Beni comuni - Nomodos – Il Cantore delle Leggi
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Beni comuni - Nomodos – Il Cantore delle Leggi
Beni comuni: una terza via tra il pubblico e il privato “Better Choices Better Results Public Safety and Security”, foto di Maryland GovPics, licenza CC BY 2.0, Flickr.com Anche nel nostro paese, è ormai da qualche tempo che anche il mondo dell’informazione mediatica rivolge l’attenzione a una particolare branca del diritto di proprietà: i beni comuni. Si può dire che il punto di svolta sia stato il referendum del giugno 2011, quando, recandoci alle urne, la maggioranza degli italiani si è espressa a favore dell’ “acqua bene comune”. Sebbene siano trascorsi più di due anni, molti degli elettori, e non solo, non conoscono il significato proprio dei beni comuni e spesso tendono a identificarli con i beni pubblici. Tuttavia, se ad un sommario esame l’accostamento tra queste due categorie dei beni risulti facile, esiste una profonda differenza di regime tra beni pubblici e beni comuni. Cosa sono, dunque, i beni comuni? Che cosa li differenzia dagli altri beni? Per rispondere a queste domande occorre superare la concezione dualistica che vede la contrapposizione tra pubblico e privato. Questa distinzione, oggi, risulta quantomai una finzione dal momento che il regime di proprietà pubblica si è sempre più assimilato al regime privatistico. La proprietà privata, infatti, si caratterizza per il suo regime di elevata esclusività e rivalità sull’accesso ai beni, che comporta un elevato grado di competizione tra i soggetti per l’utilizzo di determinate risorse. Questa visione è legata al concetto di homo oeconomicus, ovvero il soggetto razionale che cura solo i propri interessi individuali, cercando di creare il maggior vantaggio per se stesso, non curandosi della collettività e di principi morali (è una versione estrema ma è per far capire il concetto). Questa concezione di individuo è ciò che ha giustificato e giustifica regimi privatistici di proprietà e accesso ai beni ma è chiaro che nella realtà l’homo oeconomicus non esiste, sebbene esso sia stato utilizzato come paradigma per strutturare i regimi di accesso a quelle risorse che, poiché particolarmente scarse, necessitavano di una razionalità ed efficienza nella loro distribuzione. Sotto l’onda liberale, nel corso dei secoli a partire dall’Inghilterra del XV secolo con la recinzione di ettari ed ettari di foreste, il processo di privatizzazione si è posto come spirito motore del progresso e dello sviluppo efficiente di risorse. L’esempio dell’Inghilterra fornisce il caso perfetto per dimostrare che anche lo Stato si è immedesimato nella figura dell’homo oeconomicus, provando del libero utilizzo risorse importanti al fine di amministrarle in maniera efficiente. Il risultato di questi processi è stata l’esclusione della popolazione dal libero uso delle risorse che, nel corso della storia, sono sempre state a disposizione dell’uso comune, appunto. Questa ricostruzione, sebbene astratta, è indispensabile per capire la differenza tra beni pubblici e beni comuni. Mentre i beni pubblici sono beni di proprietà dello Stato e, come tali, seguono il paradigma privatistico, i beni comuni si collocano al di là di questa distinzione, ponendo le loro caratteristiche essenziali sull’aspetto del libero accesso ed uso. Seguendo questa logica, di recente i beni comuni hanno assunto una dimensione strettamente connessa ai diritti fondamentali. In questo senso, i beni comuni garantirebbero l’ espressione dei diritti fondamentali e sarebbero funzionali alla loro realizzazione. I beni come l’acqua, le risorse naturali, non sono di per sé assoggettabili a regimi proprietari come strutturati dai nostri ordinamenti poiché sia la gestione egoistica privata in senso stretto, sia la gestione dispotica statale che, nel suo paternalismo si comporta come un gigantesco proprietario privato, risultano “andare stretti” ai beni comuni, risorse che per la loro natura sono a disposizione della collettività e che, in questo senso, si discostano dall’immagine dell’homo oeconomicus per lasciare posto a un ideale di uomo collaborativo e attento non sono alle esigenze della collettività intesa anche nel senso diacronico delle generazioni future. Tuttavia, se sul piano astratto la separazione beni pubblici/privati vs. beni comuni risulta quanto meno comprensibile, nel concreto bisogna cercare di non “santificare” ogni tipo di bene/risorsa/diritto come bene comune. I beni comuni sono costituivi della collettività di riferimento, sono il fondamento della sua espressione in quanto strettamente connessi alla realizzazione dei diritti fondamentali. Esistono numerose realtà che, più o meno inconsciamente, portano avanti battaglie a difesa dei beni comuni. In Italia abbiamo avuto un piccolo assaggio con il referendum del 2011, ma fuori dallo stivale, molte popolazioni, tra cui i cittadini di Istanbul, per ricordare un caso recente, si sono battute per la tutela e contro lo sfruttamento di risorse che sentivano come patrimonio comune. Ma, per non guardare sempre al di là delle nostre coste e delle nostre montagne, è interessante il caso di Napoli, dove, proprio in questi mesi, l’azienda ABC Napoli (Acqua Bene Comune) sta attuando un tentativo di gestione dell’acqua più locale e partecipativo, che si adatti meglio alle particolarità dei beni comuni. Su questa scia, il capitolo beni comuni proseguirà nel prossimo articolo con l’intervista a uno degli “addetti ai lavori” del progetto ABC Napoli. REBECCA RAVALLI Licenza fotografia: “Better Choices Better Results Public Safety and Security”, Foto di Maryland GovPics, Licenza CC BY flickr.com Bibliografia: The State, the market, and some preliminary question about the commons, Ugo Mattei Beni Comuni: Una Strategia Globale Contro lo Human Divide in “Oltre il Pubblico e il Privato. Per un Diritto dei Beni Comuni”,S. Rodotà.2012, Ombre Corte Edizioni: Verona Beni Comuni. Un Manifesto, Ugo Mattei, Editori Laterza, 2011 Obamacare e principio di non discriminazione Degli Stati Uniti non si parla mai abbastanza, tra shutdown e questione siriana, i nostri cugini d’oltreoceano non fanno mancare argomenti per finire sulle testate dei quotidiani stranieri. Ma la vera rivoluzione, dall’altro lato dell’Atlantico, la sta portando la riforma sanitaria. Il 23 marzo 2010, infatti, il Patient Protection and Affordable Care Act (comunemente chiamato “Obamacare”) è entrato in vigore, portando con sé tante speranze quante sono le polemiche che ha sollevato. Per capire la ragione delle critiche e delle perplessità suscitate dall’ambizioso progetto dell’amministrazione Obama occorre innanzitutto delineare i tratti salienti del sistema sanitario statunitense prima dell’entrata in vigore dell’Obamacare. Il sistema sanitario americano opera su una struttura triangolare i cui vertici sono occupati dai 3 soggetti principali che interagiscono tra loro: i pazienti, i “fornitori” e gli assicuratori. I pazienti acquistano un’assicurazione, gli assicuratori, a loro volta, rimborsano i “fornitori” (ossia medici, aziende ospedaliere e tutti coloro che contribuiscono al funzionamento del sistema sanitario fornendo servizi) per i servizi erogati e dettano i limiti di coperture delle proprie assicurazioni. Il sistema sanitario si compone di norme di tre tipi diversi: le “coverage rules” che definiscono i meccanismi attraverso i quali gli individui possono ottenere la copertura assicurativa e chi deve pagare per essa; le regole che fanno parte del sistema dei rimborsi, attraverso il quale vengono stabiliti i meccanismi per il pagamento; infine, le norme di accesso che fissano i requisiti per ottenere un’assicurazione. Infine, il sistema sanitario statunitense si compone di una parte pubblica e di una parte privata. I programmi pubblici sono rivolti principalmente alle persone disabili e agli anziani, infatti, secondo i dati di marzo 2002, l’84% della popolazione sotto i 65 anni, rientra nei programmi di assistenza privata. I principali programmi pubblici sono Medicaid e Medicare, il primo è rivolto alle famiglie a basso reddito, mentre il secondo offre coperture sanitarie ad anziani e disabili. La copertura privata, invece, deriva dalle assicurazioni fornite dal datore di lavoro ai propri dipendenti e da coloro che “pagano di tasca propria” l’assicurazione, definiti “out-of-pocket payers”. Secondo i dati pubblicati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel 2011 la spesa pro capite per la sanità è stata di 8607,9 dollari, di cui 3954,2 dollari provenienti dalla spesa pubblica. Il resto (54% della spesa totale) deriva da fonti private, di cui il 20% pagato dagli “out-of-pocket”. Altri dati rilevanti si traggono dal rapporto OCSE sulla sanità del 2011 dal quale emerge che la spesa media totale per la sanità nei paesi OCSE era del 9,5% mentre quella statunitense del 17,7% di cui solo l’8,5% pubblica. Il fatto che meno della metà della spesa totale derivi da spese governative spiega anche perchè l’ammontare totale della spesa sulla sanità sia così superiore rispetto alla media OCSE. È chiaro, infatti, che il meccanismo delle assicurazioni comporta un costo maggiore per coloro che lo devono sostenere, specialmente per coloro che non acquistano polizze tramite il datore di lavoro ma sopportano tutto il costo di tasca propria. Infine, altre statistiche riportano come, negli Stati Uniti, dal 2010 al 2011 ci sia stato un aumento della spesa totale per la sanità sebbene la spesa pubblica in tale settore sia diminuita, lasciando intuire che la differenza derivi dalla spesa dei privati. Sfortunatamente, l’impostazione del sistema sanitario, basato su un mercato di polizze assicurative, non consente di avere una copertura della popolazione che rispecchi l’ammontare della spesa in ambito sanitario. I dati del United States Census Bureau mostrano che nel 2011 circa il 15,7% della popolazione (48,6 milioni) era privo di copertura assicurativa. Qual’è la ragione di una così grande lacuna? Come anticipato, le assicurazioni hanno, naturalmente, il potere di stabilire i requisiti di accessibilità alle proprie polizze e, di norma, queste regole sono stabilite in base al maggior rischio che alcune categorie di persone incorrono di ammalarsi o di aver bisogno di spese sanitarie, anche elevate. Tra coloro che non soddisfano i requisiti fissati dalle compagnie assicurative rientrano i soggetti con condizioni preesistenti, che, tecnicamente, sono condizioni che esistono prima che il piano assicurativo entri in vigore. Tra coloro che non ottengono copertura assicurativa ci sono anche i dipendenti di datori di lavoro che non riescono a garantire un’assicurazione. Questi soggetti spesso rimangono privi di assicurazione poiché il loro reddito non gli consente di pagare una polizza privatamente ma allo stesso tempo non soddisfano i criteri per usufruire dei programmi pubblici. Una volta chiarito il funzionamento generale del sistema sanitario statunitense, si può passare in esame la riforma Obama. Occorre ancora precisare, però, che questa analisi sarà parziale, in quanto il Patient Protection and Affordable Care Act è una riforma estremamente ampia, che riguarda numerosi aspetti critici del sistema sanitario, e della quale, sviluppandosi lungo un periodo di 10 anni, è difficile prevedere le conseguenze e gli effetti. Una delle modifiche essenziali inserite nell’Obamacare riguarda proprio i soggetti con condizioni preesistenti. Questa materia è già stata interessata dal Pre-existing Conditions Insurance Plan (PCIP) che apportava modifiche sul potere discrezionale delle compagnie assicurative di escludere le persone con condizioni preesistenti. Questo piano, tuttavia, era soggetto ad adozione dai singoli Stati. Questo piano ha già rimosso alcune delle condizioni preesistenti che possono determinare l’esclusione dei soggetti portatori di tali condizioni i quali, non solo possono ricevere copertura assicurativa, ma la polizza deve comprendere alcune previsioni minime come l’assistenza ospedaliera, prima assistenza, cure speciali, prescrizione di medicinali e cure preventive. Non ci potrà essere discriminazione, inoltre, sul premio dell’assicurazione in base a condizioni preesistenti (esclusi i soggetti fumatori), genere e collocazione geografica. Un’altra novità, introdotta nella riforma e che ha suscitato scalpore, è quella che riguarda l’obbligo di assicurazione (individual mandate). Questo comporta che tutti i singoli privi di copertura sanitaria attraverso programmi pubblici o mediante contratto di lavoro, devono essere coperti da assicurazione sanitaria, eccezione fatta per soggetti appartenenti a particolari comunità religiose. La riforma, inoltre, introduce sgravi fiscali per i piccoli datori di lavoro (meno di 50 dipendenti), mentre per coloro che dirigono un’impresa con più di 50 dipendenti, è prevista una tassa nel caso non provvedano a fornire una polizza assicurativa. Inizialmente, l’obbligo di assicurazione non era previsto dalla riforma Obama ed era uno degli elementi che differenziava il suo progetto da quello di Hillary Clinton. Tuttavia, l’amministrazione Obama ha, infine, optato per inserire questo punto al fine di evitare il meccanismo di selezione avversa per cui gli individui acquistano un’assicurazione solo nel momento del bisogno. Se così fosse non si abolirebbe la politica discriminatoria di prezzi instaurata dalle compagnie assicurative, uno dei principali obiettivi portati avanti dalla riforma. Un’altra previsione introdotta dalla riforma che riguarda aspetti relativi alle assicurazioni individuali è quella che concerne il mercato delle assicurazioni. Il sistema assicurativo, infatti, opera tramite un mercato all’interno del quale individui e datori di lavoro possono scegliere le polizze a seconda della copertura offerta e delle proprie possibilità economiche. Su questo fronte, a riforma dell’amministrazione Obama impone il divieto, per le compagnie assicurative, di negare l’assicurazione, stabilisce un limite alla discrezionalità delle assicurazione nel determinare il prezzo delle polizze, evitando, così, politiche discriminatorie, e abolisce le polizze a tempo indeterminato. Come già accennato, è molto difficile prevedere con esattezza quali saranno gli effetti reali portati da questa riforma, tuttavia nessun intervento simile è privo di aspettative. L’amministrazione Obama si aspetta, infatti, che tramite queste previsioni, aumenti la competitività nel mercato assicurativo, determinando un abbassamento dei prezzi delle polizze con conseguente diminuzione della spesa annuale pro capite sulla sanità. Tutto questo accompagnato da una più ampia copertura della popolazione e con maggior conformità rispetto al principio di non discriminazione. Attraverso le limitazione alla discrezionalità delle compagnie assicurative e fissando un contenuto minimo delle polizze sanitarie, quasi tutta la popolazione dovrebbe essere coperta per alcune prestazioni base come l’assistenza ospedaliera, la prescrizione di medicinali, ambulatorio, intervento preventivo e assistenza alla maternità. Non sappiamo dire con esattezza se questi obiettivi verranno raggiunti ma il tentativo, per quanto riguarda gli elementi qui riportati e concernenti il principio di non discriminazione, pare apprezzabile, per lo meno nella misura in cui si rapporta il sistema sanitario statunitense ai parametri del diritto alla salute così come riportati dall’art.25 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, dall’art.12 della Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici e dal Commento Generale sul Diritto alla Salute elaborato dalla Commissione delle Nazioni Unite sui Diritti Economici, Sociali e Culturali. REBECCA RAVALLI Licenze fotografie: Foto 1: “Obamacare on the steps of the Supreme Court”: foto di will1ill, licenza CC BY Foto 2: “Barack Obama”: foto di jamesomalley, licenza CC BY, www.flickr.com Multinazionali e responsabilità: una questione spinosa ancora irrisolta Dopo il recente episodio del collasso della fabbrica tessile a Dakkah, capitale del Bangladesh, il dibattito sulla responsabilità delle società multinazionali si è riacceso e molte proposte per risolvere il problema sono state avanzate sia da politici che da studiosi. La questione, tuttavia, è molto più spinosa di quello che sembra a causa della struttura dei soggetti interessati, le società, che si sviluppa su territori diversi e che, per sua natura, gode del principio di responsabilità limitata. Questo focus cercherà di delineare i diversi profili che rendono tanto complicato il riconoscimento di una responsabilità, in particolare per violazioni dei diritti umani, delle multinazionali partendo dalla descrizione della loro struttura per arrivare ai problemi che essa comporta e alle proposte avanzate per risolverli. Per comprendere la complessità della questione, occorre ribadire la natura fittizia delle multinazionali, aspetto cruciale nel riconoscimento di responsabilità di tali soggetti. Le multinazionali sono imprese che organizzano la produzione in due o più paesi diversi tramite società dette “controllate”. La forma del controllo della società madre sulle controllate può assumere diverse forme ma, solitamente, essa si traduce in un controllo gestito tramite il possedimento della maggioranza delle azioni della società controllata. In questa condizione, emerge il primo problema: essendo azionista, la società madre gode del principio di responsabilità limitata, per il quale gli azionisti non rispondono personalmente delle azioni commesse dalla società che, in nell’ambito di gruppi societari, si traduce in una non responsabilità della società madre per le azioni commesse dalle società da essa controllate. Fino qui, nulla di nuovo sotto il sole. Dunque quand’è che emerge il problema? Immaginiamo che la società A possegga l’80% delle azioni della società figlia B. Quest’ultima opera in paesi in via di sviluppo e sfrutta i lavoratori in violazione degli standard internazionali e dei diritti umani. Le vittime di tali violazioni decidono di intraprendere una causa contro la società B la quale, tuttavia, ha cessato d’esistere. Il conseguente risultato è che, sul piano formale, le vittime non hanno modo di rivendicare i propri diritti e ottenere i dovuti risarcimenti. Tuttavia, sul piano sostanziale, è chiaro che lo scioglimento della società B è frutto del controllo esercitato su di essa da parte della società madre A. Proprio in virtù di questo controllo sostanziale, la giurisprudenza ha aggirato l’ostacolo della responsabilità limitata attraverso il meccanismo del “piercing the corporate veil” (letteralmente, squarciare il velo delle società) tramite il quale viene attribuito rilievo al rapporto sostanziale tra le società del gruppo. Questo significa che, ove sia individuabile l’esercizio di un vero e proprio controllo a livello sostanziale da parte della società madre sulle decisioni e attività delle società figlie, è possibile individuare una sorta di responsabilità della società A per le violazioni commesse da parte della società B. Ciò nonostante. è proprio nello “squarciare il velo” che si presenta il secondo e fondamentale problema, quello dell’extraterritorialità. Infatti, se una multinazionale è un’impresa che organizza il proprio sistema produttivo in due o più paesi diversi, è facilmente intuibile che la società madre sarà collocata in un paese diverso, e dunque in una giurisdizione diversa, da quello in cui avvengono le violazioni e in cui opera la società controllata. Tra le diverse proposte avanzate per superare il problema, una delle più recenti è il ricorso all’Alien Tort Claims Act del 1789 (ATCA) , sezione del United States Code. Questo atto stabilisce che le corti federali statunitensi hanno giurisdizione su azioni civili proposte da non americani per violazioni del diritto internazionale consuetudinario o di trattati ratificati dagli Stati Uniti. La storia di questo atto ha coinvolto più casi giudiziari, tra i quali il più recente è Kiobel vs Royal Dutch Petroleum, dove la Royal Dutch Petroleum è proprio una multinazionale portata in giudizio da cittadini nigeriani con l’accusa di aver favorito e aiutato il governo nigeriano a commettere violazioni dei diritti umani nell’attività di estrazione di petrolio. Questo caso è piuttosto emblematico, infatti nè attore nè convenuto sono americani, pertanto la decisione ruota tutto intorno all’applicazione extraterritoriale di questo atto. Dopo il primo rigetto nel 2010, il caso si è concluso il 17 aprile 2013 con una sentenza della Suprema Corte Federale che ha rigettato l’applicazione dell’ATCA al di fuori degli Stati Uniti. Sembra, dunque, che fino ad ora il problema dell’extraterritorialità non possa essere superato e che, pertanto, la questione sia ancora rimessa agli Stati. Infatti, solamente tramite il riconoscimento di responsabilità attraverso la legislazione nazionale si potrebbe mettere fine al problema di un’applicazione extraterritoriale di sanzioni. Questo sarebbe il risultato auspicabile ma facilmente raggiungibile, dato il conflitto di interesse degli stati e la difficoltà di ottenere una legislazione di questo genere in un numero considerevole di paesi. Tuttavia, la complessità dell’argomento non termina qui. Come dimostrano gli ultimi avvenimenti in Bangladesh, spesso il peso delle multinazionali e il loro ruolo nella commissione di violazioni dei diritti umani non avviene solo tramite il controllo di società figlie ma anche mediante rapporti contrattuali con fabbriche situate in paesi in via di sviluppo, dove notoriamente il lavoro è meno garantito e lo sfruttamento di risorse umane e naturali è all’ordine del giorno. In questa fattispecie, la società madre A, controlla la società figlia B la quale, a sua volta, ha relazioni contrattuali con la società Y situata in Bangladesh e notevolmente sottodimensionata rispetto ad A e B, la quale, per mantenere basso il costo del lavoro, sfrutta i lavoratori e non ne garantisce sicurezza e igiene. In questa situazione, ciò che rileva è la disparità di potere contrattuale tra Y e B. Infatti, Y e il governo del Bangladesh non hanno alcun incentivo a migliorare le condizioni dei lavoratori poichè un tale intervento aumenterebbe il costo del lavoro, portando via gli investimenti di B, e di tutte le società come B, unica fonte di sostentamento dell’economia del paese. In una tale situazione, l’influenza delle multinazionali è ancora più sottile, sebbene centrale, e perciò è ancora più difficile identificare una responsabilità legale per esse. Ciononostante, dopo i grandi scandali di Nike, Ikea e altre multinazionali sul lavoro minorile, alcuni grandi gruppi hanno iniziato ad assumere codici di condotta che impongono, sempre per mezzo di clausole contrattuali, anche alle società minori (non controllate) presso cui affidano parte della produzione. Il problema, in questo caso, è la difficoltà di esercitare l’accertamento del rispetto di queste condizioni. Molte società si avvalgono di verifiche condotte da organi esterni, come organizzazioni non governative, ma spesso le società interessate adottano le misure conformi alle clausole solo per il periodo di tempo dell’ispezione, rendendo queste misure totalmente inefficaci. Ad ogni modo, quando la relazione tra società è di tipo contrattuale, il più grande ostacolo da sormontare è la natura volontaria delle misure da prendere per contrastare le violazioni commesse. Un esempio è l’Accordo sulla sicurezza degli stabilimenti e per gli incendi in Bangladesh, redatto a maggio 2013 e inserito in un piano di intervento nazionale bengalese, che contiene disposizioni di controllo e miglioramento delle condizioni di sicurezza per i lavoratori bengalesi. Tuttavia, essendo un accordo, esso ha natura volontaria e la sua efficacia è rimessa al numero di società che decideranno di adottarlo. Dunque, extraterritorialità e natura volontaria sono due ostacoli che ad oggi impediscono il pieno riconoscimento di una responsabilità legale delle multinazionali per le violazioni dei diritti umani commesse da società controllate o società con cui hanno relazioni contrattuali derivanti da una notevole disparità di potere contrattuale. Tuttavia, il dibattito è più che mai acceso, forse in attesa o in auspicio di una maggiore presa di coscienza da parte degli attori politici internazionali per eccellenza, gli Stati. REBECCA RAVALLI Licenze fotografie: Foto 1: “industries_building”: foto di numb3r, licenza CC BY-SA, www.flickr.com Foto 2: “STOP WAL-MART”: foto di Lone Primate, licenza CC BY-NC-SA, www.flickr.com I CIE: questi sconosciuti I CIE sono una realtà molto nascosta nel nostro paese. Partendo dal recente episodio di Ponte Galeria, l’articolo propone un viaggio all’interno di uno di essi, il cie di Torino.Il 18 febbraio, presso il CIE di Ponte Galeria, in provincia di Roma, un gruppo di immigrati, per lo più nigeriani, ha dato fuoco ad alcuni materassi e suppellettili in segno di protesta contro un decreto di espulsione rivolto a uno degli ospiti nigeriani del centro. Approfittiamo di questo episodio per fornire una panoramica sui Centri di Identificazione ed Espulsione (ex CPT), strutture trascurate dai sistemi di informazione ma che meritano un attento esame, al fine di giudicare coscienziosamente circostanze come la protesta di Ponte Galeria. Da un punto di vista normativo, i CIE sono parte dell’attuazione della Direttiva 2008/115/CE, adottata dal Parlamento Europeo e dal Consiglio dell’Unione Europea il 16 dicembre 2008, “recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare”. Come è noto, le direttive europee sono atti che vincolano lo stato membro cui è rivolta “per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi “ (art.288.TFUE), ciò significa che devono essere “recepite” a livello nazionale tramite legge primaria che, in Italia, è emanata solitamente a giugno sotto il nome di “Legge Comunitaria”. La “direttiva vergogna”, così è stata battezzata la 2008/115 per la durezza delle sue previsioni, si è tradotta, in Italia, in una modifica del “Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”, il quale all’art.13. prevede l’espulsione dello straniero privo di permesso di soggiorno valido tramite decreto di espulsione motivato di natura amministrativa. Tale decreto contiene l’intimazione a lasciare il territorio dello Stato entro il termine di quindici giorni (la “partenza volontaria” dell’art.7. della direttiva) e contro di esso può essere presentato unicamente ricorso al pretore entro cinque giorni dalla comunicazione del decreto o del provvedimento. Una volta espulso, lo straniero per cinque anni non potrà rientrare nel territorio dello Stato senza una speciale autorizzazione del Ministro dell’interno. Ma è all’art.14. che il Testo Unico prevede il “trattenimento”(corrispondente di “detention” nella versione inglese della direttiva, a dimostrazione che di vera e propria limitazione della libertà personale si tratta) stabilendo, al primo comma, che quando non sia possibile eseguire l’espulsione immediata, il questore dispone che lo straniero sia trattenuto in un centro di identificazione ed espulsione “per il tempo strettamente necessario” che, in accordo con la direttiva, non può superare i 18 mesi. L’art.14. continua stabilendo che il trattenimento dello straniero avviene seguendo modalità che garantiscono “la necessaria assistenza e il pieno rispetto della sua dignità.” Purtroppo, se già sulla carta la direttiva si dimostra molto severa, nella realtà lo è ancora di più. Il rapporto Betwixt and Between, elaborato dall’ International University College of Turin tra il 2011 e il 2012 sulla base di testimonianze, descrive dettagliatamente le condizioni di detenzione nel CIE di Torino. Tenendo presente che gli ospiti, spesso, hanno una famiglia, il primo aspetto da considerare è il diritto al rispetto della vita privata e familiare, tutelato, a livello europeo dalla stessa direttiva 2008/115 e dall’art.8. della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Tale articolo, al secondo comma, proibisce l’ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che essa non sia necessaria per ragioni di sicurezza e ordine pubblico. Tra le testimonianze raccolte dal gruppo di ricerca, emergono diverse situazioni in cui gli ospiti del centro sono separati da moglie/marito italiano o da figli, spesso residenti in città italiane molto lontane dal centro. In merito alla condizione dei minori, sebbene l’ordinamento italiano non abbia recepito la previsione della direttiva che contempla la detenzione minorile, bisogna considerare che la separazione dal genitore viola l’interesse superiore del bambino, tutelato in numerose dichiarazioni/convenzioni internazionali, tra cui, su tutte, la Convenzione sui diritti dell’infanzia che, all’art.3. sancisce l’obbligo per gli Stati a tenere in preminente considerazione l’interesse superiore del fanciullo in tutte le decisioni relative ai fanciulli, in cui possiamo includere i decreti amministrativi che ordinano la detenzione nel CIE. Dal momento che il periodo di detenzione dura mesi , che nonostante all’interno del CIE le visite siano concesse, su eccezione, ai familiari, essi spesso vivono in regioni lontane da quella in cui è ospitato lo straniero, e che le ore di visita sono solitamente sfruttate da avvocati e personale diplomatico per relazionarsi con l’ospite, il rapporto genitore/figlio risulta fortemente ostacolato, in inequivocabile violazione della Convenzione. Un altro aspetto interessante, tra i molti analizzati dal gruppo di ricerca torinese, è il confronto tra le condizioni di detenzione del carcere con quelle del CIE. Dal rapporto, infatti, emerge chiaramente che gli ospiti ritenevano le condizioni del carcere nettamente migliori di quelle del CIE per diverse ragioni. Innanzitutto, mentre in prigione le regole da seguire per convivere con gli altri detenuti sono chiare e i detenuti conoscono il termine della loro pena, nel CIE non è così. Non solo non ci sono precise regole di condotta, ma l’ospite non sa quando potrà lasciare la struttura. Questa mancanza di certezza procura notevole pressione psicologica ed ansia, come è facile immaginare. Inoltre, i testimoni dichiarano che, mentre in carcere i detenuti possono impegnarsi in qualche attività (imparare un mestiere, lavorare, intraprendere studi universitari, cucinare, fare sport), il CIE non ne prevede alcuna, senza considerare che, se già le carceri italiane sono notoriamente sovraffollate, alcuni ospiti hanno riscontrato un sovraffollamento ulteriore nel CIE (sei persone per cella nel CIE contro le tre del carcere). È ancora interessante notare che, mentre l’istituzione di vigilanza del carcere è la Polizia Penitenziaria, nel CIE la stessa funzione è affidata ad organi militari che, al contrario del loro corrispondente carcerario, non sono addestrati ad operare in ambienti penitenziari, comportando tensioni e difficile comunicazione tra ospiti e sorveglianti. Il rapporto Betwixt and Between continua, poi, delineando criticità riguardo agli aspetti sanitari, alimentari e allo spazio condiviso dagli ospiti nel CIE, aspetti che fanno perlomeno dubitare del pieno adempimento del rispetto della dignità umana all’interno del centro, come sancito dalla direttiva 2008/115. Le condizioni negli altri CIE di Italia, purtroppo, non sono molto diverse, tanto che non sono pochi i casi in cui i detenuti arrivano a compiere atti di automutilazione, sciopero della fame, suicidio. Tralasciando gli aspetti legati al processo amministrativo che decide in merito all’espulsione dello straniero, dagli elementi analizzati si possono già trarre alcune considerazioni. In primo luogo, è rilevabile come il “trattenimento” nasconda, in realtà, una vera e propria detenzione. É, dunque, legittimo chiedersi se non siamo in presenza di una violazione dell’art.5. della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali che tutela il diritto alla libertà e alla sicurezza, diritto ampiamente tutelato anche a livello internazionale dall’art.9. del Patto sui diritti civili e politici e dagli artt.3. e 9. della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo. In secondo luogo, dall’analisi effettuata, occorre chiedersi se le condizioni del CIE non rientrino nella definizione di “trattamenti disumani e degradanti”. Se così fosse, saremmo in presenza di ulteriori violazioni del diritto internazionale ed europeo. Infine, possiamo giudicare con occhi diversi gli episodi di protesta , non per giustificarne la violenza ma per provare a cogliere, nella loro drasticità, il messaggio disperato di un essere umano che chiede di essere considerato tale. REBECCA RAVALLI Licenza fotografica: Foto di Fibonacci Blue, licenza CC BY, www.flickr.com