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Sapienza, saggezza, cura. La filosofia di fronte alla pratica
Maria Bettetini
Cura dell’anima: prima di Agostino
e dopo Freud
È ormai venuta l’ora di andare: io a morire, e voi, invece, a vivere. Ma chi
di noi vada verso ciò che è meglio, nessuno lo sa, solo il dio lo sa.
Le parole di commiato che Socrate rivolse agli Ateniesi al termine del suo
processo, così come sono riportate da Platone, potrebbero essere segno di
come i Greci intendevano l’aldilà: un’altra vita, forse, ma non migliore di
questa, forse (Socrate poche righe prima aveva parlato di “un lungo sonno”
o di passeggiate nei Campi Elisi come possibilità entrambe valide). Niente
di strano, non fosse che Platone fa dire allo stesso suo maestro ben altro,
nella Repubblica, ma anche nel Fedro: l’anima è certo immortale, e l’attende un destino di premio o punizione, e tante possibili reincarnazioni fino
a una sorta di divinizzazione, che spetterebbe al filosofo, colui che più di
tutti si è avvicinato alle cose divine. E però il testo sacro della grecità tutta,
l’opera di Omero, ancora una volta smentisce e riporta a una ben diversa e
trista concezione della sopravvivenza dell’anima, se di anima si può parlare.
Nell’undicesimo libro dell’Odissea, Achille, ormai nell’Ade, rifiuta gli omaggi del vivo Ulisse: “Non lodarmi la morte, splendido Odisseo”, perché “vorrei
essere un bifolco, servire un padrone”, piuttosto che “dominare su tutte
l’ombre consunte”. Privo di ogni dignità, ma sotto la luce del sole, più preziosa di ogni principato, vorrebbe essere Achille, lo stesso che nell’Iliade
aveva dedicato a Patroclo imponenti cerimonie funebri, e grida e preghiere:
per ottenere cosa, se il suo destino era comunque di essere ombra tra le ombre?
Per farlo vivere nella memoria? Per strappare agli dei un destino diverso?
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La cura dell’anima, qualunque realtà si intendesse, non è concetto estraneo all’antichità. E nemmeno i rischi e le ambiguità a questa connesse:
“conosci te stesso” era l’imperativo scritto sul frontone del tempio di Apollo
a Delfi e l’indicazione che riassumeva tutta la filosofia di Socrate. Eppure
nelle Metamorfosi di Ovidio si legge che Tiresia preannunciò a Narciso
morte precoce “se avesse conosciuto se stesso”. La dedizione a se stessi si
annuncia quindi insieme come via al senso dell’esistere e percorso irto di
mortali pericoli. Molti sono gli scritti che danno indicazioni su come affrontare una “cura” che è anche cammino di formazione, ma il primo a raccontare in prima persona un’esperienza di vita interiore è Agostino di Ippona
nei tredici libri delle Confessioni. Il retore africano, vescovo e dialettico,
fondatore di molte idee che ancora muovono il nostro Occidente (tra queste
memoria, tempo, storia, relazione, libertà), per primo osa raccontare cosa
accade a un’interiorità inquieta e filtra consigli pastorali sulla cura della
propria anima attraverso un sapiente raccontare. Un punto fermo nella storia
dell’uomo che guarda se stesso, che conosce se stesso fino al limitare della
voragine dell’inconscio che il Novecento non ha temuto di tentare.
Con la “Cura dell’anima prima di Agostino e dopo Freud” si traccia un
percorso piuttosto ampio, di cui naturalmente non si potranno toccare tutte
le tappe. Sarà opportuno innanzitutto soffermarsi sul significato del termine
“cura” e su come s’intenda il termine “anima” prima di Agostino. Utilizzeremo dunque Agostino come snodo centrale del percorso, tracciando prima
una breve storia del concetto di “anima” e di “cura dell’anima” nel mondo
antico, per poi gettare un rapido sguardo sul “dopo Freud”, uno scenario che
riguarda più la psicologia della filosofia.
Potremmo iniziare col domandare: “Cos’è l’anima?”. Sicuramente nessuno di noi sarebbe in grado di definirla in due parole. Negli affreschi medioevali in cui compare una persona morente, un santo o una Madonna, veniva
dipinta una sorta di bambina che usciva dalla bocca del moribondo, detta
animula. Questo dimostra quanto fosse forte il bisogno di dare una rappresentazione tangibile a quel qualcosa di spirituale, e quindi sfuggente e ineffabile, chiamato “anima”. Anima deriva dal latino animus, che significa vento.
Testi di filosofi latini spesso non distinguono tra anima/animus, mens, spiritus
e cor. Spesso per indicare il principio vitale vengono utilizzate quindi espressioni che indicano la sua possibile sede, come il cuore, o anche, presso
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il popolo ebraico, il diaframma. In molte religioni si trova l’idea di un qualcosa di immateriale che risiede all’interno (o a volte anche all’esterno) del
corpo, il “mala”, un qualcosa che viene “donato” e che sopravvive alla morte
del corpo. Si può quindi affermare che, quando parliamo di anima, ci riferiamo a un principio vitale che, di volta in volta, è stato collocato in diversi
luoghi del corpo dell’uomo e che però va oltre la corporeità.
Vediamo ora che cosa s’intende col termine “cura”. Da due decenni continua a essere molto amata l’omonima canzone di Battiato, che dice: “Ti proteggerò dai dolori / dalle tue paure” e conclude con “ed io / avrò cura di te”.
Aver cura di una persona, nella parlata comune, significa provare una sollecitudine affettuosa che porta a preoccuparsi di lei, a starle vicino, a cercare
di affrontare insieme le difficoltà della vita. Equivale insomma a una sorta
di “Io ti salverò”, come recita il titolo del film di Hitchcock. Nel parlare di
cura non si può non fare riferimento a Martin Heidegger. La cura (Sorge)
caratterizza secondo Heidegger il modo in cui complessivamente ci si pone
di fronte alle persone e alle cose. La cura può essere autentica o inautentica:
è inautentica se ci si prende cura dell’altro cercando di sollevarlo dalle sue
preoccupazioni facendosene carico; è invece autentica se si aiuta l’altro ad
assumerle e ad affrontarle. Soltanto in questo secondo modo si apre agli
altri la possibilità di trovare se stessi e quindi di realizzarsi.
Ma con la parola cura si intende anche molto più semplicemente un percorso che porta alla guarigione da un male, come quando diciamo “Ho un
raffreddore, mi devo curare”. La cura in questa accezione è sinonimo di
trattamento che guarisce da un malanno e ristabilisce la condizione di salute.
Già la psicoterapia, la psicologia e la psichiatria non intendono più la cura
in questo modo, ma la intendono piuttosto come aiuto alla ricerca di un
senso. La cura che queste forme di terapia offrono alla persona che soffre
non tende alla risoluzione definitiva di un malessere, bensì ad attivare una
comprensione di sé e dei fatti della propria esistenza che porta ad accettare
meglio le situazioni della vita. A maggior ragione una cura che abbia basi
filosofiche non potrà mai pretendere di condurre a soluzioni definitive,
perché la filosofia è un cammino faticoso e mai compiuto che, come migliore
risultato, ha quello di indurre a continuare a porre domande, imparando a costruire le domande corrette, che indirizzano verso risposte adeguate.
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Per trattare di anima e di cura il percorso prende l’avvio da due opere
che sono alle radici del pensiero occidentale: l’Iliade e l’Odissea. Non è
chiaro se si possa attribuirli a un autore unico, Omero, e se questa figura sia
realmente esistita; in ogni caso, all’interno di questi due poemi si trovano
due passaggi estremamente importanti, nei quali si è creduto di rintracciare
la prima volta in cui l’uomo si è reso conto di avere un “io” dal quale poter
prendere le distanze e a cui parlare. Si tratta della diversa reazione, da parte
di Achille e di Ulisse, a un forte sentimento di ira.
Nel I libro dell’Iliade lo scenario si apre proprio sull’ira funesta del pelide
Achille, al quale Agamennone ha appena rifiutato di restituire Criseide:
[...] al Pelide venne dolore, il suo cuore
Nel petto peloso fu incerto tra due:
se, sfilando la daga acuta via dalla coscia,
facesse alzare gli altri, ammazzasse l’Atride,
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o se calmasse l’ira e contenesse il cuore.
Achille, in preda alla rabbia, è indeciso se ammazzare Agamennone o
calmare invece l’ira e contenere il cuore, ma non si sofferma nemmeno un
istante a riflettere e afferra la spada, quando improvvisamente appare la dea
Atena, inviata da Era, che teme sia per Agamennone che per Achille:
E mentre questo agitava nell’anima e in cuore
E sfilava dal fodero la grande spada, venne Atena
Dal cielo; l’inviò la dea Era braccio bianco,
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Amando ugualmente di cuore ambedue e avendone cura.
Atena afferra Achille per la bionda chioma, trattenendolo. Questo è l’unico modo per impedire che, accecato dall’ira, uccida Agamennone senza
curarsi del danno che il suo gesto avrebbe arrecato per le sorti della guerra.
Sono gli dei che devono aver “cura” di uomini incapaci di pensare a se
stessi e agli altri. Achille, orgoglioso, si volge infuriato ad Atena e le chiede
il motivo del suo gesto. Atena risponde:
1
2
Omero, Iliade, traduzione di Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino, 1974, I, 188-192.
Ivi, I, 193-196.
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“Io venni a calmar la tua ira, se tu mi obbedisci,
Dal cielo: mi inviò la dea Era braccio bianco,
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Ch’entrambi ama di cuore e cura.”
Atena chiede ad Achille di reprimere la sua ira e in cambio gli promette
dei doni. Achille obbedisce e si ferma, ma soltanto per il desiderio di ricevere
la ricompensa promessa dalla dea, come un bambino che interrompe i capricci in vista di un premio migliore di quello per cui sta piangendo.
Ben diverso è l’atteggiamento di Ulisse nel XX libro dell’Odissea. Ulisse
è tornato a casa, travestito da mendicante, e alla fine della serata vede i
Proci che vanno a coricarsi, seguiti dalle schiave che erano solite unirsi a loro
e che una all’altra auguravano “riso e piacere”. Nel petto di Ulisse si gonfia
il furore: egli è incerto nell’anima e nel cuore se avventarsi e dar morte a
tutte le donne, vendute ai Proci, oppure lasciarle godere per l’ultima notte e
meditare invece una vendetta più fredda e più profonda:
Nel petto di lui si gonfiava il furore;
Molto era incerto nell’anima e in cuore,
Se avventarsi a un tratto e dar morte a tutte,
O ancora lasciar che facessero coi pretendenti l’amore
Per l’ultima volta; il cuore gli latrava di dentro.
Come una cagna, che i teneri cuccioli bada,
Se non riconosce l’uomo, latra e si tien pronta a combattere,
Così dentro latrava il suo cuore, sdegnato dalle azioni malvage.
Ma, comprimendo il petto, rimproverava il cuore:
“Sopporta, cuore […]”.4
Ulisse comprime il suo cuore, lo rimprovera e gli dice di sopportare.
Questo imperativo rivolto al cuore è interpretato dagli studiosi come il
primo momento nella storia del pensiero occidentale in cui un uomo si è
reso conto di potersi rivolgere al suo cuore e di intavolare quindi un dialogo
con se stesso (Achille aveva ascoltato un imperativo, ma dall’esterno, dalla
voce della dea). Questo momento segna la scoperta dell’interiorità. Qualcuno
ha creduto di individuare qui anche la nascita del soggetto, del concetto di
“io”. Noi più semplicemente possiamo limitarci a dire che nella letteratura
3
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Ivi, I, 207-209.
Omero, Odissea, traduzione di Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino, 1963, XX, 9-18.
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è la prima volta in cui qualcuno si accorge che esiste qualcosa, dentro di sé,
con la quale può dialogare e che non agisce per conto suo, come il cuore di
Achille, che desidera ciecamente uccidere Agamennone e si ferma soltanto
grazie all’intervento esterno di Atena. Quando Ulisse parla al suo cuore e
gli ordina di sopportare, il cuore gli obbedisce. Anche in questo caso Atena
scende dal cielo, ma non per afferrarlo per i capelli, bensì per complimentarsi
con lui.
Una nota di carattere lessicologico: il termine usato per indicare il cuore
di Ulisse è cardia, mentre invece nel brano su Achille, quando si parlava di
cuore/petto, il termine usato era thumos, che indica sempre la parte dell’anima più interiore. In latino thumos diventa fumus, mentre l’anima diventa
vento, animus. In entrambi i casi si conserva l’idea di anima come soffio vitale.
Ben prima della nascita della filosofia, furono dunque i poeti a scoprire
quel qualcosa interiore con cui si può discutere che oggi chiamiamo anima.
Il filosofo che per primo parlò di cura dell’anima è Socrate. Vissuto ad Atene
nel V secolo a. C., Socrate non lasciò alcuno scritto. Tanto la sua vita quanto
le sue parole sono note per via indiretta, da quanto di lui hanno scritto altri
filosofi o storici, primi fra tutti Platone e Senofonte. Forse il testo più attendibile in proposito è l’Apologia, perché possiamo supporre che difficilmente
Platone potrebbe aver inventato e pubblicato la difesa che Socrate fece di se
stesso davanti ai giudici, che poi lo condannarono a bere la cicuta e a darsi
la morte: il fatto era troppo recente. È nell’Apologia che troviamo il passo
in cui Socrate prega i suoi concittadini di lasciarlo continuare a filosofare e
ad andare in giro per la città ad ammonire chi si dà pensiero solo della ricchezza, della fama e dell’onore, senza preoccuparsi di curare l’anima, da lui
intesa come la parte razionale dell’uomo:
Fin quando avrò respiro e ne sarò capace, non smetterò di amare la sapienza,
di sferzarvi, di mettere le cose a nudo con chiunque via via incontri sulla
strada, facendo le solite domande: “Ehi, campione, tu che sei ateniese, della
città più alta e più gloriosa per acutezza e forza, non ti vergogni di pensare
solo ai soldi, al modo di procurarne tanti e tanti, e alla tua coscienza, alla tua
verità, al tuo spirito non pensi, non mediti al sistema di farli progredire?”.
Può darsi che fra voi qualcuno voglia sbugiardarmi e giuri che si dà pensiero,
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lui, di quello: non lo manderò assolto, e io non mi staccherò, ma gli farò
l’esame, lo scandaglierò, lo metterò in difficoltà… 5
Questa è l’ironia socratica, che pone domande fingendo di non sapere
allo scopo di denudare l’altro, di farlo sentire uno svergognato perché si cura
dell’esteriorità, dei beni e delle ricchezze ma non della sua anima. Socrate
prosegue la sua difesa affermando che non si deve aver cura del corpo né
delle ricchezze, né di alcuna altra cosa più che della propria anima, allo scopo
di farla diventare ottima e virtuosissima:
Io giro Atene tutto il giorno senza far altro che scongiurare i vostri, dal più
giovane al più anziano, a non pensare fissamente al corpo o ai soldi, prima o
con maggior impegno, che all’anima, tesi a farla sempre più perfetta.6
Ma cos’è ciò che Socrate chiama anima? Sicuramente non è il daimon, il
demone interiore che gli suggeriva “cosa non fare”, una sorta di essere divino
che lo abitava allo scopo di trattenerlo dal compiere determinate azioni.
Non è neppure soltanto il cuore, il soffio vitale, il thumos dell’Iliade. È
invece qualcosa che molto di più si avvicina all’idea di mente, di ragione,
di logos, perché – da quello che poi racconta Platone – la cura dell’anima si
risolve in fondo in una cura dell’intelligenza, nel raggiungimento di una
sapienza sempre più pura e sempre più alta. L’uomo che cura la sua anima
– e qui si deve pensare a un maschio, ateniese di nascita, libero, perché tutti
quelli che non rispondono a questi requisiti sono esclusi tanto da Socrate e
Platone, quanto poi da Aristotele, dalla sfera di coloro che possono aspirare
alla virtù – è in definitiva l’uomo che esercita l’intelligenza.
Già in Socrate – sempre secondo gli scritti di Platone – si trova dunque
quell’identificazione tra mente e anima che tanto profondamente caratterizzerà la cultura greca e condurrà a ciò che alcuni hanno chiamato “intellettualismo etico”: chi conosce il bene non può che fare il bene, chi commette
il male è considerato pertanto ignorante, non malvagio. In altre parole, chi
si comporta male è perché non ha raggiunto un sufficiente grado di sapienza.
Certo, questo non lo esime dalla colpa, ma la sua colpa è quella di non aver
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Platone, Apologia di Socrate, in Simposio, Apologia di Socrate, Critone, Fedone, a cura di
Ezio Savino, Mondadori, Milano, 1997, 29 d-e.
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Ivi, 30 b.
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studiato o compreso a sufficienza, non quella di comportarsi male. Operando
le debite distinzioni tra stoici ed epicurei, possiamo dire che questa idea sarà
presente in tutto il pensiero greco e in buona parte di quello latino, che rappresenta la culla in cui si è generata la nostra modalità di pensare e di essere.
Come osserva anche Nietzsche ne La nascita della tragedia, criticandolo
però ferocemente, questo modo di pensare ha origine con Socrate.
Ora, questo è quello che possiamo accennare riguardo a Socrate, tenendo
conto che, nel ricostruire il suo pensiero, ci stiamo basando su quanto riferito
da altri. È molto più facile parlare invece di Platone, sulla base dei trentasei
Dialoghi che ha lasciato, i quali forniscono una buona garanzia di attendibilità. È importante ricordare che Platone scrive di filosofia pur considerandolo un pessimo esercizio: meglio sarebbe invece filosofare oralmente.
Possiamo dire che Platone sia il primo a scrivere libri “divulgativi” di filosofia, ovvero pensati per un vasto pubblico. Nel suo pensiero sono riscontrabili forti influssi provenienti dalle religioni orfiche e orientali, molto diffuse e
praticate in Grecia, sebbene non riconosciute ufficialmente. Anche lo studio
delle matematiche da parte dei Pitagorici può essere considerato una trasformazione di riti orfici. L’idea di fondo che Platone riprende dall’Orfismo è
quella di una separazione tra corpo e anima e della necessità di purificarsi
dal corpo. Nei Dialoghi di Platone – chi lo ha studiato saprà che è impossibile ricavare un sistema dal suo pensiero – il corpo è inteso di volta in volta
come gabbia, come prigione, a volte anche come strumento dell’anima, ma
assai più frequentemente come un peso da cui liberarsi.
L’anima, che viene indicata col termine psyché, secondo Platone è immortale. Esistono molteplici dimostrazioni dell’immortalità dell’anima, le
più famose nel Fedone e nella Repubblica, che qui non riprenderemo per
ragioni di spazio. È importante comunque tenere presente che si tratta di dimostrazioni, ossia di tentativi di spiegare razionalmente che l’anima è qualcosa di immortale e che non solo sopravvive al corpo, ma addirittura vive
molto meglio senza di esso. Celebre è la bella immagine contenuta nel Fedro
dell’anima come biga alata, che corre verso le pianure della verità trainata
da due cavalli, uno bianco, buono, e uno “misto” (quindi privo di unità e
armonia), cattivo, guidati dall’auriga che rappresenta l’anima razionale. La
biga corre verso le pianure della verità dove si trova il nutrimento più adatto
per la parte migliore dell’anima, che è appunto la parte razionale. Volendo
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riassumere in poche parole la teoria dell’anima di Platone, possiamo ricordare che la psyché è divisa in tre parti: l’anima razionale, che in questo mito
è alla guida della biga; l’anima irascibile, che rappresenta le passioni buone,
come ad esempio l’ira e il coraggio, e in questo mito è raffigurata dal cavallo
bianco; l’anima concupiscibile o desiderante, che rappresenta l’attrazione
verso tutto ciò che è materiale e corporeo, qui raffigurata come il cavallo
“misto” e bizzoso che tenta di distogliere la biga dal suo percorso. Per Platone,
infatti, la conoscenza sensibile e il rapporto con la materia confondono le
idee. La vera conoscenza si otterrà pertanto soltanto a patto di riuscire a
lasciarsi alle spalle – in un percorso che è non solo intellettuale, ma anche
ascetico – il rapporto con la sensibilità, con la materia, fino ad arrivare alla
scienza (dianoia) e infine all’intellezione, cioè alla visione diretta del mondo
delle idee (noesis).
Per Platone l’anima, come abbiamo accennato, sopravvive al corpo, ma
può disgraziatamente tornare a incarnarsi se in vita non si è dedicata abbastanza alla filosofia. Anche l’idea di metempsicosi arriva a Platone dalle
religioni orientali. Un’ultima cosa che è importante ricordare è che l’anima,
prima di cadere nel corpo, ha avuto visione della pianura della verità, vale a
dire del mondo delle idee, l’Iperuranio. Poi, bevendo le acque del Lete, il
fiume della dimenticanza, ha obliato ciò che ha visto, per tornare a ricordarlo
a poco a poco nel corso della vita. Per Platone la conoscenza è infatti una
sorta di reminescenza: guardando qualcosa, ricordiamo quel che abbiamo
visto non nelle vite passate, quanto piuttosto nell’Iperuranio, quando eravamo felici e correvamo per le pianure della verità.
L’allievo migliore di Platone è Aristotele, seppure questi abbia una visione delle cose molto diversa dal maestro. Non a caso, nel famoso affresco
La scuola di Atene di Raffaello, il primo filosofo è ritratto con il dito che
punta verso l’alto, il secondo con la mano protesa verso il basso. Aristotele
studia l’anima come uno scienziato. Gli sarebbe sicuramente piaciuto poter
sezionare un cervello per vedere se dentro c’era l’anima. Magari avrebbe
tratto la conclusione di Cartesio e avrebbe individuato nell’amigdala il punto
in cui si uniscono anima e corpo.
Da scienziato, Aristotele afferma che esiste un’anima vegetale, un’anima
animale e infine un’anima razionale, che comprende anche le altre due.
L’uomo possiede le prime due anime, si nutre e cresce come la pianta,
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cammina e si riproduce come l’animale, ma in più ha anche l’anima razionale. Aristotele dice poco in proposito. Riguardo all’immortalità di questa
parte dell’anima non si esprime in modo definitivo. Nel libro XII della
Metafisica afferma che se dopo la corruzione del corpo, ovvero dopo la
morte, dell’anima rimanga qualcosa è un problema che resta da esaminare.
Nulla lo vieta, però non possiamo dirlo con certezza. Anche nel De Anima
Aristotele afferma di non sapere dove vada a finire questo genere di anima,
se possa essere separata dal corpo come l’eterno dal corruttibile. Nulla lo
vieta, ma neppure nulla ci permette di stabilirlo con certezza. D’altra parte,
l’elemento razionale dell’anima è definito anche come qualcosa di divino
che proviene dall’esterno. Nel libro Sulla generazione e la corruzione degli
animali, l’intelletto viene detto qualcosa di divino, di impassibile, rispetto
all’anima vegetale e a quella animale. Che cosa però esso sia esattamente
Aristotele non l’ha detto. Sicuramente non ha detto poi quel che gli è stato
attribuito da interpreti successivi, soprattutto arabi ed ebrei (che scrivevano
in arabo), intorno all’XI secolo, vale a dire che l’intelletto di ogni uomo fa
parte dell’intelletto divino, il quale è l’unico intelletto agente. Questa teoria,
seppur non elaborata da Aristotele, ha conosciuto molta fortuna e importanza
nei secoli successivi.
Aristotele dice: c’è un intelletto, che è la forma del corpo, che potrebbe
rimanere anche dopo il corpo e che distingue l’uomo dagli animali e dai
vegetali. Altro non siamo capaci di dire, se non che, essendo quella la nostra
forma – e la forma ha in sé il fine di ciò di cui è forma –, in essa risiede
anche la nostra possibilità di essere felici. Aristotele afferma quindi che la
felicità consiste per l’uomo nel perfetto utilizzo del suo intelletto, ossia nell’uso dell’intelletto che porti alla contemplazione del vero. Aristotele però,
essendo un uomo assai più pratico di Platone, nell’Etica Nicomachea afferma
che sarà difficile essere felici senza una buona salute, senza amici e un po’
di ricchezza. Non possiamo che inchinarci di fronte a questo scienziato che
afferma: è vero che la felicità consiste nella contemplazione; tuttavia, senza
le altre condizioni materiali, difficilmente si potrà goderne. Per Aristotele
dunque la cura dell’anima consiste in un esercizio intellettuale che porta
necessariamente anche a condurre una buona vita. Oltre a quanto già stabilito
da Platone e Socrate, Aristotele aggiunge anche altre caratteristiche, che derivano dalla fortuna e dalla storia (la salute, la ricchezza, gli amici ecc). Però
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l’idea essenziale rimane che, una volta curata l’intelligenza, una volta educatala così da raggiungere il più alto grado di contemplazione del vero,
l’uomo raggiunge la sua pienezza e quindi la felicità.
Un’altra posizione che, per il nostro percorso, è interessante esaminare,
è invece quella degli interpreti di Platone, successiva di qualche secolo. I
Neoplatonici si collocano nei primi secoli della nostra era. Il più grande di
loro, e anche il più noto, è Plotino, che, coniando un’immagine molto bella,
parla dell’anima come dell’ultima Dea. Questo perché la realtà per Plotino
è una struttura graduale che, per processione, da un Uno ineffabile e primo
principio libero che si autopone, discende gradatamente, dando vita prima
al Nous (intelligenza, spirito), poi all’anima e infine alla materia, che però è
talmente opaca da non essere più in grado di trasmettere ad altro la luce e la
vita del primo principio. Possiamo immaginare una fonte luminosa che emana luce fino a che, a un certo punto, si ferma. E dove si ferma? Nella materia. La materia è qualcosa di buono perché comunque deriva dal primo
principio, però non ha la capacità di volgersi al principio e di produrre quindi
altro da sé. La materia è semplicemente sterile, non cattiva (anche se in
alcuni passi delle Enneadi viene detta “primo male”): pertanto, dice Plotino,
va accettata. Il suicidio è proibito, in quanto bisogna accettare di avere un
corpo, sebbene – se si aspira a essere felici – sia parimenti necessario liberarsene quanto prima. Riguardo all’anima Plotino dice che essa è una propagazione del primo principio che muta a seconda di come si volge, se alla
materia o ai gradi superiori dell’essere. L’anima cioè tende ad assomigliare
a ciò verso cui si volge; come se si trovasse su un’ideale scala, può decidere
di salire o di scendere.
Nonostante l’anima sia caduta in un corpo – per motivi complessi che
non è possibile qui riepilogare –, può decidere se rimanere attaccata a questo
corpo e all’opacità della materia, oppure risalire la scala e raggiungere così la
felicità, unendosi al primo principio. Questa ascesa si realizza compiendo le
seguenti operazioni: entrare in se stessi, distaccarsi dalla cose corporee, dalla
parte affettiva dalle passioni ma anche dagli amori e dagli affetti che dalla
felicità allontanano, spogliarsi della parola e del discorso (che sono molteplicità, cioè in rapporto con la materia), spogliarsi perfino della conoscenza
di se stessi, spogliarsi addirittura dell’idea del bene e del male. “Spogliati di
tutto” recita il famoso detto di Plotino. Soltanto se l’anima si spoglierà di
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tutto potrà aspirare a riempirsi dell’infinito, del primo principio e quindi del
tutto. Tu accrescerai te stesso – ribadisce in sostanza Plotino – soltanto
dopo aver gettato via tutto ciò che hai. Dopo tale rinunzia, ti si farà presente
il Tutto. Non credere che il primo principio sia venuto per starti accanto: Lui
non viene incontro a te, sei tu che devi andare incontro a Lui. Se ti accorgi
che Lui non è accanto a te è perché sei stato tu a volgerti verso la parte
sbagliata, cioè verso la materialità. Famosissime sono le pagine dell’ultima
delle Enneadi che descrivono questo rapporto “da solo a solo”. Plotino
conosceva i Cristiani, sebbene a volte li confondesse con gli gnostici, e li
criticava perché credevano nella resurrezione della carne, mentre l’anima
non risorge insieme al corpo, bensì risorge “dal” corpo. Se avessero ragione
i Cristiani, e neppure con la morte ci si liberasse dal corpo, sarebbe per
Plotino una vera disgrazia!
A questo punto veniamo a parlare del primo grande pensatore speculativo
della Cristianità, che è Agostino di Ippona. Agostino unisce nei suoi scritti
– anche per motivazioni che attengono alla sua biografia personale – la
filosofia neoplatonica, influssi platonici e aristotelici (nonostante di Platone
e Aristotele non avesse letto nulla direttamente) e la visione propria del
Cristianesimo o, per meglio dire, in senso più ampio, delle Sacre Scritture
e, per qualche aspetto, della tradizione ebraica. Una delle problematiche
centrali del pensiero di Agostino è proprio quella del corpo. Plotino diceva
che la materia deriva sì dall’Uno, ma comunque è opaca, non ritorna al
principio; Agostino si trova a dover conciliare quest’idea con quanto trova
scritto nelle primissime righe del libro della Genesi, dove si narra appunto
che Dio creò questo e quello, poi si fermò a guardare quel che aveva fatto e
vide che era una cosa buona. Tra le cose che Dio creò, non c’erano soltanto
le piante, i pesci, il mare, ma anche l’uomo col suo corpo, di fango, ma pur
sempre un corpo. E guardando quel corpo Dio disse: “Ho fatto una cosa
buona”. Ecco dunque il problema che si trova a dover fronteggiare Agostino:
un percorso che conduca al distacco dalla corporeità così come era richiesto
da Platone, dal Neoplatonismo, dall’orfismo e dalle altre religioni avrebbe
significato rinfacciare a Dio di avere creato un corpo cattivo, una prigione
per l’anima in un mondo cattivo. Mentre invece il mondo è sì un mondo
contaminato, malato (Agostino parla anche di malattia dell’anima), un mondo dove la civitas terrena vince sulla civitas celeste, ma è comunque un
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mondo creato dalle mani di Dio, da mani che sono buone e che hanno riconosciuto come buono quello che hanno fatto. Nei testi di Agostino troviamo
dunque il percorso delineato da Plotino, e in parte anche da Platone, ma con
una modifica sostanziale, che tra l’altro induce il suo pensiero a cadere in
alcune ambiguità.
Agostino parla della necessità per l’uomo di ritirarsi in se stesso. Nel
libro X delle Confessioni leggiamo dell’uomo che, trovando meravigliosa
la bellezza della luce, dei canti, dei profumi e dei fiori, interroga la mole
dell’universo e questa gli risponde: non sono io a essere bella, ma Colui che
mi fece:
E che significa questo? L’ho chiesto alla terra e mi ha detto: “Non sono io”:
e tutte le cose che essa contiene hanno fatto la stessa confessione. L’ho chiesto
al mare e ai suoi abissi e ai rettili dall’anima viva e mi hanno risposto:
“Non siamo noi il tuo Dio – cerca sopra di noi”. L’ho chiesto al sussurro dei
venti e l’intero mondo dell’aria con i suoi abitanti mi ha risposto: “Sbaglia
Anassimene: non sono Dio”. L’ho chiesto al cielo, al sole, alla luna e alle
stelle: “Neppure noi siamo il Dio che tu cerchi”. E ho detto a tutte le cose
del mondo che conosco tramite le porte della mia carne: “Parlatemi del Dio
che voi non siete, parlatemi di lui”. E a gran voce hanno gridato: “È lui che
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ci ha fatte”.
La risposta degli animali e delle piante all’uomo che cerca Dio è la loro
bellezza. La bellezza è la voce della terra muta. La materia, che per Plotino
era opaca e incapace di volgersi al principio primo, per Agostino ha una sua
voce, che è la bellezza delle cose, la bellezza di questo mondo. Così l’impianto
neoplatonico viene completamente sconvolto, dal momento che non si può
più eliminare, annichilire, definire cattivo un mondo che parla di Dio. Cosa
propone alla fine Agostino? Di cercare Dio non fuori di sé, ma nell’interiorità. Dopo aver cercato il suo Dio nelle cose della natura, Agostino lo
trova dentro di sé. Nell’interiorità dell’uomo abita secondo Agostino l’infinito stesso.
Questa conclusione potrebbe apparire banale, ma va tenuto presente che
essa presuppone una tematica centrale della riflessione di Agostino, che è
7
Aurelio Agostino, Le Confessioni, edizione Acrobat a cura di Patrizio Sanasi, 9, p. 71,
http://www.documentacatholicaomnia.eu/03d/0354-0430,_Augustinus,_Confessionum_Libri_
Tredecim,_IT.pdf
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Maria Bettetini
quella della memoria. Agostino è stato il primo a studiare in maniera approfondita il tema del tempo e della memoria, enucleando tematiche ancora
oggi dibattute. Sempre nel libro X delle Confessioni si chiede cosa sia la
memoria. È la memoria che ci permette di conoscere, perché ogni volta che
conosco non faccio altro che collegare tra di loro istanti di sensazioni. La
memoria è il collante delle cose che conosco; la memoria è ciò che mi “costituisce” come individuo, perché tiene insieme tutte le mie sensazioni e i
miei concetti; la memoria è – infine – ciò che mi permette di conoscere cose
nuove. Quindi io non conosco perché ricordo quel che ho già visto, come
sosteneva Platone, bensì perché, mentre conosco, immediatamente ricordo
tutto quanto nella mia vita ho ascoltato, udito, imparato e lo collego alla
percezione attuale. La memoria per Agostino funziona dunque ben più che
come un deposito o uno schedario in cui sono inseriti dei dati: essa garantisce la possibilità di percorrere la via della conoscenza. La memoria per
Agostino è l’anima stessa, il luogo in cui dimora Dio, che pertanto deve possedere un’immensa, infinita capacità di contenimento. L’uomo si accorge che
l’infinito abita dentro di lui perché scopre nella sua mente il ricordo di una
felicità incommensurabile, a confronto della quale tutte le altre appaiono
inadeguate. Ogni volta che godiamo di qualcosa, fisicamente, intellettualmente,
spiritualmente, ci accorgiamo che questa gioia non riempie completamente.
Non arriviamo mai a dire: sono sazio. Questa riflessione di Agostino può
essere paragonata al motivo faustiano dell’impossibilità della soddisfazione.
Nel Faust di Goethe, Faust e Mefistofele stringono un patto: se Faust sarà
appagato da ciò che Mefistofele gli avrà dato, tanto da dire all’attimo: “Fermati, sei bello!”, in quello stesso istante la sua anima apparterrà a Mefistofele.
Agostino osserva appunto come anche nei momenti più importanti, più felici
della vita, la soddisfazione provata non è all’altezza delle aspettative. Questa
è la prova che ognuno ha nella mente il ricordo di una pienezza che però
non ha mai esperito.
Nel VI libro delle Confessioni c’è una scena in cui Agostino, dopo aver
declamato l’elogio dell’imperatore – dunque in un momento di grande soddisfazione personale, al vertice della popolarità – girovaga per le vie di
Milano, riflettendo sulla sua condizione. In un vicolo si imbatte in un ubriaco
che chiede l’elemosina e si trova a pensare che, semplicemente con una bot-
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Sapienza, saggezza, cura. La filosofia di fronte alla pratica
tiglia di vino, quest’uomo sembrava aver trovato la felicità terrena che lui
andava cercando in lungo e in largo:
Col cuore affannato e febbricitante di pensieri nefasti passavo per un certo
vicolo di Milano, quando notai un pezzente che credo fosse già gonfio di
vino, tanto era allegro e in vena di scherzare. Trassi un profondo sospiro e
agli amici che mi accompagnavano presi a dire dei molti dispiaceri che la
nostra follia ci procurava: perché tutti i nostri sforzi – quelli che ora mi angustiavano ad esempio, mentre sotto la sferza delle mie ambizioni trascinavo il
carico della mia infelicità, e trascinandolo lo ingrossavo – non miravano ad
altro che ad arrivare a quella spensierata contentezza dove quel pezzente ci
aveva già preceduto, mentre forse noi non ci saremmo arrivati mai. Quello
che lui s’era già guadagnato con pochi spiccioli avuti in elemosina, io lo
inseguivo per vie scoscese e torte, a gran fatica: era questa, la soddisfazione
di una felicità terrena.8
Come si giunge allora alla felicità? Come curare l’anima, così preziosa?
Innanzitutto per Agostino lo studio non è più così importante come lo era
per Platone. Nell’introduzione del VI libro del dialogo De Musica, afferma
che lo studio serve ai deboli, a coloro che non riescono a volare con le proprie ali. Sostenendosi sui libri, anche costoro riescono – seppur avanzando
faticosamente, passo dopo passo – a raggiungere la verità e la pienezza della
felicità, ma i più forti non hanno bisogno dello studio: certo non fa male,
ma non è neppure necessario. Piuttosto si deve stare attenti, come avrebbe
detto Plotino, a non imboccare la scala nella direzione sbagliata e a non guardare in basso: ci si deve dunque sforzare di compiere azioni buone, perché
queste automaticamente fanno salire i gradini della scala e avvicinano l’uomo
a Dio.
Con Agostino si verifica dunque una mutazione fondamentale nel modo
di intendere la cura dell’anima, che non consiste più nella cura dell’intelletto,
ma della volontà. Per Agostino la malattia dell’anima è essenzialmente una
malattia della volontà. Anche lui contempla, come Plotino, la possibilità di
raggiungere l’estasi, ma questa è data come un dono, non è frutto dello sforzo
personale, e non è nemmeno necessaria. Necessario è che l’anima si sappia
volgere dalla parte giusta, sappia dunque compiere determinate scelte. Tommaso d’Aquino darà una sua spiegazione di come le scelte vengano compiute
8
Ivi, 6.9, p. 37.
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Maria Bettetini
per opera della volontà, che risiede nella parte bassa dell’intelligenza, mentre
la parte alta, quella teorica, indica la direzione da prendere, cioè mostra quel
che deve essere scelto.
Il passaggio che si compie con Agostino rappresenta anche una tappa
fondamentale nello sviluppo del rapporto mente-corpo, in quanto costituisce
un superamento del dualismo proprio dei platonici e del mondo greco. Un
dualismo che in alcuni testi di Agostino sembra superato e che però verrà
riproposto da autori successivi. Questi riprenderanno a sostenere che il corpo
è cattivo e che l’anima va salvata “dal” corpo, non “con” il corpo. Si tornerà
dunque a identificare la cura dell’anima con una cura dell’intelligenza. Non
ci si stupisce allora di trovare in Cartesio una così grande distanza e separazione tra la res cogitans e la res extensa, una contaminata dall’altra e unite
soltanto in un punto nel cervello dell’uomo. Agostino rappresenta comunque
un momento importante della storia del pensiero perché riconosce la bontà
della materia e dà alla filosofia un ruolo soltanto secondario per la cura dell’anima, in quanto l’anima non è primariamente intelligenza, bensì il luogo
dove abita l’infinito.
Prima di concludere questo percorso è interessante ricordare che nel
mondo islamico non viene elaborata una teoria ufficiale dell’anima. L’Islam
riprende la concezione di anima di Aristotele e dei Neoplatonici, sottolineando
sempre con forza il fatto che dalla materia derivano soltanto distrazioni. Il
Corano invita a rimanere fedeli all’unico Dio, senza lasciarsi distrarre dal
gioco d’azzardo e dalle pietre idolatriche. Questo è l’unico passo del Corano
nel quale si fa chiaramente riferimento al tema delle rappresentazioni e delle
immagini. Gli infedeli si distraggono dall’unica cosa veramente importante
lasciandosi attrarre dagli idoli: non c’è una proibizione vera e propria a rappresentare la divinità, o il profeta, o in generale le cose: questa sarà espressa
successivamente nei Detti del Profeta, testo che raccoglie la tradizione orale
intorno a Maometto. Il Corano semplicemente mette in guardia contro l’uso
della scultura e la fascinazione esercitata dai colori, che suscitando attrazione
verso le cose materiali possono renderle oggetto di idolatria.
Come concludere ora con la cura dell’anima “dopo Freud”, come richiesto dal titolo della relazione? Dopo Freud si comincia a chiamare l’anima
“psiche” e a connotarla in senso più tecnico, medico. Per Jung l’anima rappresenta la parte femminile dell’uomo, la sua interiorità in contrapposizione
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Sapienza, saggezza, cura. La filosofia di fronte alla pratica
alla maschera esteriore. Luogo dell’emotività, fonte di creatività, l’anima
può anche mettere in pericolo la coscienza attraverso una professione di alterità. Con Jung si torna a un’idea di interiorità vaga, difficilmente definibile.
Oggi molti medici fortunatamente hanno compreso lo stretto rapporto
esistente tra anima e corpo, così che si interessano del paziente nella sua
totalità, nella sua situazione complessiva, e non trattano settorialmente le
singole parti malate. Però il fatto che tutti parlino di “psiche”, che questo
termine sia ormai diventato di uso comune, ha fatto anche sì che la sua
specificità filosofico-scientifica andasse perduta. Parlare della filosofia come
di cura dell’anima può essere di stimolo per recuperare una concezione più
ampia di psiche, per discutere i luoghi comuni e riflettere ad esempio se
l’anima sia soltanto l’intelligenza, o piuttosto l’interiorità nel suo complesso,
e in quale rapporto stia col corpo. Porsi le grandi domande della filosofia è
sicuramente un buon esercizio per l’intelletto, e pertanto una valida cura
per l’anima; ma non ci si dimentichi che la filosofia aiuta solo a porre le
domande giuste, che non è poco, e può essere anche tutto.
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