Simone Weil: una eterna donna anche oggi «Padre, nel nome

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Simone Weil: una eterna donna anche oggi «Padre, nel nome
Simone Weil: una eterna donna anche oggi
«Padre, nel nome di Cristo, accordami realmente tutto questo. Che
questo corpo si muova o s’immobilizzi, con una scioltezza o una
rigidità perfette, in conformità ininterrotta con la tua volontà. Che
questo udito, questa vista, questo gusto, questo odorato, questo tatto,
ricevano l’impronta perfettamente esatta della tua creazione. Che questa
intelligenza, nella pienezza della lucidità, concateni tutte le idee in
conformità perfetta con la tua verità. Che questa sensibilità provi nella
loro massima intensità possibile e in tutta la loro purezza tutte le
sfumature del dolore e della gioia. Che questo amore sia una fiamma
assolutamente divorante di amore di Dio per Dio. Che tutto questo mi
sia strappato, divorato da Dio, trasformato in sostanza del Cristo» 1.
Nata a Parigi il 3 febbraio 1909 e morta ad Asford (Londra) il
24 agosto 1943, Simone Adolphine Weil era figlia di un ricco
medico ebreo radicalmente agnostico. Di salute malferma, venne
educata anche privatamente avendo, pure in questo come dalle
molte letture cui si volgeva la sua “curiosità appassionata e
indiscreta”2, un forte vantaggio sulla sua vita più profonda.
Studiando in diversi licei parigini ha modo di confrontarsi con
approcci assai dissimili alla filosofia, propendendo da subito per
quello platonico e per quello kantiano. Nel biennio 1927-28 si
dedica a corsi per operai ricavandone una forte impressione che
non la lascerà mai più. Nel ’28 è ammessa all’Ecole normale
supérieure e nel ’31 consegue una docenza nella scuola media
superiore e insegnerà filosofia nei licei da quell’anno fino al 1938.
Il suo importante senso sociale la porta fino alla condivisione
sostanziale e formale della vita dei ceti meno abbienti; per questo
modo di vivere rigoroso e per la sue simpatie e attività socialiste
1
Cfr. Quaderni, vol. IV, a c. di Giancarlo Gaeta, ed. Adelphi, Milano 1993, pag. 280.
Secondo le parole di Pietro Citati, Ritratto di Simone Weil in Ritratti di donne,
Rizzoli, Milano 1992, pag. 265.
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viene considerata un’agitatrice comunista. Per un periodo fu
prossima agli ambienti anarchici e trotzkisti dai quali si distacca
presto per l’evidente incompatibilità tra i radicalismi, a qualsiasi
forma di stato appartengano, e la libertà del singolo, soprattutto
dei più deboli. La sua riscoperta dell’amor fati e dello Stoicismo
di Marco Aurelio Antonino la conducono ad asseverare quella
disposizione naturale che l’aveva già portata, a quattordici anni, ad
un approccio mistico e apofatico alla vita. Imparerà il sanscrito in
compagnia di René Daumal, ed inizierà a tradurre le Upanisad
leggendo poi anche la Bhagavad Gita. Persegue costantemente
anche la sua azione “politica” seppur improntata a superiori valori
filosofici e religiosi, avendo fatto l’operaia come la contadina o
avendo compiuto atti come la produzione di documenti falsi per i
rifugiati, tra i quali persone di origine ebraica. Del pari, si protrae
la sua produzione filosofica. Molti saranno i testi, gli studi e gli
articoli prodotti da Simone Weil, scritti che lasceranno ai posteri
insegnamenti e riflessioni autenticamente fondamentali per la
“disincantata” visione e percezione del Sacro. Essenzialmente
vicina anche al Cristianesimo, seppure mal sopportandone le
evidenti sclerosi, fu prossima al battesimo senza peraltro riuscire
ad accedervi, come sembra dai dati in nostro possesso.
La sua vita fu un susseguirsi di malattie, da una emicrania
persistente fino alla pleurite ed a quella tubercolosi che la menerà
a morte nel sanatorio di Ashford a 34 anni. Muore nel sonno,
serenamente, una delle vere meraviglie del creato femminile.
Leggere Simone Weil non lascia senza la sensazione che
l’eternità non si sia mai ritirata dal mondo. Le foto di questa
magnifica guida all’oltre-tempo ce ne porgono un ritratto che forse
lei nemmeno vorrebbe si azzardasse. E’ un ritratto deciso e
sfumato assieme: si sente quasi che la si può toccare attraverso le
idee, attraverso quelle idee che sono materiali. Attraverso quelle
idee che permeano l’anima di tutti perché, prima ancora dello
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spirito, appartengono alla carne3, a quel lucido senso del reale da
cui, come vedremo, Simone Weil non voleva che giammai ci si
staccasse. Oggetti tangibili, le idee pure qui si fanno mistica ed
eroismo davvero.
La sua amicizia con Réné Daumal, le sue traduzioni della
Bhagavad Gita o delle Upanisad, la sua inquietudine che non era
disordine ma lucida cerca metafisica, tutto questo fa emergere
ancor di più la sua forza d’esempio mistico che sbatte via ogni
flebile devozione di mero stampo psicologistico. O, come diceva
Simone, espressione di un mondo “miserabile”.
Questa donna ha saputo concepire una vita da esicasta4 e da
pasionaria cucendo insieme, in trentaquattro anni di vita,
un’esperienza e uno slancio spirituale che molti non avrebbero
saputo nemmeno pensare in una serie di esistenze. La forza di
questa mistica è nell’essere icastica, sintetica e fulminante
assieme, e luminosa e antiretorica, e amante della poesia, come
Amore di George Herbert (1593-1633) che recitava di continuo
come fosse stato un mantra5 :
Amore.
L'Amore mi diede il benvenuto
eppure la mia anima si ritrasse,
di polvere macchiata e di peccato.
E’ importante ricordare che il termine “carne” ha un significato molto più ampio di
quello entrato nel comune lessico. Il termine osco-umbro da cui quella parola
s’origina indica “una parte” e, posteriormente, il sangue. Una “parte” ha sempre la
segnatura del tutto cui appartiene (se no non ne sarebbe una parte, essendo un’altra
cosa) e parimenti il “sangue” contiene la memoria del corpo cui appartiene.
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L’etimologia greca del termine hesychìa vuole che il lemma significhi pace,
silenzio, calma, tranquillità, quiete.
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Lett. “strumento per la mente”. Non è addirittura impossibile pensare che Simone
Weil, che già studiava il sanscrito, avesse ripetuto questa poesia conscia del potere
tecnico che la ripetizione ha sugli stati della coscienza, come si potrebbe dedurre dai
frammenti di storia personale.
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3
Ma Amore dal rapido sguardo, vedendomi esitante
sin dal mio primo entrare,
mi si fece vicino dolcemente chiedendo
se di nulla mancassi.
Di un ospite, io dissi,degno di essere qui.
Amore disse: Quello sarai tu.
Io, lo scortese e ingrato?
O amico mio,
Non posso alzare lo sguardo su di Te .
Amore mi prese la mano e sorridendo rispose:
E chi fece gli occhi, se non io?"
E’ vero, Signore, ma li macchiai: se ne vada la mia
[vergogna
Là dove merita andare".
E tu non sai disse l'Amore, chi portò questa colpa?"
Se è così, servirò, mio caro
Tu siederai , disse Amore, per gustare la mia carne.
Così io sedetti e mangiai6.
Un altro elemento che salta agli occhi è l’intensità della sua,
peraltro dichiarata, ammirazione per un testo che solo di recente
(Romana Guarnieri, 1946) è stato attribuito con sicurezza a
Margherita Porete, beghina francese nata tra il 1250 ed il 1260 e
martirizzata al rogo nel 1310. Lo “specchio delle anime semplici”
(Mirouer des simples ames) venne ascritto a un non meglio
identificato “Anonimo mistico francese del ‘300”, come Simone
ebbe a definirlo nei suoi Cahiers d’Amérique. Ma questo libro
“proibito” e più volte bruciato nelle pubbliche piazze, appena lo si
legge ci fa drasticamente comprendere perché la Nostra mistica lo
avesse tanto a cuore. Parrebbe addirittura difficile, qualora se ne
estrapolassero dei brani senz’altro riferimento, comprendere se
La traduzione dall’inglese è quella di Cristina Campo, in La tigre assenza, ed.
Adelphi, Milano 1991, pag. 173.
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quelle righe fossero di mano di Margherita o di Simone, tanta è la
loro sovrapponibilità di donne libere nel vero senso della parola.
L’acquaforte di Dürer intitolata Melanconia ha essenziali tratti
di comunanza con l’approccio al “sacro” di Simone Weil: un
angelo pensoso è in uno stato di silenzio e di sospensione. Intorno
a questa figura alata si ha modo di leggere tutta la simbologia ed i
modi dell’iter spirituale e trasmutatorio alchemico, di quella che
altrimenti venne definita “Grande Opera”. La quiete dovuta al
distacco mantiene un’aria di attesa che è, allo stesso tempo, quello
stato della consapevolezza di cui Angelo Silesio ebbe a dire che:
“Il distacco cattura Dio: ma la rinuncia anche a Dio
E’ un modo di distacco che poco gli uomini intendono”7.
Con questa distico seicentesco si potrebbe forse sintetizzare
tutta la vita e l’opera di Simone Weil.
«Padre, nel nome di Cristo, accordami realmente tutto questo. Che
questo corpo si muova o s’immobilizzi, con una scioltezza o una
rigidità perfette, in conformità ininterrotta con la tua volontà. Che
questo udito, questa vista, questo gusto, questo odorato, questo tatto,
ricevano l’impronta perfettamente esatta della tua creazione. Che questa
intelligenza, nella pienezza della lucidità, concateni tutte le idee in
conformità perfetta con la tua verità. Che questa sensibilità provi nella
loro massima intensità possibile e in tutta la loro purezza tutte le
sfumature del dolore e della gioia. Che questo amore sia una fiamma
assolutamente divorante di amore di Dio per Dio. Che tutto questo mi
sia strappato, divorato da Dio, trasformato in sostanza del Cristo»
7
Cfr. Il pellegrino cherubico, II, 92, ed. it. a c. di Giovanna Fozzer e Marco Vannini,
Paoline, Cinisello Balsamo 1989, pag. 177
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CITAZIONI
“In ogni uomo vi è qualcosa di sacro. ma non è la sua persona. E
neppure la persona umana. E’ semplicemente lui, quell’uomo.”
(La persona e il sacro, a c. di Maria Concetta Sala, ed. Adelphi,
Milano 2012, pag.11)
“Dalla prima infanzia sino alla tomba qualcosa in fondo al cuore
di ogni essere umano, nonostante tutta l’esperienza dei crimini
compiuti, sofferti e osservati, si aspetta invincibilmente che gli
venga fatto del bene e non del male. E’ questo innanzitutto che è
sacro in ogni essere umano. (La persona…cit. pag. 13)
“Astri di fuoco, che popolate di notte i cieli lontani,
Astri muti che ruotate senza vedere, sempre gelidi,
Voi strappate dai nostri cuori i giorni trascorsi,
Voi ci gettate nel domani senza il nostro consenso,
e noi piangiamo ma tutte le nostre grida verso di voi sono vane.
Siccome bisogna, vi seguiremo, con le braccia conserte, gli occhi
rivolti verso il vostro splendore puro ma amaro.
Di fronte a voi ogni dolore conta poco.
Noi facciamo silenzio, barcolliamo per la nostra strada.
Ed è là, improvvisamente nel cuore, il loro fuoco divino.”
(Quaderni, IV, a c. di Giancarlo Gaeta, ed. Adelphi, Milano
19932, pag. 396)
“L’essere umano non sfugge al collettivo se non elevandosi al di
sopra del personale e penetrando nell’impersonale. In quel
momento vi è qualcosa in lui, una particella della sua anima, sulla
quale non può fare presa alcunché di collettivo. Se gli riesce di
radicarsi nel bene impersonale, ossia capace di attingervi
un’energia, è in grado, ogni volta che pensa di averne l’obbligo,
di volgere contro qualsiasi collettività, senza appoggiarsi su
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nessun’altra, una forza sicuramente piccola eppure reale”.(La
persona…cit. pag. 22).
“Il lavoro fisico, benché sia una pena, non è di per sé degradante.
Non è arte; non è una scienza; è un’altra cosa, eppure ha un
valore assolutamente uguale a quello dell’arte e della scienza.
Procura infatti una eguale possibilità di accedere a una forma
impersonale dell’attenzione” (La persona…cit. pag. 25)
“Il bene soprannaturale non è una sorta di supplemento al bene
naturale, come vorrebbero…che credessimo a nostro maggior
conforto. Se così fosse, sarebbe piacevole, ma così non è. In tutti
gli strazianti problemi dell’esistenza umana, la sola scelta
possibile è tra il bene soprannaturale e il male” (La persona…cit.
pagg. 35-36)
“Chi è penetrato nell’ambito dell’impersonale vi trova una
responsabilità nei confronti di tutti gli esseri umani. Quella di
proteggere in loro non già la persona, bensì ogni fragile
possibilità di passaggio nell’impersonale che la persona ricopre”.
(La persona…cit. pag.22)
“Ogni spirito prigioniero del linguaggio è capace soltanto di
opinioni. Ogni spirito divenuto capace di cogliere pensieri
inesprimibili a causa della moltitudine di rapporti che vi si
combinano, seppure più rigorosi e luminosi rispetto a quanto il
linguaggio più preciso esprime, ogni spirito pervenuto a questo
punto abita già nella verità. La certezza e la fede senza ombra gli
appartengono. E importa poco che all’origine abbia avuto una
piccola o una grande intelligenza, che sia stato in una cella stretta
o larga. Importa soltanto che, arrivato, al limite della propria
intelligenza, quale che potesse essere, sia passato di là. Un idiota
del villaggio è vicino alla verità quanto un bambino prodigio.
L’uno e l’altro ne sono separati soltanto da un muro. Non si entra
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nella verità senza essere passati attraverso il proprio
annientamento; senza aver soggiornato a lungo in uno stato di
estrema e totale umiliazione” (La persona…cit. pag. 42)
“La bellezza è il mistero supremo di quaggiù. E’ uno splendore
che attira l’attenzione, ma non lo fornisce alcun movente per
durare. La bellezza promette sempre e non dona mai alcunché;
suscita una fame, ma in essa non vi è alcun nutrimento per la
parte dell’anima che cerca di saziarsi quaggiù; ne ha solo per la
parte dell’anima che guarda. Suscita il desiderio e fa sentire
chiaramente che non ha in se stessa alcunché da desiderare,
perché importa innanzitutto che in essa nulla cambi. Se non si
cercano espedienti per sottrarsi al tormento delizioso che essa
infligge, il desiderio si trasforma a poco a poco in amore, e un
germe della facoltà di attenzione gratuita e pura prende forma.”
(La persona…cit.,pag. 46)
“Proprio perché la bellezza non contiene alcun fine, costituisce
quaggiù l’unica finalità. Quaggiù i fini non esistono; tutte le cose
che noi riteniamo tali sono mezzi. E’ una verità evidente. Il
denaro è un mezzo per acquistare, il potere è un mezzo per
dominare. E questo vale, in modo più o meno palese, per tutti i
cosiddetti beni. Solo la bellezza non è un mezzo in vista di
qualcos’altro. Essa sola è buona in sé ma senza che noi vi
troviamo alcun bene. Di per sé la bellezza sembra essere una
promessa e non un bene, Ma fa dono soltanto di se stessa, non
dona mai altro. Nondimeno, essendo l’unica finalità, la bellezza è
presente in tute le ambizioni umane. Benché queste inseguano
solo mezzi, dato che tutto ciò che esiste quaggiù è solo un mezzo,
essa conferisce a tali mezzi uno splendore che li colora di finalità.
Diversamente, non potrebbe esserci desiderio, nè di conseguenza
energia nel perseguirli.” (Attesa di Dio, a c. di Maria Concetta
Sala, ed. Adelphi, Milano 2008, pag. 126)
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“In ogni caso, quando mi figuro concretamente e come qualcosa
di imminente l’atto attraverso il quale potrei entrare nella Chiesa,
nessun pensiero mi procura tanta pena quanto quello di
separarmi dall’immensa e sventurata massa dei non credenti.
Avverto il bisogno essenziale, e credo di poter dire la vocazione,
di passare tra gli uomini e i diversi ambienti umani fondendomi
con essi, assumendone lo stesso colore, almeno nella misura in
cui la coscienza non vi si opponesse, dissolvendomi tra loro,
affinché si mostrino quali sono, senza dissimularsi ai miei occhi.
Poiché se non li amo quali sono non sono loro che amo, e il mio
amore non è vero…penso che non entrerò mai in un ordine
religioso, poiché non voglio separarmi con un abito dai comuni
mortali” (Attesa di Dio, cit. pagg.10-11).
“Penso che nelle cose veramente importanti gli ostacoli non
vadano scavalcati. Se derivano da potenze illusorie, occorre
fissare lo sguardo su di essi il tempo necessario a farli
scomparire. Ciò che io chiamo ostacolo è diverso da quella sorta
di inerzia che bisogna suparare ad ogni passo in direzione del
bene. Ho sperimentato questa inerzia. Gli ostacoli sono tutt’altro.
Se li si vuole scavalcare prima che siano spariti, si rischiano quei
fenomeni di compensazione cui credo alluda il passo del Vangelo
sull’uomo che, cacciato un demonio, si ritrova poi a coabitare con
altri sette” (Attesa di Dio, cit. p. 17)
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“L’inclinazione naturale dell’anima ad amare la bellezza è la
trappola più frequente di cui si serve Dio per aprirla al soffio
dall’alto…la bellezza del mondo è l’ingresso del labirinto,
L’imprudente che vi sia entrato e abbia fatto qualche passo non
sa più ritrovare l’apertura. Sfinito, sprovvisto di acqua e di cibo,
nella tenebra, separato dai suoi e da tutto ciò che ama e gli è
noto, cammina tentoni, privo di speranza, incapace persino di
rendersi conto se avanza davvero o gira a vuoto. Ma questa
sventura è nulla se raffrontata al pericolo che lo sovrasta.
Perché, se non si perde d’animo e continua a camminare, è fuor
di dubbio che infine giungerà al centro del labirinto. E lì lo
attende Dio per mangiarlo. In seguito ne uscirà, ma cambiato,
oramai divenuto un altro, giacchè è stato mangiato e digerito da
Dio. Si fermerà allora nei pressi dell’ingresso per spingervi
dentro con dolcezza chiunque vi si accosterà.” (Attesa di Dio, cit.
p. 123)
NOI SIAMO NELL’IRREALTA’, NEL SOGNO. RINUNCIARE
ALLA NOSTRA IMMAGINARIA COLLOCAZIONE AL
CENTRO, RINUNCIARVI NON SOLO CON
L’INTELLIGENZA MA ANCHE NELLA PARTE
IMMAGINATIVA DELL’ANIMA, SIGNIFICA DESTARSI AL
REALE, ALL’ETERNO, VEDERE LA VERA LUCE, UNIDE IL
VERO SILENZIO. SI PRODUCE ALLORA UNA
TRASFORMAZIONE, ALLA RADICE STESSA DELLA
SENSIBILITA’, NELLA MANIERA IMMEDIATA DI
RECEPIRE LE IMPRESSIONI SENSIBILI E QUELLE
PSICOLOGICHE.
Cfr. Attesa di Dio, cit. pag. 119.
Maurizio Barracano
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