Introduzione

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Semplificare è più difficile
Complicare è facile, semplificare è difficile.
Per complicare basta aggiungere, tutto quello che si vuole:
colori, forme, azioni, decorazioni,
personaggi, ambienti pieni di cose.
Tutti sono capaci di complicare.
Pochi sono capaci di semplificare.
Per semplificare bisogna togliere, e per togliere bisogna sapere che cosa togliere,
come fa lo scultore quando a colpi di scalpello
toglie dal masso di pietra tutto quel materiale che c’è in più.
Teoricamente ogni masso di pietra può avere al suo interno
una scultura bellissima, come si fa a sapere
dove ci si deve fermare nel togliere, senza rovinare la scultura?
Togliere invece che aggiungere
vuol dire riconoscere l’essenza delle cose
e comunicarle nella loro essenzialità.
Questo processo porta fuori dal tempo e dalle mode…
La semplificazione è il segno dell’intelligenza,
un antico detto cinese dice:
quello che non si può dire in poche parole
non si può dirlo neanche in molte.
Bruno Munari
Ho cominciato a pensare al libro sulla semplicità dopo aver letto questo breve ma illuminante brano di Bruno Munari. Quanta saggezza
espressa in così poche frasi: «togliere invece che aggiungere» è la chiave
per riconoscere l’essenza delle cose. Ma la frase successiva spiega
anche perché è difficile realizzarlo, «questo processo porta fuori dal
tempo e dalle mode…» con tanto di puntini di sospensione. Dobbiamo abituarci ad accettare l’idea che il tempo in cui viviamo è segnato
dalla complessità e che ci troviamo fare i conti con una crescente
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dipendenza dalla tecnologia. La nostra civiltà è fondata sempre di più
sulla fascinazione prodotta dagli artefatti tecnologici e sempre di
meno sulla consapevolezza di quanto siano diventati rilevanti nella
nostra vita. Adoro la tecnologia e vivo avvolto da piccoli e grandi
oggetti tecnologici, veri gioielli dell’ingegno umano che mi consentono di fare cose impensabili solo cinque anni fa, di cui, però, conosco
solo le funzionalità di base. Il resto, come funzionano questi oggetti,
da dove arrivano, qualli sono le leggi fisiche che li regolano e chi li ha
inventati, salvo qualche nozione di dominio pubblico, mi è ignoto. Il
libro è anche una risposta personale a un malessere profondo e duraturo che nasce dalla difficoltà di adeguare il mio tempo, limitato, alle
grandi possibilità e ai progetti che la tecnologia consentirebbe e che
riesco a elaborare solo nella mia mente. Con questo libro che parla di
semplicità e di strategia vorrei fornire alcuni strumenti conoscitivi ai
manager, agli studiosi e agli studenti per guardare alla semplicità
come a una grande opportunità per rimettere in circolo, semplicemente ma efficacemente, le risorse infinite della creatività e innescare
rivoli e poi fiumi di idee innovative. Qualità di cui certo non difettiamo. Ma prima dobbiamo definire la semplicità e il modo in cui
migliorare la nostra relazione con gli oggetti della vita quotidiana.
Ammetto che non saprei come fare a sopravvivere senza il mio
notebook, sui cui tasti sto scrivendo febbrilmente in questo momento, o senza il mio cellulare grazie al quale dialogo con molta più gente di quanto mi capitava di fare in passato. Il navigatore non è ancora
entrato stabilmente nella lista delle top five technologies della mia vita,
ma non manca molto grazie alla mediazione delle mappe navigabili
contenute nel mio Blackberry (uso le mappe solo per gli spostamenti
critici, per le altre destinazioni preferisco perdermi utilizzando il mio
semplice intuito).
Eppure Riccardo Trecciola, che muove le leve della tecnologia di
1to1lab – società che ho fondato nel 2000 per studiare come l’impatto della comunicazione utilizzando metodologie non verbali – mi ha
mostrato come il navigatore sia indispensabile per viaggiare, anche
per andare dal giornalaio sotto casa. Perché? Non lo so, ma devo
ammettere che da qualche tempo e di nascosto ho cominciato a usare
le mappe e il sistema gps anche per andare dal giornalaio, tanto per
vedere come funziona il sistema. In realtà, mentre mi immergevo in
tale esperienza avevo l’impressione che fosse il sistema a utilizzare
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me, magari per acquisire dati sui miei incerti comportamenti e i miei
goffi tentativi di darmi un tono grazie allo strumento. L’ipotesi di una
macchina che impari dall’uomo è certo fantascientifica, l’abbiamo
visto in tanti film e letto nei libri, a partire dalle opere monumentali
di Isaac Asimov o di Arthur Clarke. Eppure, in modo semplice e
magari un po’ subdolo, le macchine stanno già imparando dagli
uomini. Amazon impara da chi la consulta: memorizza le consultazioni, i titoli dei libri o dei cd musicali e li ricorda per la visita successiva offrendo schermate di proposte mirate; è un sistema apparentemente invasivo, ma poi ci si abitua e si impara ad apprezzare il contributo di semplificazione che offre. Perché devo sforzarmi di ricordare il titolo di un noioso manuale di marketing degli anni Novanta
(che suscita in me solo una blanda curiosità professionale) quando è
Amazon che si occuperà di tutto? Certo non è ancora immaginabile
una casa che reagisca alle emozioni dei propri abitanti e riconfiguri il
proprio look and feel modificando colori, musiche di sottofondo, paesaggi rilassanti proposti su schermi digitali ad alta definizione, naturalmente, e di grandi dimensioni, ovviamente. La proposta della casa
emozionale, o emozionante, è già praticabile e semplificherebbe di
certo la vita di molte persone stressate e provate da lunghe e faticose
giornate di lavoro. Ma come si fa a insegnare a una casa a riconoscere lo stato emozionale del padrone di casa al suo rientro? Forse con
una telecamera molto potente in grado di contare ogni singolo movimento dei muscoli del volto e dedurre dalla configurazione che si
determina se il soggetto è rilassato, arrabbiato, triste o semplicemente
contento. I computer che lavorano su questi progetti hanno ottenuto
risultati molto buoni, con percentuali elevate di riconoscimento delle
emozioni, ma il problema è che non sono arrivati al 100 per cento del
successo e la quota di rischio di errore, anche se minima, può generare,
diciamo così, delle incomprensioni tra la casa e il padrone, magari proponendo una musica di sottofondo gioiosa e una luce rilassante perché
la casa ha creduto di riconoscere un’espressione triste quando invece
essa era dovuta semplicemente a un terribile mal di denti (tra l’altro la
giornata e il lavoro, solo quel giorno, erano andate molto bene!).
La vita è regolata da migliaia di artefatti; la maggior parte di essi
opera nell’ombra, non li vediamo e quindi pensiamo che non esistano. Qualcuno ha mai visto un semaforo in una galleria della metropolitana cittadina? Migliaia e migliaia di piccoli e grandi oggetti si
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attivano quando lo chiediamo (come l’ascensore, la nostra auto o il
cellulare) oppure lavorano silenziosamente per garantire la nostra
sopravvivenza (gli impianti di riscaldamento dei condomini). Nessuno sa esattamente quanti siano e nessuno saprebbe descrivere il loro
funzionamento.
Del resto per quale ragione dovrei preoccuparmi di capire come
funziona il mio tagliaerba? È semplice da usare, basta rifornirlo di
benzina (o gasolio?) e ogni tanto aggiungere un po’ di olio per il fedele motore. L’auto mi consente di uscire da casa all’ultimo momento e
arrivare, purtroppo in ritardo per colpa del traffico, a un importante
appuntamento di lavoro. Perché dovrei sapere come funziona la cinghia di trasmissione? Mi preoccupa invece, soprattutto durante le
torride giornate estive, il malfunzionamento del sistema di condizionamento (di cui, in efetti, so molto poco).
Ma che importa, se di tanto in tanto l’auto mi viene sottratta per il
tagliando di controllo. È normale, poi tornerà a funzionare come sempre, anzi meglio. Ma poi, come accade spesso nella vita degli uomini,
anche l’auto più fedele comincia a denunciare i primi segni dell’età e
può capitare che la compagna di viaggio di una vita decida di abbandonarti soccombendo definitivamente sull’autostrada Torino-Milano,
proprio nella parte priva di corsia di emergenza, con colonne di artefatti-camion e artefatti-auto lanciati a tutta velocità sulla tua stessa corsia.
In quei momenti, la vita torna alla sua complessità normale, quella dei
nostri nonni che vivevano nell’era pre-tecnologica.
In realtà, il ritorno forzato alla dimensione normale (durato circa
tre mesi) mi ha fornito tanti spunti di riflessione e mi ha portato a
rileggere determinati concetti sulla semplicità del vivere espressi da
grandi e piccoli uomini della nostra cultura, veri aforismi che ben si
adattano alla vita umana di ogni tempo. Eccone alcuni: «la semplicità
è la forma della vera grandezza» di Francesco De Sanctis, oppure «i
piaceri semplici sono l’ultimo rifugio della gente complicata» di
Oscar Wilde, o anche «l’ovvio è quel che non si vede mai, finché
qualcuno non lo esprime con la massima semplicità» di Kahlil
Gibran. Ma l’aforisma che mi ha dato più da pensare è di George
Bernard Shaw, il quale afferma che «per ogni problema complesso, c’è
sempre una soluzione semplice. (Che è sbagliata)».
Tutti parlano di semplicità: in effetti è una delle parole più diffuse
nella nostra cultura; la utilizzano soprattutto i tecnologi per tranquil-
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lizzare i potenziali clienti, ma anche i pubblicitari adorano la parola
semplicità, così come emozione, entrambi concetti di ampia e crescente
proliferazione. Che sia una sorta di antidoto allo spauracchio rappresentato dalla parola complessità? Credo che sia proprio così. Infatti,
non è un caso che i primi ad avvertire il peso della complessità siano
proprio le classi creative, i comunicatori, gli ingegneri, i designer o gli
informatici, che si trovano a convivere con la complessità dei loro
artefatti e sono costretti a pensare continuamente alle soluzioni più
efficaci per renderli più semplici.
Ma questa è, naturalmente, una spiegazione un po’ troppo semplicistica. In questo libro ho affrontato il tema della semplicità pensando, in realtà, alla complessità che ci avvolge. La semplicità è una scelta faticosa, la complessità invece non richiede alcuno sforzo, è la
realtà in cui viviamo e che contribuiamo a rendere sempre più complessa. Quindi l’immobilismo, la stasi producono nuova complessità.
Invece lo sforzo, l’impegno, la dedizione e la determinazione possono
portare alla complessità. Per qualcuno uno stile di vita semplice è una
scelta che comporta la rinuncia a ciò che non serve. Già, ma come si
fa a decidere cosa serve e cosa non serve? Se voglio continuare a svolgere il mio lavoro attuale devo utilizzare l’auto, viaggiare in treno e in
aereo e qualche volta prendere il taxi. Potrei anche non farlo, infatti
qualche volta durante l’estate vado a Milano in bicicletta lungo la
bella e ben frequentata pista ciclabile del Naviglio Grande (abito in
campagna a circa venti chilometri dalla metropoli lombarda). La
rinuncia all’uso dell’auto o del treno per i poveri pendolari (chi tra i
lettori appartiene a questa categoria umana sa di cosa parlo) non è
una vera rinuncia, anzi è una forma di semplificazione perché ci
riporta a una dimensione più semplice nel rapporto con la natura. La
vera rinuncia è la mancanza totale di qualunque possibilità di trasporto. Potrei forse lavorare da casa, dotandomi magari di un buon sistema di videoconferenza che adrebbe ad aggiungersi a Skype, Linkedin, Facebook, Plaxo, Twitter e Outlook. Per la trasmissione dei
documenti pesanti basta il servizio di Libero Jumbo mail, funziona
molto bene e riesce a trasferire di tutto, dovunque. La semplicità si
manifesterebbe forse nel recupero dei tempi morti rappresentati dal
trasporto da casa al lavoro, ma non è del tutto vero. In quei tempi
morti, i non-luoghi descritti dal sociologo Marc Augé, leggo se sono
in treno, ascolto la radio e mi informo se viaggio in macchina, lavoro
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Figura 1
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Mercato di strada a Jodpur, Rajasthan
Fonte: Foto di Patrizia Pagani
al computer se mi trovo sulla Frecciarossa che dispone di civilissime
prese di corrente a ogni posto (a proposito, i treni gemelli francesi
TGV che uniscono Milano a Parigi non forniscono ancora questo
servizio, essenziale per chi deve riempire di attività le lunghe ore di
viaggio).
Dopo la lettura degli aforismi e qualche decina di libri sul tema
della complessità e della semplicità, ho tuttavia deciso che per il
momento la vita semplice, per quanto densa di promesse e di richiami, non fa parte dei miei programmi. Parlare della semplicità invece
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sì. La semplicità come obiettivo strategico delle organizzazioni che
devono affrontare la sfida del futuro e le incertezze della crisi economica, che qualcuno comincia a considerare sociale e strutturale. La
semplicità come ispirazione per recuperare l’essenza dei valori della
marca, delle aziende e dei prodotti. La semplicità come scelta per chi
produce tecnologia innovativa e cerca spasmodicamente di ottenere il
consenso dei clienti arricchendo di sempre nuove funzioni prodotti
che sono già maturi. La semplicità dei punti di vendita che espongono i loro prodotti come dei cataloghi, mentre dovrebbero trasmettere
emozioni, come avviene nei punti di vendita Eataly a Torino, Tokio e
Milano, di cui si parla in una case history, o nei mercati di strada in
India (si veda la foto scattata da Patrizia, mia moglie e compagna di
tanti viaggi), dove l’apparente complessità dell’esposizione dei prodotti viene immediatamente superata dall’ordine di presentazione e
dal coinvolgimento emozionale dello shopping.
Nei primi capitoli ho cercato di capire e descrivere la semplicità
contrapposta alla complessità e il modo in cui essa si manifesta nella
vita quotidiana, nei prodotti, nelle organizzazioni e anche nel linguaggio e nel pensiero.
La ricerca della semplicità mi ha fornito lo spunto per capire come
ottenerla partendo dalla progettazione fino alla realizzazione, combinando contributi e metodologie operative provenienti da varie discipline: le neuroscienze consentono di capire come reagisce il cervello
di fronte a una situazione complessa e come le decisioni in situazioni
difficili siano generatrici di stress ed emozioni negative; il design
industriale ci obbliga a pensare non solo al prodotto, ma anche alla
sua origine, alla sua collocazione e ai materiali che lo compongono e
anche alla sua piacevolezza estetica. E il marketing, come sta? Soffre,
perché non ha saputo fare il grande salto da sottodisciplina a cavallo
tra la sociologia, la psicologia e l’economia a disciplina autonoma,
autorevole e densa di spiegazioni semplici ed efficaci delle dinamiche
dei mercati e dei consumatori.
Questo libro, come è accaduto per i miei precedenti, tratta di un
tema difficile, la semplicità, poco esplorato in modo sistematico, ed è
una guida più che un manuale, che ha lo scopo di indurre il lettore a
fermarsi a pensare e ridisegnare le proprie strategie di sviluppo, mettendo la ricerca della semplicità al centro del modello di pensiero.
Alcune grandi aziende lo hanno già fatto, prima fra tutte la Philips
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che ha varato con Sense and Simplicity la propria nuova strategia olistica globale.
Lo ha fatto Procter & Gamble a partire dal 2000, quando ha deciso
di adottare la filosofia dell’open innovation per trasferire gran parte
della propria attività di ricerca e sviluppo all’esterno, attivando in tal
modo una politica anti-complessità. Non lo ha ancora fatto la pubblica amministrazione, anche se dovrebbe essere la prima considerate le
sue promesse di semplificazione nei confronti dei cittadini. Nel libro
non ne parlo, ma è evidente che le incongruenze del sistema di servizi fruito dalla società dimostrano che si è ben lontani dall’aver raggiunto i livelli di semplicità possibili (nonostante l’operato del ministero per la Semplificazione).
Il libro si è arricchito di molti contributi di pensatori della semplicità che hanno esplorato, con spunti sempre ricchi e a volte folgoranti, diversi aspetti a me ignoti dimostrando, se mai ce ne fosse
bisogno, che la riflessione sulla semplicità ci accompagna tutti, in
ogni momento della giornata, e meriterebbe maggiore attenzione
da parte di chi realizza artefatti, servizi, leggi, prodotti finanziari,
manuali d’uso di elettrodomestici, fino ai progettisti dei punti di
vendita, in particolare quelli destinati alla spesa quotidiana. Gli
apporti sono stati numerosi e vorrei citare gli autori, ringraziandoli
per avere donato scampoli delle loro riflessioni a questo libro sulla
semplicità. L’ordine di citazione è casuale: comincio da Flaviano
Celaschi, che ha parlato della perdita della semplicità e del grave
rischio di reinventare la stessa cosa complicandola perché non si
riesce a dare libero corso alla creatività attualizzata. Proseguo con
Lia Tagliavini. Lia ha arricchito il libro di preziose immagini, realizzate durante i suoi viaggi intorno al mondo, e di riflessioni sulla
presenza o l’assenza della semplicità in ogni luogo. Grazie anche ai
miei due colleghi professori del Politecnico di Torino, Angela De
Marco e Andreas Siklinger, che hanno analizzato gli aspetti più
tecnico-filosofici della progettazione e dell’ergonomia. Alessio Fattore di Starcom, al quale devo il concetto basilare che «il consumatore è irrazionale, mentre i suoi comportamenti sono prevedibili». Alessio ha trattato da par suo il tema della necessità di semplificazione
nel marketing e nella comunicazione (magari credendo e applicando un po’ meglio e di più la matematica e la statistica). La parola
statistica mi rimanda immediatamente a Riccardo Trecciola, la
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mente scientfica di 1to1lab il respondabile di molte efficaci e sorprendenti applicazioni del marketing emozionale ai vari ambiti della
ricerca (l’intenso e quotidiano confronto di idee mi ha consentito
spesso di uscire sano da qualche infida palude concettuale). Maggy
Papa fa parte della stessa genia di ricercatori di 1to1lab che da qualche anno si cimenta tra mille difficoltà, ma sempre con grande entusiasmo, con il marketing emozionale. Grazie a Riccardo e Maggy.
Tra le case history cito volentieri quella scritta da Lorena Delvino,
anche lei ricercatrice di 1to1lab, che ha condotto ed elaborato un’interessante ricerca sulla relazione tra aroma e brand in collaborazione
con l’Università Iulm di Milano e Maurizio Volpi di Givaudan.
La semplicità e il marketing è l’arduo tema affrontato da Marco
Mombelli, pensatore innovativo ma anche giovane e brillante manager di una grande catena di distribuzione multinazionale. Marco ha
sviluppato la relazione tra i due mondi fornendo alcune chiavi di lettura che, mi auguro, non mancheranno di intrigare i lettori più coinvolti professionalmente.
Ugualmente stimolante, ma collocato su un piano più filosofico, è
il contributo di Sandro Costa – fondatore di Interact – che appartiene per estrazione alla schiera degli informatici (è stato tra i pionieri di
Internet in Italia) ma è ormai sempre più attratto dalla speculazione
scientifica e concettuale. Il capitolo sui processi cognitivi ospita le
riflessioni di Mauro Capestro, dottorando presso l’ISUFI di Lecce.
Ringrazio con grande affetto Raffaele Valletta, docente e esperto di
comunicazione aziendale, per il racconto della sua esperienza professionale come pubblicitario e della sua relazione con la semplicità.
Ancora in tema di comunicazione, segnalo il bel racconto di Pamela
Tavalazzi sulla complessità del vivere il proprio rapporto professionale con il cliente.
Ed ecco, infine, i miei più calorosi ringraziamenti al team di Egea
che mi ha seguito, stimolato e aiutato con infinita pazienza e dedizione nella redazione di questo libro, la cui elaborazione, contrariamente
a quanto proclamato nel titolo, è stata davvero complicata.
Vorrei segnalare l’esistenza di un gruppo di discussione su Linkedin sul tema della semplicità per chi volesse continuare a seguire l’evoluzione del dibattito e la mia email che pubblico volentieri per
aprire un canale diretto con chi volesse scambiare idee e riflessioni
direttamente con me ([email protected]).