La ricezione della teoria dell`attaccamento

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La ricezione della teoria dell`attaccamento
La ricezione della teoria dell’attaccamento
nella cultura psicologica italiana
Intervista a Nino Dazzi
I: Prof. Dazzi, ci può raccontare in che modo lei si è avvicinato alla teoria
dell’attaccamento, e in che modo questa teoria e la Adult Attachment Interview sono
arrivate in Italia?
D: Nel 1975, poco dopo essere diventato uno dei docenti del corso di laurea in
Psicologia, istituito nel 1971, andai in America, assieme al collega Gian Vittorio
Caprara, alla New York University, per un periodo di studio con Robert Holt, che aveva
organizzato un corso molto rigoroso sulla psicoanalisi. Andai anche a visitare Lester
Luborsky, all’Università della Pensylvania, perché avevo in testa un pallino, che negli
anni a venire mi avrebbe portato a pubblicare con Massimiliano Conte il libro su La
verifica empirica in psicoanalisi: volevo capire se e come la psicoanalisi potesse essere
resa più scientifica1.
E’ evidente che, oltre a vicissitudini personali, ero molto influenzato dalla
mia formazione in filosofia e storia della scienza. Avevo infatti studiato con particolare
interesse il pensiero di alcuni autori comportamentisti, tra i quali Clark Hull, che negli
anni trenta del novecento avevano cercato di verificare con sperimentazioni rigorose
alcune proposizioni della teoria psicoanalitica. Ma, come tutti sanno, questo tentativo
non è andato a buon fine, sia perché il comportamentismo ha lentamente ma
inesorabilmente ceduto il passo al cognitivismo, sia perché è cambiata l’espistemologia,
che non è più alla ricerca di un’unificazione globale delle scienze e dei saperi.
Quindi, tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, ero ancora alla
ricerca, se non di risolvere il problema epistemologico da cui ero partito, almeno di
dargli maggiore concretezza, ed ebbi modo di avere vari contatti con un grande
studioso, che poi è diventato anche un amico, Daniel Stern. Tanto che proprio nel 1987,
anno della sua pubblicazione in Italia, presentai a Siena in anteprima il suo libro su Il
mondo interpersonale del bambino 2, in un bel contraddittorio con alcuni illustri
psicoanalisti. Successivamente, Stern, che era stato un punto di riferimento per un
gruppo di colleghi di formazione analitica interessati alla ricerca sull’infanzia, tra cui in
particolare Massimo Ammanniti, cominciò a parlarci della teoria dell’attaccamento. Per
la verità, la teoria dell’attaccamento era sufficientemente nota, e ugualmente criticata, in
ambito psicoanalitico, mentre Stern evidentemente ne aveva un’opinione diversa, e ci
disse che qualcuno aveva elaborato un interessante strumento di valutazione
dell’attaccamento adulto, o meglio dello stato della mente rispetto all’attaccamento
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Conte, M., Dazzi, N. (1988). La verifica empirica in psicoanalisi. Il Mulino, Bologna.
Stern, D., (1985). Il mondo interpersonale del bambino. Tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1987.
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nell’adulto: questo qualcuno era Mary Main, un’allieva di Mary Ainsworth 3. Visto che
avevamo già organizzato, con Stern, un interessante simposio con alcuni importanti
esponenti della developmental psychopatology, in particolare Arnold Sameroff, Charles
Zeanah e Arietta Slade, Stern ci disse: “Perché non prendete contatti con Mary Main e
non la invitate in Italia?”. E così facemmo.
All’inizio del 1989, Mary Main venne a farci un corso sulla Adult
Attachment Interview all’Università di Roma – fino ad allora ne aveva fatti pochissimi,
per lo più negli Stati Uniti. A quel corso parteciparono un po’ tutti quelli che ancora
oggi sono i più importanti studiosi italiani di attaccamento: Massimo Ammaniti, Grazia
Attili, Gianni Liotti, Sergio Muscetta e Annamaria Speranza, solo per fare qualche
nome. Fu un corso molto interessante e molto dibattuto, molto vivace, tanto è vero che
la Main ne uscì “stremata” e ci disse che non gliene avevamo “passata nessuna”, ed era
vero, perché la codifica della AAI permette di dibattere anche su tematiche
metodologiche ed epistemologiche più ampie. Le contestammo addirittura espressioni
inglesi, come se non fosse lei di madrelingua, ma noi. E questo fu l’inizio di tutto.
I: Ci può ricordare qualcuna delle tematiche dibattute in quel corso?
D: Credo che discutemmo del concetto di “scale della probabile esperienza”,
della “earned sicurity” e soprattutto della filosofia che, per così dire, ispira la teoria
dell’attaccamento, in particolare l’aspetto della coerenza. Allora forse non ci rendevamo
neppure del tutto conto di quanto la AAI sia un’operazionalizzazione molto intelligente
di una serie di tematiche della teoria dell’attaccamento.
Negli anni a venire la Main tornò varie volte in Italia e facemmo con lei
un supplemento di corso. Invitammo anche Inge Bretherton, un’allieva di Mary
Ainsworth meno legata della Main alla teoria dell’attaccamento e forse più legata alla
psicoanalisi. E poi io e Ammaniti andammo a fare un altro corso quasi personale in
Olanda, a Leida precisamente, dove la Main è stata per un lungo periodo, attivando una
collaborazione con Marinus Van Ijzendoorn per mettere a punto le caratteristiche
psicometriche della AAI. In quell’occasione facemmo anche una sorta di
dibattito/addestramento sulla nuova dimensione dell’attaccamento irrisolto che la Main
aveva appena introdotto.
I: E così siamo arrivati all’inizio degli anni ’90
D: Sì, siamo nei primi anni ’90. Nel 1991 andai a trovare la Main a Berkeley e
lessi in anteprima il suo interessantissimo articolo sulla metacognizione 4. In realtà,
però, andai a Berkeley perchè già mi trovavo a San Francisco dove stavo seguendo un
corso con Weiss sulla sua control-mastery theory. Quindi, posso dire di aver fatto due
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Main, M., Kaplan, N., e Cassidy, J. (1985). “Valutazione della sicurezza nella prima infanzia, nella seconda infanzia e
nell’età adulta: il passaggio a livello rappresentazionale”. Tr. it. in Main, M. (2008). L’attaccamento. Dal
comportamento alla rappresentazione. Raffaello Cortina, Milano pp. 125-170.
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Main, M. (1991). “Conoscenza metacognitiva, monitoraggio metacognitivo e modello di attaccamento unitario
(coerente) vs. modelli di attaccamento multiplo (incoerente): dati e indicazioni per la futura ricerca”. Tr. it. in Main, M.
(2008). L’attaccamento. Dal comportamento alla rappresentazione. Raffaello Cortina, Milano pp. 213-249.
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corsi e mezzo sulla AAI, due in Italia e uno a Leida, presente anche Van Ijzendoorn,
tenuto sempre dalla Main e Eric Hesse, cosa che mi ha messo in una sorta di posizione
privilegiata perché sono pochi quelli che hanno ripetuto il corso più volte. Infine, nel
1997 la Main prese un’interessante iniziativa, quella di un corso di formazione per
insegnare la AAI, un corso di meta-livello, diciamo così, con solo quattro frequentanti.
I: Chi erano gli altri tre, oltre lei ?
D: June Sroufe, psicologa clinica del Minnesota, David Pederson, uno psicologo
canadese che ha scritto cose molto interessanti sull’attaccamento, e Deborah Jacobwitz,
dell’Università di Austen, in Texas, con cui faccio tutt’ora i corsi sulla AAI. Questi
sono i quattro vecchi trainers, poi se ne sono aggiunti altri, per cui oggi siamo nove o
dieci. Questa è la mia vicenda personale.
Poi mi aveva chiesto in che modo l’attaccamento è entrato in Italia? Io
credo sia entrato, per così dire, dalla porta di servizio, nel senso che qualche collega
psicobiologo forse se ne è interessato, ma non è mai stata una tematica di grandissimo
spicco, forse perché è stata sempre vista come un tentativo di rendere maggiormente
scientifica la psicoanalisi, più che un’impresa dal valore autonomo. E qui si apre un
altro pezzo di storia, che è quella dell’introduzione della teoria dell’attaccamento nella
psicologia clinica, italiana intesa in senso ampio, e a questo proposito dobbiamo
necessariamente menzionare Gianni Liotti. Liotti prese contatti con Bowlby, lo andò a
trovare molte volte e diventarono amici, ed è proprio Liotti la persona a cui si deve, da
un punto di vista teorico, l’introduzione della teoria dell’attaccamento in Italia.
I: Peraltro, Liotti è l’unico italiano, assieme a Guidano, che Bowlby cita spesso
nei suoi ultimi lavori e nelle sue ultime interviste
D: Esatto, e Liotti aveva naturalmente la possibilità di tradurre e utilizzare la
teoria dell’attaccamento anche in ambito clinico, ed è ancora il suo maggiore
rappresentante in Italia. A mio parere, però, l’attaccamento non ha sfondato né in
ambito cognitivo né in ambito psicoanalitico. Oltre a Liotti, comunque, in Italia c’è
stato anche un altro gruppo di psichiatri con interessi etologici che lavora a Roma Due,
tra gli altri Alfonso Troisi, che si è interessato alla teoria dell’attaccamento e ha curato
la prima edizione italiana del Manuale dell’Attaccamento5 con l’editore Fioriti; la
seconda edizione del Manuale 6, sempre di Jude Cassidy e Phillip Shaver, l’ho curata io
stesso con Francesco De Bei, e offre una panoramica esaustiva sulla teoria
dell’attaccamento.
La teoria dell’attaccamento ha generato un ampio corpus di ricerche,
quindi, mentre lo studio delle sue implicazioni cliniche si è sviluppato più lentamente,
per lo più negli Stati Uniti, e adesso timidamente anche in Italia: per esempio, Massimo
Ammaniti, Sergio Muscetta e io abbiamo collaborato al volume sulle applicazioni
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Cassidy, J., Shaver, P.R. (1999) Manuale dell'attaccamento. Teoria, ricerca e applicazioni cliniche. Tr. it. Giovanni
Fioriti, Roma, 2002.
6
Cassidy, J., Shaver, P.R. (2008) Manuale dell'attaccamento. Teoria, ricerca e applicazioni cliniche. Seconda
Edizione. Tr. it. Giovanni Fioriti, Roma, 2010.
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cliniche della AAI edito da Howard e Miriam Steele7, pubblicato un paio di anni fa, e si
sta cercando di vedere che utilità questa intervista possa avere per la pratica clinica. Ma
quale clinica? Ecco, personalmente dubito che, tranne rare eccezioni, l’attaccamento
possa essere utilizzato nella clinica psicoanalitica, mentre Liotti lo utilizza molto. Va
inoltre notato che in Italia c’è stata anche in qualche misura la diffusione di un altro
sistema di valutazione dell’attaccamento, sviluppato da una ex allieva della Ainsworth,
Patricia Crittenden, e questo sistema è particolarmente gradito a cognitivisti e
relazionali e molto poco a quelli che, come noi, si sono formati al sistema della Main.
Comunque, i libri della Crittenden sono stati tradotti in Italia e hanno avuto una qualche
circolazione. Un terzo strumento di valutazione dell’attaccamento è stato usato invece
dal gruppo di Padova diretto da Adriana Lis. Si tratta di una forma proiettiva dell’Adult
Attachment, quella di Carol George e Geoge West, anche la George è un’allieva di
seconda generazione dei vecchi attaccamentisti. Tornando alla AAI, abbiamo cercato di
divulgarla in vari modi, soprattutto in alcune scuole di specializzazione, facendo corsi
per la codifica che sono stati frequentati per lo più da persone interessate alla ricerca e
che poi hanno fatto un qualche loro percorso accademico.
Vedo invece realisticamente molto meno diffusa e diffondibile la teoria
dell’attaccamento e l’Adult Attachment Interview in ambito psicoanalitico, non solo
italiano. Ho letto di recente una serie di contributi molto onesti sul piano intellettuale in
cui ritorna la solita opposizione tra psicoanalisi e teoria dell’attaccamento, con gli
psicoanalisti che sostengono che la teoria di Bowlby è una teoria per così dire “fredda”,
cioè priva della ricchezza necessaria a chi fa clinica, posizione indubbiamente legittima.
Quindi, ho l’impressione che gli analisti che non disprezzano la teoria dell’attaccamento
la tengono però comunque, per così dire, sullo sfondo; altri non la tengono affatto in
considerazione.
I: In conclusione, potrebbe azzardare qualche previsione sugli sviluppi futuri
della teoria dell’attaccamento in Italia?
D: Tra due anni il convegno internazionale sulla teoria dell’attaccamento si terrà
proprio in Italia, a Pavia, e siamo tutti impegnati in questa impresa. Poi ci sono varie
scuole di specializzazione, di diverso orientamento, che mettono l’attaccamento tra le
tematiche di formazione. Quindi, credo che la teoria dell’attaccamento sarà sempre più
conosciuta, ma non so quanto accettata. Questo, secondo me, è il vecchio paradosso di
Bowlby, che continuava a dirsi psicoanalista mentre si potrebbe ricostruire la storia
della teoria dell’attaccamento senza quasi parlare di psicoanalisi, superando così varie
diatribe, la principale delle quali si esprime nelle seguenti domande: la teoria
dell’attaccamento è una variante della teoria psicoanalitica o no? E’ utile o no alla
psicoanalisi? Un tentativo in questo senso, quello cioè di ricostruire un percorso
biografico e intellettuale dove non risulti preminente il rapporto con la psicoanalisi, è il
recente lavoro su Bowlby scritto da van der Horst 8.
7
Steele, H., Steele, M. (2008). Adult Attachment Interview. Applicazioni cliniche. Tr. it. Raffaello Cortina, Milano
2010.
8
van der Horst, F. C. P. (2011), John Bowlby. From Psychoanalysis to Ethology: Unravelling the Roots of Attachment
Theory. Wiley, New York.
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Un autore che ha fatto il massimo sforzo per tentare di inglobare la teoria
dell’attaccamento in un modello psicoanalitico, a parte Peter Fonagy, è stato Stephen
Mitchell. Nel suo ultimo libro sulla relazionalità 9, Bowlby ha un ruolo pari a quello di
Sullivan, Fairbairn e gli intersoggettivisti. E poi c’è Joseph Lichtenberg, che ha
assimilato la teoria dell’attaccamento nel suo modello dei sistemi motivazionali e ha
avuto più di un confronto con Liotti su questo tema. Anche se i loro modelli della
motivazione hanno delle discrepanze, tutto sommato sono molto simili. Lichtenberg ha
dato grande impulso alla teorizzazione psicoanalitica post-kohutiana, e i suoi libri sono
effettivamente fondamentali; da questo punto di vista, attraverso Lichtenberg la teoria
dell’attaccamento potrebbe essere almeno in parte assimilata dagli psicoanalisti, ma
comunque non nella sua forma pura.
9
Mitchell, S. (2000). Il modello relazionale. Dall’attaccamento all’intersogettività. Tr. it. Raffaello Cortina, Milano
2002.
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