di disinfettare e fare
impacchi di ghiaccio e per Marco, che non
sapeva dire cosa gli facesse più male, amor
proprio compreso.
11
La mattina successiva alle undici Marco
entrò nel suo ufficio. Non aveva chiuso occhio
ed era ancora dolorante, ma l’adrenalina che
aveva in circolo gli dava una notevole carica di
energia.
“Buongiorno,
commissario
–
lo
salutò
Minici – spero si sia potuto riposare. Il
professore è già arrivato e la sta aspettando.”
Il povero ispettore aveva voluto essere
gentile e rimediare all’errore di valutazione
del giorno prima. Ma dall’occhiata di fuoco
che gli lanciò Ferrero, capì che qualcosa
doveva essere andato storto. D’ora in avanti
sarebbe stato zitto e non avrebbe più preso
iniziative.
Giuseppe Corsi era quel che si può definire
‘un bravo ragazzo di buona famiglia’. Di
corporatura slanciata aveva fattezze regolari e
un bel viso sorridente e cordiale.
Marco rimase colpito dalla stretta di mano
forte e salda del giovane e dal modo franco e
deciso con cui si presentò, senza impacci o
timidezze.
“Commissario,
può
dirmi
come
sta
il
professor Silva?”
“Ho appena avuto notizie dall’ospedale. Beh,
come saprà hanno dovuto amputargli le
gambe, ma ha ripreso conoscenza e pare non
ci siano pericoli per la vita. Lei da quanto
tempo lo conosce?”
“Io sono entrato al Dipartimento il primo
novembre dell’anno scorso, ma conoscevo il
professore già da un paio d’anni. Mi creda, è
una bravissima persona, generosa ed affabile.
A volte sembra aggressivo e può capitare che
con gli studenti ‘sbotti’, ma poi li promuove
tutti con voti che non si meriterebbero.”
“Penso che lei conosca bene il professor
Righetti…”
“Povero Bruno, gli ho anche telefonato ieri
sera perché avevo sentito dal telegiornale che
era già a casa. Mi ha raccontato a grandi linee
la storia, ma si stancava a parlare… Certo che è
stato coraggioso, non so chi altri avrebbe fatto
un gesto come il suo.”
“Secondo
lei,
può
avere
dei
nemici
nell’ambiente dell’Università?”
“Anche se lo conosco da pochi mesi, mi
sento di escluderlo nel modo più tassativo.
Bruno è un ottimo professore, preciso e
sempre disponibile, un gran lavoratore e un
figlio devoto. L’unico difetto sta, mi scusi se mi
permetto, nella sua natura: chiuso a riccio e un
poco avaro, anche di sentimenti. Ma educato e
cortese – aggiunse sorridendo – i colleghi mi
hanno detto che vive in casa con la mamma e
la sorella, come potrà immaginare qui tutti lo
prendono un po’ in giro…”
“E con le ragazze?”
“Beh, non ho informazioni precise, nessuno
l’ha mai visto con una donna, ma posso
garantire
che
con
le
studentesse
è
correttissimo”
“Se ben ricordo il suo studio è confinante
con quello di Righetti.”
“Sì, l’ufficio di Bruno è tra quello del
professore ed il mio. Le stanze sono anche
comunicanti per mezzo di porte a vetri che
per privacy lasciamo sempre chiuse.”
“Ha mai sentito il Professore o il Righetti
usare parole di minaccia o di paura o di rabbia
verso qualcuno, o raccontare qualche fatto
spiacevole capitatogli o parlare di qualche
offesa ricevuta?”
“Commissario – rispose il giovane – il
professor
Silva
ha
un
temperamento
sanguigno, e ogni tanto, come le ho già detto,
si
lascia
prendere
dall’ira.
Ma
sono
esternazioni più coreografiche che altro, gli
studenti lo conoscono e non fanno una piega.
Con i colleghi, con la moglie e con i figli è
sempre gentilissimo. Bruno poi è un pavido.
Quest’anno io e lui teniamo lo stesso corso,
alle due squadre dei Chimici del primo anno.
Ovviamente facciamo esami insieme, non l’ho
mai sentito alzare la voce e tantomeno litigare
con qualcuno. Mi pare impossibile che ci sia
un criminale che abbia pensato di farlo
bruciare nella sua amatissima Cinquecento.”
“Mi hanno detto che anche lei si ferma sino
a tardi la sera.”
“Sì, è vero. Solitamente rimango nel mio
ufficio fin verso le otto.”
“Quindi lei tutti i giorni vede uscire i suoi
vicini di stanza.”
“Sì, il professore e Bruno tornano a casa tra
le sette e le sette e mezza di sera.”
“Insieme?”
“Sempre – rispose sorridendo – la cosa,
come
presumo
le
abbiano
già
detto,
è
argomento inesauribile di battute più o meno
piccanti. Nessuno, nemmeno il professore, che
è il primo a riderci su, sa come diavolo faccia il
Righetti a essere sempre pronto ad uscire al
momento giusto. Pensiamo che rimanga in
ascolto vicino alla porta di comunicazione…”
“Quindi
è
risaputo
che
escono
dal
parcheggio contemporaneamente.”
“Credo che lo sappiano anche i muri…”
“Posso domandarle come mai lei è uno degli
ultimi ad uscire dal palazzo?”
“Beh, la mia situazione è particolare. Io sono
arrivato circa sei mesi fa e dovrò rimanere qui
per almeno cinque anni. La mia settimana
lavorativa è di soli quattro giorni, poiché ogni
venerdì dopo pranzo vado a prendere il treno
e me ne torno a Pavia. Il lunedì mattina
riparto e torno indietro e più o meno all’una
di
pomeriggio
aumentare
la
sono
già
speranza
in
di
ufficio.
poter
Per
essere
richiamato nella mia città devo fare il maggior
numero di pubblicazioni su riviste di prestigio.
Poiché la didattica mi porta via una quantità
enorme di tempo, non mi resta che far
fruttare quello che mi rimane.”
“Chi l’ha avvertita del disastro?”
“Mia sorella. Mi ha chiamato sul cellulare
mentre ero a una festa di amici. Quando sono
tornato a casa, ho acceso la televisione e ho
visto lo sfracello. Mi piacerebbe andare a dare
un’occhiata,
lei
pensa
che
mi
facciano
entrare?”
“È
escluso,
ma
se
vuole
la
posso
accompagnare, così potremo parlare ancora
un po’. Chissà che non le venga in mente
qualcosa…”
Quando il professor Corsi vide le vetrate
esplose, le macchie di sangue e i due crateri
anneriti scavati in cortile dalle auto esplose,
impallidì visibilmente.
L’aula
di
devastata:
informatica
i
computer
era
a
letteralmente
terra,
le
sedie
accatastate, la grande lavagna fatta a pezzi. La
mente di Giuseppe si perse nell’enormità del
danno, e nel breve attimo di obnubilamento
della coscienza un’idea si fece strada dalle zone
più
profonde
professore
della
parve
ragione.
svegliarsi
Il
giovane
con
la
consapevolezza di aver avuto un sospetto,
vergognoso e non coerente con i fatti avvenuti.
Si sentì in colpa e lo nascose anche a se stesso.
Parlandone, avrebbe potuto salvare delle vite.
Soprattutto la sua.
Marco entrò per la prima volta negli studi di
Corsi e delle due vittime.
La stanza di Silva denotava un grande
fervore lavorativo: dappertutto c’erano fogli,
cartelline
e
armadio
era
libri,
montagne
pieno
di
di
scatole
libri,
un
numerate,
contenenti le pubblicazioni del professore in
ordine cronologico.
L’ufficio di Righetti sembrava finto. Sulla
scrivania c’erano una lampada, un portapenne
semivuoto e un calendario. I ripiani di una
libreria contenevano parecchi volumi divisi
secondo
l’argomento,
una
decina
di
raccoglitori con etichette esplicative erano
custoditi
in
un
armadio,
insieme
alla
cancelleria di riserva. L’unica cassettiera era
chiusa a chiave.
“Bruno – spiegò Corsi sorridendo – teme
che qualcuno gli rubi le idee. Non ho mai visto
quello che scrive, tantomeno calcoli o appunti
delle lezioni. Io invece non nascondo neppure
i registri degli esami, e la mia stanza è un vero
caos.”
“È stata una fortuna per lei essere assente
venerdì
pomeriggio
–
commentò
il
commissario – se fosse uscito nel corridoio
dopo le prime esplosioni avrebbe potuto
essere ferito in modo gravissimo dalle schegge
di vetro.”
“Secondo lei è lecito pensare che il colpevole
di tutto questo disastro ha scelto il giorno
giusto perché io non venissi ferito?”
“È
più
l’assassino
che
lecito.
volesse
Penso
uccidere
anch’io
solo
che
Silva
e
Righetti.”
Il professor Corsi non poté mai sapere come
tale supposizione fosse sbagliata. La scelta del
giorno non aveva lo scopo di salvargli la vita,
ma quello di prolungare l’attesa gratificante di
una vendetta programmata.
Nel pomeriggio Marco passò da Elisa. Con
lei sarebbe andato in collina a prendere i
bambini e a riportarli a casa.
“Come va la belva? –le domandò baciandola
– non lo dico per scherzo, ma quella gatta è
molto pericolosa.”
“Laura, la tua amica veterinaria – continuò
Elisa a voce bassa –mi ha detto che Artemisia
era convinta che tu mi stessi aggredendo. In
fin dei conti non ha visto altri uomini entrare
nel mio letto.”
Marco provò persino un moto di simpatia
per la bestiaccia a cui poco prima avrebbe
fatto una bella e definitiva iniezione letale. La
frase
di
Elisa
aveva
rafforzato
la
sua
convinzione di essere il solo e unico gallo del
pollaio e anche se la spalla gli bruciava e gli
organi bassi lo obbligavano a usare qualche
cautela, decise di continuare ciò che la gatta
aveva interrotto.
12
La mattina dopo alle sette il commissario
convocònel suo ufficio gli ispettori Minici e
Nicolasi.
Dopo un breve riassunto di quanto emerso
dall’incontro con il professore di Pavia, fecero
il piano della giornata.
Dario avrebbe controllato le assicurazioni
delle auto distrutte ed eventuali polizze vita
delle due vittime. Rocco avrebbe cominciato a
occuparsi
degli
studenti
che
erano
stati
bocciati almeno una volta.
“Non è da escludere – aggiunse Ferrero –
che lo scopo dell’attentato fosse l’uccisione di
uno solo dei due professori e l’altro una
semplice
copertura…anche
se
mi
sembra
impossibile che si ammazzi per un esame
fallito.
Beh,
io
intanto
vado
all’ospedale,
sperando che Silva sia in grado di connettere e
ci dia almeno un’idea da cui poter partire. Alle
tre abbiamo un nuovo appuntamento col
Questore, puntuali, mi raccomando.”
Il professor Silva era stato trasferito in una
camera singola del reparto di ortopedia.
Quando
Marco
lo
vide,
rimase
impressionato dal pallore del volto pieno di
lividi, dalle mani bendate e dall’evidente
mancanza di una parte delle gambe. Pur
riuscendo subito a riprendere il controllo,
guardò il letto, dove le lenzuola aderivano al
materasso là dove normalmente i piedi le
tengono sollevate. Accanto a lui, terrea e
lacrimante, c’era la signora Elvira, che si alzò
in piedi e belando una specie di saluto uscì
dalla stanza.
“Buongiorno professore – disse cercando di
sorridere in modo educato – mi hanno detto
che oggi sta un pochino meglio.”
“Buongiorno
commissario,
la
stavo
aspettando.”
Lo sguardo del poveretto era vivace e il tono
di voce debole, ma deciso.
“Come potrà immaginare sono venuto per
farle
qualche
domanda.
Spero
di
non
stancarla…”
“Guardi, mi dispiace dire una cattiveria
quando sono appena stato miracolato, ma mia
moglie
mi
stressa
come
lei
neppure
immagina…”
“Immagino
benissimo!”
pensò
Marco,
sforzandosi di rimanere impassibile.
“… ma vederla piangere e disperarsi tutto il
giorno, come se avessero tagliato le gambe a
lei e non a me, mi irrita in un modo tale…”
Il
povero
professore
chiuse
gli
occhi,
continuò
dopo
respirando a fatica.
“Allora,
commissario
–
essersi ripreso – presumo che lei mi voglia
chiedere se ho visto qualcosa di sospetto. Mi
dispiace deluderla. Da quando ho ripreso
conoscenza non ho fatto altro che pensare,
darei non so cosa per poter mettere le mani su
quel delinquente, balordo assassino, cosa ho
mai fatto e a chi per meritarmi una cosa del
genere!”
Marco lasciò che si sfogasse, in fin dei conti
ne aveva tutte le ragioni.
“Professore – gli disse con la maggior calma
possibile – vedrà che lo piglieremo. Ora mi
racconti ciò che ha fatto venerdì sera dopo
essere uscito dalla sua stanza.”
“Erano le sette e un quarto, lo so perché ero
in ritardo e dovevo andare a ritirare dei i
grissini…”
Pausa.
“Uscendo ho visto come sempre il Righetti,
che il Signore lo rimeriti, mi ha salvato la vita
e io mi sento in colpa per averlo preso in giro
più di una volta. Insieme siamo arrivati fino
all’angolo, poi lui è tornato indietro, aveva
dimenticato qualcosa…”
“Si ricorda di aver incontrato qualcuno?”
“No, nessuno, anzi aspetti un momento,
abbiamo salutato la guardia giurata.”
“E fuori per strada?”
“Non lo so, avevo molta fretta ed ero
preoccupatissimo. Poi son salito in macchina
ed ero quasi arrivato all’androne quando il
cofano
della
vettura
è
esploso.
Non
ho
neppure sentito dolore, solo una grande paura.
Ho cercato di scendere dall’auto, ma sono
caduto a faccia in avanti urlando, c’era un forte
odore di fumo e ho sentito un terribile boato,
dalla mia macchina cominciavano a uscire
delle fiamme e ho pensato che stavo per
saltare in aria. Mi ha salvato il Righetti. Mi ha
trascinato come ha potuto e si è sdraiato su di
me. Ricordo ancora un rumore spaventoso e
una soffocante puzza di bruciato. Poi ho perso
conoscenza e mi sono svegliato in ospedale.”
“Quando è entrato nel cortile, ha visto
qualcuno o qualcosa di insolito?”
“Nulla, meno di niente.”
“Negli
ultimi
mesi,
ha
avuto
qualche
discussione con colleghi o col personale o con
degli studenti?”
“Guardi, le discussioni son all’ordine del
giorno. Ma son cose burocratiche, non ci sono
veri interessi personali. Con gli studenti ho
sempre avuto un ottimo rapporto. Bruno poi,
cosa c’entra? Se c’è uno tranquillo e invisibile è
proprio lui. Chi mai ha potuto volerlo morto?”
“Professore,
che
idea
si
è
fatto
della
vicenda?”
“Un’idea ce l’ho, ma sarebbe meglio che non
gliela dicessi. Penso che ci sia un pazzo, una
sorta di killer seriale che ha preso di mira
l’Università. Vorrei sbagliarmi, ma ci saranno
altri feriti o, peggio, altri cadaveri.”
13
Intanto il Nicolasi aveva parlato con la
compagnia di assicurazioni della Volvo di
Silva. Il professore non aveva voluto cautelarsi
contro atti vandalici e si sarebbe dovuto
comperare una nuova macchina a sue spese.
Sempre che fosse ancora in grado di guidarla.
Bruno era stato più prudente, o meglio più
fortunato.
La
signora
Milanesi
era
la
titolare
dell’agenzia che assicurava la casa e le auto
della famiglia Righetti da oltre quarant’anni.
Avvenente
e
giovanile,
era
una
gran
chiacchierona e non fu difficile farla parlare.
“Guardi, commissario…” esordì.
“Ispettore…”
“Ispettore, commissario, per me son tutti
uguali. Guardi, signor poliziotto, il dottore
Righetti figlio - il padre è mancato qualche
anno fa, ma era un mio fedelissimo cliente e
tanto una brava persona - il figlio, dicevo, è
venuto da me alla fine di marzo tutto contento
perché si era comperato una Cinquecento
nuova. Voleva spendere il meno possibile,
dicendo che la sua auto era sempre ben
custodita. ‘Cosa ci vuole, gli ho detto io, a
incontrare una delle tante manifestazione e
prendersi un sanpietrino sul parabrezza?’ Se
non fosse stato per me, sarebbe nei guai,
invece adesso la mia compagnia gli pagherà
quasi per intero il costo della macchina.”
“Le risulta – chiese Nicolasi – che il dottore
abbia un’assicurazione sulla vita?”
“Lo escludo! In quella famiglia son tutti
superstiziosi
e
non
ne
vogliono
sapere.
Comunque non ne hanno bisogno. Prima o
poi la signora toglierà il disturbo, e i due figli
avranno di che vivere senza bisogno di
lavorare. Perché sa, l’avvocato ha intestato
sempre tutto a lei, e quando è morto i ragazzi
hanno ereditato solo le briciole.”
Dario fece altre ricerche, ma in effetti
nessuna
delle
due
assicurazione sulla vita.
vittime
aveva
una
14
Quando
Marco
tornò
in
Questura,
l’appuntato Coppola gli disse di telefonare con
urgenza ad un certo professor Paolo Andreoli,
il direttore del Dipartimento di Matematica.
Un quarto d’ora dopo Andreoli entrava
nell’ufficio di Ferrero.
Era un uomo massiccio, con una testa grossa
e sproporzionata.
“Ha problemi di cuore – pensò Marco
sentendolo respirare a fatica – dovrebbe
mettersi a dieta, anche perché avrà almeno
settant’anni.”
Il
professore,
dopo
essersi
messo
in
poltrona, cominciò un’affannosa esplorazione
in tutte le tasche.
“Mi scusi, sto cercando…ah ecco!” disse,
estraendo
una
scatolina
di
pasticche
alla
menta, che si mise in bocca una dopo l’altra
per tutta la durata del colloquio senza neppure
fare il gesto di offrirne.
“Dottore – continuò, succhiando la prima –
sono sconvolto. Venerdì ero a Palermo, per
mia fortuna, perché con il cuore che mi
ritrovo sarei potuto morire. Stamattina ho
tentato di entrare nel m i o Dipartimento, ma,
nonostante avessi spiegato chi sono, non mi
hanno fatto passare.”
“Purtroppo, professore, dobbiamo aspettare
che la Scientifica finisca di fare i rilievi. So che
lei è il direttore e quindi conosce bene le due
vittime di questo crimine…”
“Luigi è un mio carissimo amico – dichiarò
con la seconda pastiglia – non so dirle come
mi addolori quel che gli è successo. Mario mi
ha detto che ora è fuori pericolo, anche se
hanno dovuto amputargli le gambe, immagino
lo stato di disperazione di Elvira…”
“Presumo
che
Mario
sia
il
professor
Aliberti.”
“Sì, mi scusi, anche lui è un grande amico, –
aggiunse, con la terza caramella – l’unico che
mi ha telefonato per raccontarmi tutta la
tragedia. Stamattina ho chiamato il Preside e il
Rettore.
Dovremmo
incontrarci
oggi
pomeriggio per fare un primo punto della
situazione. Può darmi qualche notizia sulle
indagini? ”
Marco notò che per il povero Righetti il
Direttore non aveva speso neppure una parola.
“Tutto quel che posso dirle e che peraltro sta
scritto sui giornali, è che l’attentatore si è
mosso
come
un
fantasma.
Al
momento
nessuno ha visto nulla di sospetto o anche solo
di diverso dal solito. Penso che dovremmo
ricercare più il movente che il colpevole. O i
colpevoli, maschi o femmine che siano. Siamo
propensi a credere che la mano criminale
provenga dall’interno, tra chi per qualunque
ragione
ha
familiarità
con
l’ambiente
universitario. Potrei chiederle la sua idea in
proposito?”
“La mia idea è che sia stato uno squilibrato.
– esclamò con in bocca l’ennesima pastiglia –
Non riesco a trovare una ragione per cui una
persona sana di mente possa voler uccidere
Luigi.”
E ridagliela!
“E il professor Righetti?”
“Già, poverino, è stato un vero eroe. Io lo
conosco pochissimo, non credo di averlo mai
sentito parlare. È un giovane tranquillo, pare
sia un buon docente… Qui da noi commissario,
l’ambiente è tutto sommato tranquillo. E sa
perché? – continuò, sempre succhiando –
Perché non abbiamo motivo di scannarci. Noi
lavoriamo per la gloria e per un minimo di
potere. Il denaro e il sesso sono, lei mi insegna,
le due ragioni principali per cui la gente è
disposta anche ad uccidere. Qui di soldi
manco l’ombra, e di sesso…Luigi ha i suoi anni
e penso abbia tirato i remi in barca, il Righetti
non so, ma da quel che si dice…insomma non
mi faccia parlare…”
Marco tornò nel suo ufficio, prese alcuni
appunti e convocò Nicolasi e Minici. Meglio
raccogliere le idee prima dell’incontro con il
Questore.
Dario relazionò quanto aveva saputo dalle
società di assicurazioni. Nulla di utile ai fini
delle indagini.
Rocco
aveva
trovato
l’elenco
degli
universitari bocciati e li stava contattando.
“Finora ho parlato con la madre o il padre di
undici studenti. Me ne mancano quattro, nel
pomeriggio spero di finire. Tra l’altro sono
tutti
allievi
di
Righetti.
Negli
appelli
dell’ultimo anno il professor Silva non ha
bocciato nessuno.”
“E i genitori, come ti sono sembrati?”
“Beh, nessuno dava un’importanza eccessiva
all’insuccesso del figlio o della figlia. In fin dei
conti sono matricole, un esame fallito è
ritenuto fisiologico. In compenso ho scoperto
uno studente di Silva che è andato dodici volte
alla prova scritta senza mai consegnarla. Il
ragazzo in questione, che ragazzo non è più
poiché ha 39 anni, si chiama Antimo Ferrasi,
vive ad Asti con i genitori ed è un personaggio
particolare. Sono riuscito a parlare con un paio
di suoi compagni, mi hanno detto che è un
tipo eccentrico, da prendere con le molle, non
parla né saluta nessuno e scrive in modo
incomprensibile. Pare che abbia anche un
temperamento aggressivo e che una volta
abbia infastidito una compagna; insomma se a
quell’età non si è ancora laureato, non lavora e
non si gode la vita, potrebbe avere problemi
mentali.”
“Nicolasi, i genitori dei quattro ragazzi
bocciati possono aspettare. Dopo la riunione
vai con Minici da questo Ferrasi. Poi riferitemi
le vostre impressioni. In caso di dubbio, lo
convochiamo in Questura.”
“Dottor Ferrero – esordì il Questore con una
certa veemenza – stamattina mi ha chiamato il
Prefetto che a sua volta era stato contattato dal
Rettore dell’Università, siamo su tutti i giornali
che intervistano chiunque e danno versioni
fantascientifiche del tentativo di omicidio.
Duplice, per giunta.”
“Finora ci siamo limitati a consolidare certe
posizioni – rispose il commissario con una
certa fermezza – e mi creda, non è cosa da
poco.
In
meno
di
tre
giorni,
abbiamo
interrogato una cinquantina di persone; tenga
presente che il palazzo è un luogo aperto,
addirittura pubblico, non vi è nessuna forma
di controllo se si esclude una guardia giurata
che si limita a fare il giro dei corridoi e a
verificare che negli uffici non vi siano degli
intrusi. Dalla mattina alla sera il via vai è
continuo, gli studenti sono centinaia, poi ci
sono i professori, il personale tecnico e
amministrativo e, come se non bastasse, ci son
pure i corsi dell’Università popolare. Finora
non abbiamo trovato un movente, tutti gli
interrogati indistintamente dichiarano di non
esser mai venuti a conoscenza di screzi o di
litigi di portata più grave di una normale
discussione di lavoro. Eppure tutto porta a
credere che il colpevole sia all’interno del
Dipartimento.Ho parlato stamattina con il
professor Silva e ieri con l’eroe della vicenda, il
povero
Righetti.
potrebbero
essere
Purtroppo
un
le
gesto
esplosioni
puramente
dimostrativo di uno schizofrenico esaltato che
prima o poi si farà vivo con qualche richiesta o
volantino o proclama…”
“…del cazzo!” pensò, ma non lo disse.
“C’è il grosso rischio di essere solo all’inizio
di un’escalation.”
“Ci auguriamo di no, ma è sicuramente
possibile.”
“Ora stiamo contattando gli studenti – disse
Nicolasi – oggi stesso andremo ad Asti, da un
trentanovenne fuoricorso dal carattere un po’
prepotente, l’unico finora su cui possiamo
avere qualche sospetto.”
15
Nicolasi e Minici arrivarono verso le cinque
del pomeriggio davanti alla casa di Antimo
Ferrasi. Era una modesta villetta alla periferia
della cittadina, con un piccolo giardino molto
ordinato, ma completamente spoglio. Tutto
era grigio e silenzioso.
Ad
aprire
il
cancello
venne
un
uomo
anziano, piccolo di statura, calvo e con un
aspetto
rassegnato.
presentarono
I
due
mostrando
i
poliziotti
si
tesserini
di
riconoscimento.
“Siete qui per mio figlio?”
“Sì, vorremmo solo parlargli un momento.”
Ferrasi li guardò in silenzio e li fece
accomodare nel salotto, una stanza triste e
poco illuminata.
“Vado a chiamarlo.” disse, e uscendo chiuse
la porta.
I due ispettori si sedettero a quello che
doveva essere il tavolo da pranzo, su cui
poggiarono i loro taccuini.
Dopo almeno un quarto d’ora, entrò lo
studente. Mingherlino, curvo di spalle, con
radi capelli biondicci, pallido e con lo sguardo
arcigno, tutto ispirava fuorché cordialità e
simpatia.
Si sedette di fronte ai poliziotti, senza
rispondere al loro saluto.
“Come saprà – esordì Nicolasi con la
massima calma – venerdì scorso il professor
Silva, che lei conosce bene, ha subìto …”
Antimo balzò in piedi e gli sferrò un potente
diretto all’occhio sinistro, poi cominciò a
urlare frasi incomprensibili su certi stronzi,
non meglio identificati, che lui si proponeva di
distruggere,
dando,
a
evidente
scopo
dimostrativo, micidiali pugni al piano del
tavolo. Nicolasi non fece in tempo a scansare il
colpo. Per un momento vide tutto nero, e si
sentì svenire.
Ma Minici era più svelto di un gatto, si gettò
di
peso
sul
Ferrasi
scaraventandolo
sul
pavimento, gli torse le braccia dietro la schiena
e riuscì ad ammanettarlo.
Di colpo, così come era cominciato, tutto
finì. Antimo si lasciò mettere in piedi, si
sedette
tranquillo
e
quando,
dopo
pochi
minuti arrivò una pattuglia, salì sulla volante
senza opporre resistenza.
I due ispettori restarono nella casa per
interrogare i genitori. Nicolasi aveva più male
di quanto volesse far credere, ma aveva la
speranza di aver catturato il colpevole e per
nulla
al
mondo
avrebbe
rinunciato
a
verificarlo.
Il padre e la madre di Antimo erano due
poveri vecchi che avrebbero fatto pena alle
pietre.
“Nostro figlio è nato quando mia moglie
aveva quarantadue anni – disse l’uomo – e
quel bambino ci sembrò un vero miracolo. La
nostra felicità non durò molto. Fin dalle
elementari Antimo si dimostrò aggressivo e
non imparò mai a scrivere bene. Ma in
matematica era bravo, e aveva un’ottima
memoria. Nessun medico riuscì a dirci quale
malattia
avesse,
parlarono
di
dislessia
schizofrenica… con il passare degli anni la
situazione non fece che peggiorare, più il
ragazzo si accorgeva di non essere come gli
altri, più si incattiviva. Se la prendeva con tutti,
specialmente con noi. Siamo sempre stati
convinti che prima o poi ci avrebbe uccisi.”
“Avete provato a farlo ricoverare?”
“Signore, lei sa benissimo che in Italia è
impossibile
imporre
delle
cure
senza
l’approvazione del malato. Nostro figlio è
tutt’altro che stupido, al momento di firmare
si rifiutava e si guardava bene dal dare in
escandescenze.”
“Vi
ricordate
cosa
ha
fatto
venerdì
pomeriggio?”
“Le giornate di Antimo sono tutte uguali.
Viaggia in treno, parte al mattino alle otto e
torna
alla
sera
alle
sette,
tranne
i
fine
settimana e i giorni di vacanza in cui a volte
non scende dal piano di sopra neppure per
mangiare.”
“Anche venerdì?”
“Sicuramente,
altrimenti
ci
saremmo
preoccupati.”
“Possiamo vedere la sua stanza?” chiese
Nicolasi.
I due vecchi genitori si guardarono.
“Penso di sì, ma bisognerebbe rompere il
lucchetto con cui chiude sempre la porta–
disse la mamma – è da circa venti anni che
non entro nella sua stanza.”
Nella camera di Antimo i mobili erano
ridotti all’essenziale: un letto contro il muro,
un mobile tra due finestre, una scrivania con
computer e un imprecisato numero di scaffali
che coprivano tutte le zone libere delle pareti
fino al soffitto. In una parte degli scaffali erano
allineati in altezza decrescente dei testi di
matematica. Tutti gli altri ripiani sostenevano
dei fogli così ben impilati da sembrare appena
usciti da una copisteria. Migliaia di pagine
interamente
ricoperte
da
parole,
numeri,
formule, scarabocchi illeggibili, scritti con una
calligrafia veloce e minuta, sovrapposti gli uni
agli altri, orientati a caso, dall’alto in basso, di
traverso, da destra a sinistra, come fossero stati
elaborati
sotto
l’effetto
di
allucinogeni.
L’insieme aveva un aspetto metafisico, una
sorta
di
quadro
moderno
con
un
suo
messaggio subliminale. I cassetti contenevano
penne
e
matite,
cancelleria
varia,
DVD,
chiavette usb e la carta d’identità, con l’unica
fotografia di Antimo adulto.Minici la prese.
L’armadio conteneva il modesto vestiario
dello studente. I capi erano puliti, il colore
andava dal grigio-beige a un marroncino
slavato, nessun jeans, nessuna polo, nessun
cardigan, solo abiti che nessun giovane uomo
avrebbe mai indossato, neppure sotto tortura.
La perquisizione della stanza durò pochi
minuti.
Uscendo presero il cellulare di Antimo,
rilasciando regolare ricevuta. Sigillarono poi la
porta della stanza, dicendo alla coppia di
anziani genitori di non toccare nulla fino
all’arrivo degli esperti.
“Senti Dario – disse Minici – giacché siamo
qui mi piacerebbe interrogare il controllore
del treno che Ferrasi prendeva ogni sera. Tu
puoi restare in macchina, perché con l’occhio
che ti trovi non sei presentabile.”
E così fecero. Il capostazione, dopo non
poche insistenze e qualche velata minaccia,
consentì a Rocco di parlare per cinque minuti,
non uno di più, con il capotreno, che provvide
ad avvertire telefonicamente.
“Certo che lo conosco – sbottò il ferroviere
vedendo la foto di Antimo – ma le dico subito
che questo qui non è del tutto finito. Pensi che
si siede sempre nello stesso posto, in fondo al
vagone, nell’unico sedile singolo. Per tutto il
tragitto legge libri di matematica senza mai
scambiare parola con qualcuno e con uno
sguardo incazzato che più non si può.”
“Lei ricorda se venerdì scorso era sul treno?”
“Non ricordo che ci fosse, ma le garantisco
che se non ci fosse stato me ne sarei accorto.
Come oggi, gli è forse successo qualcosa?”
Un’ora
dopo
arrivarono
nell’ufficio
del
commissario. L’occhio di Nicolasi aveva nel
frattempo raggiunto, oltre ad una notevole
dimensione,
un
colorito
viola
rossastro
tendente al blu.
Quando Marco lo vide, accusò Minici di
totale incoscienza.
“Dario – domandò in tono aggressivo –
riesci a vedere bene?”
“Dall’occhio sinistro, non tanto…”
“Rocco, adesso tu lo prendi e lo porti
immediatamente al pronto soccorso. Poi vieni a
riferirmi.”
All’ospedale i medici lo ricoverarono per la
notte.
Alle nove di sera Minici ritornò in Questura.
Ferrero, che per la fame vedeva meno di
Nicolasi, lo portò in pizzeria. Avrebbero
chiacchierato mangiando.
“Commissario, non so se il Ferrasi è il nostro
dinamitardo, certo che squilibrato lo è di
sicuro.”
Marco convenne.
In effetti durante il viaggio sulla volante
Antimo era rimasto muto e tranquillo. Poi,
dopo essere stato rinchiuso in camera di
sicurezza aveva cominciato a dar fuori da
matto, picchiando la testa contro il muro,
urlando
come
un
forsennato
frasi
incomprensibili contro le forze oscure che lo
perseguitavano, e, per calmarlo, era stato
necessario chiamare un medico con tanto di
infermieri per tenerlo fermo.
Quando poco prima di mezzanotte Marco
tornò a casa, venne accolto da un cane
stranamente agitato e festante. Sapendo che di
notte doveva star zitto, cercava di manifestare
la sua impellente e improcrastinabile necessità
con grandi andirivieni verso la porta di uscita.
Non solo il suo padrone non dava segno di
aver recepito il messaggio, ma aveva appena
iniziato una telefonata che aveva tutta l’aria di
andare per le lunghe.
L’animale pensò che fosse giunta l’ora di dar
fuoco ai cannoni. In cinque minuti la stanza
venne invasa da una puzza dall’inequivocabile
natura ed origine, la chiacchierata con Elisa fu
interrotta e il bombardiere a quattro zampe si
fiondò
giù
dalle
scale
incoraggiato
da
un’affettuosa pedata.
Nella fretta Marco commise un tragico
errore: non prese il guinzaglio.
In fin dei conti era notte fonda, in due
minuti il problema si sarebbe risolto.
Purtroppo le cose andarono diversamente.
Infatti una schnauzerina in calore, aveva scelto
quella sera per eludere la stretta sorveglianza
cui
era
sottoposta
momentanea
e
a
causa
naturale
della
sua
indisposizione
e
fuggire in cerca di un amante focoso e
appassionato.
Ugo,
ancora
vergine
ma
consapevole della sua gagliarda vis amatoria, ne
sentì l’afrore allettante; l’istinto gli mandava
messaggi inequivocabili che il suo sensibile
olfatto canino non poteva ignorare, e in men
che non si dica corse ventre a terra verso la sua
prima indimenticabile notte di passione.
Marco gli intimò di fermarsi. Fatica sprecata.
Il botolo malefico sembrava volare sulle corte
zampette,
e
in
breve
sparì
nella
bruma
notturna.
“E adesso cosa faccio?” si domandò il
commissario.
Vagò per un paio d’ore per le strade del
quartiere
cercando
dimenticandosi
mezz’ora
di
di
attesa,
Elisa
stava
il
che,
cagnolino,
dopo
una
cominciando
a
preoccuparsi. E a chiamarlo sul cellulare, che
Marco aveva lasciato sul tavolo di cucina.
Lo squillo ripetuto svegliò Ingrid, che, non
vedendo né Ugo né il suo padrone, decise che
fossero
semplicemente
esigenza
dell’animale,
usciti
ma
per
qualche
quando
Elisa
agitatissima le spiegò che da quasi un’ora
Marco non dava notizie, si sentì prendere
dall’ansia.
“Senta – le disse – venga qui. Aspetteremo
insieme.”
Quando ormai erano decise a chiedere aiuto
alla polizia, sentirono aprirsi la porta di casa.
Alle due giovani tornò l’aria nei polmoni,
ma appena videro lo sguardo disperato di
Marco capirono subito che qualcosa di grave
doveva essere successo. L’assenza di Ugo ne
era una conferma.
Il poveretto si lasciò cadere su una sedia
senza neppure rispondere. Era stanco, così
stanco che non riusciva a pensare a come
affrontare
la
situazione,
terrorizzato
al
pensiero di cosa avrebbe potuto dire ai
bambini
quando
tra
poco
si
sarebbero
svegliati.
Quando finalmente cominciò a raccontare
di come Ugo si fosse perso inseguendo una
probabile femmina, e di come lui avesse
camminato per ore cercandolo senza successo,
Ingrid, stremata dall’attesa, scoppiò a piangere.
“Cerchiamo di non perdere la testa –
esclamò invece Elisa, molto più razionale – il
piccolino è intelligente e furbo, sa attraversare
le strade e non si lascerà prendere da nessuno.
Anche perché, sarà anche simpatico, ma non è
certo una bellezza da esposizione.Chi volete
che lo rubi? Appena la fregola gli sarà passata,
tornerà a casa.”
Alle sette del mattino la custode dello stabile
aprì il portone per dare una scopata al
marciapiede.
“Ugo, cosa fai qui tutto solo? Sei sporco da
far
paura,
vai
a
casa
ché
ti
staranno
aspettando.” disse, vedendo il piccolo meticcio
accoccolato davanti all’ingresso, in evidente
attesa di qualcuno che lo facesse entrare.
Ugo non se lo fece dire due volte: infilò le
scale a gran velocità, facendo i gradini a tre per
volta, con la lingua fuori per la sete, per la
paura dell’abbandono e per la consapevolezza
di aver trasgredito alle regole.
Marco ed Elisa dormivano, l’una con la testa
sulla spalla dell’altro, ma il loro inconscio era
vigile, in attesa che si realizzasse ciò che non
osavano sperare.
Quando udirono il leggero rumore di un
raschio sulla porta, si svegliarono entrambi di
colpo: Ugo era tornato. Puzzolente da far
paura, sbavato e ansimante, ma era tornato.
16
La mattina seguente il commissario arrivò in
Questura un po’ più tardi del solito. Era
riuscito a dormire per un paio d’ore, ma
sentiva male dappertutto e aveva un’emicrania
che neppure due aspirine avevano per il
momento attenuato.
“Salve, Rocco – disse entrando – ci sono
novità?”
“Niente di buono, dottore – rispose Minici –
ma abbiamo già la risposta dei nostri colleghi
che hanno analizzato il computer di Ferrasi. ”
“E cosa dice?”
“Una cosa bella e una brutta. La prima è che
lo studente sarà anche un bravo matematico,
ma come informatico è un vero principiante.
Per cui si sentono di escludere che abbia mai
navigato su siti proibiti, dove si insegna a
costruire
bombe
ed
esplosivi.
Insomma,
potremmo eliminarlo dalla rosa dei possibili
indiziati.”
“Questa sarebbe la buona notizia? E la
cattiva?”
“Si è appurato che il Ferrasi è un bel porco.
Almeno ora sappiamo cosa mai facesse giorni
interi chiuso nella sua stanza: guardava siti
porno, di ogni tipo, ordine e grado. In quello
pare sia stato bravissimo.”
“Oggi
proveremo
a
interrogarlo….
Hai
notizie di Dario?”
“Sì, dimenticavo, l’hanno dimesso, ma dovrà
stare a riposo due giorni.”
“Ha anche chiamato il Questore che ha
indetto una conferenza stampa per le due del
pomeriggio. Naturalmente si aspetta che sia lei
a rispondere alle domande dei giornalisti.”
“E ti pareva! Hai per caso contattato i
genitori a cui ieri Nicolasi non era riuscito a
parlare?”
“Tutto fatto, dottore. Nessuno ha fatto un
dramma per la bocciatura del figlio. O della
figlia, anche se mi sembra improbabile che il
colpevole
sia
una
ragazza…Commissario,
guardi che le sta suonando il telefono.”
“Vado, vado…. Ciao, Savino! Hai qualcosa di
nuovo da dirmi?”
“Ciao, Marco. Le novità sono purtroppo
poche e di scarsa importanza. Gli ordigni sono
di fattura artigianale e sono stati attaccati al
pianale
delle
auto
corrispondenza,
con
un
nella Audi,
magnete
al
sedile
in
del
passeggero, mentre nella cinquecento è stato
piazzato
sotto
al
conducente.
Quindi
se
Righettifosse salito sull’automobile, sarebbe
stato fatto a pezzi dalla bomba e poi incenerito
dall’esplosione
del
serbatoio.
Mentre
il
professore più anziano ha avuto solo, faccio
per dire, i piedi maciullati, perché la maggior
parte della potenza della deflagrazione ha
distrutto la parte destra dell’automobile. Di
conseguenza siamo in grado di sapere come e
quando il potenziale assassino ha piazzato gli
esplosivi. Sappiamo che le macchine erano
parcheggiate una a fianco dell’altra, in fondo al
cortile contro il muro. Per cui il nostro
uomo…”
“O donna…”
“…o donna, si è chinato in mezzo alle due
vetture
tenendo
con
le
mani
i
pacchi
magnetici e senza neanche sdraiarsi in terra ha
allungato
le
braccia
sotto
le
piattaforme
attaccandoli al metallo. Tutta l’operazione è
sicuramente stata fatta nello stesso pomeriggio
di venerdì perché le calamite usate erano tali
da non sopportare sbalzi o scossoni. Alla prima
frenata si sarebbero staccate.”
L’incontro con i media fu meno tumultuoso
del
previsto.
Il
commissario
leggermente
euforico per gli analgesici che gli avevano
finalmente
eliminato
l’emicrania,
parlò
a
lungo e rispose alle domande con sincerità e
senza reticenze. Tutti ovviamente chiedevano
delucidazioni in merito all’arresto del giorno
precedente, di cui erano stati informati dai
soliti ignoti.
“Più che un arresto – rispose il Ferrero – si è
trattato di un fermo cautelativo. In effetti
avevamo dei sospetti su uno studente con
problemi di instabilità emotiva … sì è vero, ha
aggredito un poliziotto, nulla di serio però, ora
gli verrà fatta una perizia psichiatrica, ma al
momento delle esplosioni era su un treno.”
La
conferenza
soddisfazione
stampa
generale.
La
finì
polizia
nella
aveva
dimostrato efficienza e spirito collaborativo.
C’era speranza che si arrivasse presto alla
soluzione del caso.
Tornato in ufficio, il commissario incontrò
Nicolasi.
Il
volto
era
ancora
variamente
colorato, ma la tumefazione all’occhio si era di
molto attenuata.
“Dario, cosa fai qui? Non dovresti stare a
riposo?”
“Dottore, a casa mi annoio. In ospedale mi
han detto che non ho avuto lesioni alla retina,
la vista mi è tornata normale e poi devo
parlarle.”
“Sediamoci.” disse il commissario, pensando
che a Nicolasi fosse venuto in mente qualche
particolare importante sulla vicenda Ferrasi.
“Come lei sa – esordì l’ispettore – ieri sera
sono stato tenuto in ospedale. Nella camera
con me c’era un signore di mezza età operato
per qualcosa di grave. Per tutta la notte sua
moglie è rimasta vicino a lui, seduta su una
sedia di ferro: gli teneva la mano, gli dava da
bere e gli parlava. Lui le rispondeva, e a sua
volta cercava di confortarla. Ed è allora che ho
capito cosa significa quando si dice ‘due corpi
in un’anima sola’.”
Marco non era nella predisposizione di
spirito adatta a discorsi melensi. Insieme
all’emicrania, gli era anche passato l’effetto
rilassante degli analgesici, che Dario venisse al
dunque perché non vedeva l’ora di tornarsene
a casa.
“E allora?” domandò.
“Mi scusi, dottore, se le faccio perdere
tempo. Ma la cosa è importante.”
Il Ferrero si rimise comodo, in fin dei conti
anche
un
piccolo
spiraglio
che
facesse
intravvedere la soluzione del caso, meritava
un po’ di pazienza.
“Come lei sa – ripartì Nicolasi – io sono
originario del Veneto. Tutti i miei abitano in
provincia di Rovigo …”
Quale potesse essere il collegamento tra i
coniugi dell’ospedale, i parenti di Dario e
l’Antimo Ferrasi, restava per Marco un rebus
insolubile.
“E allora?” si azzardò a domandare.
“Come lei sa – ripeté per la terza volta
Nicolasi – ho una fidanzata, Adriana.”
In Questura la conoscevano tutti: bella
ragazza prosperosa, compaesana di Dario. I
due erano innamoratissimi, ma a causa dello
spirito possessivo di lui e della gelosia di lei,
litigavano spesso e volentieri. Le risse finivano
sempre in gloria, ossia in una notte di passione
da cui l’ispettore emergeva distrutto e per
tutto il giorno dopo rimaneva in uno stato di
tristezza post coitum, come diceva. Il problema
grave
era
un
altro:
la
fanciulla
avrebbe
desiderato sposarsi e metter su famiglia, ma
Dario era più testardo di un mulo.
“Come lei sa…”
“Aridagliela!” pensò il commissario.
“…sono
sempre
stato
contrario
al
matrimonio.
Bene,
stanotte
ho
capito
l’importanza di vivere in due. Adriana ed io a
giugno ci sposeremo. Sarebbe un onore se lei
volesse farmi da testimone.”
“E l’Antimo?”
“Chi? Lo studente paranoico?”
“E chi se no!”
“Scusi, commissario, ma cosa c’entra? Mica
dovrò invitarlo alla cerimonia.”
Lo sfortunato Nicolasi non avrebbe potuto
scegliere una data più infelice per la sua luna
di miele.
Marco
era
sempre
più
nervoso.
La
dichiarazione di intenti di Dario avrebbe
dovuto commuoverlo, mentre l’istinto era
stato quello di mandare a quel paese lui, il
matrimonio e pure l’Adriana dalle grandi tette.
Per rilassarsi decise di fare una lunga
camminata a passo veloce per i viali della città.
A poco a poco si accorse di star pensando a
se stesso e alla sua attuale situazione affettiva.
“Così non può più andare avanti – si diceva
– è giunto il momento di prendere una
decisione.”
In effetti doveva dividere il suo tempo libero
tra Elisa e i bambini, verso cui si sentiva
doppiamente in colpa, come padre e come
unico genitore. La sua vita, specialmente
quando capitavano gravi atti di criminalità, era
davvero stressante; a volte partiva da casa
mentre tutti ancora dormivano e ritornava la
sera tardi quando erano già andati a letto.
“Se almeno servisse – pensava – ma finora
non abbiamo neppure un sospetto…”
17
La
pioggia,
attesa
da
settimane,
arrivò
violentissima nella notte.
Il vento faceva oscillare i rami degli alberi e i
lampioni
della
strada.
La
luce
filtrava
attraverso le imposte, proiettando delle ombre
mobili sulle pareti della stanza. Nel letto si
intravvedeva la forma di un corpo sotto le
lenzuola. Nel capo, appoggiato su un cuscino,
risaltavano gli occhi spalancati, dallo sguardo
cattivo e soddisfatto. Lo scroscio dell’acqua
copriva il debole rumore del respiro. I pensieri
cantavano silenziosi inni di vittoria.
“E uno – dicevano alla mente – adesso c’è
l’intervallo, poi ci sarà il secondo atto.”
18
Due mesi dopo
Nei due mesi successivi accaddero molte
cose importanti.
Marco chiese a Elisa di trasferirsi a vivere
con lui. L’idea la faceva impazzire di gioia e di
desiderio, era certa che sarebbero stati in grado
di superare tutti i problemi, compresa la
forzata convivenza di Ugo e Artemisia. In ogni
caso decisero di approfittare delle vacanze
estive, quando si ha maggior tempo libero e lo
spirito è più rilassato e disteso.
Nicolasi fissò la data del matrimonio con
l’amatissima Adriana al terzo martedì di
giugno. Tutti gli domandarono perché mai di
martedì, e lui rispose, giustamente, che era un
giorno come un altro.
“Tanto – concluse – giugno è un mese a
bassa criminalità. Anche i delinquenti vanno
in ferie.”
Le classiche ultime parole famose.
Nonostante le indagini non fossero mai state
interrotte, non si riuscì a trovare il colpevole
delle esplosioni e neppure un movente.
Vennero riascoltati tutti i professori, si
convocarono in Questura gli studenti delle
due vittime, si interrogò a lungo il personale
tecnico e amministrativo, la polizia svolse un
lavoro immane senza risparmio di tempo e di
energie
per
incrociare
le
diverse
testimonianze. Non si trovò nulla, tutti dissero
le stesse cose, i soliti pettegolezzi benevoli su
Righetti, la proverbiale ira bonaria di Silva,
l’assoluta mancanza di un litigio così violento
da generare una volontà omicida.
Insomma, dopo due mesi non ci si era mossi
dal punto di partenza.
In compenso la città reagì all’attacco in
modo ammirevole. Si raccolsero fondi per la
ricostruzione
e
privati
cittadini,
spontaneamente, parteciparono alla raccolta di
denaro, perché l’offesa alla loro immagine era
stata insopportabile.
Quindici giorni dopo il disastro, il palazzo fu
messo in sicurezza. Transennate le parti
devastate, si ricominciò a far lezione.
Inoltre
si
videocamere
pensò
per
di
il
inserire
controllo
delle
nel
Dipartimento.
E qui scoppiò il putiferio.
La scusa accampata da molti era, al solito, la
privacy.
Per cui si istituì una commissione, il cui
presidente eletto all’unanimità fu, incredibile
ma vero, Bruno Righetti.
Il quale nel frattempo aveva subìto una
radicale trasformazione. Dopo essere stato
intervistato decine di volte da giornalisti che
pubblicavano poi le sue parole e la sua
fotografia sotto titoli altisonanti dove la parola
‘eroe’ era la più frequente, aveva persino
trovato il coraggio di partecipare a un talk
show televisivo.
Tra i colleghi l’invidia strisciava come un
serpente velenoso.
Righetti riuscì a coordinare la commissione
egregiamente. Per dare il buon esempio,
accettò che la prima telecamera fosse piazzata
su una colonnina della luce proprio davanti
alla porta del suo ufficio, rivolta verso l’entrata
del palazzo. La parte finale del corridoio, si cui
si affacciavano alcuni studi, tra cui quello di
Corsi, l’uscita di sicurezza e la famigerata porta
dei gabinetti non sarebbero stati ripresi.
La privacy sarebbe almeno in parte stata
rispettata.
Si decise poi di mettere altre telecamere
soprattutto
nel
parcheggio,
in
modo
da
registrare le entrate e le uscite di mezzi
motorizzati e persone.
Si stabilì inoltre che i filmati sarebbero stati
chiusi a chiave in un apposito armadio
nell’ufficio
del
direttore,
uno
tra
i
più
agguerriti sostenitori dell’inutilità dei sistemi
di controllo. Il professor Andreoli si assumeva
la responsabilità della loro segretezza.
In poco più di due mesi la vetrate furono
rifatte, scrivanie, computer e lavagne sostituiti,
le tracce del sangue e degli incendi cancellate
e l’intero cortile fu ricoperto da uno spesso
strato di ghiaia e pietrisco. Due mani di
vernice
e
una
nuova
sbarra
automatica
all’ingresso del parcheggio, eliminarono ogni
traccia del criminoso disastro e i faretti delle
cineprese
accuratamente
disposti
e
quasi
invisibili, contribuirono a ridare tranquillità e
sicurezza a chi per lavoro o per studio passava
buona parte della sua giornata all’interno del
Dipartimento.
Poiché
erano
ancora
avanzate
alcune
migliaia di euro, il professor Andreoli decise di
fare una festa per la riapertura del palazzo a
cui sarebbero state invitati, oltre alSindaco, al
Prefetto, al Rettore e al Preside di Facoltà, il
commissario
capo
della
polizia,
tutto
il
personale docente, tecnico e amministrativo e,
ovviamente, i giornalisti.
Nella stessa occasione, si sarebbe festeggiato
il
professor
Silva
che
aveva
ripreso
a
camminare con le protesi ultratecnologiche
che gli erano state fornite dall’ospedale, e che
quello stesso giorno, lunedì 21 giugno, sarebbe
entrato per la prima volta nel suo amato posto
di lavoro.
Il professor Aliberti disse che gli sarebbe
parso giusto dare al Righetti un attestato di
merito. Il Micheletti si oppose, secondo lui
Bruno aveva agito d’istinto, come avrebbe
fatto chiunque altro.
“A dire il vero – gli disse Aliberti – l’istinto di
sopravvivenza avrebbe consigliato a ognuno di
noi, te compreso, di fuggire a gambe levate da
una macchina in fiamme. Mi sembra che
anche tu al momento delle esplosioni sia
rimasto rintanato nel tuo ufficio e che non ti
sia neppure venuto in mente di andare a
vedere se qualcuno avesse bisogno di aiuto.”
L’osservazione fu accolta da un applauso.
19
La domenica prima della cerimonia era il
giorno d’inizio della convivenza di Elisa e
Marco. I bambini e il cane erano dai nonni,
Ingrid dalla sorella, e Artemisia avrebbe avuto
qualche ora per familiarizzarsi con la nuova
casa.
Elisa cominciò a sistemare negli armadi ciò
che si era portata da casa, Marco si offrì di
darle una mano e nel giro di pochi minuti si
trovarono abbracciati, travolti dalla passione.
La cosa si ripeté più di una volta; quando tutto
fu a posto, le borse e le valigie svuotate, si
accorsero che era calata la sera.
Affamati simisero a tavola decisi a mangiare
tutto il ben di dio che Ingrid aveva preparato
per loro mentre Artemisiasi rifugiò sotto al
letto.
Quando
fu
ora
di
andare
a
dormire,
cercarono di stanarla con offerte di croccantini
e pezzi di carne. Ma la bestia lì era e lì
intendeva rimanere.
Marco pensò cose irripetibili, compresa
quella di sparare al felino rompicoglioni.
Poiché anche la pazienza di un santo ha un
limite, il poliziotto si allungò sotto il letto,
afferrò la gatta per una zampa posteriore e
cominciò a tirare, ma Artemisia si voltò come
una furia e affondò i dentinella carne del
nemico. Poi fuggì a nascondersi dietro al
frigorifero.
Il commissario contò fino a dieci e poi fino a
cento. Quando riemerse non proferì verbo, il
suo sguardo era più eloquente di mille parole.
“Povero Ugo – disse alla fine – non sa cosa
lo aspetta!”
Caddero ridendo sul letto. La mano ferita
gocciolava sangue, ma non se ne curarono.
20
Lunedì 21 giugno
La
cerimonia
all’Università
riuscì
nel
migliore dei modi. A Righetti venne assegnato
l’onore di accogliere il professor Silva sul
maestoso portone del palazzo tra i lampi dei
fotografi, Luigi abbracciò il suo salvatore con
autentica commozione, e nonostante lo stare
in piedi gli costasse una grande fatica, si
leggeva
nel
suo
sguardo
l’orgoglio
e
la
determinazione di chi ha trovato dentro di sé
la forza per superare una prova terribile.
Il
serpentello
dell’invidia
era
diventato
grande come un boa constrictor.
I discorsi furono contenuti, gli applausi
sinceri e il rinfresco elegante.
Il commissario visitò le zone ristrutturate in
compagnia del professor Aliberti.
“Allora, commissario, ci sono novità sul
fronte delle indagini?”
“Meno di niente, purtroppo. Non abbiamo
idea di chi possa aver ricavato un utile da un
simile sfracello.”
“Ho pensato che potrebbe essere stata solo
una specie di prova generale…”
“…per qualcosa di molto peggio. È quel che
abbiamo temuto anche noi, siamo stati in
allarme
per
molte
settimane,
ma
fortunatamente non è successo nulla né qui né
in
altre
città
italiane.
In
ogni
caso
mi
complimento per quel che siete riusciti a fare.”
Cosimo Imbesi era ovviamente stato invitato
alla cerimonia essendo stato uno degli attori
principali dell’attentato criminoso. Alle sette di
sera
di
quello
stesso
giorno
imboccò
il
corridoio del pianterreno, dove due mesi
prima erano esplose le vetrate. Vide il Righetti
e il Corsi in piedi davanti all’ufficio di
quest’ultimo. Stavano parlando.
“Buonasera – disse la guardia – sempre a
lavorare fino a tardi!”
“Io esco con lei – rispose Righetti – devo
andare a ritirare un pacco in un negozio prima
che chiuda, altrimenti mia sorella mi uccide.”
“Io mi fermo ancora un po’ – disse Corsi –
buonasera a lei. Ciao Bruno, a domani.”
Imbesi
e
il
camminarono
giovane
insieme
ricercatore
lentamente
fino
all’androne del palazzo, poi si salutarono.
Un’ombra scivolò lungo i muri. Nell’ufficio
di Corsi la scrivania era rivolta verso la
finestra, e chi vi stava lavorando dava le spalle
all’ingresso. La porta era in vetro smerigliato,
come quella delle altre stanze in fondo al
corridoio.
Giuseppe sentì bussare.
“Avanti!” disse, ruotando la poltrona, per
vedere chi stesse entrando.
I due scambiarono poche parole. Corsi,
sorridendo, si rigirò chinandosi a leggere un
foglio che una mano nuda aveva posato sul
tavolo. Non vide che l’altra mano era protetta
da un guanto e stringeva una sorta di lungo
pugnale di metallo. Non vide neppure il
braccio alzarsi minaccioso e quando la lama
gli trapassò la schiena e, dopo aver attraversato
un polmone, gli spaccò in due l’aorta, non
ebbe neanche la forza di gridare.
La
mano
guantata
spinse
in
avanti
la
poltrona, in modo che il corpo ormai inerte
venisse
compresso
tra
lo
schienale
e
la
scrivania. Dopo aver ripreso il foglio, l’ombra
controllò
che
il
corridoio
fosse
sempre
deserto. Poi se ne andò.
Quando Imbesi fece l’ultimo giro, vide
attraverso il cristallo, la sagoma del giovane
professore. Come tutte le sere, stava ancora
studiando.
“E poi dicono che i ragazzi non hanno voglia
di lavorare!” pensò.
Prima di uscire, chiuse a chiave il portone
del palazzo.
21
Martedì 22 giugno
Martedì
mattina
Marika
era
veramente
felice. Arrivata dalla Romania cinque anni
prima, aveva sempre fatto la badante finché
Lavinia, sua amica e compaesana, le aveva
trovato un posto quale lei non avrebbe mai
osato sperare.
Il lavoro consisteva nel pulire un palazzo
dell’Università, ossia ‘fare’ i bagni, togliere la
polvere e vuotare i cestini degli uffici, e, una o
due volta alla settimana, scopare e lavare i
pavimenti di tutto l’edificio.
Alle sette e trenta di quella mattina Marika
vide che la luce di un ufficio era stata
dimenticata
accesa.
Lesse
il
nome
sulla
targhetta: professor Giuseppe Corsi.
Allevata secondo ferree leggi di lotta allo
spreco, cercò la chiave giusta e aprì la porta.
Entrò solo quel tanto necessario a trovare
l’interruttore, ma il suo sguardo venne attirato
da un corpo steso in terra, di fianco alla
scrivania.
“Capì
subito
che
l’uomo
era
inequivocabilmente morto. Nel volto bluastro
spiccavano gli occhi spalancati, lo sguardo
immobile e la bocca aperta in una inutile
richiesta di aiuto. Marika pensò che fosse stato
stroncato da un infarto.
Poi vide la grossa impugnatura di metallo
che spuntava dalla schiena del cadavere. In un
lampo la felicità si trasformò in orrore, si
accasciò in terra e cominciò gridare. Accorsero
un paio di colleghe che scapparono urlando,
Lavinia ebbe la forza di chiamare il 113.
Marco si era svegliato col mal di testa.
“Tanto per cambiare.”si disse, cercando un
analgesico.
Lo prese col caffè, sdraiato in poltrona.
Emicrania a parte, era sereno e soddisfatto.
Quando la sera del giorno prima era tornato a
casa dal lavoro e Elisa lo aveva accolto
sorridendo,
si
era
reso
conto
di
aver
definitivamente chiuso un capitolo della sua
vita.
Il mal di testa si era di molto attenuato. Il
commissario era tranquillo, aveva stabilito i
turni in Questura, in modo che lui, Minici e
relative
signore
potessero
andare
al
matrimonio di Nicolasi di cui erano anche
testimoni.
Alle otto Elisa, ancora assonnata, entrò in
cucina.
“Amore, non stai bene?” domandò, vedendo
la faccia tirata di Marco. E si chinò a baciarlo.
“Mi ha svegliato un’emicrania martellante,
ma ora va meglio. Tu sei sempre bellissima…
Se mi porti un altro caffè ti …” non finì la frase.
Lo stavano chiamando dalla Questura. Il
commissario guardò il cellulare con odio,
come fosse un crotalo con la coda tintinnante.
“È certamente successo qualcosa di grave…
Pronto…”
Per un minuto ascoltò senza dire nulla.
“Va bene, arrivo.”
“Allora? Ti senti bene?” chiese Elisa.
“E adesso chi glielo dice a Nicolasi?” fu
l’unica laconica riposta.
22
Quando Ferrero arrivò davanti al palazzo da
cui era uscito meno di ventiquattro ore prima,
gli sembrò di rivedere un vecchio film. Volanti
della polizia, ambulanza, giornalisti, curiosi e
un Minici dall’aria desolata.
“Com’è?”
“Un disastro, commissario. Qualcuno ha
pugnalato il professor Corsi.”
“Gesù! E il medico legale?”
“È già arrivato.”
Marco entrò nell’androne e girò a sinistra
nel corridoio. Arrivato davanti all’ufficio si
fermò. Il dottor Gribaudo aveva appena finito
il primo sommario esame del cadavere.
“Buongiorno,
commissario,
–
disse
sfilandosi guanti e camice – ha una faccia che
non mi piace. È sicuro di star bene?”
“Buondì, dottore, per il momento non sono
ancora un suo paziente – rispose abbozzando
un sorriso – però ha ragione, sono davvero
sconvolto e dispiaciuto.”
“Penso che lei conoscesse la vittima.”
“Abbastanza
bene.
Era
un
gran
bravo
ragazzo, intelligente e volonteroso, studiava
come un disperato per poter tornare nella sua
città entro pochi anni.”
“Venga, commissario, andiamo a prendere
un caffè.”
In quel momento arrivarono gli uomini
della Scientifica.
Solitamente il dottor Gribaudo era un uomo
dai modi scherzosi, ma spicci. Si era però reso
conto
che
Marco
aveva
bisogno
di
incoraggiamento.
“Allora, l’ora del decesso è tra le sette e le
nove di ieri sera. La vittima ha avuto la grazia
di una morte pressoché istantanea, per una
emorragia
interna
che
l’ha
portato
all’incoscienza in una manciata di secondi.
Sulla t-shirt vi sono tracce ematiche verticali,
ossia parallele alla spina dorsale. Da questo e
dai lividi del volto, si deduce che il cadavere è
rimasto in posizione seduta per qualche ora.
Poi il peso del corpo e il sopraggiungere del
rigor, devono aver fatto spostare la poltrona,
montata su ruote. Allora il giovane è scivolato
in terra. La stranissima arma del delitto
sembra essere la baionetta di un vecchio fucile.
Gli esperti ci diranno quale.”
Il commissario si recò nello studio della
vittima per farsi un’idea personale del luogo
del delitto. Dopo aver indossato una tuta, si
guardò attorno sforzandosi di richiamare alla
memoria la disposizione dell’ufficio. Non notò
nulla di strano, sulla scrivania c’erano dei fogli
scritti sparsi in modo ordinato,una biro era
caduta in terra. Evidentemente il professore
stava lavorando quando il suo assassino era
entrato nella stanza e lo aveva colpito a
tradimento. Giuseppe doveva conoscerlo e lo
aveva accolto senza sospetto, tanto da non
essersi alzato dalla poltrona.
“Marco – chiese Savino Calabresi – chi ha
scoperto l’omicidio?”
“Le donne della pulizia.”
“Dovremmo vederle, prendere le impronte
e sapere cosa hanno toccato.”
Il commissario si chinò sul cadavere con
rispetto e commozione. Poi uscì dalla stanza
deciso a cercare Minici.
“Dottore, sono quasi le dieci! Come facciamo
per Nicolasi?”
“Merde!
Me
ne
ero
quasi
dimenticato.
Adesso andiamo a parlare con l’impresa di
pulizia, poi decideremo cosa fare.”
“Commissario, non c’è nessuna impresa. Ci
sono solo tre donne terrorizzate, e una
completamente fuori controllo.”
Le poverette erano state sistemate negli
uffici della direzione.
“Cazzo, cazzo, cazzo!” pensò il commissario,
solitamente non uso a ragionare a parolacce.
Avrebbe dovuto fare in fretta, ma come si
faceva a interrogare una testimone in lacrime
sperando di ottenere risposte sensate? Ci
voleva pazienza, tatto e tempo. Che era
l’ultima cosa che lui e Minici avevano, causa
cerimonia.”
Dal cellulare di Ferrero arrivarono le note
della la suoneria che aveva riservato ad Elisa.
“Senti – le disse – qui è successa una
tragedia, come già ti ho detto. Tu vestiti e vai
in chiesa. Noi cercheremo di arrivare, tanto le
spose sono sempre in ritardo.”
“In jeans?”
“Che jeans?”
“Marco, vuoi fare il testimone vestito con un
paio di jeans e una polo?”
“Cazzo!
Portami
una
giacca
estiva.
Ti
comunico che Minici non è vestito meglio di
me. Adesso vado. Ciao.”
Con uno sguardo teso, entrò nell’ufficio
cercando di ostentare la massima calma, si fece
dare nome e generalità delle signore, le
ascoltò, rassicurò Marika e infine disse alla
poliziotta di portare tutto il gruppetto dal
collega Calabresi.
“Rocco, dobbiamo andare, e anche in fretta.”
“Ma commissario, siamo in jeans!”
“Ah – sbottò Marco – ti ci metti pure tu.
Telefona a tua moglie che ti porti una giacca,
nessuno si accorgerà di niente. E sbrigati,
cazzo, ché dobbiamo attraversare tutta la
città.”
Quando finalmente arrivarono alla chiesa,
trovarono Elisa e una furente signora Minici
con le giacche in mano. Gli sposi stavano
chiacchierando con il giovane prete di colore.
Marco sorrise, si avvicinò al sacerdote e lo
portò in fondo all’altare.
“Padre – esordì a voce bassa e imperiosa –
veda di fare una cerimonia breve.”
“Breve come, scusi?”
“Breve,
possibile.”
breve,
ossia
che
duri
il
meno
“E come dovrei fare?”
“Tagli tutti le cose superflue. Due minuti per
la predica, nessuna dichiarazione o lettura di
parenti e amici. Io devo andare a risolvere un
omicidio.”
Poi Marco, camminando all’indietro perché
non si vedesse la polo arancione sotto la giacca
scura, ritornò al suo posto alla destra di
Nicolasi.
Gli invitati si stupirono della breve durata
della cerimonia, della predica essenziale, della
mancanza dei soliti amici che vanno a leggere
e dell’eterna messa cantata. A tutti sembrò di
essere stati graziati da un miracolo della
Madonna.
Al momento delle firme, Marco spiegò a
Nicolasi perché lui e Minici fossero arrivati in
ritardo e, pur spiacenti, dovessero lasciare, in
loro rappresentanza, Elisa e la moglie di
Rocco, sempre più inferocita.
Le due giovani reclute, Valerio Signorini e
Carmen
Arteri,
lasciate
di
guardia
all’Università, avevano svolto egregiamente il
loro compito.
“Innanzitutto
abbiamo
–
requisito
esordì
le
il
poliziotto
registrazioni
–
delle
telecamere di sorveglianza e le abbiamo
consegnate al dottor Calabresi, che la prega di
contattarlo al più presto.”
“Sono
riuscita
a
interrogare
la
signora
Marika. – intervenne la poliziotta – Ci ha detto
che l’ufficio del Corsi aveva la luce accesa, lei è
entrata per spegnerla, utilizzando la chiave
numerata.”
“Adesso abbiamo anche il classico giallo
della stanza chiusa?”
“No, le porte a vetri hanno come maniglie
dei pomoli d’ottone. Quello esterno ha il solito
nottolino, quello interno invece ha un pulsante
che, quando è premuto, blocca la serratura
anche quando si esce. Come ha sicuramente
fatto l’assassino prima di andarsene.”
“Esiste passe-partout?”
“No, ogni chiave ha un numero inciso
corrispondente a quello di un solo ufficio.”
“Commissario
–
intervenne
Valerio
–
abbiamo pensato che fosse inutile tenere qui
le donne delle pulizie. Però abbiamo fatto
rimanere Imbesi e Righetti, gli ultimi a vedere
la vittima viva. La famiglia è stata avvertita e
andrà direttamente all’obitorio.”
“Vai con Carmen ad aspettarli. Verrò anch’io
a parlare con loro.”
Cosimo Imbesi si era quasi rattrappito.
“Commissario, siamo in presenza di un
serial killer?”
“È troppo presto per dirlo. Solitamente gli
omicidi seriali seguono uno schema fisso,
mentre l’attentato e l’omicidio non presentano
analogie.”
“Signor Imbesi, – continuò – mi dica con
calma tutto ciò che ricorda di ieri sera.”
“Guardi, di diverso dal solito non c’è stato
assolutamente nulla. Durante il mio penultimo
giro,
ho
visto
i
due
giovani
professori
chiacchierare tra loro davanti alla porta del
povero Corsi. Righetti è uscito con me, mentre
l’altro mi ha salutato dicendo che avrebbe
lavorato ancora un po’. Come sempre. Quando
dopo un quarto d’ora sono ripassato davanti
all’ufficio, ho visto la sagoma del professore
dietro
il
vetro
smerigliato.
Seduto
alla
scrivania, sembrava chino in avanti, come se
stesse scrivendo.”
“La luce era accesa?”
“Si, sicuramente. Se le lampade fossero state
spente, non avrei visto nulla e forse avrei
controllato che la porta della stanza fosse
chiusa.”
“Nel
suo
qualcuno?”
ultimo
giro,
ha
incontrato
“In quel corridoio nessuno, al primo piano
c’era Aliberti con alcuni studenti. Per fortuna
questa
volta
ci
sono
le
telecamere.
Se
l’assassino non è un uccello, lo prenderete.”
Bruno Righetti aveva l’aspetto di un uomo
su cui fosse passato un pesta-pietre.
“Dottore – esordì senza preamboli – le
confesso di essere terrorizzato. Qui c’è un
pazzo che ci ha presi di mira e uno dopo l’altro
ci ammazzerà tutti.”
“Professore, si calmi. Non è detto che i due
fatti siano collegati.”
“Senta, penso che anche voi siate convinti
che la mano assassina sia la stessa. Il prossimo
chi sarà? Un altro, o uno dei due che sono
riusciti a sopravvivere alle esplosioni? E poi
perché?”
Il commissario non sapeva proprio cosa
rispondergli,
più
che
dargli
ragione
onestamente non poteva, l’unica speranza
erano le telecamere.
“Professore, la prego di sforzarsi di pensare
con molta calma. Ieri è venuta tanta gente
estranea
all’ambiente
universitario,
lei
ha
notato anche solo un particolare che l’ha in
qualche modo stupito?”
“Tutto mi è parso nella norma, l’ultima cosa
che avrei potuto immaginare è che qualche
disgraziato potesse far del male a Giuseppe.
Era un ragazzo eccezionale…”
“Quando l’ha visto l’ultima volta?”
“Ieri sera, poco dopo le sette. Mi sono
fermato a parlargli davanti alla sua porta. Io
avevo fretta, dovevo andare a ritirare un paio
di scarpe in un negozio qui vicino. Ho visto
anche la guardia giurata con cui sono arrivato
fino all’androne.”
“Il suo collega le è parso tranquillo?”
“Tranquillissimo. Mi dispiace di non poterle
essere utile, ma sono sconvolto. E onestamente
ho paura.”
Il cellulare del commissario suonò. Era
Carmen Arteri. I genitori della vittima erano
arrivati all’obitorio.
“Arrivo.” le rispose.
Marco fece un respiro profondo.
“Coraggio!” si disse entrando nella sala
d’aspetto di medicina legale dove la famiglia
Corsi, padre, madre e due sorelle, erano seduti
vicini, in totale silenzio. Gli occhi che si
alzarono a guardare chi fosse entrato, con la
speranza
assurda
di
una
apparizione
miracolosa, si riempirono di lacrime. Gocce
incessanti scivolavano dalle guance alle mani
intrecciate, ma i familiari di Giuseppe non le
asciugarono,
né
si
mossero
e
neppure
parlarono.
“Buonasera…”
disse
il
commissario,
accorgendosi di aver esordito con una parola
infelice.
Interrogare la famiglia di una vittima era un
incarico penoso a cui non avrebbe mai fatto
l’abitudine.
Non poté finire la frase, per l’arrivo di
Carmen e di un inserviente dell’obitorio.
“Signor Corsi, se vuol venire…” dissero. La
salma era pronta per essere riconosciuta.
Tenendosi per mano, seguirono l’infermiere
e la poliziotta.
Marco andò nell’ufficio del dottor Gribaudo.
“Salve commissario, stavo giusto finendo di
scrivere il referto dell’autopsia.”
“È emerso qualcosa di nuovo?”
“L’unica
cosa
che
potrebbe
essere
interessante, è la certezza del momento della
morte: tra le sette e le otto di lunedì sera.
Inoltre il corpo è rimasto in posizione seduta
per almeno sei ore, poi il cadavere è scivolato
in terra. L’assassino è certamente un uomo,
perché il pugnale è stato spinto nel dorso della
vittima
fino
al
blocco
trapassato
muscoli
legamenti,
è
e
entrato
del
reciso
nel
manico,
ha
tendini
polmone
e
e
ha
letteralmente diviso in due l’arco aortico.
Anche se l’arma si è infilata in uno spazio
intercostale,
uno
sfracello
del
genere
ha
richiesto una forza e un’energia che nessuna
donna potrebbe avere.”
“Se ho ben capito l’omicida era alle spalle
della vittima.”
“Sicuramente, il professore era seduto in
poltrona, l’altro in piedi alla sua sinistra. La
baionetta
è
un’arma
micidiale.
Questa,progettata per il moschetto Carcano
modello 91/38, ha una lama ripiegabile lunga
circa venti centimetri dalla doppia affilatura.”
“Quindi l’omicida non era mancino.”
“Anche questa è una cosa certa. Il pugnale è
entrato tra la scapola destra e la colonna, a
livello della seconda vertebra dorsale, diretto
al centro con inclinazione verso sinistra e
verso il basso. Se il pugnale avesse incontrato
una costa, il Corsi non sarebbe morto subito, si
sarebbe alzato in piedi urlando e avrebbe di
certo tentato una difesa.”
I famigliari di Giuseppe trovarono la forza di
andare
in
Questura
nell’ufficio
del
Commissario.
La madre confermò che il figlio era di
ottimo umore, che si era inserito bene nel
nuovo ambiente di lavoro e che confidava di
poter rientrare nella sede di Pavia entro pochi
anni.
La
sorella
più
giovane
avrebbe
voluto
aggiungere qualcosa, l’ombra di un sospetto
che suo fratello aveva avuto e che le aveva
confidato. Ma non ne ebbe il coraggio o le
sembrò una inutile cattiveria. E, anche lei,
purtroppo, tacque.
Marco si accorse all’improvviso di essere
stanco, così stanco da non avere la forza di
alzarsi e andare a casa.
“Dottore, abbiamo i filmati delle telecamere
di
sorveglianza.
–
disse
Minici
entrando
nell’ufficio – se vuole possiamo cominciare a
visionarli.”
“Ma questo ha la carica a molla?” pensò il
commissario, ricordandosi che avrebbe anche
dovuto telefonare a Savino.
“Senti Rocco – rispose – adesso tu prendi le
pellicole o i CD o quel che diavolo sono e li
chiudi in cassaforte. Poi chiami il dottor
Calabresi e gli dici che ci sentiremo domani.
Valerio mi aveva detto che voleva parlarmi,
ma me ne sono dimenticato. Inventa una scusa
qualsiasi. Quel che era urgente, l’abbiamo
fatto, il resto può aspettare.”
23
Intanto Nicolasi stava andando nella sua
nuova casa con la giovane novella consorte
ancora vestita di bianco.
La mattina dopo sarebbero partiti per il
viaggio di nozze a Parigi.
Il pranzo seguito alla cerimonia era stato
devastante. Più il tempo passava, più Dario si
convinceva
di
aver
fatto
un
errore
irrimediabile.
La mente gli mandava immagini di libertà
perduta, sostituite da visioni terrificanti dei
suoi giorni futuri. Quando l’auto si fermò,
ebbe la tentazione di scappare. Invece prese
per mano Adriana, salì sull’ascensore e le fece
varcare la soglia tenendola in braccio.
Finalmente soli.
Dario non vedeva l’ora di togliersi la corazza
da cerimonia e la cravatta-capestro e di farsi
una doccia.
Quando emerse dal bagno, trovò che tutte le
luci erano state spente. La camera da letto era
in penombra e, davanti all’unica lampada
accesa c’era Adriana, in piedi, completamente
nuda. La giovane si era tolta, insieme all’abito
bianco, la pudicizia che aveva frenato fino a
quella sera la sua naturale e prepotente carica
erotica.
Dario la guardò come fosse la prima volta.
Vide la sua esplosiva bellezza, i seni voluttuosi,
la vita sottile, la pancia morbida e tesa, il
triangolo nero e riccioluto, le si avvicinò come
fosse un miraggio e quando scorse la curva
arrotondata
delle
natiche,
sentì
crescere
dentro di sé un’onda di passione e di desiderio.
Le prese il volto tra le mani e cominciò a
baciarla sugli occhi, sulla bocca, sul collo, sui
capezzoli, sempre più giù finché la marea li
avvolse, il tempo si fermò e il piacere fuse
insieme i loro corpi avvinghiati.
All’alba
si
addormentarono,
distrutti
dall’amore.
Il loro volo per Parigi era alle sette di
mattina.
Arrivarono all’aeroporto alle nove e mezza.
“Può fare qualcosa?” domandò Nicolasi,
mostrando i biglietti alla giovane francese del
check-in.
“Sa – aggiunse lo sposo – questo è il nostro
viaggio di nozze…”
“Ah, l’amour!” pensò l’hostess di Air France.
“Aspettate.” disse allontanandosi con biglietti
e documenti.
Era la persona giusta. Aveva appena lasciato
un ingegnere belga ricco, fedele e noioso per
un pilota italiano traditore e bugiardo, nonché
figlio di puttana. Ma le sue mani sapevano
farla vibrare come un violino, era bello come
un dio e, in fatto di sesso, aveva più fantasia
del diavolo. Sapeva bene la francesina che per
amore si può perdere la testa, il buon senso e
la dignità. Altro che un aereo.
Riuscì ad imbarcarli sul primo volo per
Parigi.
24
Dario aveva affidato la moglie di Rocco alle
cure di Elisa che aveva provveduto a tenerle il
bicchiere del vino sempre mezzo pieno. Alla
fine
dell’interminabile
pranzo
nuziale,
la
povera Elvira dava chiari segni di eccitazione
alcolica e dichiarava a voce sempre più
stentorea che avrebbe chiesto il divorzio,
perché era arcistufa di far sempre la parte della
vedova, nella prossima vita avrebbe sposato
un bancario.
Martedì
sera
Rocco
tornò
a
casa
spiritualmente preparato a sorbirsi una serie
di lamentele peggiore delle solite.
Elvira era seduta in poltrona, immobile e
muta, con l’aspetto sofferente e la boule
dell’acqua
mangiato
calda.
e
In
preda
soprattutto
all’ira
bevuto
in
aveva
modo
sconsiderato ed ora il suo stomaco si rifiutava
di svolgere il compito cui era preposto, e
cercava di far uscire dall’alto ciò che avrebbe
dovuto scendere verso il basso.
“Amore,
ti
senti
male?”
le
chiese
premurosamente il marito.
“Malissimo…” rispose in un soffio.
Fece appena in tempo a raggiungere il
bagno.
Rocco passò la notte a detergerle il sudore e
a preparare limonate.
“Grazie…” gli sussurrò la moglie quando,
dopo
un
numero
imprecisato
di
corse,
ricominciò a sperare di poter sopravvivere, e,
riconoscente, lo perdonò.
La stessa sera, Marco arrivò a casa sognando
di sdraiarsi sul letto e di dormire per dodici
ore.
“Ciao amore.! – disse Elisa andandogli
incontro.
Marco la baciò chiedendole come fosse
andata la festa di nozze.
“Dipende dai punti di vista. Per la maggior
parte degli invitati, benissimo, ma il pranzo è
durato decisamente troppo...”
“E la moglie di Minici?”
“Ah,
un
vero
spasso.
Era
davvero
imbestialita, impossibile farla ragionare, certo
che il povero Rocco avrà una serata difficile.”
25
L’aria notturna faceva oscillare i rami degli
alberi. La luce filtrava attraverso le imposte,
proiettando delle ombre mobili sulle pareti
della stanza. Nel letto si intravvedeva la forma
di un corpo sotto le lenzuola. Nel capo,
appoggiato su un cuscino, risaltavano gli occhi
spalancati, dallo sguardocattivo e soddisfatto. I
pensieri cantavano silenziosi inni di vittoria.
“Giustizia è stata fatta – dicevano – che
provino a prendermi.”
26
Mercoledì 23 giugno
La mattina successiva il commissario arrivò
in Questura alle sette e mezza. Minici lo stava
aspettando per la visione dei filmati.
“Da quando cominciamo?” domandò.
“Dalle riprese di lunedì, dopo le sei di sera,
quando il Corsi era ancora vivo e vegeto.”
Il film era chiarissimo, le persone che
transitavano
nel
corridoio
erano
ben
riconoscibili, la speranza di vedere in faccia
l’assassino cominciava a crescere.
“Commissario,
come
mai
non
si
vede
l’ufficio della vittima?”
“Per la stramaledetta privacy, perché è
situato di fronte ai gabinetti, e si sa, quelli
intelligenti non pisciano come noi poveri
mortali.
Comunque
se
l’assassino
non
è
entrato volando, dovrebbe essere stato ripreso
dalla videocamera.”
Si
vide
Righetti
mentre
parlava
con
qualcuno che a tratti compariva sullo schermo,
quanto bastava però per riconoscerlo per il
povero
Giuseppe;
Imbesi
con
cui
successivamente
Bruno
percorse
arrivò
tutto
il
corridoio verso l’uscita.
L’orologio segnava le 19.10.
Alle 19.25 ricomparve la guardia giurata, che
dopo un minuto tornò indietro. Tutto secondo
copione.
Poi, fino al mattino, più nulla.
I due poliziotti riguardarono le immagini a
diversa grandezza e risoluzione. Alla fine
decisero
che
l’assassino
si
fosse
nascosto
durante la cerimonia della mattina.
Fu a quel punto che arrivò la convocazione
del Questore.
“Ragazzi – esordì – la nostra città sta dando
al mondo una pessima immagine di sé. Come
è possibile che un criminale distrugga un
palazzo
seicentesco,
ferendo
persone
importanti, e poi, nello stesso luogo e a soli
due mesi di distanza, ammazzi impunemente
un giovane professore? Il Prefetto, il Rettore, il
Preside di Facoltà e pure il Sindaco mi hanno
telefonato, sono tutti in allarme, ragazzi,
dovete
assolutamente
fermare
questo
disgraziato prima che il panico dilaghi. A che
punto siete con le indagini?”
Il commissario parlò, raccontando con calma
quel che avevano fatto e quel che contavano di
fare. Purtroppo dovette riconoscere che per il
primo crimine non si era trovato un movente
che non fosse quello del gesto sconsiderato di
un pazzo. Cosa che, alla luce del secondo
omicidio, era stata definitivamente scartata.
Nessuno più dubitava che i due eventi
delittuosi fossero opera della stessa mano.
“Tutti sono convinti che se non troviamo un
assassino la colpa sia nostra. – scoppiò a dire il
commissario appena tornato in ufficio – Poi,
se lo prendiamo, lo compatiscono e a gli
danno, oltre al minimo della pena, sconti e
benefici come fossero caramelle. Così quelli
escono e delinquono e a noi tocca riprenderli.”
“Rocco, vi voglio tutti nel mio ufficio tra
un’ora.”
“Allora, ragazzi – esordì il Ferrero all’inizio
della riunione – spero che Minici vi abbia
illustrato la situazione.”
I due giovani poliziotti annuirono.
“Bene, dobbiamo scoprire in che modo
l’assassino è arrivato all’ufficio della vittima.
Potrebbe essersi nascosto in una delle tre
stanze situate al fondo del corridoio, poi, la
sera sia venuto fuori, abbia pugnalato il
poveretto e se ne sia andato servendosi
dell’uscita di sicurezza. Il nostro uomo avrà
probabilmente approfittato della confusione
di lunedì mattina, per cui dovete controllare
sui filmati il percorso di ogni singola persona,
verificando
se
dopo
essere
entrata
nel
corridoio ne è poi uscita Ci sarà un certo
numero di uomini o donne che non vedrete
tornare
indietro.
lasciato
il
Sono
palazzo
quelli
attraverso
che
hanno
il
cortile.
Segnatevi queste persone, poi cercheremo di
sapere chi sono e di interrogarle. Minici vi
darà una mano. Io intanto vado a rivedere il
luogo del delitto.”
Il commissario impiegò pochi minuti ad
arrivare davanti al Dipartimento. Era di cattivo
umore, il problema che lo tormentava era la
mancanza di un movente plausibile, l’unico
filo che legava le tre vittime era la vicinanza
nel luogo di lavoro e l’analogia dei loro campi
di
ricerca.
Potevano
aver
rubato
un’idea
vincente a qualcuno? Corsi era lì da sei mesi,
cosa poteva aver fatto di tanto terribile da
meritare la condanna a morte?
Marco entrò nel corridoio, grande e deserto
anche se il palazzo era agibile al pubblico.
Il commissario bussò alla porta di Righetti.
Nessuno rispose.
“Evidentemente non se l’è sentita di venire.
Se la starà facendo sotto dalla paura.” Pensò.
Decise di provare con gli ultimi tre uffici,
situati in fondo in una zona non ripresa dalla
telecamera, assegnati ai professori Riccardo
Guidoni, Renata Ventura e Ennio Pastrengo
Il professor Guidoni gli aprì e lo fece
entrare.
“Buongiorno commissario, si accomodi.”
Marco si ricordò di averlo visto in Questura,
nei
giorni
tumultuosi
dell’indagine
per
l’attentato. Era un uomo di cinquant’anni, di
statura media, con barba e capelli ancora folti
e scuri, e uno sguardo vivace ed arguto.
“Purtroppo siamo ancora qui, professore.
Cosa ne pensa di questa nuova tragedia?”
“Sono sconvolto, come tutti i miei colleghi.”
“Lei lunedì era presente alla cerimonia…”
“Sicuro.”
“…ed è tornato a casa alle…”
“…cinque, più o meno.”
“Quindi lei dopo il rinfresco è rientrato nel
suo ufficio.”
“Certamente, nessuno di noi è andato a
pranzo!”
Il commissario si alzò in piedi e fece il giro
della stanza.
“Pensate che l’assassino si sia nascosto da
qualche parte? Come può verificare, qui non ci
sono mobili in cui cacciarsi, né rientranze e
ancor meno tendaggi.”
“Penso che voglia chiedermi se ho un alibi –
aggiunse sorridendo – ce l’ho e anche bello
solido. Ieri sera alle sette sono andato con mia
moglie alla stazione a prendere i suoi genitori
che arrivavano dalla Calabria. Tra l’altro mio
suocero è un ex carabiniere… Però l’ufficio
successivo al mio è vuoto poiché Pastrengo è a
un convegno in Canada.”
Il commissario tirò fuori dalla tasca un
taccuino.
“Ennio
Pastrengo
quarantanove,
–
anche
lesse
due
mesi
–
anni
fa
era
all’estero.”
“Vero, è in anno sabbatico e gira il mondo.”
“Chi ha la chiave del suo studio?”
“Sicuramente le donne delle pulizie, il
centro stampa… e poi sinceramente non so.”
Finalmente
era
spuntato
qualcosa
di
concreto.
Nel corridoio, Marco si imbatté in una bella
signora bionda che stava uscendo dall’ufficio
di fronte.
“Lei deve essere la professoressa Renata
Ventura – le disse – sono il commissario
Ferrero, e dovrei farle un paio di domande. Ha
qualche minuto?”
Le risposte furono all’incirca le medesime di
Guidoni. La signora era rientrata nella sua
stanza alla fine del rinfresco per ritirare borsa
e cartella. Se ci fosse stato qualcuno lo avrebbe
visto. Dopo si era precipitata a casa, aveva
preso suo figlio più piccolo e lo aveva portato
a una delle terribili feste di bambini ed era
riuscita a trascinarlo fuori non ricordava bene
l’ora, ma sicuramente tardi.
Marco telefonò a Minici.
“Allora, Rocco, come sta andando?”
“Bene, direi, ma fino a domani non avremo i
risultati.”
“Non preoccupatevi, l’importante è non
commettere errori. Tu però adesso dovresti
venir qui e mettere i sigilli allo studio di un
certo Pastrengo, che pare sia sempre all’estero.
Il suo ufficio è l’unico in cui potrebbe essersi
nascosto l’omicida.”
Il commissario si sistemò in un bar all’aperto
davanti al palazzo, in una larga via pedonale.
Era la prima giornata veramente calda, dopo
un inverno gelido e una primavera grigia a
piovosa. Si godeva quel momento di relax
notando come la luce del sole fosse sufficiente
a infondere un po’ di ottimismo.
Pensò ai suoi bambini, che non sentiva da
due giorni. Era il momento giusto per una
telefonata tranquilla.
“Ciao,
mamma,
come
va
la
gestione
dell’asilo?”
“Ciao, Marco. Qui sono tutti in forma e pieni
di vita. Però i tuoi figli hanno la nostalgia del
loro papà.”
“Hai ragione, ma siamo in vera emergenza,
per giunta un ispettore è in viaggio di nozze…”
“Aspetta che sta arrivando Giovanna…”
“Ciao, papalino! Quando vieni a trovarci?”
chiese, senza troppi preamboli.
“Domani sera.” rispose Marco, che aveva un
debole per quella bambina simpaticissima.
“Che bello! Domani il nonno ci porta tutti a
mangiare la pizza.”
“Tutti chi?”
“Tutti, tutti, anche gli zii e Ugo.”
“Benissimo, ciao amore, ripassami la nonna.”
“Mamma, cos’è questa idea della pizzeria?
Mica sarete ammattiti ad andarci con sei
bambini!”
“E un cane.”
“Ma Ugo non può stare a casa?”
“Senti, caro, io alle mie cose ci tengo, e il tuo
cane quando è chiuso in una stanza gratta la
porta e urla come un pazzo.”
“Non potete lasciarlo in giardino?”
“Ah, ma allora non conosci tuo figlio. Paolo
farebbe una scena madre, dice che Oscar lo
sbrana.”
L’Oscar in questione, era il pastore tedesco
dei nonni, un bestione tanto grosso quanto
pacifico, la cui unica aspirazione era quella di
dormire in un posto tranquillo senza che Ugo
gli
saltasse
addosso
mordicchiandogli
le
orecchie.
Quando finì la telefonata il commissario si
accorse di non sorridere più. Il pensiero di
dover
gestire
i
desideri,
le
richieste,
le
indecisioni, le macchie sui vestiti, l’acqua
versata, i pianti, i dispetti, le voci soverchianti,
gli sguardi infastiditi, la pizza caduta, e
soprattutto il cane questuante, senza poter
riportare la calma con due urlacci, quattro
scapaccioni e una bella pedata, lo rendeva
nervoso più di quanto avrebbe voluto.
Salì allora al primo piano, e bussò alla porta
dell’ufficio del professor Andreoli.
Lo aveva visto ad aprile e già non gli era
parso in buona salute. Ma ora gli sembrò
decisamente peggiorato.
“Professore buongiorno!” gli disse Ferrero.
“ B u o n d ì , commissario,
la
stavo
proprio
aspettando. Si accomodi e mi dica se possiamo
sperare in una veloce soluzione dell’indagine.”
“Qualche passo forse lo abbiamo fatto, sono
qui
proprio
per
chiedere
la
sua
collaborazione.”
“Siamo tutti disponibili, ispettore, per noi
l’omicidio del povero Corsi è una doppia
tragedia. Non solo abbiamo perso un valido
docente,
ma
Dipartimento
l’immagine
ne
è
uscita
del
nostro
fortemente
compromessa. Mi dica cosa posso fare per lei.”
“Come
saprà,
abbiamo
requisito
le
registrazioni delle telecamere di sorveglianza.
Purtroppo circa la metà del corridoio al
pianterreno non è visibile…”
“Di questo sono purtroppo responsabile
anch’io, e me ne dispiace, ma ero convinto che
le esplosioni fossero opera di un pazzo e che
non corressimo altri pericoli.”
“Una delle ipotesi è che l’omicida si sia
nascosto nello studio del professor Pastrengo
approfittando della confusione della mattina, e
ci sia rimasto fino alla sera. Vorremmo essere
autorizzati a far entrare la Scientifica.”
Mentre stava parlando, la curiosità del
commissario era stata attratta da un sigaretta
elettronica.
“Signor detective, sono certo che Ennio non
avrebbe nulla in contrario a farvi esaminare il
suo ufficio. Vedo che ha notato la mia finta
sigaretta, è un fumatore anche lei?”
“Non più, un anno fa ho deciso di smettere e
mi è passata anche la voglia.”
“Beato lei, io sto sempre peggio. Ho preso
questo surrogato sperando che servisse a
qualcosa,
Purtroppo
ma
è
stata
secondo
una
il
spesa
inutile.
cardiologo,
se
continuassi a fumare, non arriverei alla fine
dell’anno, e allora cerco di farmi passare il
nervosismo mangiando caramelle. Ma mi
dica, scusi se l’ho interrotta...”
“Vorrei solo sapere chi ha le chiavi di tutti gli
uffici.”
“Soltanto l’impresa di pulizia e i tecnici del
centro stampa. La segreteria ne tiene una
copia nella cassaforte per i casi di emergenza.
Ma le consiglio di chiedere ad Aliberti, l’ho
visto poco fa…”
“Professore, grazie di tutto. E, non mangi
troppe caramelle…”
“Ci
proverò,
signor poliziotto, sappia che
aspetto notizie.”
Marco
pensò
di
non
essere
mai
stato
chiamato in tanti modi differenti in così poco
tempo.
Tanto
per
cambiare
l’Aliberti
era
in
compagnia di una studentessa.
“Professore – disse ridendo il commissario
dopo che la fanciulla fu uscita – il direttore mi
ha detto di chiederle dove vengono tenute le
copie delle chiavi degli uffici.”
“A quanto mi risulta il Centro stampa ha una
copia delle chiavi in una bacheca chiusa con
un lucchetto. Lei pensa che il bastardo che ha
ucciso Giuseppe ne abbia rubata qualcuna?”
“Sì, una in particolare.”
“La cosa più semplice è andare a chiedere.
Venga con me.”
Risultò che il cosiddetto Centro stampa non
veniva mai lasciato incustodito, nessuno aveva
scassinato la porta e il lucchetto non era stato
rotto.
Restavano le donne delle pulizie.
“Ora è troppo tardi – disse Aliberti – sono
andate a casa. Se ha urgenza, potremmo
telefonare alla responsabile.”
“Signora
Lavinia,
buongiorno,
sono
il
commissario Ferrero…”
“Cosa è successo?” esclamò la responsabile
dell’impresa di pulizia.
Marco ci mise un po’ a tranquillizzarla,
indubbiamente il ritrovamento del cadavere
non era stato un bel momento per nessuno.
A quanto disse, nessuna delle sue dipendenti
era entrata bell’ufficio di Pastrengo dopo il
giorno dell’omicidio.
Lavinia conservava le chiavi nell’antibagno
del corridoio a piano terra e ne aveva
particolare cura: alla fine di ogni giornata
controllava che non ne mancasse nessuna e le
chiudeva in un armadio di cui nessuno aveva
forzato la serratura.
Il commissario scese le scale. Minici aveva
sigillato la stanza di Pastrengo e ora aspettava
l’ordine di convocare la Scientifica.
“Rocco, cosa ne pensi? Ti sembra plausibile
l’idea che l’omicida se ne sia rimasto tutto il
giorno nascosto in un angolo dell’ufficio,
aspettando il momento giusto per saltar fuori e
pugnalare il povero professore?”
“In fondo si trattava solo di aver pazienza...”
“La domanda è: come ha fatto ad entrare?
C’è un’unica porta e nessuno ne ha mai rubato
la chiave.”
“Commissario, ma ‘ste serrature le apre
anche un bambino. Vada su internet e le
insegnano come fare.”
I due passarono in Questura per vedere
come procedesse il controllo di filmati.
I giovani avevano fatto un ottimo lavoro.
Finora avevano individuato sei persone che
presumibilmente erano uscite dal portone del
cortile. Tra loro poteva nascondersi l’assassino.
“Bravi – disse il commissario – adesso
andate a casa a riposare gli occhi. Rocco tu
contatta la Scientifica, io voglio prendere
qualche appunto finché ho le idee chiare.
Domani
arriverò
non
prima
delle
otto,
ricordati che il Questore ci aspetta. E poi dà
una controllata agli armadietti delle chiavi e
verifica che davvero non sia stato possibile
prendere quelle dell’uscita di sicurezza.”
27
Giovedì 24 giugno
La mattina dopo Marco era di ottimo
umore.
“Allora?” chiese a Minici.
“I ragazzi sono già al lavoro e la Scientifica è
andata
a
fare
i
rilievi
nella
stanza
del
Pastrengo.”
“Venendo qui mi è venuta un’idea. E se il
nostro uomo fosse direttamente entrato dalla
porta di sicurezza?”
“E come avrebbe fatto? Le serrature delle
uscite
di
impossibile
emergenza
aprirle
senza
sono
particolari,
chiavi
e
senza
scasso.”
“Rocco, come vedi il nodo di tutto il
problema sono le stramaledette chiavi.”
“Certo che la guardia giurata avrebbe avuto
tempo e modo per commettere l’omicidio.”
“Idem
per
gli
esplosivi.
Ma
è
troppo
indiziato per essere colpevole, mi sentirei di
mettere la mano sul fuoco che è del tutto
innocente.”
La riunione col Questore fu abbastanza
burrascosa.
Uscendo, il commissario si fermò a parlare
con i giornalisti, giusto per rettificare le
fantasie che avevano scritto.
Poi passò il resto della giornata con Minici,
Arteri e Signorini. Era ora di tirare le somme
sui risultati delle videocamere.
Le persone sospette erano cinque. Tre erano
professori già interrogati durante l’indagine
del primo crimine. I restanti, un uomo e una
donna, erano dei perfetti sconosciuti.
“Rocco, cerca i numeri di telefono dei
docenti, chiamali e convocali. Ci devono dire
perché se ne sono andati prima della fine e
dove erano tra le sette e le otto di lunedì sera.
Uno di questi è il professor Micheletti, un
essere astioso e antipatico, di tutti è quello che
più si avvicina all’immagine di un assassino.
Agli individui misteriosi ci penso io.”
Ferrero andò a cercare Mario Aliberti.
“Non
le
farò
perdere
troppo
tempo,
professore, vorrei solo che mi dicesse se
riconosce chi sono queste due persone che
erano alla cerimonia di lunedì.”
“Questa – disse indicando la signora – è la
moglie di Carlo Besozzi che ad aprile era in
ospedale. L’altro dovrebbe essere un architetto
dell’ufficio tecnico dell’Università, ma non so
come si chiami. Posso sapere perché vi
interessano queste persone?”
“Perché se ne sono andate passando dal
cortile.”
“L’architetto si sarà rotto le palle, la signora
Besozzi immagino che avesse fretta. Hanno un
bambino
con
grossi
problemi
e
devono
sempre andare a prenderlo a scuola.”
“Rocco! – gridò il commissario dopo aver
parlato con Aliberti – io adesso vado a casa.”
Minici lo raggiunse sulle scale.
“Ho già contattato i tre professori, Besozzi
dovrebbe arrivare tra poco, gli altri due mi
aspettano
all’Università
domani
verso
mezzogiorno.”
“Bene. Speriamo che salti fuori qualcosa.”
28
La
serata
in
pizzeria
fu
un
disastro
annunciato. I bambini erano stanchi, nervosi
ed eccitati dall’attesa dell’evento straordinario.
Il loro tavolo era nel mezzo di un vasto locale
senza aria condizionata, l’umidità e il caldo
erano
del
definire
mezz’ora,
tutto
le
insopportabili.
ordinazioni
l’attesa
ci
Solo
volle
successiva
fu
più
per
di
snervante,
metà delle bibite venne versata sulla tovaglia
con conseguenti pianti e accuse reciproche,
ma il clou della serata fu il momento in cui
Ugo
piombò
tra
i
piedi
di
un
giovane
cameriere che portava in equilibrio sulle
braccia tre grossi piatti con pizze fumanti. Il
ragazzo riuscì a non rovesciarne nessuna, ma
l’occhiata che lanciò al cane e ai suoi padroni
avrebbe fuso l’iceberg del Titanic.
Marco si scusò e poi con voce ferma e
sibilante comunicò ai bambini che dovevano
mangiare, stare zitti e non piangere, alla prima
lacrima l’intero asilo sarebbe stato portato a
casa.
“Adesso chiudo Ugo in macchina – aggiunse
– Paolo provati solo a dire qualcosa e giuro
che lo picchio.”
Non fu un’idea felice.
Quando uscirono, il cane li accolse con
frenetici saltelli all’interno di un’auto in cui
sembrava fosse nevicato. In meno di mezz’ora,
il piccolo animale aveva rosicchiato i sedili
strappando le fodere e facendo uscire tutta
l’imbottitura.
Marco
cacciò
ammutolirono.
un
urlo,
gli
altri
29
Venerdì 25 giugno
La
mattina
successiva
Marco
portò
la
macchina in carrozzeria.
“Ma cos’avete? Un sanbernardo?”domandò il
meccanico, quando seppe chi aveva causato
un simile sfracello.
Alla
vista
del
preventivo
di
spesa,
il
commissario si sentì salire la pressione alle
stelle.
In Questura Minici lo stava aspettando con
uno strano brillio malizioso negli occhi, come
avesse importanti novità da comunicargli.
“Allora Rocco, cos’hai da dirmi?”
“Nulla di buono, purtroppo. La Scientifica
ha finito i rilievi nello studio di Pastrengo,
secondo il dottor Calabresi dopo le donne
della pulizia nessuno è più stato nella stanza e
tantomeno si è nascosto.”
“L’unica ipotesi rimane quindi quella che
l’assassino sia entrato dall’uscita d’emergenza.”
“A proposito, per quanto riguarda le chiavi
della porta di sicurezza, nessuno può averle
usate perché sono ancora sigillate da una
specie di guscio di plastica.”
“Qualcuno
ha
guardato
i
video
del
parcheggio?”
“Sì. Al mattino il cortile era pieno di auto,
che sono uscite pressoché tutte entro le
diciotto. Sono rimaste la Panda della guardia e
la nuova Cinquecento di Righetti. Alle 19.50 se
n’è andato l’Imbesi, e alle 19.25 il professore
portando, oltre alla solita cartella, una specie
di grosso pacco regalo.”
“Chi chiude il portone di ingresso la sera?”
“La guardia giurata. Per entrare dopo le
venti ci vuole la chiave, ma uscire è sempre
possibile.”
“Il nostro assassino potrebbe essere rimasto
immobile contro il muro dell’ufficio di Corsi
per andarsene quando il palazzo era deserto.
Ma il problema resta sempre lo stesso: da dove
diavolo è entrato? Le telecamere non hanno
ripreso il passaggio di qualcuno a piedi?”
“No, fino alla mattina di martedì, quando è
arrivata la signora Lavinia, non è più entrato
nessuno. Anche nel cortile i video registrano
solo una parte; l’androne, la sbarra e la bussola
con la porta di sicurezza che collega il
parcheggio al corridoio del pianterreno, non si
vedono.”
“Quindi chiunque potrebbe essere uscito…
Va beh! Altro?”
“Ieri sera ho parlato colprofessor Micheletti.
È un vero stronzo, ha sputato veleno su tutto,
cerimonia, rinfresco, invitati; su Righetti poi
aveva
solo
più
da
sparare,
deve
avere
un’invidia che lo rode fin nel midollo…
purtroppo ha un alibi a prova di bomba.
Sostiene di aver portato la madre a Cuneo
dalla sorella e di essere rimasto a cena dalla zia
fino alle dieci di sera.”
“Bene.
Comunque
stanotte
ho
scritto
l’elenco delle persone il cui alibi dovrà essere
controllato,
sicuramente
aggiungeremo
o
cancelleremo dei nomi, sarà un lavoro lungo e
l’assenza di Nicolasi si farà sentire.”
“Forse Dario arriva già questa sera.”
“Questa sera? Ma non doveva restare almeno
una settimana nella ville lumière?”
“Ecco!”
“Ecco cosa?”
“Ecco…hanno avuto problemi di salute.”
“Problemi gravi?”
“Ecco…Adriana è andata al pronto soccorso.”
“Misericordia, cos’ha visto?”
“Un’infiammazione.”
Minici arrossì.
Marco non era nelle condizioni di spirito
adatte alla pazienza.
“Rocco, mi vuoi dire o no quale è stata la
causa dell’infiammazione di Adriana, cazzo!”
“Ecco…”
“Rocco, se ancora una volta mi rispondi ‘ecco’
ti mando a dirigere il traffico. Vuoi parlare in
modo chiaro o no?”
“Ecco… Dario mi ha fatto giurare che non
l’avrei detto a nessuno.”
“Perché?”
“Perché si vergogna…” rispose, sempre più
rosso e imbarazzato.
“Rocco, ho avuto una serata da incubo e una
notte insonne, per cui adesso ti ordino …” nella
mente del commissario si fece strada un’idea
che avrebbe spiegato la ritrosia del povero
ispettore. Sogghignò.
“Non mi dire che il nostro Nicolasi, alto,
magro e palliduccio si è rivelato un vero toro
da monta.”
Rocco annuì, visibilmente sollevato.
“E per troppo sesso ha spedito la giovane
moglie all’ospedale!”
Marco
si
appoggiò
allo
schienale
della
poltrona e scoppiò in una risata che in un
colpo
spazzò
il
nervosismo
e
la
rabbia
accumulata per l’ingente danno provocato da
Ugo.
“Rocco, raccontami quello che sai.”
“Ieri la poverina ha cominciato a sentire
male, Dario l’ha portata al pronto soccorso…In
ospedale le hanno dato antibiotici e le han
detto di tornare in Italia perché a volte occorre
operare.”
“Presumo
che
per
maggiori
dettagli
dobbiamo aspettare che ‘cazzo bollente’ torni
a
lavorare!”
concluse
cercare di contenersi.
ridendo
senza
più
30
All’Università la vita era tornata normale.
In una delle stanza un dito pigiò il pulsante
di accensione del computer. Dopo pochi
secondi di attesa il video si illuminò, due mani
si mossero veloci sulla tastiera per aprire la
casella di posta.
“Quanti messaggi inutili!” pensò la mente. Il
mouse evidenziò quelli da eliminare.
Il puntatore si bloccò in corrispondenza di
un ‘oggetto’ inquietante: Giuseppe Corsi.
Il mittente era criptato.
Si udì il rumore del doppio clic e sullo
schermo comparvero le parole che avrebbero
cambiato per sempre la vita del destinatario:
IO TI HO VISTO
Nell’ufficio il silenzio divenne solido come
una pietra. La mente sentì il cuore fermarsi
per
poi
riprendere
a
battere
in
modo
parossistico. Il messaggio doveva essere subito
cancellato. Forse era uno scherzo, forse un
sospetto, forse un errore, forse un incubo
creato dalla sua fantasia. Forse.
Perché mandare quel messaggio anziché far
denuncia alla polizia?
L’idea del ricatto aumentò lo stato di paura.
Cosa avrebbe dovuto dare in cambio del
silenzio?
Si rese conto di non poter nascondere il
terrore da cui si sentiva invadere, meglio
uscire
dalla
allontanarsi
stanza,
dal
andare
palazzo,
in
strada
e
camminando
il
cervello si sarebbe sbloccato e avrebbe avuto
un’idea, perché una soluzione c’è sempre,
basta trovarla.
Il computer si spense prima che la porta
dell’ufficio venisse chiusa a chiave.
31
“Rocco!” gridò il commissario.
“Siediti – gli disse, appena se lo vide davanti
– facciamo una ricapitolazione dei fatti. Mi
sembra che stavolta i media non abbiano
torto…”
“Andiamo bene!” pensò Minici senza battere
ciglio.
“… pazienza chi e perché, ma almeno come e
quando
dovremmo
essere
in
grado
di
stabilirlo.”
“Beh, il quando più o meno lo sappiamo…”
“Più o meno, appunto! Una forbice di un’ora
in cui l’Imbesi e il Righetti sono passati varie
volte nel corridoio, ed entrati e usciti dal
parcheggio, ti pare un’informazione precisa?
Sul come ho una quasi certezza: lo stronzo
assassino è arrivato dal cortile. Dobbiamo
assolutamente scoprire come abbia aperto la
porta di emergenza. Intanto incarica le reclute
di trovare il nome dell’architetto dell’ufficio
tecnico invitato al rinfresco. È di sicuro
estraneo
al
delitto,
ma
è
meglio
essere
prudenti.”
Ferrero e Minici andarono a fare una visita
illuminante del luogo del delitto.
Percorsero il corridoio molto lentamente,
fermandosi davanti all’uscita di sicurezza.
“È sicuramente passato di qui – disse quasi
tra sé il commissario – abbiamo stabilito che
non si è nascosto in un ufficio e neppure nei
bagni e che tutte le persone entrate sono poi
uscite molto prima dell’ora dell’omicidio;
allora se l’assassino non è l’uomo ragno, deve
essere
stato
in
grado
di
aprire
questa
stramaledetta porta.”
“Rocco – aggiunse – sai se la Scientifica ha
controllato la serratura?”
“Certo! E giurano che non è mai stata
forzata.”
Il commissario provò ad aprire la porta e a
lasciarla andare. Si chiudeva sempre da sola.
“Però – disse il Ferrero – sarebbe sufficiente
una piccola pietra o un pezzetto di legno che
tenga il battente appena accostato. Così si
potrebbe entrare dall’esterno senza dover
usare la chiave.”
“Dottore, facciamo in fretta a fare una
prova.”
I due poliziotti sentirono dei passi provenire
dal corridoio. Istintivamente di voltarono,
rimanendo di stucco.
“Vergine do’ Carmine!” esclamò a bassa voce
Minici, vedendo Righetti ridotto in pochi
giorni all’ombra di se stesso.
Il professore aveva in mano un bicchiere di
plastica e stava rimestando lo zucchero di un
cappuccino con una barretta trasparente. La
cosa assorbiva in tal modo la sua attenzione da
impedirgli di vedere i due uomini che lo
stavano osservando, esterrefatti: lo sguardo
spento, il colorito grigiastro, un certo tremito
nei
movimenti
avevano
trasformato
un
giovane uomo in un vecchio cadente.
“Professore
buongiorno.”
disse
il
commissario avvicinandosi.
“Buongiorno commissario.” rispose a bassa
voce.
“Possiamo parlarle un momento?” domandò
Ferrero.
Non avevano nulla da chiedergli, ma gli
sembrava
poco
caritatevole
liquidarlo
in
mezzo minuto.
Righetti si sedette alla scrivania, sempre
mescolando il cappuccino, e i due poliziotti gli
si accomodarono di fronte.
“Professore
–
esordì
il
commissario,
guardandolo bere a piccoli sorsi – la vedo
molto giù di morale…”
“Mi creda – rispose Bruno quasi sussurrando
– sto malissimo. Oggi sono venuto perché mia
mamma è sempre più insopportabile, ma
quando sono entrato e ho visto la porta di
Giuseppe chiusa dai vostri striscioni (piccolo
sorso)… sarei scappato via. Questo delitto mi
ha shoccato più del precedente dove ero stato
coinvolto e avevo visto tutto quel sangue…”
“È normale, non siamo delle macchine, se
un colpo riusciamo a reggerlo, il secondo ci
coglie
nel
momento
in
cui
stiamo
superandolo, e non abbiamo forze sufficienti a
reagire. Ha provato a parlare con un medico?”
“Per carità, ne ho uno in casa e tanto mi
basta. Solo capaci a dar pillole che fanno
rimbambire (piccolo sorso)…”
“Professore
vorrei
dirle,
in
anteprima
assoluta, come pensiamo che si sia svolto
l’omicidio di Corsi. Pensa di farcela a darci la
sua opinione?”
“Ci proverò.” rispose, finendo il cappuccino.
“Allora, la prima parte della tragedia è
avvenuta nel pomeriggio, quando il nostro
uomo ha infilato qualcosa tra i due battenti
della
porta
di
sicurezza,
bloccandone
la
chiusura automatica. Poi, dopo le sette di sera,
è entrato dal cortile, è scivolato lungo il muro
passando dietro il pilastro su cui è montata la
videocamera, ha svolto il compito che si era
prefisso, ed è uscito nello stesso modo.”
Righetti fissò in silenzio la parete di fronte,
poi a voce più alta e sicura domandò:
“Quando esattamente?”
“Ad esempio mentre lei era nel negozio e
l’Imbesi faceva l’ultimo giro…”
“Come avrebbe fatto a sapere che dovevo
andare a fare una commissione?”
“Potrebbe essere rimasto nell’ufficio di Corsi
fino alla chiusura completa del palazzo.”
“Mi pare che la sua ricostruzione non faccia
una piega…”
“Ancora una volta le chiedo se si ricorda di
aver visto qualcosa di insolito entrando nel
parcheggio, lunedì pomeriggio.”
“Guardi, la cosa che ricordo di più è che ero
veramente felice… Era anche una giornata
luminosa,
con
un
venticello
leggero
che
rendeva gradevoli i raggi del sole… per la
prima volta ho guardato le vetrine del negozio
di sport, poi sono entrato, ho pagato e ritirato
il pacco … infine sono uscito e non ho visto
nessuno, nel senso che mi sembra di non aver
incontrato né un uomo né una donna, che
vuole, ero in uno stato di grazia…”
La dimostrazione dell’ipotesi sull’invisibile
apertura dell’uscita di emergenza, riuscì al
primo colpo.
Marco
si
allontanò
per
rispondere
al
cellulare.
“Ciao,
amore
–
disse
il
commissario
rispondendo al ‘trillo del diavolo’– scusa se
non ti ho chiamato tutto il giorno, ma questa
inchiesta è peggio delle altre.”
“Volevo solo ricordarti che questa sera
dobbiamo andare in collina a prendere i
bambini.”
“Tranquilla, entro le sette di sera sarò a casa.
Però dovremo prendere la tua Panda…”
Ferrero e Minici andarono in Questura.
“Se la nostra ipotesi è giusta – decretò il
commissario
–
il
colpevole
deve
necessariamente essere tra chi, dopo le tre del
pomeriggio, è passato nel corridoio.”
“Il che significa controllare tutti gli alibi,
anche di quelli che in precedenza avevamo
scartato. Meno male che lunedì dovrebbe
tornare Dario…”
“Domani comunque vediamoci nel mio
ufficio, in modo da stabilire un piano di
lavoro. Intanto potresti anche telefonare a
Nicolasi in via amichevole, chissà che non
abbia voglia di mollare alla suocera la sposa
impenetrabile…”
Le
giovani reclute
Signorini
e
Arteri
riferirono di aver parlato con l’architetto
dell’Università,
che,
all’idea
di
essere
sospettato di omicidio aveva dato fuori da
matto e fornito come alibi la sua presenza, già
verificata,
ad
una
riunione
dei
dirigenti
dell’ufficio tecnico durata dalle sei alle nove di
sera.
Alle otto e mezza di quella sera, Marco aveva
fatto salire in macchina l’intera figliolanza.
Elisa si mise alla guida e cominciò a
scendere dalla collina e quando arrivarono a
casa, spiegò ai bambini come si sarebbero
dovuti comportare con il nuovo quadrupede.
“E Ugo?” domandò Paolo.
“Ugo resterà nel corridoio.” rispose suo
padre con un tono che non ammetteva
repliche.
Artemisia,
accucciata
sulla
sua
sedia
preferita, si limitò ad alzarsi e a guardare i
bambini ad uno ad uno più con stupore che
con apprensione. Come tutti i felini aveva un
sesto senso molto sviluppato e non le ci volle
molto a capire che quei piccoli essere umani
non erano pericolosi. Riportò i baffi in avanti e
si rimise comoda.
Giovanna era al colmo della gioia. Artemisia
era più di quanto avrebbe mai desiderato.
Ugo,
dietro
la
porta
chiusa,
diventava
sempre più nervoso. Tentò e ritentò finché
riuscì ad appendersi alla maniglia della porta,
ad aprirla e a catapultarsi in cucina.
Artemisia
non
fuggì,
si
gonfiò
fino
a
trasformarsi in una palla di pelo arruffato ed
emise
un
basso
bramito
continuo
e
minaccioso. Il cane mostrò i denti e ringhiò, la
schermaglia andò avanti per cinque minuti,
poi i due quadrupedi decisero di accettarsi, in
fin dei conti il mondo è grande e c’è posto per
tutti.
Quando venne l’ora di andare a dormire,
Giovanna prese in braccio la gattina e la mise
sul suo letto. Artemisia si stese contro il corpo
della bambina e, ronfando, si addormentò.
32
Era stato un torrido giorno d’estate, le
finestre delle case erano aperte e un vento
leggero
rinfrescava
i
corpi
dei
cittadini
addormentati.
L’aria notturna faceva oscillare i rami degli
alberi
carichi
di
foglie.
La
luce
filtrava
attraverso le imposte, proiettando delle ombre
mobili sulle pareti della stanza. Le lenzuola del
letto erano tese, il cuscino era gonfio. Nel buio
si intravvedeva una figura seduta a un tavolo.
Improvvisamente lo schermo di un computer
si accese e la camera si rischiarò. La figura
rimase ferma a lungo, poi le dita si mossero
agili sulla tastiera; dopo un ultimo clic, sul
video comparve la scritta inquietante
IO TI HO VISTO
Gli occhi rimasero immobili a fissare la frase
lapidaria e terrificante, la paura ebbe il
sopravvento
sull’abituale
autocontrollo,
i
battiti del cuore aumentarono e il respiro
divenne affannoso. Lentamente la ragione
riuscì a riportare l’ordine tra i pensieri che si
agitavano nella mente, occorreva essere calmi
per decidere le mosse da fare. La freccia del
mouse si mosse, sullo schermo il messaggio
venne sostituito dalla lista delle mail arrivate
nel pomeriggio. Lo sguardo si riempì di
terrore: un’altra aveva come oggetto ‘Giuseppe
Corsi’. Era stata spedita subito dopo e diceva
DOVRAI UCCIDERE ANCORA
La stanza ritornò buia. Sul letto un corpo si
agitava in preda a incubi di morte. Nel capo,
appoggiato sul cuscino, risaltavano gli occhi
spalancati, dallo sguardo folle e pieno di
sgomento. I pensieri urlavano in un turbine
oscuro, generato dalla pazzia e dall’orrore per
la prossima fine di una libertà sciagurata.
33
Sabato 26 giugno
Alle otto di mattina, Marco telefonò alla
carrozzeria.
“Dottore – gli disse il meccanico – venga
verso l’una e troverà la sua macchina rimessa a
nuovo.”
Arrivò in Questura di pessimo umore, la
giornata cominciata male non dava segni di
miglioramento, lo aspettava un lavoro poco
entusiasmante che l’istinto gli diceva essere del
tutto inutile.
Il suo umore cambiò di colpo vedendo
Minici e Nicolasi che lo stavano aspettando.
“Dario – esclamò – come stai? E soprattutto
come sta Adriana?”
“Commissario, ha saputo?”
“Ho saputo che si è ammalata e che avete
dovuto interrompere il viaggio di nozze.”
“Adesso sta meglio?” domandò, cercando di
assumere un tono serio.
“Sì, per fortuna, ma deve rimanere a letto
ancora qualche giorno.”
“Complimenti comunque.”Non seppe mai il
perché di questa uscita infelice.
“Per
cosa
si
complimenta
con
me,
commissario?”
I neuroni di Marco si scambiarono messaggi
alla velocità della luce.
“Voglio complimentarmi con te – rispose
Ferrero – per ben due motivi: il primo è la
bravura che hai dimostrato nel gestire il
disturbo di Adriana in una città straniera, e il
secondo viene da Elisa, che mi ha raccontato le
meraviglie
del
vostro
ricevimento
di
nozze.Spero che tu sia venuto per darci una
mano…Immagino
che
tu
conosca
cosa
è
successo.”
“Beh, ho letto i giornali e poi Rocco mi ha
fatto un resoconto delle indagini.”
“Il problema è che siamo arrivati a un punto
morto. Più o meno sappiamo come si devono
essere svolti i fatti, ma su un possibile
colpevole o movente è buio completo.”
“Minici – disse, rivolgendosi all’ispettore –
dai a Nicolasi tutti i verbali e le relazioni.
Chissà che leggendoli non gli venga un’idea.
Una mente vergine come la sua può esserci
molto utile…”
Ferrero si domandò poi perché mai avesse
usato una parola così inusuale. Fatto sta che
Rocco uscì a razzo dalla stanza, seguito a ruota
dal
commissario,
mentre
Dario
restò
a
chiedersi cosa avessero di così urgente da fare.
Finita la crisi di ilarità, Marco decise di
andare a far visita al povero Righetti.
Venne ad aprirgli una giovane signora dal
portamento elegante. I tratti del viso, non bello
ma seducente, denunciavano lo stretto legame
di sangue con Bruno, di cui in effetti era la
sorella.
“Buon
giorno
commissario
–
disse
sorridendo – che piacere conoscerla! Ho
sentito tanto parlare di lei!”
“Immagino che lei sia Stefania – rispose
Marco
–
sono
passato
per
fare
una
chiacchierata con suo fratello e sapere come
sta.”
“Entri, commissario, Rosa non c’è ma penso
di essere in grado di offrirle un caffè decente!”
aggiunse con fare ammiccante.
“Accidenti, che differenza di carattere! –
pensò
Marco
–
Non
sembrano
neppure
parenti.”
In effetti Stefania parlava e si muoveva con
estrema
disinvoltura,
come
una
donna
determinata e sicura di sé.
“Bruno sta dormendo – disse dopo aver
chiuso la porta della cucina – gli ho dato un
tranquillante
perché
era
in
uno
stato
deplorevole. Non fa altro che ripetere che c’è
un pazzo che li vuole tutti morti…”
“Tutti chi?”
“Forse quelli del pianterreno? In effetti non
vedo altre analogie.”
“Quel
che
è
peggio,
neppure noi le vediamo.”
dottoressa,
è
che
34
Domenica 27 giugno
Marco aveva deciso che avrebbe dormito più
del solito, in fin dei conti era domenica anche
per lui. Quindi comunicò alla famiglia che
sarebbero andati dai nonni, a prendere il sole
sul bordo della piscina.
Gattacompresa.
Alla sera durante il viaggio di ritorno Elisa e
Marco, finalmente soli, chiacchierarono del
loro futuro. La loro convivenza era stata finora
molto piacevole, ma era ancora presto per
poter decidere di renderla stabile.
Approfittarono
della
tranquillità
del
momento, per parlare delle prossime vacanze.
“Al solo pensiero di passare due settimane in
Puglia con genitori, sorelle, cognati, figli,
nipoti, cani e gatta, mi viene mal di pancia. Tu
non
immagini
cosa
significhi…”
disse
il
commissario.
“Perché
non
possiamo
andare
in
un
alberghetto in Liguria io, te e i bambini?”
“Perché mia madre si offenderebbe da
morire, e i miei figli starebbero tutto il giorno
a pensare a come sarebbe stato meraviglioso
vivere come selvaggi… Ma io avrei un sogno:
vorrei spedire infanti e animali nella casa al
mare e partire con te per un viaggio culturale in
qualche città europea. Sempre che prima si
riesca a catturare l’assassino dell’Università e
che quel figlio di buona donna non ammazzi
qualcun altro…”
35
Lunedì 28 giugno
Lunedì mattina il commissario entrò in
Questura animato da un evidente buonumore.
Nicolasi e Minici erano alla macchinetta del
caffè.
“Dario, vieni con me all’Università. Ti faccio
vedere il luogo del delitto. Poi vorrei parlare
con
Silva,
magari
potrebbe
avere
avuto
un’intuizione brillante…”
Ferrero e Nicolasi entrarono nell’ufficio del
professore
assassinato.
Vi
aleggiava
un
inquietante senso di morte, reso più vivo dalle
macchie di sangue, dall’odore di chiuso e dalla
tristezza dei fogli abbandonati e sparsi sul
piano della scrivania.
Il
commissario
illustrò
nei
dettagli
lo
svolgimento presunto del crimine, i passaggi
della guardia giurata, il battente dell’uscita
d’emergenza tenuto aperto, la posizione delle
inutili videocamere.
“Perché non le hanno piazzate due metri
indietro – domandò Dario – in modo da
riprendere tutto il corridoio?”
“‘Per privacy’. Le hanno messo solo per
l’insistenza
di
Righetti
che
giustamente
pretendeva un minimo di controllo, ma pare
abbiano discusso per settimane. Comunque
grazie alla loro riservatezza, il povero Corsi è
stato ammazzato.”
Silva accolse con grande piacere la visita dei
due detective.
“La vedo in splendida forma – esordì
Ferrero – le presento il mio collega, l’ispettore
Nicolasi che il giorno di quest’ultima tragedia
era in viaggio di nozze. Professore, immagino
che i suoi calcoli le siano mancati.”
“Non ne potevo più di rimanere a casa. Mia
moglie continua a piangere, io mi sforzo di
pensare che sono vivo e lucido di mente,
riesco a camminare anche se con un po’ di
fatica…Ma ditemi, avete qualche novità?”
“Sappiamo come dovrebbero essersi svolti i
fatti, ma non abbiamo un movente. Volevamo
giusto chiederle se lei ci avesse pensato.”
“Mi creda, non ho fatto altro. Né io, né
Bruno, né Giuseppe siamo ricchi o abbiamo
amanti segrete e in fatto di potere…”
“Professore,
non
credo
che
in
questo
Dipartimento vi vogliate tutti bene come
fratelli, ci saranno pur degli attriti, delle liti o
delle invidie…”
“Poco ma sicuro. Qui c’è gente che non si
parla da anni, per motivi di gelosia, di concorsi
vinti in modo non sempre limpido, di sospetti
più o meno fondati, di raccomandazioni, di
privilegi…i leccaculo ci sono dappertutto, ma
nessuno si è mai sognato di superare il limite
della civile convivenza.”
Un’idea attraversò come un lampo la mente
del professore. Gli sembrò talmente ignobile
da seppellirla sotto un sorriso di circostanza.
Purtroppo non ebbe il coraggio di esternarla.
36
In
un
altro
ufficio
sullo
schermo
del
computer comparve la scritta
VAI A PRENDERE LA POSTA
SEGUI LE ISTRUZIONI
Due occhi spaventati lessero quello che in
effetti era un ordine in cui si celava la solita
mortale minaccia.
Una
figura
scivolò
lungo
i
corridoi,
salutando con un sorriso chi incontrava, senza
fermarsi a parlare perché la voce non lasciasse
trapelare l’agitazione. Poco dopo ritornò, aprì
la porta della stanza e la richiuse a chiave. Si
adagiò sulla poltrona appoggiando il capo allo
schienale: stava per avere un attacco di panico
e non sapeva come affrontarlo. Si impose di
fare respiri profondi e lentamente ritornò a
uno stato di accettabile normalità.
Aprì la lettera che aveva ritirato dalla casella
di posta e cominciò a leggerla.
Iniziava con il nome della futura vittima.
Poi lesse le poche frasi in cui in modo
dettagliato
si
illustravano
le
fasi
dell’esecuzione della condanna capitale.
“Semplicemente geniale!” sussurrò e dopo
aver nascosto la busta in un cassetto, se ne uscì
a prendere un caffè.
37
Sul
cellulare
di
Ferrero
squillarono
le
trombe di guerra.
“Signor Questore buongiorno – rispose –sì
certo… sì… va bene…non dubiti…”
“Ci ha convocati per le due nel suo ufficio. –
disse – Dario, avverti subito Rocco, intanto
andiamo a vedere se le nostre reclute hanno
scoperto qualcosa.”
“Commissario – esordì Carmen appena lo
vide – abbiamo ricontrollato i filmati. Dopo le
tre di lunedì pomeriggio molte persone sono
transitate nel corridoio. Sono tutti docenti o
tecnici che ormai conosciamo, e come lei ci ha
detto abbiamo verificato gli alibi solo di chi
non è uscito dal portone principale. A parte la
guardia giurata, gli unici entrati più tardi sono
stati cinque ragazzi, che verso le diciassette si
sono diretti oltre il pilastro con la telecamera.
Mezz’ora dopo sono usciti tutti insieme.”
“Meglio controllare. Telefonate a Guidoni e
Ventura, uno di loro li riconoscerà.”
“Allora – tuonò il Questore – spero ci siano
novità. Nicolasi, ma lei non era in viaggio di
nozze?”
“Purtroppo,
dottore,
mia
moglie
si
è
ammalata…”
“Bene, bene – disse, accorgendosi subito di
aver commesso una gaffe – bene nel senso che
deduco che ora stia meglio.”
“Allora
–
continuò
–
come
vanno
le
indagini?”
“Siamo riusciti a ricostruire le modalità
dell’omicidio.
Attualmente,
il
maggiore
indiziato è la guardia giuratache ovviamente
non ha alibi, lì era perché lì doveva stare.
Lavora
da
anni
nel
Dipartimento,
che
vantaggio potrebbe aver avuto dalla morte dei
tre professori?”
“Inoltre – continuò – mi ha chiamato un
certo Carlo Besozzi, un tecnico espertissimo di
armi. Ha fatto un’indagine tra le armerie e tra
gli antiquari, chiunque abbia comperato un
moschetto Carcano è stato controllato dalla
polizia locale. Tutti lo custodivano con la
baionetta
innestata.
L’assassino
potrebbe
averla avuta in casa, oppure averla trovata in
un
mercatino
pubblicato
la
di
paese.
fotografia
Abbiamo
sui
anche
giornali,
ma
nessuno si è fatto vivo.”
“Siete sempre convinti che il colpevole sia lo
stesso in ambedue i casi.”
“Non
solo,
signor
Questore,
ma
siamo
pressoché certi che lavori al Dipartimento. Per
organizzare così bene i due reati e nascondere
tutte le tracce, era indispensabile conoscere
alla perfezione le abitudini delle vittime e
l’ambiente in cui vivevano.”
“E sul movente?”
“Buio assoluto. Le tre vittime hanno due soli
legami: la vicinanza degli uffici e l’analogia dei
loro argomenti di ricerca. I tre professori
potrebbero
qualcuno
avere
urtato
la
sensibilità
copiandogli,
di
magari
involontariamente, un’idea.”
“Gli interessati cosa dicono?”
“Uno è morto, un altro è fuori di testa e vive
nel terrore, il terzo, che è rimasto invalido in
modo molto grave, è l’unico a cui possiamo
fare riferimento, ma non ha il minimo
sospetto.”
“Mica taceranno per paura?”
“Abbiamo
pensato
anche
a
questa
eventualità, ma non ci sembrano delitti legati
al crimine organizzato, questa è solo una
fucina
del
pensiero…Qui
c’è
un
pazzo
intelligente che sta perseguendo uno scopo.
Quale non si sa, ma di sicuro esiste.”
“Ragazzi – disse il commissario uscendo
dall’incontro col Questore – ognuno di noi
rilegga i rapporti e i verbali. Rocco vai a
vedere a che punto sono i nostri giovani.”
Arteri e Signorini avevano scoperto che
lunedì pomeriggio i cinque ragazzi ripresi
dalla telecamera erano andati a parlare con il
professor Guidoni.
“Ora sappiamo come si chiamano – disse
Valerio – domani li contatteremo.”
38
Era stato un torrido giorno d’estate, le
finestre delle case erano aperte e un vento
leggero
rinfrescava
i
corpi
dei
cittadini
addormentati.
L’aria notturna faceva oscillare i rami degli
alberi
carichi
di
foglie.
La
luce
filtrava
attraverso le imposte, proiettando delle ombre
mobili sulle pareti della stanza. Le lenzuola del
letto erano tese, il cuscino era gonfio.
Una figura accese una forte lampada da
tavolo. Due mani sicure liberarono il piano
illuminato della scrivania, vi stesero un grande
tovagliolo e sistemarono con ordine quel che
era stato comperato seguendo le istruzioni:
siringa, aghi, boccette, guanti, pasticche.
A mezzanotte l’arma del nuovo delitto era
pronta ad entrare in azione.
La stanza ritornò buia. Sul letto un corpo
riposava tranquillo, pregustando il piacere del
prossimo omicidio. Nel capo, appoggiato sul
cuscino, risaltavano gli occhi aperti, soddisfatti
di sé, alla paura di un ricatto si era sostituita la
gioia di aver trovato un complice, per ora
misterioso, ma animato dallo stesso odio e dal
medesimo desiderio di vendetta.
39
Martedì 29 giugno
All’Università
tutti
si
aspettavano
una
giornata rovente, e non solo dal punto di vista
meteorologico.
Nel
primo
pomeriggio
ci
sarebbe stata la presentazione del nuovo piano
didattico,
si
prevedevano
liti,
proteste
e
contestazioni.
Il professor Andreoli avrebbe dato una
mano per poter fumare una sigaretta, nel suo
ufficio c’era un continuo via vai di colleghi e
di
rappresentanti
di
area,
ognuno
con
problemi o richieste, mai nessuno che fosse
contento e chi lavorava di meno era sempre
quello che protestava di più. Niente di peggio
per il suo cuore malandato.
“Non dovrebbe venire più nessuno – pensò,
mangiando l’ultima caramella – posso fare il
riepilogo della situazione.”
Non aveva neppure iniziato a scrivere, che
sentì bussare alla porta.
“Avanti! – gridò – ah, è lei, venga e si
accomodi. Spero non mi porti altri guai…”
“No, niente che lei già non sappia. Queste
sono le nostre disponibilità…” e così dicendo,
posò un foglio sulla scrivania e prese dalla
tasca una scatola di pastiglie. Ne tolse una e se
la mise in bocca.
“Posso offrirle una pasticca, professore?”
“Grazie, ho appena finito la mia scorta.”
“Ma allora gliele lascio tutte!”
“Lei è un angelo! È stata una mattina
infernale. Sono così nervoso che fumerei un
intero pacchetto di sigarette, tanto se non mi
uccide
il
tabacco,
mi
uccideranno
le
caramelle.”
Parole sante.
Per
una
mezz’ora
Andreoli
rimase
tranquillo, a far schemi e riassunti e a
succhiare
le
pastiglie
che
un’anima
misericordiosa gli aveva lasciato.
Ricevette ancora Aliberti, suo grande amico
di memorabili convivi, e Saveria Candeli, con
cui Andreoli, maschilista per età, educazione e
temperamento, non aveva un grande feeling.
Ambedue avevano richieste accettabili e di
immediata attuazione.
Riprese quindi il noioso compito di verifica,
allungando ritmicamente la mano verso la
scatolina, ormai praticamente vuota.
Stava per finire, quando avvertì un leggero
senso di nausea.
“Devo avere mangiato troppe caramelle – si
disse – vado a prendere un caffè.”
Mentre sovrapponeva i fogli sparsi sulla
scrivania, gli parve di vederli sfocati.
“Ho esagerato a lavorare per tante ore di
seguito – aggiunse tra sé – non ho più l’età,
dovrei abituarmi a non abusare delle mie
forze.”
Alzando lo sguardo, si accorse di non
riuscire a distinguere i colori, la stanza gli
sembrava grigia e avvolta nella nebbia.
A quel
punto
si
sentì
male,
il
cuore
impazzito alternava violente tachicardie a
improvvisi
diventando
rallentamenti,la
nausea
incontrollabile,
stava
aveva
allucinazioni e si sentiva soffocare.
Pensando che gli stesse per venire un attacco
cardiaco, prese la confezione di digitale,
cheportava
sempre
con
sé,
e
ingoiò
rapidamente il doppio della dose consigliata
dal medico. Poi chiuse gli occhi cercando di
rilassarsi nell’attesa che il farmaco facesse
effetto.
In pochi minuti la situazione precipitò.
Preso dal panico cercò di chiedere aiuto, ma
non riuscì ad articolare parola. Con la forza
della
disperazione
barcollando,
studenti
lo
si
raggiunse
videro
alzò
in
la
uscire
piedi
porta.
nel
e,
Alcuni
corridoio:
pallidissimo, gli occhi stralunati, rantolava
frasi incomprensibili. Fece due passi e cadde
in avanti, con un tonfo molle a cui fece eco
l’urlo isterico di una ragazza e le grida dei
compagni.
Le
porte
si
spalancarono,
i
professori
accorsero a vedere quale nuova disgrazia fosse
successa,
la
paranoia
dell’assassino
seriale
aveva ormai contagiato anche le menti più
razionali.
Quattro giovani sollevarono il corpo inerte e
lo portarono nell’ufficio, stendendolo su un
divano.
Mentre si sentiva la sirena dell’ambulanza,
una mano prese il pacchetto di pastiglie alla
menta posato sulla scrivania, lo appallottolò e,
con noncuranza, se lo mise in tasca.
Nella confusione generale nessuno ci fece
caso.
Il personale medico del 118 era ancora
chiuso dentro l’ufficio del direttore, quando
arrivarono Ferrero e Nicolasi.
“Professore – chiesero ad Aliberti – cosa
accidente è successo?”
“Forse nulla che interessi la polizia. Lei
conosce il nostro direttore, Paolo Andreoli…”
“Eccome…”
“Si deve essere sentito male, è uscito nel
corridoio ed è stramazzato in terra. Speriamo
si tratti di un semplice malore.”
Marco
si
maggior
guardò
parte
dei
attorno,
conosceva
presenti
per
la
averli
interrogati almeno una volta. Avevano tutti
uno sguardo attonito e spaventato, tra la folla
risaltavano
gli
occhi
sbarrati
del
povero
Righetti.
“Professore, come sta? – gli chiese – la vedo
meglio della scorsa settimana.”
“Buongiorno commissario, ho saputo da mia
sorella che è venuto a trovarmi a casa. La
ringrazio,
ma
devo
riconoscere
che
le
medicine cominciano a farmi effetto. Ora
dormo di più e riesco a lavorare…”
“Mi scusi.” lo interruppe il Ferrero vedendo
aprirsi la porta dell’ufficio del direttore.
Passando davanti a tutti mostrò il tesserino
al medico che stava uscendo.
“Mi dispiace – gli disse il dottore facendolo
entrare – abbiamo provato a rianimarlo per
oltre mezz’ora, ma non c’è stato nulla da fare.”
“Si è fatto un’idea della causa del decesso?”
chiese, col terrore di una risposta che avrebbe
scatenato il panico generale.
“Penso che il professore fosse malato di
cuore, come e da quanto tempo, lo dirà il
medico curante. Oltre all’età avanzata, era
fortemente sovrappeso e, dai portacenere
sparsi nella stanza, deduco che sia stato un
fumatore accanito. Oltretutto quando fa così
caldo
sarebbe
stessero
a
meglio
casa.Sulla
che
i
cardiopatici
scrivania
c’è
una
confezione aperta di un farmaco a base di
digitale, per cui immagino che si sia accorto di
avere un attacco e abbia preso delle pastiglie.”
“Dovrete fare l’autopsia?”
“A mio parere non mi sembra ci siano dubbi
sulle cause naturali della morte. Ma non sta a
me decidere.”
“Mi auguro che lei abbia ragione. Il nostro
medico
legale,
dovrebbe
essere
qui
a
momenti. Come saprà, in questo palazzo un
delinquente ha già colpito due volte…”
“Lei
pensa
vittima?”
che
questa
sia
una
nuova
“Spero tanto di no, ma sento una gran puzza
di bruciato.”
Il personale dell’ambulanza uscì dalla stanza
trasportando
gli
apparecchi
della
rianimazione; la folla si ammutolì, negli occhi
di tutti si leggeva la stessa domanda, ma
nessuno ebbe il coraggio di formularla.
Il dottor Gribaudo era arrivato e stava
esaminando la salma.
“Dario – chiamò il commissario – telefona
in Questura e dì a Rocco di raggiungermi. Tu
passa a prendere Carmen e vai a casa del
professore ad avvertire la moglie. Fatti dare il
nome del cardiologo che l’aveva in cura.”
“Cosa ne pensa?” domandò Marco al medico
legale.
“Potrebbe essere stato avvelenato – rispose –
mi sembra l’unico modo per ucciderlo senza
lasciare segni evidenti. Non capisco perché ti
ostini
a
credere
che
non
sia
spirato
naturalmente. Guarda che la maggior parte
della gente, per fortuna loro e anche mia,
muore nel suo letto per cause naturali.”
“Lei crede all’istinto?”
“Solo fino a un certo punto. La tua mi
sembra di più un’ossessione. Comunque ti
prometto che farò un’autopsia accuratissima.
Intanto tu indaga e vedi se scopri qualcosa.”
Il commissario uscì e con un tono angosciato
che non aveva bisogno di fingere, annunciò la
morte del professor Andreoli.
“È stato assassinato?” domandò Micheletti
che,
oltre
a
essere
antipatico,
aveva
la
delicatezza di un rinoceronte. Anche se, a onor
del
vero,
si
era
limitato
a
esprimere
brutalmente il pensiero collettivo.
Alla domanda diretta Marco non seppe se o
cosa fosse meglio rispondere. Venne salvato
dal provvidenziale arrivo di Rocco e degli
infermieri del carro funebre.
La salma uscì dal palazzo tra due ali
silenziose di una piccola folla visibilmente
commossa. Guardandoli ad uno ad uno il
commissario pensò, con un misto di rabbia e
di impotenza, che, tra quei volti emozionati, si
doveva nascondere quello dell’assassino.
“Avrei bisogno di parlare – disse rompendo
il silenzio – a chi ha visto per ultimo il
professore.”
“Io sono andata da lui verso mezzogiorno
meno un quarto.” disse Saveria Candeli.
“E io subito dopo.” aggiunse Audiberti.
Gli altri risposero o di non essere mai entrati
nella sua stanza, o di averlo fatto molto prima.
Ferrero,
Minici
e
Candeli
rientrarono
nell’ufficio del direttore.
“Professoressa – esordì Marco – quando lei
questa mattina è entrata in questa stanza, le è
sembrato che il professore fosse sofferente?”
“Assolutamente no. Sarò rimasta qui tre
minuti… Ha detto che non vedeva l’ora di
finire il suo mandato perché era arcistufo di
certi colleghi rompicoglioni. E mentre parlava
succhiava
ininterrottamente
delle
grosse
pasticche che prendeva da una scatolina
decorata con rametti di menta.”
“Dov’era?”
“Sulla scrivania, vicino a lui.”
Marco e Rocco si alzarono. Cercarono
dappertutto, ma di scatole con o senza foglie
di menta non trovarono neppure l’ombra.
Audiberti,
interrogato
subito
dopo,
ne
confermò l’esistenza.
“La scatoletta era pressoché vuota – disse –
anche perché rosicchiava caramelle a un ritmo
impressionante…”
“A lei è parso che stesse bene?”
“Ansimava sempre un po’, ma non era
diverso dal solito.”
“Lei dovrebbe essere stato l’ultimo ad averlo
visto vivo.”
“Questo non posso saperlo. Ma perché mi fa
tutte queste domande?”
“Guardi, nulla lascia supporre che non sia
stata una morte naturale, ma io ho un sospetto
che mi rode, l’istinto mi dice che qualcosa non
è chiaro… Adesso ci si mette pure la scatoletta
sparita…”
“Potrebbe averla messa in tasca…”
“Gli abbiamo tolto tutto prima che lo
portassero via…”
“…o è andato in bagno e l’ha gettata chissà
dove…”
“Il mio collega sta controllando tutti i bidoni
del palazzo. Perché poi avrebbe lasciato sul
ripiano della scrivania confezioni, carte e
involucri di ogni tipo di caramelle? Perché
avrebbe dovuto nascondere o distruggere solo
l’ultima
scatoletta,
magari
quando
già
cominciava a sentirsi male?”
“Lei pensa quindi che le pastiglie potessero
essere state avvelenate.”
“Precisamente, ho quel terribile sospetto.
L’autopsia ci darà una risposta.”
Quando
Nicolasi
e
la
giovane
collega
ritornarono, il commissario volle sapere come
se la fossero cavata.
“La signora – disse Carmen – appena ci ha
visto ha capito cosa fosse successo. Ci disse che
il cuore di suo marito era più malato di quanto
avessero detto a lui, e da tempo era rassegnata
a perderlo.”
“Avete saputo il nome del medico curante?”
“Certo!” risposero all’unisono.
Il
cardiologo
Alberto
Rubini
fu
estremamente disponibile.
“Avevo in cura il professore da una decina
d’anni. Quando l’ho visto la prima volta
fumava tre pacchetti di sigarette al giorno,
mangiava e beveva troppo. Alla fine si è
convinto a vivere in modo più sano, a scapito
però di un netto peggioramento del carattere.”
“Lei
si
aspettava
una
morte
così
improvvisa?”
“A dire il vero no. Però, come si sa, la
medicina non è una scienza esatta.”
“Abbiamo trovato sulla sua scrivania un
farmaco a base di digitale…”
“Sì, glielo avevo prescritto io in caso di un
attacco. Gli avevo detto di tenerlo sempre a
portata di mano.”
“Potrebbe averne preso troppo?”
“La mia opinione, ma badi che è solo una
opinione, è che il povero Andreoli abbia avuto
una
crisi
cardiaca
importante,
che
abbia
cercato di tamponarla con la digitale e che non
abbia voluto o potuto telefonare a me o al 118.
Il caldo e l’agitazione hanno fatto il resto. Mi
dispiace
molto
perché
era
una
persona
iraconda, ma simpaticissima.”
In Questura, Signorini non aveva perso
tempo. Ritracciati tutti e cinque gli studenti
che il giorno dell’omicidio di Corsi erano
andati a parlare al professor Guidoni, li aveva
convocati per le nove della mattina seguente.
“Cercherò di essere presente anch’io – disse
Ferrero – sempre che in quel cazzo di
Università non capiti qualche altra disgrazia.
Prima le due bombe, poi il cadavere pugnalato
con una baionetta, adesso quest’altro che
muore in pubblico schiantandosi a terra in
modo a dir poco spettacolare. E nessuno mi
toglie
dalla
testa
che
anche
al
direttore
cardiopatico sia stata data una spintarella per
fargli raggiungere l’aldilà. Comunque adesso
vado a scrivere il rapporto e poi me ne torno a
casa. Ragazzi, ci vediamo domani.”
Marco
e
Elisa
cenarono
in
terrazza
e
rimasero seduti a lungo a chiacchierare. La
giornata era stata caldissima, ma di sera l’aria
fresca proveniente dalle montagne, rendeva
piacevole stare all’aperto.
Era una stupenda serata di luna piena, tenera
e romantica.
Marco alzò gli occhi al cielo e si sentì
pervadere da un senso di pace: la certezza che
la legge dell’amore fosse l’unica vera forza
motrice
dell’universo
rese
insignificanti
i
problemi, le angosce e lo stress da cui era
tormentato. Abbracciò Elisa e la strinse a sé. In
silenzio, lasciarono che i corpi si parlassero, si
abbandonarono alle carezze, ai baci e al
sensuale contatto della pelle, sostennerola
crescita del desiderio finché, in quella magica
notte stellata, il fuoco rovente della passione li
avvolse e li trasportò insieme nel mondo del
piacere senza tempo.
40
Mercoledì 4 giugno
Alle nove di mattina i cinque studenti erano
in attesa davanti all’ufficio del commissario.
Avevano
tutti
un’espressione
tesa,
non
conoscendo l’esatto motivo per cui erano stati
convocati.
Marco li guardò in silenzio, uno per uno. Nei
loro occhi lesse incredulità, paura e innocenza.
Prima ancora di interrogarli, ebbe la certezza
che non avessero nulla a che fare con
l’assassino.
Le
cinque
giovani
matricole,
neppure
conoscevano la vittima ed erano entrati nel
palazzo
della
tragedia
proprio
in
quel
maledetto pomeriggio perché il professor
Guidoni aveva l’orario di ricevimento studenti.
Passando
nel
corridoio
non
avevano
incontrato nessuno, cosa confermata dalla
telecamera.
“Tra un’ora in sala riunioni – disse il Ferrero
allo staff di poliziotti – ora andiamo a
prendere un caffè e a farci venire qualche
idea.”
“Ragazzi
–
cominciò
il
commissario
sedendosi a capotavola – lo scopo di questa
riunione è quello di confrontare i due tragici
eventi. Come sapete siamo al classico punto
morto, dobbiamo necessariamente dare una
svolta
alle
indagini
perché
almeno
un
assassino esiste e ci sta prendendo…”
“…per il culo!” dissero tutti in coro.
“Allora, quali sono le caratteristiche comuni
ai due crimini? Primo, sono stati compiuti
nello stesso palazzo.”
“Secondo – disse Minici – il loro scopo era
quello di uccidere e, terzo, le vittime avevano
gli uffici confinanti.”
“Questo è un particolare importante, di cui
non abbiamo tenuto conto a sufficienza.”
“Quarto – aggiunse Nicolasi – i mezzi
utilizzati sono artigianali: gli esplosivi fatti in
casa leggendo le istruzioni su internet e la
baionetta poi, roba da medio evo… per cui non
dobbiamo cercare un killer prezzolato, ma un
fai da te casalingo”
“Quinto: ambedue i crimini non hanno
avuto testimoni.” disse Signorini.
“Incredibile! In un pomeriggio di aprile, una
persona attraversa il cortile, si infila tra due
auto parcheggiate, si china a terra e attacca due
bombe ai pianali delle macchine, poi si alza e
se
ne
va.
Sarebbe
stato
sufficiente
che
qualcuno fosse passato in un corridoio, avesse
gettato l’occhio nel cortile, e voilà, avremmo
avuto il caso risolto. Che cazzo fanno, mi
domando, chiusi tutto il giorno nelle loro
stanze?”
La giovane Carmen ebbe il barlume di
un’idea, ma purtroppo la veemenza con cui il
commissario
si
era
espresso
unita
alla
parolaccia urlata, la bloccarono.
“Forse non è importante – disse invece – ma
i due crimini sono avvenuti all’incirca alla
stessa ora.”
“Tutto
è
importante
–
le
rispose
il
commissario – evidentemente l’omicida ha
aspettato che negli uffici del pianterreno
rimanessero solo le vittime prescelte.”
“Un altro punto comune – aggiunse Minici –
sta
proprio
nella
precisa
conoscenza
dei
movimenti dei tre professori e delle loro
abitudini.”
“L’unica differenza tra i due fatti – disse
Nicolasi
–
è
nel
classico modus operandi,
d’altronde sarebbe stato impossibile farli fuori
tutti e tre nella stessa maniera.”
“L’assassino doveva aver programmato una
morte melodrammatica e sicura per il povero
Corsi,
di
qui
la
scelta
del
venerdì
per
l’attentato, proprio per evitare che venisse
ferito.”
“Questa nostra riunione – aggiunse – è
servita a stabilire che il movente è da ricercare
nella comunanza di lavoro delle tre vittime e
che il colpevole è una persona che lavora nello
stesso Dipartimento. Quel maledetto lunedì
c’è stato un terribile via vai nel corridoio a
pianterreno. Alle tre del pomeriggio la guardia
ha chiuso la porta di sicurezza attraverso cui è
passato l’assassino per andare a pugnalare il
povero professore. Quindi è tra le persone che
sono transitate nel corridoio dopo le quindici.
Sappiamo chi e quante sono. Chiunque abbia
superato la zona controllata dalla telecamera,
ha avuto modo di mettere un fermo alla porta
di sicurezza: fosse anche il Papa, dovrà essere
interrogato, fornire un alibi verificabile e
convincente. Ripeto: il solo modo per arrivare
alla porta dell’ufficio di Corsi senza essere
ripreso e filmato, è quello di passare dal cortile
ed entrare dall’uscita d’emergenza .”
“Ora sapete cosa fare, per qualsiasi dubbio
chiamatemi. Io, tanto per cambiare, ho un
appuntamento
col
Questore,
fatemi
gli
auguri…”
Il dottor Sacerdote accolse il commissario
con un sorriso poco spontaneo.
“Come potrà immaginare – gli disse – i
media
sono
in
fermento.
Le
congetture
sull’ultima morte avvenuta coram populi nella
sede
stanno
universitaria
occupando
più
le
maledetta
prime
d’Italia,
pagine
dei
giornali, per non parlare delle televisioni.
Spero
che
lei
mi
porti
qualche
notizia
rassicurante.”
“Riguardo
quest’ultima
disgrazia
saprò
essere più preciso quando il medico legale
avrà
finito
l’autopsia.
Siamo
riusciti
a
individuare un gruppo di persone tra cui si
trova il criminale che stiamo cercando. Il
lavoro finora svolto è stato meticoloso e
incessante, nessuno ha perso tempo e non
abbiamo trascurato alcuna ipotesi.”
“Va bene, con i media mi arrangerò dicendo
le solite cose. Se l’ultimo decesso non è stato
un omicidio, conto di prendermi qualche
soddisfazione…”
Marco non era tranquillo, c’era qualcosa che
sapeva di aver trascurato, una parola o una
frase sentita durante la riunione della mattina
si agitava nel suo inconscio; ma per tanto che
si sforzasse non ricordava quale fosse e
neppure chi l’avesse detta. Decise di smettere
di pensarci, prima o poi sarebbe venuta a galla.
Il dottor Gribaudo lo accolse con la consueta
cordialità.
“Allora, carissimo, ho da darti una bella
notizia. O brutta, dipende dai punti di vista. Il
professore aveva un cuore tenuto con lo
scotch, l’aorta era un po’ ingrossata e i
polmoni neri come il carbone. La parete dello
stomaco
era
tappezzata
da
residui
di
caramelle, giuro che è la prima volta che mi
capita di vedere una cosa simile. Il tutto
mischiato a un po’ di digitale, come del resto ci
aspettavamo. Gli altri organi bene o male
erano normali per la sua età e il suo stato di
salute. Non ha ingoiato nessun veleno, è morto
di arresto cardiaco, il cuore malandato, la
stanchezza, il caldo, la respirazione difficile e il
fatto che fosse fortemente sovrappeso lo
hanno ucciso. Non ci sono assassini da cercare,
almeno per questa volta…”
Marco uscì per nulla convinto. L’istinto gli
diceva che il criminale era riuscito in qualche
diabolico modo a simulare l’attacco cardiaco
mortale del direttore. L’unica prova era la
sparizione della scatolina con le foglie di
menta,
a
cui
nessuno
sembrava
dare
importanza. Ma come gli assassini sono fatti di
carne ed ossa e non passano attraverso i muri,
così gli oggetti di carta non svaniscono nel
nulla. Qualcuno l’aveva presa, per cancellare
impronte o tracce o indizi che avrebbero
generato dei sospetti.
Andando a casa, comunicò al Questore la
notizia che stava aspettando: la Scienza aveva
stabilito che il professor Paolo Andreoli era
morto in modo del tutto naturale.”
41
Alle dieci e mezza di quella sera, Marco e
Elisa stavano guardando alla tv un film giallo
noiosissimo.
La
cavalcata
delle
valchirie,
suoneria del cellulare riservata alla nonna
Caterina, li risvegliò.
“Ciao mamma, è successo qualcosa?” chiese
Marco un po’ preoccupato.
“Ciao caro, scusa l’ora, ma ho aspettato che i
bambini fossero tutti addormentati, preferivo
che non sentissero quel che ho da raccontarti.”
“C’è qualcuno che sta male?”
“Stanno tutti benissimo. Il problema è
Artemisia.”
“Artemisia?”
“Cosa le è capitato?” chiese Elisa sullo
sfondo.
“Nulla
che
non
le
piacesse.
Ieri
era
scomparsa, ma stamattina l’ho vista in mezzo
al prato.”
“Viva?”
“Non solo viva, ma più vispa che mai. Inutile
usare giri di parole: si stava facendo scopare da
un grosso gattaccio nero, e, quel ch’è peggio,
ce n’erano altri due che stavano aspettando il
loro turno…”
Marco fece il tipico sorriso tra il complice e
il furbastro con cui i maschi sono soliti esibirsi
ogni volta che si parla di prestazioni sessuali.
Perché
Elisa
non
avesse
dubbi
sul
comportamento della sua virtuosa micetta vi
aggiunse un gesto poco signorile quanto
esplicativo.
“…sono nata e vissuta in campagna, ma una
cosa simile non l’avevo mai vista. Alla fine i
gatti se ne sono andati per la loro strada e lei si
è venuta a strusciare contro le mie gambe
facendo le fusa come se niente fosse.”
“E allora – le rispose Marco ridacchiando –
che c’è di strano?”
“A parte il fatto che per fortuna i bambini
non hanno visto la scena poco edificante, tra
qualche
mese
la
vostra
amata Artemisia
scodellerà tanti bei gattini.”
“Cazzo!”
“Se puoi evita di parlar male, ma in effetti
non so proprio cosa dire.”
La veterinaria venne subito interpellata.
“Ciao Laura – esordì il commissario che
aveva già meno voglia di ridere – abbiamo un
problema non da poco. La nostra gatta si è
accoppiata con almeno tre maschi, secondo te
è rimasta incinta?
“Penso proprio di sì. Mai vista una gatta
sterile.”
“Ha meno di un anno, non è un po’ troppo
piccina?”
“Tanto piccola da essere in grado di sfornare
mezza dozzina di cuccioli.”
“Tra quanto tempo?”
“Circa nove settimane. Entro il 10 settembre
avrete una bella famigliola di micetti.”
“C’è un’alternativa?”
“Sì, una sola purtroppo: operarla e farla
abortire.”
Rimasero intesi che entro un paio di giorni
avrebbero preso una decisione.
Quando Elisa sentì la draconiana risposta, le
venne da piangere.
“Sai già che sono contraria!” disse con foga.
“Ma tesoro, sono gatti, mica sono bambini!”
“E cosa cambia? Sono sempre creature
viventi.”
“Forse che i conigli, i vitelli, i pesci e le
zanzare non lo sono?”
Dopo avergli lanciato un’occhiata di fuoco,
Elisa se ne andò a letto e non ci fu più verso di
farla ragionare.
“Ah, le donne!” pensò Marco, prima di
addormentarsi.
Era
notte
e
stava
correndo
dietro
all’assassino, un uomo nero e senza volto.
Sapeva che tra poco lo avrebbe raggiunto e
finalmente avrebbe scoperto chi fosse. Ma
quando
allungò
la
mano
per
prenderlo,
l’orribile individuo si disintegrò ed esplose in
milioni
di
fogli
bianchi
e
luminosi
che
planando volarono via, lontano lontano…
Marco si svegliò di soprassalto.
“Misericordia, già quel bastardo mi rovina le
giornate, adesso lo sogno anche la notte.” si
disse alzandosi di pessimo umore.
Ingrid era in cucina. Mentre prendevano il
caffè, le raccontò le ultime novità sulla quasi
certa gravidanza di Artemisia.Sperava tanto di
farsi un’alleata, in fin dei conti la giovane
rumena era una donna di origine contadina,
piena
di
senso
pratico
e
senza
tante
sovrastrutture buoniste.
“Anch’io non voglio che si uccidano i piccoli
di Artemisia…” fu l’inatteso commento di
Ingrid.
“Ho allevato una serpe in seno.” pensò
Marco uscendo di casa senza dire più una
parola.
42
Entrò in Questura prestissimo, incazzato
come una iena.
Alle nove uscì dall’ufficio con un gran
sbattimento di porte.
“Dario!” urlò.
“Mi dica commissario.”
“State controllando gli alibi?”
“Sì, certo, siamo a buon punto.”
“Bravi, continuate. Io vado all’Università a
parlare con Silva, ho un dubbio da chiarire. E
tu ricordati di non far figli o almeno di non
prendere animali.”
Con
questo
suggerimento
traboccante
ottimismo, se ne andò.
“E stavolta che cazzo gli sarà successo?”
esclamò Dario dopo essersi accertato che
Ferrero fosse uscito dalla Questura.
“Professore
buongiorno
–
disse
Marco
entrando nell’ufficio di Silva – spero di non
disturbarla.”
“Commissario
si
accomodi,
ho
sempre
piacere di vederla. Mi auguro che abbia
qualche novità da raccontarmi.”
“Niente
di
sostanziale.
Dovremmo
aver
ristretto la rosa degli ipotetici colpevoli a una
dozzina
di
persone.
Mentre
i
miei
collaboratori stanno controllando gli alibi, io
ho deciso di concentrarmi sul perché.”
“Mi creda, non faccio altro che pensarci. Se
non avessi le mie ricerche – e con un gesto il
professore indicò i fogli che aveva davanti,
pieni dei soliti incomprensibili caratteri –
sarei già caduto in preda a una depressione
molto più grave della mia invalidità.”
“Ho una domanda che mi tormenta: cui
prodest ? Perché se qualcuno ha tentato di
ucciderla insieme a Righetti e poi è riuscito a
togliere di mezzo Corsi, qualche vantaggio
l’avrà ben avuto. O quantomeno avrà pensato
di poterlo avere. Ma quale?”
“Le rispondo subito: nessuno vantaggio, solo
danni perché ben sei corsi sarebbero stati
senza docenti e i nostri colleghi avrebbero
dovuto sostituirli. C’è però una cosa che mi
domando: perché si è cercato di eliminare
l’intero staff di un unico settore disciplinare?”
“Scusi, cosa sarebbe?”
“Detto in parole molto semplici, i settori
sono gli ‘argomenti’ fondamentali di ogni
corso di laurea. Perché e chi abbia voluto
decimarci, è un mistero che mi leva il sonno.
Pensare poi che sia stato un collega…”
“Poiché l’unico a perdere la vita è stato il
povero
Corsi,
potremmo
ipotizzare
che
l’attentato sia stato un diversivo per distogliere
l’attenzione dal vero movente dell’omicidio?”
“Che sarebbe?”
“Ad esempio prendere il posto di Corsi, o
vendicarsi per non averlo avuto. Le sembra
un’ipotesi plausibile?”
Il professor Silva rimase qualche minuto in
pensiero.
“Il concorso di un anno fa – disse come
parlando tra sé – è stato vinto da Giuseppe con
un ampio margine di voti. Quel ragazzo era
veramente brillante, studioso e intuitivo. La
commissione, di cui ero presidente, non ha
avuto il minimo dubbio a metterlo in cima alla
graduatoria.”
“Non c’erano candidati interni a questo
dipartimento?”
“Sì, due, il Righetti e la Candeli.”
“Secondo lei, si aspettavano di vincere?”
“Non credo, avevano troppo pochi titoli, e
nessuna
pubblicazione
su
riviste
di
alto
prestigio. Sicuramente ne erano consapevoli,
hanno
solo
voluto,
giustamente,
fare
un’esperienza.”
“Quindi lei non ha avuto l’impressione di
gelosie
o
risentimenti
mascherati
da
indifferenza, ma che continuassero a bruciare
sotto la cenere?”
“Io mi sento di escluderlo, comunque può
sempre parlarne con gli interessati.”
Marco salutò il professore e, guardando i
fogli sparsi sulla scrivania, sentì una sorta di
stringimento salirgli dallo stomaco al cervello,
una
specie
di dejà
vu
che
tentava
di
trasmettergli un messaggio, un’informazione
indecifrabile che attribuì al sogno angosciante
della
notte.
Si
rendeva
conto
di
sapere
qualcosa a cui non aveva dato importanza, che
invece sarebbe stato un indizio fondamentale
che l’avrebbe fatto uscire dal pantano in cui si
erano invischiati. Tornò a piedi in Questura
continuando a pensare, pur rendendosi conto
che solo attraverso il vuoto della mente
avrebbe
potuto
nell’inconscio.
sapere
cosa
stava
celato
43
Giovedì e venerdì 1-2 luglio
Nei due giorni successivi non vi fu nessuno
sviluppo nelle indagini. Giovedì Marco partì
prestissimo per Sondrio, dove era atteso in
tribunale per una deposizione in un processo
per omicidio.
Il giorno dopo si era prefisso di fare una
bella chiacchierata con Righetti e Candeli.
Purtroppo non riuscì a far nulla.
Al mattino partecipò al funerale di Corsi,
dove sicuramente era presente il colpevole a
cui stavano dando la caccia. Vennero autorità
cittadine
e
religiose,
il
Rettore,
Presidi,
familiari, colleghi, studenti e curiosi. Gli
interminabili
discorsi
delle
cariche
istituzionali uniti al caldo afoso trasformarono
il commovente elogio della splendida figura
del defunto come marito, padre, amico e
soprattutto
grande
matematico,
in
e
un
proficuo
incubo
ricercatore
da
cui
tutti
cercavano solo un modo per sottrarsi senza
perdere la faccia. Il magnifico cortile del
rettorato chiuso da portici con stupende
colonne e balconate, era diventato un forno
senz’aria in cui si faticava a respirare. Una
giovane dottoressa perse i sensi e fu portata
fuori da una decina di uomini cui non parve
vero di aver trovato un ottimo motivo per
defilarsi. Quando anche la vedova si accasciò,
qualcuno, in quel consesso di cervelli, decise
che fosse giunto il momento di interrompere
la cerimonia e di lasciare che la salma
raggiungesse, senza far altre vittime, il luogo
dell’eterno riposo.
Il commissario aveva un’idea nata come un
assurdo,
che
molto
lentamente
stava
prendendo forma nella sua mente. Se ci
pensava, gli pareva impossibile, ma non voleva
lasciarla andare, in fin dei conti tutto ciò che
era logico non aveva fornito risultati, tanto
valeva sprecare un po’ di tempo sguazzando
nell’immaginifico.
deciso
a
fare
Andò
qualche
al
Dipartimento,
domanda
un
po’
scomoda e forse offensiva, ma purtroppo quel
pomeriggio era il sacro momento delle lauree,
meglio rassegnarsi e rimandare a lunedì.
Il commissario ritornò a piedi in Questura,
continuando a congetturare varie ipotesi di
svolgimento dei crimini costruite su quella sua
nuova idea rivoluzionaria. A poco a poco i
tasselli sembravano incastrarsi a formare un
quadro realistico, gli pareva di aver anche
individuato
un
movente
plausibile,
senza
peròriuscire a trovare l’ombra di una prova.
Tutto
stava
nel
saper
gestire
i
prossimi
colloqui in modo astuto, cercando di far
cadere la volpe nella rete. Durante il fine
settimana e gli sarebbe venuta l’illuminazione
decisiva.
Marco entrò nell’ufficio dove la sua equipe
stava finendo di controllare gli alibi dei
possibili colpevoli. Dal loro sguardo capì che il
classico ragno era ancora ben rintanato nel
buco. La cosa peggiore era la generale perdita
di entusiasmo, al gusto della caccia si stava
poco a poco sostituendo l’accettazione della
sconfitta.
“Ragazzi – disse, con un tono forzatamente
ottimista – mi sa che abbiamo bisogno di
staccare per qualche giorno. Adesso ce ne
andiamo a casa. Un bel fine settimana di relax
ci spetta di diritto.”
Dario,
Rocco,
ringraziarono
Carmen
con
e
sguardi
Valerio
e
lo
sorrisi
riconoscenti.
Quando alle cinque del pomeriggio Marco
tornò a casa, Elisa si accorse che qualcosa
doveva essere cambiato.
“Avete trovato il colpevole?” gli domandò
dopo averlo baciato.
“Non ancora, ma ci stiamo avvicinando. Ti
prometto
solennemente
che
sabato
e
domenica sarò tutto per voi.”
Avrebbe fatto meglio a non impegnarsi.
“A proposito – aggiunse Elisa – lo sai che tua
mamma ha invitato mia sorella a pranzo?”
“Davvero? Che bello!” rispose, cercando
disperatamente una scusa per poter rimanere
ad arrostire nel silenzio della sua casa deserta.
Perché la sua quasi-cognata Alessandra, si
sarebbe trascinata dietro Giorgio, suo marito,
pseudo giornalista in grado, forse, di vincere il
Pulitzer, ma di sicuro non un campionato di
cordialità e di allegria, e due bimbe piccole,
Rebecca e Rachele, di tre e cinque anni.
A letto quella sera si accorse di essere un
amante distratto.
“Sono molto stanco – disse per scusarsi –
questa
indagine
mi
sta
ossessionando…
Domani sera ti costringerò a supplicarmi di
smettere!”
stretta.
aggiunse
ridendo
e
tenendola
44
Sabato 3 luglio
Sabato arrivarono in collina verso le dieci,
seguiti a ruota dalla Volvo ultimo modello
dell’antipatico paparazzo e relativa famiglia.
I
figli
di
Marco
gli
corsero
incontro,
abbracciandolo.
“Lo sai che presto Artemisia farà tanti
gattini?” fu la prima cosa che disse Giovanna.
“Ma no?” le rispose il padre proponendosi di
strangolare chi avesse dato la lieta novella ai
bambini.
“Sì,
ho
sentito
la
nonna
dirlo
a
mia
mamma!” aggiunse Ambra, la più grande delle
cuginette.
“Mamma, possiamo avere un bel micio
anche noi?” domandarono Rebecca e Rachele.
“Non se ne parla neanche.” rispose con tono
perentorio il padre padrone.
A Marco venne voglia di soffocare madre e
sorella, riservare lo stesso trattamento alla
gatta puttana e portare nella casadell’altezzoso
quasi-cognato una bella cesta con tutti i
cuccioli di Artemisia.
Rendendosi
conto
dell’impossibilità
di
attuare i suoi nefasti progetti, si avviò verso
casa. Era incazzato nero e non aveva la
minima intenzione di mascherare i suoi
sentimenti. Era stato chiarissimo: i bambini
non dovevano sapere nulla, solo così si sarebbe
potuta prendere una decisione sensata. Adesso
non restava che accettare l’inevitabile, con tutti
i problemi e i guai che gliene sarebbero
derivati.
Gli venne allora incontro con un’andatura
vezzosa, innocente e amichevole la dolce
Artemisia. La bestiola non avvertì l’animosità
di
quello
padrone,
che
ormai
tanto
che
considerava
emise
un
il
suo
miagolio
indistinto e si avvicinò per farsi accarezzare.
Mai idea fu più nefasta. Marco si guardò
rapidamente intorno: nessuno. Una simile
occasione per scaricare i nervi non gli si
sarebbe più presentata. Magari avrebbe potuto
generare
una
benefica
interruzione
di
gravidanza. Alzò la gamba e sferrò al fondo
schiena dell’animale una poderosa pedata.
Artemisia attraversò la stanza volando, con un
miaoooo di terrore e, dopo essere atterrata
indenne sulle quattro zampe, se ne fuggì
soffiando col pelo dritto come quello di un
istrice.
Marco non fece in tempo a sorridere di
soddisfazione: si eraben guardato intorno, ma
non in basso. Paolo era così vicino che non lo
aveva visto, in compenso il bambino aveva
assistito con orrore alla scena brutale.
Quel che seguì fu peggio di una tragedia
greca. Pure Ugo ci si mise, ululando di dolore
per
dare
il
proprio
contributo
ai
pianti
infantili. Oscar si limitò a controllare cosa mai
fosse successo, unico forse a schierarsi dalla
parte del colpevole. Caterina e i vari parenti
adulti erano costernati.
Elisa non disse una parola, ma lo sguardo
con cui prese in braccio la sua non più vergine
cuccia, espresse in modo inequivocabile il suo
pensiero. Marco passò all’istante da vittima a
carnefice, con ben pochi argomenti a sua
difesa. Più che ammettere di esser stato tradito
dal suo proprio sangue, di dire che le donne
parlano sempre troppo, di sostenere che in
fondo era stata un’affettuosa pedatina che la
timidezza di Paolo aveva scambiato per un
gesto aggressivo, che sì, magari si era lasciato
prendere dall’ira, ma che con tutti i guai che
aveva un minimo di comprensione se la
sarebbe anche aspettata, e che diamine!, – e a
questo punto partì al contrattacco – in fondo
stavano tutti facendo di una pulce un elefante,
quando era piccolo sua mamma menava
scapaccioni ogni due per tre e adesso se solo
alzavi la voce chiamavano il telefono azzurro,
e che palle! – continuò col viso sempre più
violaceo – era ora di finirla, d’ora in poi
avrebbe amministrato l’alta e la bassa giustizia
secondo i suoi principi, e che nessuno gli
rompesse
i
coglioni
perché
già
glieli
rompevano i giornali, e dicendolo lanciò
un’occhiata
torbida
al
quasi-cognato
esterrefatto, i criminali, il Questore, il Prefetto,
il Sindaco e tutti gli stronzi dei politici, e poi –
aggiunse rivolgendosi alla madre allibita –
forse che alle galline non si tira il collo? E lui
non aveva diritto di dare una sacrosante
pedata a una gatta che tra due mesi avrebbe
sfornato mezza dozzina di piccoli quadrupedi
scagazzanti? Due gliene avrebbe date, e una
anche a quel deficiente di cane capace solo di
dar manforte alla congrega e far più danni di
un kamikaze…
Elisa e Caterina si guardarono. Capirono che
il poveretto era allo stremo, forse era il caso di
dargli una mano anziché considerarlo un
crudele aguzzino.
E così tutto finì in gloria. I bambini fecero i
bambini, e gli altri rimasero seduti a tavola
chiacchierando fino a tardi. Alle dieci di sera
decisero
di
tornare
a
casa.
Marco
stava
salutando i suoi figli, quando il cellulare
squillò.
“Chiami subito il 118, io arrivo tra poco.”
disse in modo concitato.
“Un
altro
morto?”
domandò
Elisa
terrorizzata.
“Quasi, ma spero per cause naturali.” le
rispose, costringendosi ad essere ottimista.
45
In casa Righetti il sabato era il giorno
dedicato alla mamma. La signora Fernanda si
alzava molto tardi, e Bruno doveva pranzare
con lei, poi giocare a carte e ascoltarla
rievocare sempre gli stessi eventi della vita
passata. Rosa, la cameriera, se ne andava dopo
aver rigovernato la cucina.
Quel sabato la sorella era rientrata alle
cinque del pomeriggio portando un’insolita
allegria. Alla sera sarebbe andata a teatro col
suo amore, già era stata dal parrucchiere e
aveva comperato un elegante vestito nero che
le stava d’incanto.
Dopo cena un leggero colpo di clacson
annunciò l’arrivo del fidanzato.
“Divertitevi!” le dissero mamma e fratello
trasferendosi in salotto a vedere il Tg5.Alla
fine
del
telegiornale,
prepararsi per la notte.
Fernanda
andò
a
Bruno rimase a scorrere i vari programmi
della serata poi andò in cucina a preparare la
solita tazza di latte caldo e miele e la portò alla
mamma che nel frattempo si era già messa a
letto.
Prese i blister di tre medicinali da cui tolse
tre diverse pastiglie, le diede alla madre e
aspettò che le inghiottisse con un sorso di latte.
Dopo averla sfiorata con un bacio se ne uscì
chiudendo la porta.
La sua giornata da badante era finalmente
terminata. La madre non si sarebbe più mossa
fino al mattino seguente e lui era libero di
sdraiarsi seminudo sul letto, accendere il
computer, mettersi in testa le cuffie e navigare
in santa pace sui siti porno più o meno
sadomaso. E, ovviamente, masturbarsi alla
grande.
Il poveretto aveva superato i trent’anni
senza
mai
insomma
essere
era
stato
vergine
con
e
una
poiché
donna:
qualche
ormone doveva ben averlo, ma era sprovvisto
di motivazioni per sublimare gli istinti carnali,
non poteva far altro che accontentarsi di
praticare svariate tecniche di autoerotismo.
La madre stava facendo come ogni sabato
sera le parole crociate. Aveva appena finito di
bere il latte quando sentì nel petto come un
frullio d’ali. Si appoggiò al cuscino aspettando
che passasse.
“Che accidenti mi capita?” pensò.
Non fece in tempo a darsi una risposta, che il
cuore cominciò a battere sempre più forte.
“Bruno,
aiuto!”
cercò
di
gridare
senza
riuscirci.
Prese allora il cellulare, che le sfuggì di
mano e finì in fondo alla stanza. La vista
cominciava ad alterarsi, i contorni erano
sfocato e i colori soffusi.
Con la forza della disperazione scese dal
letto, barcollò e, per tenersi in piedi, si
aggrappò al tavolino. Cadde trascinandoselo
addosso con tutto quello che c’era sopra.
Il fracasso fu notevole, tanto che Bruno, pur
con i sensi offuscati dall’eccitazione e dalle
cuffie, lo percepì. Si infilò il pigiama, spense il
computer e andò a vedere quale fosse stata la
causa di quello strano rumore.
Quando entrò nella camera della mamma la
trovò stesa in terra priva di conoscenza.
Bruno venne assalito da una soffocante crisi
di panico, non sapeva che fare e tantomeno
chi chiamare. La sorella era a teatro, parenti e
amici non ne avevano, l’unica luce nel buio di
quel tragico momento era l’uomo con cui
aveva parlato più a lungo negli ultimi mesi: il
commissario Ferrero. Gli telefonò.
Marco
entrò
nella
casa
della
famiglia
Righetti mentre il medico del 118 stava
cercando di rianimare la signora Fernanda.
Bruno
sembrava
reggersi
in
piedi
per
miracolo. Il commissario rimase sconvolto
dall’aspetto
del
professore:
con
enormi
occhiaie scure e sguardo perso nel vuoto, non
riusciva
a
parlare
e
balbettava
frasi
farneticanti.
“Sua sorella dov’è?” gli domandò.
“A teatro.”
Intanto Fernanda stava per essere portata in
ospedale. Il commissario chiese al medico
come fosse la situazione della paziente.
“Niente buona – rispose a voce bassa –
potrebbe
aver
avuto
un’ischemia
o
un
problema cardiaco. Non possiamo fare altro
che portarla in fretta al pronto soccorso.”
Marco non se la sentì di lasciare al suo
destino il professore inebetito, per cui, dopo
averlo costretto a infilarsi qualcosa di decente,
lo caricò in macchina e lo portò all’ospedale.
Prima di uscire di casa, infilò nella porta un
biglietto per la sorella Stefania.
A mezzanotte la videro arrivare correndo
nella sala d’aspetto, dove da più di un’ora
stavano
aspettando
qualche
notizia
confortante.
Bruno scoppiò a piangere.
“Finalmente! – pensò il commissario – ora
me ne posso andare.”
Ma Stefania era un medico e senza chiedere
permesso aprì le porte del pronto soccorso per
andar a controllare di persona come stesse la
madre. Appena la vide, capì che non c’era più
nulla da fare.
Quando Bruno vide lo sguardo della sorella,
capì
all’istante
completamente
di
orfano.
essere
Nel
rimasto
frattempo
il
commissario fu avvicinato da un medico.
“Volevo dirle che la morte della signora è
sospetta, nel senso che non siamo riusciti a
stabilirne la causa. La collega mi ha detto che
lei è un poliziotto, per cui saprà che in casi
come questo siamo costretti a denunciare il
decesso alle forze dell’ordine. Cosa che è già
stata fatta. Abbiamo richiesto l’autopsia e i test
tossicologici, domani magari la situazione si
risolverà.”
“Pensate che possa essere stata avvelenata?”
“Sicuramente non è deceduta per infarto o
per emorragia cerebrale.”
Marco uscì e chiamò l’ispettore Minici.
“Rocco – esordì – so che starai dormendo e
che vi avevo promesso due giorni di completo
relax. Scusami, ma ho bisogno che tu mi dia
una mano.”
“Non si preoccupi, commissario – rispose –
mi dica cosa devo fare.”
Il commissario gli spiegò succintamente la
situazione.
“Raggiungimi a casa del professore.”
Rocco entrò nel grande salone dei Righetti,
si presentò e strinse la mano alla figlia della
defunta. Guardando il professore che non si
era neppure alzato per salutarlo, rimase di
sasso.
Bruno sembrava invecchiato di trent’anni: le
spalle curve, lo sguardo disperato, le mani
tremolanti, era l’immagine di un uomo senza
futuro.
“Penso che un caffè farebbe bene a tutti.”
disse Stefania per rompere il ghiaccio.
“Vieni con me a prepararlo.” aggiunse rivolta
al fratello.
I due poliziotti, rimasti soli, si guardarono.
“Secondo te, potrebbe avere avvelenato la
madre?”
“Chi? Il professore? Ma scusi, quello tra un
po’ si suicida, soltanto stasera ha tagliato il
cordone ombelicale. La vecchia si sarà uccisa
da sola, o è trapassata del suo…”
“Ma
che
vecchia!
Non
aveva
neppure
sessanta anni.”
In cucina Stefania parlava a Bruno in modo
affettuoso.
“Senti – gli disse – quando stasera hai
portato alla mamma la sua tazza di latte hai
guardato la data di scadenza?”
“No, non l’avevo mai fatto.”
“Non sarebbe comunque grave, ma controlla
per favore.”
Bruno tolse dal frigo la bottiglia del latte.
“No – disse, dopo averla girata in tutti i sensi
– scade tra qualche giorno.”
“Meno male, vieni, portiamo il caffè.”
Finita la cerimonia del caffè, Marco cercò di
farsi
spiegare
dal
professore
cosa
fosse
successo quella sera prima della tragedia.
“Riassumendo – disse Marco – fin verso le
sette e mezza di sera siete rimasti tutti tre
assieme.
Vostra
madre
ha
mangiato
la
minestra preparata e niente altro. Poi Stefania
è uscita e lei Bruno è venuto in salotto con sua
mamma. Ricorda se ha mangiato o bevuto
qualcosa …”
“Sì, un paio di cioccolatini… da quella scatola
là.”
Marco trovò in un posacenere due carte
stagnole appallottolate .
“Dopo che la signora è andata in camera, le
ha preparato una tazza di latte caldo con miele.
Saranno state le nove di sera. Giusto?”
“Giusto.”
“Quindi lei ha dato a sua mamma le pastiglie
di tre medicine, che ha ingoiato con un po’ del
liquido caldo. Giusto?”
“Giusto.”
“Lei dice che i tre blister sono ancora nel
cassetto del tavolino da notte.”
“A meno che siano caduti.”
“La signora cosa stava facendo quando lei
l’ha lasciata?”
“Le parole crociate.”
“Infine lei è uscito e per circa un’ora ha
ascoltato musica con le cuffie lavorando al
computer. Giusto?”
“Sì.”
“C’è qualcosa che non vuol dire – pensò il
commissario – perché non ha detto ‘giusto’.”
“Verso le dieci ha sentito un rumore, è
andato a vedere e ha trovato sua madre riversa
per terra.”
“Giusto.” rispose con un gemito.
Per qualche minuto rimasero in silenzio.
“È molto tardi e siamo tutti stanchi. – disse il
commissario – Portiamo nella stanza della
signora tutto quello che, nel peggiore dei casi,
dovrà essere analizzato. Poi mettiamo i sigilli
alla porta e ce ne andiamo a dormire.”
Alle tre di notte Marco scivolò nudo sotto le
lenzuola. Una volta tanto mantenne fede alla
promessa della sera precedente. Elisa, stremata
dall’amore, si addormentò alle prime luci
dell’alba.
46
Domenica 4 luglio
Marco fu svegliato dalla luce che entrava
nella stanza. Si accorse di essere ancora
abbracciato ad Elisa, che dormiva tranquilla
appoggiata alla sua spalla. Si soffermò a
guardarle i lineamenti del viso: le lunghe ciglia
nere, le labbra morbide, la pelle chiara, appena
arrossata sul naso e sugli zigomi dal sole
d’estate. Sentì che dentro di lui qualcosa si
sgretolava, nel muro di rimorso, vergogna e
paura dietro cui si era celato per nascondere a
sé e al mondo le sue colpe, si stavano
formando spiragli e fessure che permettevano
al fulgore della libertà di rischiarare il buio del
carcere dove si era rinchiuso: la forza del
pentimento e l’accettazione dei suoi limiti di
uomo avevano fatto il miracolo. Era pronto a
perdonarsi, a lasciare andare la rabbia, l’odio e
il desiderio di vendetta, a smettere di anelare
alla sofferenza come a un giusto riscatto per i
peccati commessi. Si sentiva nuovamente
degno di poter essere felice.
Fu
travolto
da
un’onda
impalpabile
di
amore, avvolto da un ultimo lieve abbraccio
d’addio, alleggerito dal peso di un’anima che
per egoismo aveva tenuto legata alle miserie
della terra e che allontanandosi gli mandava
incorporei messaggi di gratitudine.
Respirò profondamente, guardò le ombre
che la luce creava sulle pareti, tenui fantasmi
che
il
sole
nascente
affievoliva;
rimase
immobile a vivere come in un sogno quel
momento incantato, finché tutto sparì nel
bagliore del nuovo giorno.
Si chinò su Elisa, appoggiò teneramente le
labbra sulle sue, la vide aprire gli occhi e
guardarlo.
“Ti amo tanto.” le sussurrò.
Lei capì di essere a una svolta della loro vita,
ma ebbe la sensibilità di non domandarne la
ragione.
Il commissario arrivò in ufficio sperando di
trovare l’esito degli esami tossicologici. Anche
Minici era andato in Questura rinunciando a
una sacrosanta domenica in famiglia.
Mezz’ora
dopo
arrivò
il
responso
del
laboratorio.
“Allora commissario – gli disse il patologo –
la Righetti, è morta per avvelenamento da
digitale. La dose che ha preso avrebbe ucciso
un elefante.”
“Sei sicuro?”
“Sicurissimo. Oggi faranno l’autopsia e lo
confermeranno.”
“Potrebbe essere stato un omicidio?”
“Beh, il detective sei tu. Io posso solo
garantirti che non è morta del suo. Ci sono
tracce dei farmaci che, a quanto ho letto sulla
cartella, prendeva tutti i giorni. Nulla di
nocivo, comunque. Stammi bene e fammi
sapere.”
Il commissario riuscì a mormorare un
‘grazie’ di cortesia, mentre Minici aveva capito
che le prossime ore sarebbero state convulse.
Per qualche minuto Marco rimase seduto
alla scrivania senza dir nulla, voleva lasciare
tempo ai pensieri di organizzarsi.
“Rocco – disse poi – siamo nella merda.
Secondo me il professore ha avvelenato la
madre.”
“Con cosa?”
“Con una dose massiccia di digitale.”
“Chi cazzo gliel’ha data? La sorella?”
“Dici che potrebbero aver deciso insieme di
farla fuori?”
“Dotto’,
in
questo
mondo
ne
stanno
capitando di tutti i colori.”
“Ma lei è un medico, sa benissimo che la
cosa sarebbe saltata fuori. Ora dobbiamo
muoverci in fretta. Chiama Nicolasi, Arteri e
Signorini. Convoca anche la Scientifica, che
tra un’ora si trovi sul posto. Io avverto il
Questore. Quando ci siamo tutti, andiamo a
fare una perquisizione d’urgenza a casa dei
Righetti. Ah, devo telefonare a Elisa…”
“Ciao amore – le disse – immagino che tu
abbia
già
capito.
Qui
la
situazione
è
drammatica e non so quando ne verremo
fuori…sei un angelo…va bene, vai su tu e per i
bambini…sì, prometti qualcosa, sai che mi
sento in colpa…no, un altro gatto no, ti prego…
un giro a Gardaland mi sembra simpatico… poi
ti chiamo, bacia tutti da parte mia, ciao amore
ciao.”
47
Alle dieci del mattino Stefania sentì suonare
alla porta.
“Che succede?” mormorò, quando si vide
davanti i quattro poliziotti.
Il commissario la accompagnò in salotto e la
fece sedere in poltrona.
“Dottoressa, sua mamma è morta per aver
preso una forte dose di digitale. Come lei sa,
gli esami sono inequivocabili.”
La giovane si guardò intorno smarrita. Si
strinse nella vestaglia per una sorta di istintiva
difesa e rimase muta scrutando i tre uomini e
la donna che la sovrastavano.
“Dov’è suo fratello, Stefania?” le domandò
Ferrero in tono più amichevole.
“Sta ancora dormendo.”
“Mi dispiace, ma lo dobbiamo svegliare.”
“Dottoressa, sua mamma soffriva di cuore?”
“No, era solo leggermente ipertesa e aveva
qualche problema renale. Nulla di serio, però.”
“In casa tenevate della digitale?”
“No assolutamente.”
“Lei per caso ne aveva nella sua borsa da
medico?”
“No, sono radiologa, non ho mai farmaci con
me.”
“Allora come pensa che sua madre abbia
potuto avvelenarsi?”
La poveretta rimase impietrita, con gli occhi
sbarrati. Una lacrima le scivolò lungo la
guancia, l’asciugò con un veloce gesto della
mano.
A salvare la scena imbarazzante, arrivarono,
silenziosi, ma efficienti, due uomini della
Scientifica.
“Marco – disse Savino – Spiegami un po’ la
situazione.”
I due si appartarono a parlare, mentre
Stefania, accompagnata da Carmen che aveva
il compito di non lasciarla mai sola, andò nella
camera
di
Bruno.
Era
completamente
intontito, sparuto e scarno da far paura. La
sorella lo costrinse a bere un caffè e nessuno
gli disse che lo si sospettava di omicidio.
Calabresi e il suo collega si infilarono le tute
bianche per passare al setaccio la camera della
defunta.
Il commissario e Nicolasi si misero i guanti
ed entrarono nella stanza del professore.
Non ci fu molto da cercare. Quando il
commissario aprì un’anta del mobile, vide una
piccola scatola decorata con foglie di menta.
“Ragazzi…” si limitò a dire.
A quel
punto
medicinali.
videro
Marco
ne
due
prese
boccette
una,
di
lesse
l’etichetta, poi guardò i colleghi.
“Tombola! – esclamò – è digitale.”
Sullo
stesso
ripiano,
trovarono
delle
siringhe, ancora chiuse nell’involucro sterile.
Ogni tanto Marco guardava le boccette, le
siringhe e le scatoline con le foglie di menta.
Gli sembrava di aver davanti la soluzione di un
problema, ma non riusciva a incastrare i vari
pezzi del puzzle. A un certo punto non solo
vide la figura del rompicapo, ma ebbe anche la
soddisfazione di sapere che, ancora una volta,
il suo istinto aveva avuto ragione.
Prese il cellulare e chiamò il Questore.
“Dottor Sacerdote – esclamò – gli indizi che
stiamo
trovando
sembrano
comprovare
l’intervento attivo del professor Righetti nella
morte della madre…ma c’è di più!”
Nicolasi, Minici e Signorini si fermarono a
guardarlo.
“Potrebbe anche aver ucciso il professor
Andreoli, quello stramazzato nel corridoio
dell’Università.”
“Ma non era morto per un attacco cardiaco?”
“Io, se mi consente, signor Questore non
sono
mai
stato
d’accordo
con
il
referto
dell’autopsia. L’attacco è stato, come dire…,
indotto
artificialmente
mediante
pasticche
avvelenate.”
“Ferrero, è sicuro di quel che sta dicendo?”
“Dottore mi creda, non si tratta di semplici
sospetti. Se interrogassi il Righetti, sono certo
che confesserebbe. Preferisco aspettare che le
prove siano più solide e poi lo porto in
Questura.”
“Commissario, cosa dice?” domandò Rocco.
“Guardate! –rispose mettendo contro sole
una delle pastiglie delle scatoline – Vedete? È
piena di un liquido che il Righetti ha sostituito
con della digitale.”
“E come?”
“Con
una
semplice
siringa.
Il
povero
Andreoli era un divoratore di caramelle. Quel
figlio di un demonio ha fatto il gentile gesto di
regalargli la bella scatolina nuova, piena di
bonbon avvelenati, e poi, quando è accorso sul
luogo della tragedia, ha approfittato della
confusione
generale
per
trafugare
l’unica
prova del crimine.”
“Il movente?”
“Mi è del tutto oscuro. Ma credo di sapere di
più.”
In poco più di dieci minuti raccontò come
gli fosse balenata quell’idea così strana e
irragionevole,
che
però
era
in
grado
di
ricostruire l’esatta dinamica degli eventi.
Il
commissario
prese
il
computer
del
professore e lo portò al collega Savino.
“Impacchettatelo e portatelo con voi – gli
disse – l’ingegner Sansoni riuscirà ad estrarne
anche i pensieri di Righetti.”
“Qui abbiamo finito – rispose Calabresi –
abbiamo preso le impronte anche se non
serviranno.
Il
resto
lo
porto
subito
ad
analizzare.”
“Savino, senti, non posso spiegarti tutto
perché mi ci vorrebbe troppo tempo. Ma la
situazione è molto più complessa di quanto
possa sembrare. Qui sotto c’è una sorta di
verminaio che non ci saremmo aspettati. Il
tutto per dirti che avremmo bisogno, subito,
dell’esame del latte nella bottiglia e sul fondo
della tazza.”
Nel pomeriggio arrivò Rosa, sconvolta e
piangente.
Rimase
a
lungo
abbracciata
a
Stefania, Bruno era duro più di un pezzo di
legno e neppure la salutò.
Poco dopo arrivò la telefonata che tutti
aspettavano.
“Allora Marco – tuonò Calabresi – il latte
nella scodella è digitale con un po’ di miele,
quello della bottiglia potrebbe anche berlo un
neonato.
La
minestra
è
assolutamente
commestibile. Idem per i cioccolatini.”
“In poche parole il figlio di puttana ha messo
la digitale direttamente nella tazza.”
“Così sembrerebbe, non vedo alternative.”
“E il gusto?”
“Beh, io non l’ho assaggiato, mi sembra che
la digitale pura sia sgradevole, ma con tutto
quel miele…”
Il commissario si chiuse in cucina con lo
staff al completo, lasciando i Righetti in
compagnia di Rosa.
Per prima cosa convocarono Stefania.
“Dottoressa – le disse il commissario – si
sieda per favore.”
La poveretta muoveva lo sguardo intorno
alla stanza, come una preda che cerchi un
modo
per
sfuggire
agli
artigli
dovrei
farle
una
del
suo
carnefice.
“Stefania,
semplice
e
terribile.
Se
la
domanda
sente
di
rispondermi?”
“Sì.” rispose in un soffio.
“Pensiamo che Bruno abbia ucciso sua
madre avvelenandola. Io credo che lei ne
avesse già il sospetto.”
La giovane incrociò le dita delle mani e le
strinse finché le nocche diventarono bianche.
Abbassò lo sguardo sul tavolo e rimase così,
ansimando un poco, lasciando che le lacrime
le
scivolassero
sul
volto.
Poi
guardò
il
commissario dritto negli occhi: con immensa
tristezza fece con il capo un cenno di assenso.
“Ha un posto dove andare a dormire per
qualche giorno?” le chiese.
“Potrei stare dal mio fidanzato, e Bruno?”
Marco la guardò senza rispondere. Era certo
che avrebbe capito.
Prima di uscire di casa, Stefania si avvicinò
al fratello e lo strinse tra le braccia.
Il professore si limitò a guardarla andar via
senza manifestare la minima emotività. Di
sicuro non si era reso conto della situazione in
cui si trovava e di quale sarebbe stato il suo
futuro.
“Io direi di portarlo in Questura – concluse
Ferrero – chissà che un ambiente diverso non
riesca a sbloccarlo.”
48
Dopo aver avvertito il magistrato di turno e
aver messo i sigilli alla porta, Minici e Ferrero
uscirono tenendo tra loro l’indiziato.
Il presunto colpevole venne portato nella
stanza degli interrogatori, un locale spoglio,
con un tavolo, quattro sedie e nessuna finestra,
provvisto
però
di
specchi
unidirezionali,
videocamere e microfoni.
Il commissario si sistemò di fronte al
Righetti, Minici e Nicolasi rimasero in piedi
appoggiati alle pareti, mentre i due giovani
poliziotti
ascoltavano
e
vedevano
tutto
dall’altra stanza.
Marco esordì in modo estremamente soft.
“Allora, professore, siamo qui per avere da
lei dei chiarimenti. L’avverto che tutto sarà
registrato.”
Non ci fu neanche un battito di ciglia.
“Professore, ha capito quello che le ho
detto?”
Lieve cenno di assenso.
“Le dispiacerebbe rispondere a voce alta, per
favore?”
“Sì.” disse in una sorta di belato.
“Professore,
vuole
chiamare
il
suo
avvocato?”
“Perché?”
Tutti si convinsero di aver davanti una
persona non del tutto normale.
“Perché
alcune
domande
saranno
imbarazzanti. Lo vuole o no questo avvocato?”
“No.” rispose con un tono quasi imperioso.
Ferrero pose sul tavolo il sacchetto con i due
piccoli flaconi di digitale.
“Professore, questi li abbiamo trovati in un
armadio nella sua stanza. Li riconosce?”
Bruno rimase a fissarli per cinque minuti,
senza muoversi né proferire parola. Poi fece
un profondo respiro e sembrò rilassarsi.
“Sì – rispose – li conosco.”
“Mi sa dire come se li è procurati?”
“Li ho comperati in farmacia.”
“E la ricetta?”
“L’ho scritta io.”
“Lei?”
“Sì, quando mio papà aveva bisogno di una
medicina, io andavo a prendere il ricettario e
compilavo uno dei fogli.”
La spiegazione era esauriente e inattaccabile.
“Va bene. – continuò il commissario – Così
lei non ha avuto difficoltà a procurarsi della
digitale. E poi cosa ne ha fatto?”
“Ho eseguito gli ordini.”
“Gli ordini di chi?”
“Non lo so.”
“Professore,
ricapitoliamo. Allora
lei
ha
scritto la ricetta ed è andato in farmacia a
comperare queste due boccette. Giusto?”
“Giusto.”
“Sapeva cosa farne?”
“Si, avevo letto le istruzioni.”
“Dove, nel bugiardino?”
“No – esclamò divertito – le istruzioni erano
sulla lettera che ho ricevuto.”
“Molto
bene
–
disse
Marco
con
tono
incoraggiante – e dov’è ora questa lettera?”
“L’ho nascosta nel mio ufficio – riprese
dopo cinque minuti di silenzio – nel primo
cassetto della scrivania.”
“Su questa lettera le si diceva cosa fare del
farmaco.”
“Giusto.”
“E lei ha ubbidito.”
“Giusto.”
“Perché non si è rifiutato?”
“Perché avevo ricevuto delle minacce sulla
posta elettronica …”
“Che tipi di minacce?”
“Gravi.”
“Ricorda cosa c’era scritto nella lettera?”
“Certo. Mi si diceva di andare a comperare
delle scatole di caramelle…”
“Sta
parlando
del
delitto
di Andreoli!”
pensarono i poliziotti.
“…in un certo bar tabaccheria.”
Silenzio.
“E poi?”
“Poi c’era scritto di usare una siringa per
togliere lo sciroppo di menta e di riempirle col
liquido dei flaconcini.”
“Li ha usati tutti e due?”
“Sì, tutti e due.”
“Come mai ha conservato le boccette?”
“Perché
io
tengo
tutto,
mi
è
sempre
piaciuto…”
“Mi scusi professore. Usciamo un momento
a
prendere
un
caffè.
Vuole
portiamo uno?”
“Grazie, con tanto zucchero.”
che
gliene
Ferrero, Nicolasi e Minici andarono nell’altra
stanza.
“Allora, ragazzi, che ne pensate?” domandò il
commissario.
“Pare che lei abbia visto giusto – rispose
Dario – ma mi sembra che il Righetti abbia
cancellato
dalla
mente
l’omicidio
della
madre.”
“E dei flaconcini che ha adoperato per
avvelenare il latte, cosa diavolo ne ha fatto? In
casa abbiamo trovato solo i primi due.”
aggiunse Rocco.
“Bravo, é la prima cosa che mi sono chiesto,
ho preso la scusa del caffè per parlarne con
voi. Non so se sia meglio lasciarlo andare a
ruota libera, o metterlo davanti all’amara
verità.”
“Io sarei per una domanda diretta.” disse
Minici.
Nicolasi approvò.
Non fu una bella idea.
Rientrarono poco dopo. Il commissario posò
sul tavolo davanti al professore la tazzina di
caffè.
“Spero sia abbastanza dolce – esordì – lo
beva e poi mi dica perché non ha conservato le
boccette della digitale che ha versato nel latte
di sua madre.”
Bruno rimase immobile a guardarlo con gli
occhi
sgranati,
come
se
avesse
visto
un
marziano. Di colpo parve ricordarsi della
tragedia che lo aveva colpito.
“Mia mamma – biascicò – mia mamma è
morta…”
Cominciò
a
tremare,
a
ripetere
ossessivamente …è morta …, a passarsi le mani
sulla testa dalla nuca alla fronte, come per un
inconscio desiderio di nascondersi alla realtà.
In pochi minuti sembrava essersi risucchiato
all’interno di se stesso a formare una sorta di
bozzolo da cui fuoriusciva un viso animalesco,
gli occhi a fessura coperti dai capelli, la bocca
semiaperta in un urlo di muta disperazione.
“Professore – disse Rocco, decidendo di
intervenire – lei sa che sua mamma è stata
avvelenata nello stesso modo del professor
Andreoli. Ci può dire perché l’ha fatto?”
Finalmente Bruno capì. La reazione fu tanto
inaspettata quanto violenta.
Prendendo forza dall’odio e dalla rabbia
verso chi lo aveva accusato, lanciò un urlo di
gola da vero cavernicolo, si alzò in piedi, prese
la tazzina di caffè e ne gettò il contenuto in
faccia all’ispettore, poi si scagliò addosso al
commissario tempestandolo di pugni. Marco
gli bloccò le braccia, ma non poté fermarne
l’impeto; il professore inferocito più di una
belva riuscì a raggiungerlo e, in mancanza di
meglio, lo azzannò nel collo.
Fortunatamente
giovani
e
aitanti.
inchiodarono
a
Dario
e
In
pochi
terra
e,
Rocco
a
erano
secondi
lo
fatica,
lo
ammanettarono. Dopo aver chiamato il 118, lo
infilarono in un’ambulanza e a sirene spiegate
lo portarono in ospedale.
49
Sei mesi prima c’erano state in Questura
vivaci discussioni circa il tipo di distributore di
caffè da mettere nei corridoi. Alla fine avevano
optato per la macchinetta a cialde, che restava
accesa dalla mattina alla sera. Così l’acqua era
sempre caldissima e l’espresso ottimo.
Tutto ciò per dire che il liquido che il
Righetti impazzito aveva gettato addosso al
povero Minici era prossimo all’ebollizione.
Mentre
l’indagato
veniva
trasferito
alla
neuro-deliri, Rocco elencava a gran voce tutto
il vasto repertorio di parolacce e oscenità italosiculo-piemontesi,
da coglione bastardo, a và
rumpiti i cuoairna, dal più gentile figlio di
puttana, al più colorito balengu ‘d merda.
La faccia dell’inferocito ispettore si stava
riempiendo di bolle rossastre, le palpebre
stavano lievitando tipo krapfen, e a mano a
mano che gonfiavano coprivano gli occhi del
malcapitato
con
una
semisfera
di
pelle
vescicolosa e molliccia.
Marco aveva il collo sanguinante e un male
dell’accidente, anche se all’apparenza il morso
del professore non sembrava aver procurato
ferite gravi.
“Rocco – continuò Nicolasi che era l’unico
dei tre a non aver avuto danni – devo portarti
subito all’ospedale.”
“Andiamo al traumatologico – disse Ferrero
– avverto una mia amica che ti faccia vedere
da un medico del centro ustionati.”
L’amica
in
questione,
la
dottoressa
Margherita Valiani, era un primario piuttosto
noto. Marco l’aveva incontrata nel corso di
diverse indagini su incidenti dolosi e mai
avrebbe dimenticato l’aiuto e il sostegno da lei
avuto nei tragici giorni della morte di Elena e
del successivo lungo ricovero del piccolo
Paolo.
La dottoressa Valiani li stava aspettando.
Dopo aver fatto stendere Rocco su un
lettino,
guardò
il
collo
di
Marco
che
continuava a sanguinare.
“Non mi piace per nulla – disse – sdraiati su
questa barella e non muoverti. Torno subito.”
Poco dopo rientrò in compagnia di un
medico e di un’infermiera.
Si occuparono subito delle ustioni di Minici,
che stavano visibilmente peggiorando.
“Tra
pomata
poco
è
il
dolore
miracolosa.”
diminuirà,
lo
questa
incoraggiava
il
dottore toccandogli con molta delicatezza le
bruciature del viso.
Poi ricoprirono con bende e cerotti quasi
tutta la faccia del paziente. Palpebre comprese.
Avrebbe dovuto tenerli fino al controllo del
giorno dopo.
Sistemato
l’ispettore
si
rivolsero
al
commissario.
“Non sei grave – gli disse l’amica primario –
se prometti di star fermo con la testa, non ti
mettiamo neppure i punti. Ma devi tenere il
bendaggio almeno fino a venerdì.”
Dopo
averlo
pulito
e
disinfettato,
lo
incerottarono dall’orecchio sinistro a metà del
mento.
Quando uscirono, sembravano reduci dal
Carso.
Tra una battuta e l’altra si avviarono verso
l’auto di servizio, non vedevano l’ora di
mettere la parola fine a quella giornata da
incubo.
Era destino che dovessero ancora soffrire.
Di colpo vennero accecati da decine di flash,
circondati da paparazzi e cameraman urlanti,
aggrediti dauna selva di microfoni fallici,
frastornati
da
domande,
richieste
di
commenti, pretese di interviste.
Minici che era un vero rompighiaccio di
folle, non riusciva neppure a stare in piedi.
Rammollito da antibiotici e sedativi avrebbe
fatto o detto qualunque cosa pur di andare a
casa e mettersi a letto.
Ferrero si trovava all’incirca nella stessa
situazione, oltretutto poteva solo guardare
davanti, per la prima volta sentiva il panico
dell’uomo impotente di fronte alla violenza
del branco.
Nicolasi
faticava
a
tener
testa
all’orda
incalzante, dovendo anche far da cane guida e
da sostegno ai due colleghi infortunati.
Non restava che arrendersi.
Raccontarono
il
minimo
possibile
promettendo per il giorno dopo alle quindici
una esauriente conferenza stampa.
Poi salirono in macchina.
“Nicolasi – disse Ferrero prima di scendere
davanti a casa – ora spetta a te telefonare al
Questore.”
“A quest’ora?”
“Certo, si lamenta o no che lo teniamo
sempre all’oscuro di tutto? Tu lo chiami e gli
racconti
come
sono
andate
le
cose.
Sicuramente dirà che è colpa nostra, che
avremmo
dovuto
prevedere
la
reazione
violenta dell’indagato e via discorrendo. Tu
non sei stato ferito e riesci a stare più calmo.
Io gli spiegherei senza mezzi termini dove
deve andare, cosa deve fare, con chi, quando e
perché e voi vi trovereste a dover ubbidire a
un capo ancora più stronzo di me…”
Evelina, la moglie di Rocco, aspettava da ore
il ritorno del marito. Col passare del tempo la
rabbia si era trasformata in ira incontenibile,
alimentata da incessanti recriminazioni su
quel
che
le
era
stato
promesso
e
non
mantenuto. Vale a dire che una giornata
rilassante,loro due soli, senza bambini e,
perché no?, con finale erotico-amoroso, si era
trasformata per lei in una squallida domenica
tra le pareti domestiche.
Ogni volta che stava per cedere al sonno, si
faceva un caffè. Era giunta al dodicesimo,
quando sentì arrivare l’ascensore.
Allorché si vide davanti quella sorta di
mummia con i vestiti del marito, cacciò un
urlo di terrore così potente che, amplificato
dalla cassa di risonanza della tromba delle
scale, penetrò in tutti gli alloggi dei sette piani
della casa.
Rocco aveva riacquistato un poco dell’usuale
vigore. Pur mezzo accecato dalle medicazioni,
balzò addosso all’Evelina sostenendola con
una mano mentre con l’altra cercava di
soffocarne le grida.
“Stai calma – le sussurrò – non è nulla di
grave.”
L’infelice perse all’istante ogni baldanza.
Pallida più di un cencio, cominciò a piangere e
a tremare come una foglia, favorita anche
dalla potente dose di caffeina che aveva
ingurgitato nell’arco della serata. Forse, per il
povero Minici, sarebbe stato meglio sorbirsi
una delle solite querimonie a cui, tutto
sommato, aveva fatto l’abitudine.
Il rientro in casa del commissario fu meno
sensazionale. Elisa lo guardò spalancando i
grandi occhi neri.
“È
ancora
più
bella.”
pensò
Marco,
sforzandosi di sorridere per tranquillizzarla,
accorgendosi solo allora di aver perso ogni
energia.
“Amore, cosa ti è successo?” domandò lei,
abbracciandolo con delicatezza.
“Tesoro, se mi siedo non mi alzo più. Per cui
ascolta, vado a fare una mezza doccia, poi mi
metto a letto. Se mi porti una tisana e ti siedi
vicino a me ti racconterò quello che è
successo.
Insieme
alla
tisana
Marco
prese
l’antidolorifico che gli era stato dato dalla
Valiani. Steso, con due cuscini sotto il collo,
con la pelle fresca di Elisa contro il suo corpo
febbricitante
condizionatore,
e
il
si
lieve
sentiva
ronzio
in
del
paradiso.
Cominciò a parlare, lentamente, rallentando a
mano a mano che il dolore si affievoliva,
facendo lunghe pause, sempre più lunghe e
sempre più frequenti, finché chiuse gli occhi e
si addormentò.
50
Lunedì 5 luglio
Lunedì fu il giorno risolutivo.
Marco si svegliò alle dieci di mattina e subito
si accorse di stare decisamente meglio. Non
sarebbe certo rimasto a casa e tantomeno nel
letto.
Rocco invece dormì fino a mezzogiorno.
Evelina lo aiutò e lo nutrì come fosse stato un
reduce dalla ritirata di Russia. Lo accompagnò
in taxi all’ospedale e quando vide che sotto i
cerotti la pelle del volto dell’amato era appena
più rosea del normale e che il suo uomo non
era rimasto un invalido, fece ciò che meglio le
riusciva: scoppiò a piangere.
Mentre
il
commissario,
con
passo
baldanzoso, si avviava verso la Questura,
aveva la sensazione che sotto i portici la gente
lo guardasse in modo diverso dal solito.
Arrivato all’edicola, si fermò frugandosi
nelle tasche alla ricerca delle monete.
“Dottore – disse il giornalaio con un sorriso
a trentadue denti – oggi mi permetta di
regalarle La Stampa. Auguri e complimenti.”
Marco lo guardò senza capire. Poi abbassò
gli occhi sul banco dei quotidiani e gli parve di
essere entrato nel palazzo degli specchi. Tutti
riportavano
in
prima
pagina
una
delle
centinaia di fotografie scattate all’uscita del
pronto soccorso. L’immagine di Rocco era
spettacolare, lui era meno appariscente ma più
coreografico:
con
il
bendaggio,
la
testa
all’indietro e i capelli diritti, sembrava un
tacchino con il collo ingessato.
In Questura venne accolto da un applauso.
“Ragazzi – disse sforzandosi di stare serio –
ci sono novità?”
“Tanto
per
cominciare,
commissario
–
rispose Nicolasi – il Questore vuole essere
richiamato subito.”
“Subito quando?”
“Subito adesso.”
“Dottor
Sacerdote,
sopravvissuto.”
eccomi,
sono
“Ferrero, non ne ho mai dubitato, ma sono
felice
di
sentirla. Allora,
a
quanto
pare
abbiamo trovato il nostro uomo.”
“Mi sentirei di dirle di sì, anche se ci sono
ancora molti punti oscuri.”
“Indaghi,
dottore,
indaghi,
interroghi
e
torchi il Righetti e vedrà che riusciremo ad
avere
la
completa
confessione.
Ma
mi
raccomando, state più attenti…”
“Attenti un cazzo!” pensò.
“Sappia – continuò il commissario – che ho
indetto
una
conferenza
stampa
per
oggi
pomeriggio alle tre.”
“Benissimo, farò di tutto per esserci.”
“Fatto – disse Marco – adesso veniamo alle
cose serie. Ditemi le novità.”
“Stamattina
ho
parlato
col
medico
del
reparto in cui è piantonato il Righetti. Pare sia
stato tranquillo tutta la notte e non abbia più
dato in escandescenze. Ha telefonato anche il
dottor Calabresi che vorrebbe parlarle.”
“E l’autopsia?”
“Dovrebbe essere fatta in giornata.”
“Finché non abbiamo qualcosa di nuovo,
direi di lasciare dov’è il nostro matematico
pazzoide, meglio che sbolla gli ardenti spiriti,
noi
intanto…Aspettate
che
mi
suona
il
cellulare…”
“Ciao Vittorio,
non
dirmi
che
hai
già
sviscerato il computer...”
“Innanzitutto lascia che mi complimenti con
voi per aver dato lustro alle forze dell’ordine.
La vostra fotografia ci ha commossi…”
“Sansoni, siamo già abbastanza incazzati
senza che tu ci prenda anche per il culo!”
“Giuro che se non avessi letto il nome, mai
avrei riconosciuto Minici….Comunque a parte
gli scherzi, come state?”
“Rocco non lo abbiamo ancora sentito, io
sono tutto impacchettato, ma posso lavorare.
Hai qualcosa per me?”
“Molto. Innanzitutto l’innocente professore
è un emerito imbecille. Il signorino, che per
inciso aveva vaste conoscenze di tutte le
sfumature dei siti pornografici, ha studiato per
circa un mese da bombarolo. Alla fine si è
soffermato su un tipo di esplosivo che è quello
che ha poi costruito per far saltare in aria le
auto. Facendo anche delle modifiche, perché,
così
com’è,
avrebbe
avuto
una
potenza
inferiore a quella sviluppata dai suoi ordigni.”
“Mi confermi quel che pensavo, il cosiddetto
attentato avrebbe dovuto avere un effetto assai
meno devastante.”
“Poi, e qui viene il mistero, ha cominciato a
inviare dei messaggi a se stesso.”
“Vale a dire?”
“So che è incredibile, ma a un certo punto si
è messo a spedire delle mail al suo indirizzo,
oscurando però quello del mittente…”
“Che era sempre lui…”
“…infatti, dicevo, scriveva a se stesso frasi di
minaccia, che poi ingenuamente cancellava.
Lo faceva sempre alla stessa ora, tra le sette e
mezza e le otto di sera, e si limitava a quattro
parole in grassetto maiuscolo: IO TI HO
VISTO. Poi la cosa si è evoluta, e si è auto
ricattato: lasciava intendere che, o ammazzava
di nuovo, o sarebbe stato denunciato, o
meglio, si sarebbe denunciato da solo. La
vittima
designata
era
un
certo
professor
Andreoli, che se ben ricordo è quello morto
all’Università.”
“Non parlava di una lettera…”
“Sì, avrebbe dovuto ricevere una lettera con
le modalità di esecuzione della condanna a
morte della povera vittima.”
“E poi?”
“Poi più nulla, a parte qualche calcolo,
messaggi di lavoro e visite a luci rosse
stroboscopiche.”
“Sei davvero impagabile. Come hai fatto a
fare così in fretta?”
“Te l’ho già detto: il vostro professore è un
porco e un assassino, ma soprattutto è un
imbecille.”
“Ragazzi – disse il commissario ai colleghi –
è roba da fantascienza. Adesso andiamo a
mangiare, intanto vi racconto…”
Nella
stanza
risuonò
la
cavalcata
delle
valchirie.
“Misericordia – esclamò – mia madre! Mi
son dimenticato di avvertirla!”
“Ciao mamma, come… non ti ho detto nulla
perché non ti preoccupassi… sai come sono i
giornalisti, esagerano sempre…sì, si è scottato
con del caffè…ma no, sta benissimo… su dai,
ridi un po’…ma che piangere, non son mica
morto…certo che sto lavorando… mi hanno
solo
messo
un
cerotto…
no,
stasera
è
impossibile che vi venga a trovare…ma cosa
vuoi venire tu, chissà a che ora torno a casa…
brava, nascondi il giornale ai bambini e se
glielo
dicono
pazienza…
stai
tranquilla
e
smettila di piangere, ciao mamma, ciao.”
“E voi per favore non azzardatevi a fare
commenti – scandì a voce alta, con uno
sguardo di fuoco – andiamo al bar.”
Dopo essere tornati, stamparono la relazione
di Sansoni sufficiente ad accusare il Righetti di
omicidio premeditato e tentativo di strage.
Giusto per cominciare.
“Mi dispiace che non ci sia Rocco – disse il
commissario a Minici, Arteri e Signorini
riuniti nel suo ufficio – ma dobbiamo stabilire
il piano d’azione. Siamo tutti convinti che il
professore abbia anche pugnalato Corsi e
avvelenato la madre. Il problema è farlo
confessare.
Speriamo
di
riuscirci
nelle
novantasei ore di fermo che ci concede la
legge. Per cui mentre io vado a questo
benedetto incontro con la stampa, voi andate a
prelevare
il
Righetti
all’ospedale.
Mi
raccomando le manette, e state attenti, come
dice il Questore. Ah, dimenticavo, vedete di
trovare un avvocato di ufficio che possa essere
presente all’interrogatorio.”
Alla
conferenza
stampa
il
Questore
partecipò con un’aria di soddisfazione quale
da tempo non aveva.
Il commissario parlò a lungo dando prova
della
sua
ben
nota
abilità
diplomatica,
minimizzò l’incidente della sera prima e
neppure
nominò
esplicitamente
Bruno
Righetti mentrei giornalisti non ebbero una
tale delicatezza e lo citarono sempre per nome
e cognome. Diede quasi per certo il suo
intervento nel decesso della madre e infine
scagliò la bomba che fece impazzire gli addetti
alla comunicazione dicendo che c’erano forti e
circostanziati sospetti che il professor Andreoli
non fosse morto per cause naturali.
Circa l’omicidio del giovane Corsi non
c’erano al momento prove che accusassero
l’imputato, mentre per le esplosioni erano
state trovate tracce che parevano condurre allo
stesso colpevole.
“Ma scusi – chiese Sara, una giornalista che
con Marco aveva una certa confidenza –
perché mai se lo scopo era quello di uccidere
Silva, si è esposto a un grave pericolo per
salvargli la vita?”
La fanciulla aveva messo, come suol dirsi, il
dito nella piaga.
“Forse,
ma
badi
bene
che
dico
forse,
l’intenzione non era stata quella di uccidere. Di
più non le posso dire.”
Rocco era andato direttamente dall’ospedale
alla Questura. Marco fu veramente felice di
rivederlo.
Tutti insieme presero un caffè decidendo gli
ultimi particolari sull’interrogatorio.
“Allora – disse il commissario – a quanto
pare Righetti rifiuta l’idea dell’omicidio della
madre. Sarà un caso di ‘disturbo bipolare’,
comunque
non
tocca
a
noi
stabilirlo,
l’importante è far in modo che confessi i
delitti precedenti.”
Il professore era seduto nella stanza degli
interrogatori con le manette ai polsi e due
agenti di scorta.
Il commissario disse alle guardie di liberare
l’indagato
e
di
aspettare
fuori.
Con
gli
squilibrati era sempre meglio essere prudenti.
Minici e Nicolasi entrarono con l’avvocato.
Era poco più che un ragazzo, con una folta
capigliatura castana riccioluta, il viso signorile,
lo sguardo aperto e ironico. Elegante pur con
abiti
sportivi,
emanava
una
coinvolgente
carica di simpatia.
“Piacere, Marcello Cocci.” rispose il giovane
sorridendo.
I poliziotti presero la stessa disposizione
della
sera
precedente.
La
tensione
era
palpabile, l’unico a non avvertirla sembrava
essere proprio Righetti a cui la notte in
ospedale aveva ridato un minimo di vivacità.
Pur
con
l’aspetto
emaciato,
squadrava
i
presenti con uno sguardo più consapevole,
anche se non manifestava il minimo interesse
alle evidenti cicatrici di Rocco e al palese
bendaggio del collo di Marco.
“Professore – esordì il commissario con tono
duro – abbiamo fatto venire l’avvocato Cocci
perché preferiremmo parlarle in presenza di
un legale che possa consigliarlo.”
Righetti si voltò a guardarlo, ci pensò un
paio di minuti e poi gli tese la mano come per
pattuire l’accordo.
“Bene – continuò Marco – allora accetta la
presenza dell’avvocato di ufficio? Mi risponda
a voce alta, per favore.”
“Sì, lo accetto.”
Marcello si sedette accanto al suo nuovo
cliente
e
l’interrogatorio
poté
finalmente
iniziare.
“Professore, lei ieri ci ha detto di aver
sostituito il contenuto di certe caramelle con
della digitale. Vorremmo sapere come ha
effettivamente fatto.”
Con
la
massima
tranquillità
Righetti
raccontò che per ammorbidire le maledette
pastiglie le scaldava sulla piastra di uno di
quegli arnesi antizanzare elettrici. Così l’ago
entrava facilmente.
“Sarà anche pazzo, ma l’ingegno non gli
manca. –pensò il commissario, aggiungendo a
voce alta – Poi ha dato al professor Andreoli la
scatoletta piena.”
“Sì.”
“Lo scatolino era simile a questo?” domandò
Ferrero, ponendolo sul tavolo.
“Si, esattamente.”
“Lei
aveva
motivi
di
acredine
verso
Andreoli?”
“Non particolarmente, anche se era amico di
Silva…”
“Perché allora l’ha avvelenato?”
“Gliel’ho già detto, ho solo ubbidito agli
ordini.”
“Siamo tornati alla paranoia – pensò il
commissario – vediamo di riportarlo sulla
terra.”
“Professore, lei sa che abbiamo controllato il
suo computer.”
Bruno non mosse un muscolo, si limitò a
guardare ostentatamente il fondo della stanza.
L’avvocato gli si avvicinò consigliandolo di
rispondere.
Silenzio.
“Professore – ripartì il Ferrero – lei sa che
siamo in grado di dimostrare che questa
primavera
ha
cercato
su
internet
come
costruire degli esplosivi.”
Bruno sembrò attraversato da una scossa
elettrica. Dario e Rocco erano pronti come
due
puma
a
zompargli
addosso
e
a
immobilizzarlo. Non ce ne fu bisogno. In quel
momento Righetti decise che tanto valeva
finire alla svelta.
Riconobbe di aver costruito le due bombe
magnetiche, di aver parcheggiato la sua auto
alla destra di quella di Silva, di aver fatto
appositamente
cadere
dei
fogli
mentre
scendeva dalla macchina e di aver attaccato i
due
ordigni
quando
si
era
chinato
per
raccoglierli.
“Professore, si fermi un attimo. Vorremmo
capire il perché di quello che ha fatto.”
“Perché Silva era un bastardo, un bastardo,
niente
altro
che
un
emerito
schifoso
bastardo.Ho lavorato anni per lui, ho sempre
studiato, ho scritto, ho fatto tutto quello che
mi chiedeva. Non gli ho mai detto di no,
peggio di un cane sono stato, e per cosa?
Perché facesse vincere quell’altro che manco
conosceva!
Quel
posto
era
mio,
mio
lo
capisce?, me lo era meritato, mi spettava di
diritto, e sa come mi ha comunicato la bella
notizia che lo avevo perso? Sorridendo, come
se dovessi anche essere contento. Non so come
ho fatto a non ucciderlo subito…”
“È per quello che ha pugnalato Corsi?” chiese
il
commissario,
buttando
la
micidiale
domanda con una voluta nonchalance.
Il disgraziato ingoiò l’amo e anche la lenza.
L’avvocato tentò di bloccarlo, ma era come
cercare di fermare un treno in corsa.
“Certo, e che altro avrei dovuto fare?”
“Dove ha trovato un’arma così insolita?”
“In soffitta, dove mi mandavano a giocare da
bambino. Mio nonno ha fatto la Grande
guerra…”
“Che vantaggio avrebbe avuto dalla morte di
Corsi?”
Cocci non tentò neppure di intervenire.
“È molto semplice – rispose con un mezzo
sorriso – sarebbero stati costretti a ribandire il
posto, e questa volta Silva lo avrebbe dato a
me. Specie dopo che gli avevo salvato la vita.”
“Non ci è chiaro perché abbia prima tentato
di ucciderlo e poi corso un grave rischio per
salvarlo.”
“In
effetti
ho
commesso
un
errore.
L’esplosivo avrebbe dovuto solo distruggergli
la macchina. Quando l’ho visto in terra
maciullato e sanguinante, ho capito che se
fosse morto per me sarebbe stata la fine della
carriera. Al suo posto avrebbero messo uno
venuto da chissà dove che si sarebbe portato
dietro un suo allievo…fanno tutti così, solo
Silva si è comportato da bastardo…”
“Insomma le esplosioni avrebbero dovuto
avere
un
carattere
esclusivamente
dimostrativo…”
“Sì, era necessario che voi credeste che ci
fosse un serial killer all’Università e che io non
venissi sospettato.”
“Cosa perfettamente riuscita – pensò il
commissario
–
evidentemente
studiare
matematica serve a sviluppare l’ingegno.”
Poi si fecero raccontare le modalità di
esecuzione dell’omicidio del povero Giuseppe,
ottenendo piena conferma di quanto avevano
immaginato.
Marcello si domandava cosa mai fosse
venuto a fare. Righetti si vantò di aver
organizzato
con
incredibile
precisione
e
meticolosità la morte del collega. Come fu poi
dimostrato, il tempo speso per portare a
termine il crimine, era stato inferiore ai
sessanta secondi.
L’avvocato Cocci avrebbe voluto farlo tacere
o quantomeno costringerlo a dire prima a lui,
in privato, quale ulteriore stronzata stesse per
dichiarare. Non ci fu verso, Righetti era deciso
a infilare la testa nel cappio, a stringerselo
bene al collo e a saltare nella botola
“Quando ho fatto parte della commissione
preposta a studiare la messa in sicurezza
dell’edificio
–
disse
Bruno
con
evidente
soddisfazione – sono riuscito a far in modo
che fossero i miei colleghi a pretendere che
nella
seconda
parte
del
corridoio
del
pianterreno non ci fossero telecamere, io
dicevo che in fondo la privacy non è poi così
importante, e più lo dicevo, più reclamavano il
diritto di muoversi in libertà e andare in bagno
senza essere registrati…”
A quel punto decisero di fare un intervallo di
un paio di ore.
“Avvocato – disse il commissario – alle dieci
riprenderemo l’interrogatorio. L’avverto che
ci
potranno
essere
difficoltà
perché
l’argomento che resta da chiarire è l’omicidio
della madre. Veda se riesce di convincerlo a
non dare in escandescenze.”
I cinque poliziotti andarono in una vicina
trattoria per una cena veloce.
Marco chiamò il dottor Calabresi.
“Savino – gli disse – hai qualche novità?”
“Niente che già non sapessimo. Le impronte
trovate nella stanza della signora sono sue, del
figlio e della domestica. Sulla tazza ci sono
quelle della defunta sovrapposte a quelle
dell’amato figliolo, la cosa certa è che il
professore è stato l’ultima persona che ha
preso in mano la bottiglia del latte. È arrivato
anche il referto dell’autopsia: la signora è
morta avvelenata da una dose massiccia di
digitale. E l’interrogatorio?”
“Una passeggiata, il nostro uomo canta più
di un usignolo. Domani dovreste andare dei
Righetti
dove
il
professore
ha
preso
la
baionetta. Magari ci trovate anche il fucile.
Stasera riporteremo il discorso sulla morte
della madre.”
“Commissario – domandò Rocco – lei aveva
già capito in precedenza come si erano svolti i
crimini?”
“Il sospetto mi è venuto dopo il mio ultimo
colloquio con Silva. Avevo anche fatto un
sogno che mi indicava il nome dell’assassino:
quello che all’inizio delle indagini aveva
dichiarato di aver lasciato inavvertitamente
cadere dei fogli proprio tra le macchine a cui
erano stati attaccati gli esplosivi. Certo che
come attore non era niente male.”
Alle dieci di sera si ritrovarono nella solita
stanza, avvocato compreso.
Il giovane Marcello aveva conferito con il
‘cliente’, spiegandogli che la sua situazione era
già sufficientemente compromessa senza che
la
peggiorasse
aggredendo
un
pubblico
ufficiale. Ebbe la netta impressione di parlare a
un muro.
“Professore – esordì con decisione Ferrero –
ora dobbiamo tornare ai fatti di sabato sera.
Vorrebbe nuovamente dirci cosa è successo?”
Bruno ripeté per filo e per segno gli
avvenimenti di quella tragica giornata, dalla
colazione del mattino al momento in cui era
arrivata l’ambulanza.
“Professore – ripartì il commissario – Oggi
abbiamo ricevuto l’esito dell’autopsia fatto al
corpo della sua povera madre.”
Righetti
contrasse
i
muscoli
del
volto.
Nicolasi e Minici si scostarono dal muro.
“Professore,
non
vuol
dichiarato il medico legale?”
sapere
cosa
ha
L’interpellato strinse i denti. Nel silenzio
tombale della stanza se ne udì lo scricchiolio.
“C’è scritto che la signora Fernanda Righetti
è morta per aver bevuto una tazza di latte in
cui era stata sciolta e una quantità di digitale
incompatibile con la vita.”
Tutti rimasero immobili come in una foto
ricordo.
Dopo un minuto che parve eterno, Bruno si
alzò in piedi urlando a squarciagola:
“Non sono stato io!”
Venne prontamente rimesso a sedere dai
due ispettori che si erano mossi alla velocità
della luce. Pur costretto a star fermo non
smise di gridare come un pazzo, le due
guardie che stazionavano nel corridoio si
precipitarono
all’interno
della
stanza,
lo
ammanettarono e lo portarono quasi di peso
in camera di sicurezza.
“Cosa facciamo? – chiese Ferrero – secondo
me non c’è speranza di riuscire a farlo
ragionare, domattina riproveremo, intanto i
due
giovani
andranno
nel
suo
ufficio
a
prendere la famosa lettera che si è scritto da
solo.”
51
Martedì 6 luglio
Le
guardie
passato
dissero
una
notte
che
molto
Righetti
agitata.
aveva
Si
era
svegliato verso le cinque di mattina e da allora
non
aveva
smesso
di
piangere,
gridare
incomprensibili discorsi farciti di insulti e
oscenità
varie
e
invocare
il
nome
della
mamma. Aveva pure rifiutato la colazione, o
meglio l’aveva lanciata contro il muro.
“Cominciamo bene – disse il commissario a
Nicolasi e Minici – che si fa?”
“Io aspetterei l’avvocato –rispose Rocco – se
no che cosa lo paghiamo a fare?”
Marcello entrò nella gabbia dell’ossesso e, in
meno
di
mezz’ora,
riuscì
a
compiere
il
miracolo.
Bruno venne portato nella stanza degli
interrogatori ammanettato e con gli occhi
bassi. L’aspetto era pietoso, con la camicia
macchiata,
la
barba
lunga
e
l’andatura
traballante sembrava un vecchio malato di
Parkinson. Doveva essersi rifiutato di fare la
doccia, per cui puzzava di sudore stantio e di
umori corporei fermentati. Una vera delizia in
una stanza senza finestre.
“Professore – cominciò il commissario –
vorremmo oggi parlare di ciò che è stato
trovato nel suo computer.”
Righetti alzò lo sguardo. Evidentemente
l’argomento non lo intimoriva.
“Abbiamo letto le frasi di minaccia di cui lei
stesso ci ha parlato in precedenza, ricorda?”
“Sì.”
“Effettivamente in queste strane mail è stato
oscurato il mittente. Lei ci ha detto che non
sapeva chi gliele avesse mandate. Non intende
modificare queste sue affermazioni?”
Silenzio.
“Professore, vedo di riformulare meglio la
domanda. Lei conosceva o non conosceva chi
le ha scritto quelle frasi minacciose?”
“No, non lo conoscevo.”
“Anche adesso lei non ha idea di chi possa
essere stato?”
“Ripeto
che
non
so
chi
me
le
abbia
mandate.”
“A noi risulta che il computer da cui sono
partiti i messaggi sia quello che lei aveva in
camera sua.”
Righetti stranamente capì il problema senza
bisogno di farselo spiegare una seconda volta.
Ancor più incredibile fu la reazione.
“Commissario – disse ridendo – voi siete
tutti matti o cercate di prendermi in giro! Chi
potrebbe aver usato il mio portatile? Nessun
estraneo entra mai in casa nostra, se pensate
alla cameriera sappiate che non è neppure
capace di mandare gli sms. Mia mamma è
peggio di Rosa, Stefania è l’unica che in effetti
sarebbe capace. Oltre tutto il mio computer ha
una password di accesso che nessuno conosce!
Voi voletefarmi passare per pazzo! – gridò –
ma guardate che io vi denuncio tutti, razza di
farabutti che non siete…”
“Scusate – dissel’avvocato – potrei conferire
in privato col mio cliente?”
Ferrero, Minici e Nicolasi uscirono.
“Secondo me – commentò il commissario –
questo ha la doppia personalità. Sembra
davvero non ricordarsi quello che ha fatto.”
“Comunque a noi non interessa – aggiunse
Rocco – abbiamo confessioni piene di due
omicidi premeditati, di un vero e proprio atto
terroristico con danni gravissimi a persone e
cose,oltre aprove scientifiche dell’uccisione
della
propria
l’aggressione
madre,
contro
senza
contare
pubblici
ufficiali
nell’esercizio della loro funzione, più di così
cosa volete? C’è materiale per tre ergastoli…”
“Ragazzi – concluse Ferrero – andiamo a
prendere un espresso. Intanto telefono al
nostro informatico.”
“Ciao, Vittorio – disse all’ingegner Sansoni –
senti un po’. Qui il nostro uomo dice che il suo
computer aveva una password, a te risulta?”
“Scusa Marco, ti ho detto o no che è un
imbecille?
Password
di
otto
caratteri
alfanumerici: come si chiamava la madre?
Fernanda!”
Intanto erano arrivati Carmen e Valerio con
la lettera recuperata all’Università, che, come
poi risultò, era stata scritta con la stampante
che il professore teneva in camera sua.
Calabresi telefonò dicendo di aver trovato il
vecchio moschetto del nonno Righetti nel
solaio di famiglia.
L’interrogatorio
continuò
senza
nessuna
sostanziale variante. Alla fine i poliziotti si
arresero: il loro tempo era scaduto, ora toccava
alla magistratura completare il quadro delle
indagini.
Il
commissario,
prima
di
scrivere
la
relazione al pubblico ministero, volle parlare
ancora una volta con la cameriera. Passò a
prenderla e la condusse nella casa dei Righetti,
buia e silenziosa come un sacrario.
“Signora Rosa – le domandò Marco – per
quanti anni ha lavorato in questa famiglia?”
“Trentacinque.”
“Quali erano i suoi compiti?”
“Mi occupavo dell’intera gestione della casa.”
“Era quindi sempre lei ad acquistare il latte.”
“Certamente,
con
cadenza
costante.
In
famiglia erano tutti allergici, solo la signora
ogni sera ne prendeva una tazza col miele.
Doveva essere di una certa marca e in bottiglia
di vetro. Lo comperavo il lunedì e il giovedì.”
“Com’erano
i
rapporti
tra
la
signora
Fernanda e i suoi figli?”
“Guardi, non si dovrebbe parlar male dei
morti, ma la signora come madre e come
moglie era un disastro. Bruno stravedeva per
lei mentre Stefania era molto più dura di
carattere. Il professore è sempre stato un
infelice. Il padre non era contento di avere un
figlio così poco maschio, della figlia invece era
molto
orgoglioso.
Anche
perché
tutti
la
consideravano un piccolo genio.”
“Penso che l’avvocato guadagnasse bene. Sa
se aveva fatto testamento?”
“I Righetti erano ricchi già in partenza, ma
ogni cosa è intestata alla signora. I ragazzi alla
morte del padre hanno ereditato quattro soldi.
In questa famiglia c’era tutto: salute, classe,
intelligenza, denaro, cultura, mancava solo
l’amore."
52
Fine di agosto
Dopo le vacanze Ferrero e Minici andarono
a visitare il professore in carcere. La lista delle
imputazioni era notevole, la Giustizia non
aveva ancora deciso come si sarebbe svolto il
processo, gli avvocati discutevano, i giornalisti
continuavano a sfornare articoli e il colpevole,
l’aggettivo presunto era stato definitivamente
cancellato, aveva perso ogni fiducia nel futuro.
I poliziotti stentarono a conoscerlo: in poche
settimane era diventato l’ombra del giovane
uomo che era stato. Fu lui a parlare per primo.
“Commissario – disse con voce stentata – io
non ho ucciso mia madre. Era l’unica persona
che amavo, non le avrei mai fatto del male.”
Poi si voltò e chiese di essere riportato in
cella.
L’incontro segnò il commissario più di
quanto avrebbe pensato. Tutti gli assassini si
dichiarano innocenti e le prove incriminavano
Bruno al di là di ogni ragionevole dubbio;
eppure tanta ostinazione nel negare l’evidenza
lasciava
Marco
perplesso,
non
riusciva
a
liberarsi dall’ossessione di quel pluriomicida
emaciato che con le poche forze rimastagli
continuava
a
proclamarsi
all’uccisione della madre.
estraneo
53
Mercoledì 1 settembre
Ligio alla promessa fatta ai suoi bambini,
Marco aveva prenotato due camere in un
albergo all’interno del parco di Gardaland per
il primo fine settimana di settembre. Era
mercoledì,
stavano
facendo
colazione
in
terrazza e tutti erano già in fibrillazione.
Restava
un
problema
da
risolvere:
dove
sistemare il cane di famiglia.
La questione fu risolta al solito da Elisa.
“Sentite – disse – portiamo la bestiola, tanto
io sulle giostre non vado…le patisco e sto
male.”
Marco
prese
la
bottiglia
del
latte
per
versarne un po’ nel caffè bollente.
La tenne sollevata a mezz’aria come se fosse
stato colpito da paresi. La piegò di lato,
l’avvicinò agli occhi e mentre tutti si zittivano
domandandosi cosa mai avesse visto, la posò.
Si alzò da tavola e senza dire una parola uscì di
casa.
Salì in macchina e andò in un magazzino
della polizia.Compilò un modulo e attese che
gli portassero uno scatolone. Lo aprì e prese
una bottiglia sigillata in un sacchetto di
plastica; la guardò attentamente, trovando alla
fine
quel
che
cercava.
Sentì
l’adrenalina
scorrergli violenta nelle vene, il cuore accelerò
i
battiti
mentre
il
cervello
elaborava
velocemente i dati in suo possesso.
Firmò un foglio e uscì correndo dallo stabile,
portando la bottiglia.
Partì mettendo sul tetto il lampeggiante.
Era in preda a un furore parossistico, aveva
visto aprirsi davanti a lui il baratro del male,
della cattiveria intelligente e spietata, della
totale mancanza di ogni forma di sentimento,
aveva forse trovato i pezzi mancanti del
mosaico, ma la figura che si stava formando
era quella di un demonio senza scrupoli e
senza morale, un immondo insetto capace di
nutrirsi dei propri simili, un genio del crimine
tradito da piccoli numeri insignificanti.
In meno di mezz’ora arrivò alla centrale del
latte. Fu subito ricevuto dal direttore che
convocò il responsabile della distribuzione.
Ogni parola che sentiva era una conferma
dell’orrore.
Telefonò a Minici che dal tono del suo capo
capì che non era il momento di far domande.
“Convoca anche i giovani – gli disse dopo
avergli spiegato cosa gli serviva – entro un’ora
dobbiamo essere pronti a muoverci.”
Quando
arrivò
in
Questura
trovò
tutti
schierati e incuriositi. Rocco teneva in mano
delle fotografie.
“Venite nel mio ufficio.” Disse.
Prese una piantina di un quartiere periferico
della città e la divise in quattro parti.
“Ognuno di voi – disse a Dario, Rocco,
Carmen e Valerio – sarà responsabile di una di
queste zone. Dovete entrare in ogni negozio di
alimentari e in tutti i supermercati, far vedere
ai commessi la fotografia chiedendo se la
riconoscono. Io mi terrò in contatto telefonico
con voi, in caso di bisogno chiamatemi.”
Non ci fu molto da aspettare, al terzo
tentativo Carmen ebbe fortuna.
Si riunirono tutti nell’ufficio di un certo
Anghel Lovinescu proprietario del piccolo
‘Taramea
market’
in
cui
lavorava
come
cassiera Erjeta, giovane albanese, bionda e dai
tratti delicati.
“Certo che riconosco la signora – disse – e
so anche il giorno in cui è venuta perché era la
vigilia del mio matrimonio. Mi aveva colpito
soprattutto perché era fuori luogo in questo
negozio, qui solo con le sue scarpe una
famiglia mangia per un mese intero.”
Marco la portò in Questura per ratificare e
scrivere la sua deposizione.
Negli
uffici
della
polizia
giudiziaria
la
tensione era palpabile. Marco aveva chiamato
il mago dell’informatica.
“Ciao Vittorio – disse all’ingegner Sansoni –
avrei bisogno che tu facessi un controllo sul
computer di Righetti.”
“Ma non è già stato incriminato?”
“Sì, ma bisognerebbe prendere anche quello
della sorella, che è ancora nella casa. Lo
dovresti fare subito, mi servirebbe la risposta
entro un’ora.”
E gli spiegò rapidamente cosa avrebbe
dovuto fare.
Infine chiamò Calabresi.
“Ciao Savino. Ti ricordi di quel fucile preso
nel solaio…”
“Il vecchio Carcano…”
“Esatto! Vorrei che tu controllassi se ci sono
impronte successive alla Grande guerra, e in
tal
caso,
se
potessi
scoprire
a
chi
appartengono.”
Poco dopo arrivò la risposta.
La squadra al completo si riunì nell’ufficio
del commissario per rivedere, alla luce di
quanto scoperto nelle ultime frenetiche ore, la
presunta ricostruzione degli eventi.
“Adesso è ora di andare a prendere la nostra
dottoressa – disse Marco rivolgendosi a Minici
e Nicolasi –a casa del suo compagno, un certo
Enrico Ravina di professione farmacista. Il
magistrato è stato avvertito e ha dato l’ok, per
cui se dovesse rifiutarsi sapete cosa fare.”
54
“Stefania, c’è qui un poliziotto che chiede di
te.” disse Enrico dopo aver aperto la porta del
bilocale in cui vivevano.
“Oh Dio – esclamò la dottoressa, ci sono
novità relative alla mia casa?”
“Può darsi.” rispose Rocco con un sorriso.
“Fosse vero – esclamò Stefania – non ne
posso più di vivere in questo buco...”
Stefania salì sulla volante con fare spavaldo,
cercando di controllare l’apprensione che un
poco la inquietava.
Marco aspettava nella solita stanza.
“Buonasera
accomodi.
dottoressa
Vuole
un
–
caffè,
le
disse
un
–
si
bicchiere
d’acqua…”
“Nulla grazie, vorrei poter tornare a casa in
fretta.” rispose, in modo risentito.
Dario e Rocco appoggiati contro il muro,
trattennero a stento un sorriso sarcastico.
“Potrebbe dirmi, almeno lei – aggiunse con
voce imperiosa – perché son dovuta venire in
Questura?”
Il commissario non le rispose.
“Sono andato a trovare Bruno – disse invece
– e mi è parso oltremodo debilitato. Pare che
si nutra pochissimo, rifiuti l’ora d’aria e se ne
stia tutto il giorno seduto a dondolarsi. Lei è
andata a visitarlo?”
“Sì, gli ho anche portato degli abiti di
ricambio…”
“Lo so…ma se non erro era la fine di luglio…”
“Ha ragione, ci sono state le ferie e poi il mio
lavoro mi impegna moltissimo… ma mi scusi –
e qui alzò il tono di voce – mi ha portata qui
facendomi saltare la cena per parlare dei
rapporti affettivi tra me e mio fratello?”
“Non vi amavate molto, non è vero?”
“A parte il fatto che Bruno è un uomo senza
colore, senza personalità, senza sentimenti,
non bisogna dimenticarsi mai – e calcò su
quest’ultima parola – che oltre ad essere un
pluriomicida
ha
pure
avvelenato
nostra
madre, per cui sinceramente non mi sembra
giusto chiedermi di provare per lui qualcosa di
diverso dalla compassione.”
Nella stanza calò una cappa di gelo e di
silenzio che si sarebbe potuta tagliare col
coltello. I poliziotti rimasero immobili a
guardarla.
La donna sentì un brivido scenderle lungo la
spina dorsale, si accorse di essere in pericolo e
la sua mente agitata vide i demoni della
vendetta
tendere
verso
di
lei
i
volti
sogghignanti. Fu questione di un attimo, poi
riprese il controllo di sé.
“Lei sa – continuò il commissario – che da
bambino Bruno per giocare veniva mandato
in solaio?”
“Certo.”
“Andavate insieme?”
“No, quando la tata è andata via io facevo già
le superiori...”
“Quindi lei in quella soffitta non è mai
salita?”
“Forse una volta, molti anni fa…”
“Sa che suo fratello per uccidere Corsi ha
usato la baionetta di un vecchio fucile di suo
nonno?”
“Sì, ne hanno parlato tutti i giornali e le
televisioni.”
“Lei non l’aveva mai vista?”
“Mai, non sapevo neppure che ci fosse.”
“Io
penso
che
lei
abbia
dei
vuoti
di
memoria.” le disse Marco dopo un minuto di
silenzio.
“Come si permette…”
“Mi permetto ben di più e aggiungo che lei
sta mentendo…”
“Non ho intenzione di farmi insultare!”
“Nega forse di aver sospettato di suo fratello,
quando ha saputo dai giornali con quale strana
arma era stato ucciso il giovane professore?
Nega di essere andata in soffitta a verificare i
suoi dubbi e di aver preso in mano in fucile
del nonno?”
“In effetti ho pensato che l’odio di Bruno
per
il
collega,
avrebbe
potuto
essere
il
movente per l’omicidio, ma ciò non significa
nulla.”
“Sul moschetto che lei dice di non aver mai
visto, ci sono le sue impronte, cara signorina,
recenti e sovrapposte a quelle di suo fratello.”
Marco lasciò che la donna assorbisse il colpo
ricevuto alla sua credibilità.
“Stefania…”
“Dottoressa, prego.”
“Stefania, la avverto che da questo momento
tutto quanto faremo e diremo in questa stanza
sarà registrato. Ha capito?”
“Perché?”
“Le domande le facciamo noi. Risponda se
ha capito.”
“Senta,
vada
al
diavolo,
voglio
il
mio
avvocato.”
L’avvocato arrivò in meno di mezz’ora. Si
chiamava Gherardo Scalfari, ed era un vecchio
amico del defunto Righetti.
“Di
cosa
è
accusata
la
mia
cliente?”
domandò, immaginando subito che se era in
quella stanza con quel contorno di detective,
dovesse essere sospettata di qualcosa di serio.
“Per ora di nulla – rispose il commissario –
vorremmo solo che rispondesse ad alcune
domande.”
“Questi sono pazzi…” esplose la giovane, ma
l’avvocato la zittì.
Marco si chinò, prese una scatola e la posò
sul tavolo. Lentamente estrasse una bottiglia di
vetro.
“Stefania
–
disse
–
la
riconosce?
Può
prenderla in mano, non è quella originale.”
Nello sguardo della giovane passò una
fuggevole ombra di paura.
“È una bottiglia del latte – disse col solito
disprezzo nella voce – mi sembra dello stesso
tipo di quello che prendeva mia madre.”
“Le sembra o è sicura?”
“Cosa vuole che sia sicura! Mi è capitato di
vederla nel frigorifero, non ci ho mai fatto
caso. Rosa le saprebbe rispondere meglio di
me.”
“Non ne ha mai comperata una?”
Stefania si ravviò i capelli e guardò il muro
di fronte.
“No di certo – rispose – non avrei neanche
saputo dove andare. In casa nostra faceva tutto
la cameriera.”
“Per cui – aggiunse – non ha mai avuto la
curiosità di leggere l’etichetta.”
“Le ripeto di non aver mai preso in mano
una di queste maledette bottiglie – disse con
un riso forzato – mi sono occupata di cose più
importanti di quel che sta scritto sui prodotti
alimentari.”
L’avvocato si limitava ad ascoltare. Sapeva
che in quella stanza, di fronte alle domande di
poliziotti o magistrati, chiunque, anche la
persona più irreprensibile, viene preso dalla
paura e può dire o addirittura confessare cose
non vere.
Ma l’adorata figlia del suo collega, amico e
confidente fin dai primi anni d’Università, gli
sembrava più tesa di quanto avrebbe dovuto
essere.
Il commissario non si scompose. Prese in
mano la bottiglia, la girò in orizzontale e la
tese alla dottoressa.
“Vede questa scritta minuscola sul bordo
laterale dell’etichetta? Guardi con calma…”
La giovane donna persuasa dall’avvocato,
lesse una serie di numeri e di sigle.
“Che accidente significano?” domandò in
tono raggelante.
“Significano
poco,
ma
ci
danno
informazioni fondamentali. Le prime cifre
corrispondono al giorno in cui la bottiglia è
stata confezionata…”
Stefania smise per un attimo di respirare, i
muscoli del volto si irrigidirono, guardò
l’innocuo oggetto di vetro che teneva in mano
come se fosse stato un serpente a sonagli.
Impiegò più di un minuto per riprendere il
controllo.
“E allora?” chiese, con un tono appena
angosciato.
Marco estrasse dalla scatola una seconda
bottiglia sigillata in un sacchetto di plastica.
“Questa – disse avvicinandola alla giovane –
è quella che abbiamo preso dal frigorifero di
casa sua. Ricorda che conteneva ancora circa
un quarto di latte?”
L’avvocato guardò la Righetti, che si sforzava
di mantenersi impassibile.
“E allora?”
“Allora
la
data
di
confezione
riportata
sull’etichetta è quella del sabato in cui la sua
povera mamma è morta avvelenata.”
“E allora?”
“Allora questa bottiglia è stata comperata
proprio
quel
giorno
e
non
il
giovedì
precedente.”
Stefania trasalì visibilmente. L’avvocato le
strinse una mano, non aveva ancora capito
dove il commissario volesse andare a parare.
“Mi scusi, ma io cosa c’entro?” domandò con
una voce che tradiva un ferreo controllo.
“È proprio ciò che vorremmo sapere. Perché
vede, la cameriera ha giurato di aver preso il
latte per la signora il giovedì mattina. Dice
anche che quel sabato Bruno non è uscito tutto
il giorno…”
“Beh, Rosa potrebbe non volere dire di aver
rotto la bottiglia e di averne dovuta comperare
un’altra.” Rispose sorridendo e ravviandosi i
capelli.
“Ha ragione – disse – è proprio quello che
abbiamo pensato anche noi. Però se lei guarda
bene, vedrà che sempre sull’etichetta, dopo la
data c’è una sorta di sigla.”
Sia Stefania che l’avvocato si chinarono a
leggere. Le mani della dottoressa avevano un
leggero tremito.
“Sa cosa significa?”
La giovane continuò a stringersi le mani e
aggiustarsi le ciocche di capelli dietro le
orecchie. Segno evidente di enorme tensione.
“A me l’ha spiegato il direttore della centrale
del latte. Come saprà, tutta la lavorazione è
automatizzata, ma l’imballaggio è diviso a
seconda della destinazione. La sigla indica, in
questo caso, il quartiere della città a cui era
destinato.”
La donna era impietrita. Tutti avevano
l’impressione
che,
se
l’avessero
toccata,
sarebbe caduta a terra sbriciolandosi come
un’antica statua di terracotta.
“Noi siamo testardi, cara signorina, e siamo
riusciti a trovare, in quel rione dell’estrema
periferia,
un
negozio
dal
nome
strano,
Teramea, una sorta di piccolo supermarket in
cui lavora come cassiera una ragazza albanese,
una
certa
Erjeta,
che
ha
firmato
una
deposizione in cui afferma che lei, proprio lei
dottoressa, è andata nelle prime ore del
pomeriggio di quel sabato a comperare una
bottiglia di latte, questa bottiglia di latte, cara
Stefania.”
L’avvocato capì al volo che la sua cliente era
in un guaio grosso come una montagna.
Chiese pertanto di poterle parlare in privato.
“Voglio
avvalermi
della
facoltà
di
non
rispondere.” dichiarò subito la giovane donna
quando i poliziotti rientrarono.
“È nel suo diritto – rispose il commissario –
ma mi permetta di ricostruire il suo presunto
crimine, giusto perché sappiate di cosa la
accuseremo. Scusatemi un attimo.” aggiunse
leggendo un messaggio che gli era arrivato sul
cellulare.
“Allora – continuò Marco con un sorriso
soddisfatto – lei ci ha a suo tempo dichiarato
che nel pomeriggio di quel tragico sabato di
luglio, è andata dal parrucchiere e ha fatto
alcune commissioni. Naturalmente ha taciuto
sul fatto di essersi poi recata in una zona
periferica della città con il solo scopo di
comperare una bottiglia di latte. Arrivata a
casa ha nascosto quest’ultimo acquisto ed è
quindi andata in salotto a conversare con
madre e fratello. Approfittando poi del fatto
che fossero impegnati in una partita a carte, ha
versato
la
digitale
nel
latte
che
era
in
frigorifero. Dopo di che il suo fidanzato è
venuto a prenderla per portarla a teatro; lei è
medico, sapeva l’ora in cui sua madre avrebbe
ingerito il veleno, ed era pertanto in grado di
calcolare il momento in cui si sarebbe sentita
male. Quando è rientrata nella sua abitazione,
era certa che l’avrebbe trovata vuota. Allora ha
preso la bottiglia nascosta in precedenza, ne ha
gettato parte del contenuto in modo da
lasciarne tanto quanto ce n’era nell’altra, e ha
scambiato
i
tappi.
È
stata
una
mossa
intelligente, non tutti i criminali ci sarebbero
arrivati. Perché sui tappi ci sono le date di
scadenza e lei temeva che ci potessimo
chiedere come mai una confezione di latte
durasse
due
giorni
di
più
del
normale.
Dopodiché è uscita, ha gettato in un cassonetto
le prove del suo reato e si è recata correndo al
pronto soccorso. Infine, quando io stesso vi ho
riaccompagnati a casa, lei è andata in cucina a
preparare il caffè e ha voluto che Bruno la
seguisse. Sono sicuro che con un inganno ha
fatto in modo che lui lasciasse le sue impronte
sulla nuova bottiglia del latte. Il resto è storia,
Stefania, una storia molto triste che non avrei
mai voluto scoprire.”
“Brutto verme schifoso lurido bastardo!”
esplose la donna non riuscendo a contenere la
rabbia, la delusione e l’orrore di un futuro
atrocemente diverso da quello che si era
immaginato.
Rocco e Dario le furono addosso in un
attimo
e
la
bloccarono
sulla
sedia.
Si
divincolava come una serpe e cercava anche di
morderli.
“Stefania, se riesce a calmarsi le racconto
un’altra
storia.
Se
non
riesce,
dovremo
ammanettarla.”
In
pochi
minuti,
convinta
dal
povero
avvocato Scalfari che mai si sarebbe sognato di
vedere la famiglia del suo irreprensibile amico
precipitare in un simile oceano di perfidia e
crudeltà, si rimise composta.
“Quello che ora le dico è al momento una
ipotesi abbastanza consolidata. Secondo noi,
quando la scomparsa della baionetta le ha
fornito la prova della colpevolezza di suo
fratello, lei ha iniziato a mandargli messaggi
minacciosi e ricattatori usando astutamente il
portatile che lui aveva nella sua stanza. Come
faremo a provarlo? Beh, innanzitutto abbiamo
controllato che nei giorni e nell’ora in cui le
mail sono state spedite, lei non fosse in
ospedale. Leggo nei suoi occhi che questa è
una prova senza fondamento, nulla dimostra
che
lei,
mentre
Bruno
e
sua
mamma
mangiavano, fosse entrata nella camera del
professore, perscrivere e inviare il messaggio.
Operazione che non le avrebbe preso che una
manciata di secondi.”
Il commissario fece una pausa, per dare
tempo all’avvocato di capire la dinamica degli
eventi.
“Le ripeto – riprese – che noi siamo pazienti
e tenaci. Per cui abbiamo verificato che la
lunga
lettera
in
cui
era
dettagliatamente
spiegato il modo in cui uccidere l’innocente
professor Corsi, fosse stata scritta con la
stampante di suo fratello e che ne fosse
rimasta traccia nel suo stesso computer. Una
domanda però ci ha sempre tormentati: come
faceva Bruno a conoscere il nome del farmaco
contenente la digitale e a sapere quale fosse la
dose mortale?”
Stefania rimase in silenzio, solo gli occhi
urlavano come quelli di una belva feroce
chiusa in gabbia.
“Senza
contare
che
una
lettera
così
correttamente impaginata avrebbe richiesto
tempo per essere scritta. Sarebbe stato un
rischio troppo grosso farlo nella stanza di suo
fratello, meglio invece comporla con calma,
memorizzarla su una chiavetta, trasferirla nel
portatile di suo fratello e stamparla. Poi
cancellarla dappertutto. La polizia postale è
riuscito a trovare tracce evidenti della lettera
anche
nel
suo
computer,
cara
la
mia
dottoressa. Ne ho avuto conferma pochi
minuti fa. E questa mi sembra una prova
inconfutabile, non le pare?”
“C’è ancora una cosa che vorremmo sapere.
Immaginiamo di conoscerla, ma è talmente
spaventosa che è difficile crederla anche per
chi, come noi, ha visto ogni sorta di crimine.
Perché, Stefania, ha fatto uccidere il professor
Andreoli dal suo debole fratello?”
L’avvocato era sgomento, in attesa di una
risposta che avrebbe reso indifendibile la sua
assistita.
“Noi pensiamo che lei l’abbia fatto solo
perché
con
un
tale
precedente
nessuno
avrebbe dubitato che sua madre fosse stata
avvelenata dalla stessa mano. Ossia da quella
del figlio pluriomicida. Come lei l’ha appena
definito.”
Stefania cercò di sputare sulla faccia del
commissario, vomitando insulti irripetibili.
Dario e Rocco intervennero a fermarla, e
questa volta la ammanettarono.
Marco interruppe la registrazione.
“Voglio dirle ancora una cosa a livello
strettamente personale. Lei ha ucciso sua
madre, probabilmente per soldi. Questo è già
un ignobile delitto. Ma lei ha fatto di peggio,
ha usato la sua non comune intelligenza per
architettare qualcosa di veramente diabolico.
Ciò che ha fatto a suo fratello, la pone al di
fuori dell’umana pietà.”
55
La
dottoressa
superiore
a
oppose
quella
dei
una
resistenza
peggiori
mafiosi
incalliti.
Alla fine, messa a confronto del fratello,
crollò.
Confessò
tutto,
maledisse
la
sua
famiglia, la ricca madre che si teneva i soldi, il
fidanzato che minacciava di lasciarla se non gli
avesse comperato una farmacia, il fratello
stupido che sapeva solo studiare, gridò al
mondo la disgrazia di quel suo primo e unico
folle amore, la sventura di un padre che aveva
occhi solo per una moglie insensibile, la
tristezza di un’infanzia senza un bacio, l’orrore
per un futuro di segregazione e solitudine.
Tentò anche di uccidersi, finché un giorno,
qualche mese dopo la condanna, cominciò a
piangere e a chiedere perdono. Uscì dal
carcere a cinquant’anni e andò a fare il medico
in una missione.
A
Bruno
venne
data
la
seminfermità
mentale. Continuò a studiare, divenne più
socievole,
accettò
il
carcere
come
giusta
espiazione. Dopo cinque anni di carcere, uscì
per buona condotta, poi fu assunto come
professore
di
matematica
in
una
scuola
privata. A quarantacinque anni si innamorò
una coetanea insegnante di educazione fisica;
si sposarono e trascorsero una vita tranquilla e
molto serena.
56
Domenica 5 settembre
Questa volta Marco riuscì a mantenere la
promessa e a portare a Gardaland l’intera
figliolanza.
Per due giorni Elisa fece grandi passeggiate
con un Ugo un po’ riluttante, ma rassegnato a
stare al guinzaglio.
La
domenica
sera
partirono
quando
cominciava ad imbrunire. I bambini non
fecero in tempo a salire in macchina che erano
già addormentati, stanchi come non mai, ma
felici.
Il
loro
solennemente
papà
che
a
aveva
promesso
maggio
dell’anno
successivo sarebbero ritornati. Ugo si trascinò
in braccio al suo fratello putativo e cadde in un
sonno comatoso.
Elisa era più sorridente del solito.
“Ti sei annoiata?” le domandò Marco.
“Per nulla!” rispose lei sussurrando.
Intanto era scesa la sera, con i colori tenui
dell’autunno imminente. I due giovani si
godevano quel silenzio capace di parlare solo
al cuore degli uomini e delle donne che si
comprendono e si amano.
“Abbiamo passato una bella estate – disse
Marco,
che
voleva
dimenticare
l’indagine
conclusa – mi sembra di essere rinato.”
“Dovresti pensare di più a te stesso – rispose
Elisa – non devi farti coinvolgere in modo così
totale.”
“Più del lavoro, mi angoscia il poco tempo
che posso dedicare ai bambini. Per non parlare
delle infinite promesse non mantenute.”
“Penso che anche quella che hai fatto oggi
farà la stessa fine.”
“Perché mai, non essere pessimista…”
“Vedi, c’è una cosa che volevo dirti, che
magari ti sconvolgerà. La nostra famiglia sta
per crescere…”
“Elisa per favore non ricominciare – rispose
con la tipica mancanza di intuito maschile – lo
sai che ti amo, ma un cucciolo della gatta non
lo voglio. Per fortuna ci penseranno mia
mamma e le mie sorelle a dividersi la nidiata.”
“Guarda che Artemisia non è l’unica a poter
essere messa incinta da un amante focoso…”
Marco capì, continuò a guidare in silenzio
cercando di assorbire la notizia. Fermò la
macchina in uno spiazzo dell’autostrada, si
slacciò la cintura, si girò verso Elisa e la
abbracciò con una tenerezza mai provata
prima. Rimasero così a lungo, senza parlare,
nel buio rotto a tratti dai fari delle automobili.
“Sei contento?” gli chiese.
“Sono felice.”
“Anche se i problemi aumenteranno?”
“In due li risolveremo.”
“Cosa preferiresti?” gli domandò con gli
occhi che ridevano.
Non fece in tempo a rispondere.
Dal
sedile
posteriore
arrivò
assonnata di Giovanna.
“Una femmina, naturalmente.”
la
vocetta