La componente forestale nei progetti di sviluppo

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La componente forestale nei progetti di sviluppo
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DRAFT – in fase di aggiornamento
Università di Padova
Facoltà di Agraria
Master universitario in “Cooperazione allo sviluppo nelle aree rurali”
Anno Accademico 2001-2002
LA COMPONENTE FORESTALE
NEI PROGETTI DI SVILUPPO AGRICOLO IN AFRICA:
QUALCHE RIFLESSIONE SU ASPETTI METODOLOGICI E TECNICI
(Appunti del seminario)
Docente
Francesca Cambiaggi
dottore forestale
Genova, novembre 2002
Coordinate docente
Francesca Cambiaggi, dottore forestale, libera professionista
Studio: piazza S.Maria in via Lata, 9/3 – 16128 Genova – tel. +39.010.5535088
Cell. +39.338.8406106
e-mail: [email protected]
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1. Introduzione
E' bene precisare che in questa dispensa si tratta, senza alcuna pretesa di andare oltre gli
evidenti limiti informativi di questo tipo di documento tecnico, di questioni forestali in
ambiente tropicale africano.
L'obiettivo del lavoro é, non solo quello di fornire qualche elemento-base di conoscenza, ma
anche di fornire, se possibile, degli strumenti di lavoro e degli spunti di riflessione che
possano essere di aiuto e interesse per chi opera in questo settore.
Il settore forestale, o meglio, il sotto-settore forestale va considerato come parte
integrante del ben piu' ampio e comprensivo settore agricolo, di cui costituisce una
componente specifica.
In ambiente tropicale ed in particolare in Africa, dove tutte le risorse naturali esistenti
contribuiscono in modo importante allo sviluppo delle comunità e del paese, ogni campo
d'intervento dovrebbe sottintendere una analisi globale del proprio settore
d'appartenenza (es.: nel caso di un progetto forestale, sarà necessaria l'analisi globale del
settore agricolo). Ciò servirebbe a comprendere meglio la complessità delle relazioni che
intercorrono fra le diverse aree di intervento e garantirebbe una maggiore efficacia e
coerenza dei progetti, sia nella fase di identificazione/preparazione, sia in quella di
esecuzione dei lavori (approccio multisettoriale; approccio multidisciplinare).
La componente forestale, come accennato, non é qualcosa di isolato, ma é un sistema
aperto che interagisce costantemente e intimamente con l'ambiente circostante.
Nel momento in cui si progetta un intervento di natura forestale, va presa in
considerazione una molteplicità di aspetti, fra cui, molto sinteticamente e senza un ordine
prioritario, lo studio e l'analisi del settore agricolo e del sotto-settore forestale, tenendo
conto dei seguenti fattori:
•
•
•
•
il fattore ambientale: clima, vegetazione, suolo, acque, formazioni naturali, morfologia
del territorio, viabilità ed accessibilità ai luoghi d’intervento, punti d’acqua, ...
il fattore umano/sociale: studio delle comunità beneficiarie in funzione degli obiettivi
del progetto, studio del regime fondiario, identificazione delle priorità d'intervento in
funzione delle necessità delle comunità e della politica di sviluppo del paese, etnie
presenti nell’area d’intervento, appartenenze religiose, ...
il fattore economico: studio approfondito dei sistemi di produzione agricola (farming
systems ingl., systèmes de production franc.) e loro rendimenti, delle possibilità di
credito agricolo, dei sistemi e modi di investimento da parte del mondo rurale, delle
possibilità di trasporto e commercializzazione dei prodotti (studio di filiera e di
mercato), analisi costi/benefici dell'intervento previsto, delle possibilità di accesso ad
inputs agricoli, ...
il fattore politico: orientamenti e strategie dell'agenzia/organismo esecutrici;
orientamenti e strategie del paese in cui si opera in merito alle questioni agricoloforestali e di sviluppo rurale più in generale; studio dei piani nazionali di sviluppo,
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•
capacità istituzionale a livello centrale e periferico..
il fattore tecnico: identificazione, con le comunità locali, delle possibili soluzioni
tecniche relativamente al tipo di intervento, studio e verifica della fattibilità,
sostenibilità, durabilità e replicabilità delle azioni.
In poche parole, si tratta di fare preventivamente una analisi globale (fase diagnostica)
della zona d'intervento dal punto di vista qualitativo e quantitativo, al fine di definire le
condizioni della fattibilità stessa di ogni intervento previsto dal progetto, prima di passare
all'esecuzione dei lavori (fase operativa).
1.1. Fase diagnostica
Generalmente questa fase, che si esplica attraverso l’analisi di tutti i fattori
precedentemente menzionati, culmina nello studio socio-economico della zona d'intervento.
Questo lavoro preliminare di tipo investigativo, deve essere concentrato in un lasso di
tempo relativamente breve (indicativamente non più di 1 mese), perché dovrà fornire prima
possibile il primo e più importante strumento di lavoro e cioé: la conoscenza di base o
meglio, la “fotografia” dell’area d’intervento.
Durante la fase diagnostica, le comunità locali e la controparte nazionale, entrambe
responsabili per il progetto, di cui dovranno assicurarne la funzionalità e "durabilità",
saranno costantemente associate e il loro ruolo dovrà essere attivo nel definire strategie e
piani di lavoro.
Il ruolo del progetto, invece, dovrà essere di tipo “catalitico”: il progetto, cioè, dovrà
favorire in modo dinamico la realizzazione di tutte le attività previste, senza sostituirsi
alle diverse parti coinvolte. Dovrà fornire assistenza tecnica e finanziaria dove necessario,
mediando le possibili soluzioni, contribuendo ad una migliore circolazione delle informazioni
e ad una migliore comunicazione fra le parti interessate, delegando le responsabilità e
ponendosi comunque sempre in una posizione di mediazione e negoziazione costruttive
rispetto ai diversi partners che prendono parte al progetto stesso.
Lo studio socio-economico verrà preparato attraverso una analisi attenta del documento di
progetto, della documentazione disponibile sul posto, attraverso la valutazione delle
esperienze già maturate da altri in quel settore, le osservazioni dirette di chi lo prepara,
ma soprattutto attraverso un "dialogo mirato" con le comunità locali, con i beneficiari degli
interventi ed i rappresentanti delle istituzioni nazionali coinvolte nel progetto.
Questo tipo di lavoro investigativo va preparato con grande cura, fondamentalmente per
due motivi:
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1. perché costituisce il primo vero contatto con le comunità locali. Molto dei risultati
del progetto dipenderà dalla capacità di condurre correttamente e con buon senso lo studio
in questione. Andrà sempre tenuto conto che il solo fatto di condurre uno studio del genere
crea negli interlocutori delle aspettative precise che non potranno in seguito essere
disattese, pena la credibilità del progetto stesso. Di fatto, questo lavoro d’indagine svolge
già implicitamente un’azione di sensibilizzazione presso i soggetti coinvolti, circa le attività
da realizzare;
2. perché rappresenta, come già detto, il primo e più importante strumento di
conoscenza e lavoro, propedeutico alla messa in opera e realizzazione del progetto.
Per procedere in questo tipo di lavoro esiste tutta una letteratura specializzata a cui si
rimanda e che andrebbe studiata qualsiasi sia il profilo professionale di chi opera sul
terreno (vd. bibliografia).
In questa sede si dirà soltanto che l'approccio globale allo sviluppo sottinteso in questo
documento è del tipo approche gestion des terroirs (franc.) o land and resources
management
approach
(ingl.);
le
tecniche
di
comunicazione/sensibilizzazione/volgarizzazione sono del tipo partecipativo (participatory
approach) e si accennerà in modo estremamente pratico e operativo ai possibili strumenti e
metodologie di indagine.
Come accennato il lavoro di preparazione dello studio socio economico va impostato con
grande cura, professionalità e buon senso, evitando il più possibile di improvvisare,
ponendosi costantemente semplici domande del tipo: “perché chiediamo queste cose?”; “ a
cosa serve sapere questo?” e pianificando preventivamente “a tavolino” il lavoro di indagine
con il personale del progetto, soprattutto per quanto concerne i contatti con le comunità
locali ed i villaggi
Il “dialogo mirato” di cui si è accennato va innanzitutto impostato in funzione degli obiettivi
del progetto che impongono un campo d’azione ben definito e aiutano – se così si può dire –
a “ non andare fuori tema”, a non porsi troppi obiettivi e/o obiettivi troppo ambiziosi, ma a
mantenere limiti realistici all’azione del progetto, limiti già ampiamente concordati ed
approvati da tutte le parti coinvolte.
Per quanto riguarda gli obiettivi, questi sono generalmente ben definiti e sviluppati nel
documento di progetto; qualora non fosse questo il caso, andranno riconsiderati e ridefiniti
invitando e sollecitando le parti coinvolte in questione (governo nazionale, agenzia
esecutrice, agenzia finanziatrice e/o paese donatore) ad una project document review
ufficiale al fine di aggiornare il documento di progetto e ridefinire obiettivi e quadro
d’intervento, per quanto necessario.
Una delle tecniche di indagine maggiormente utilizzate è il Rapid Rural Appraisal (RRA), poi
trasformatosi nel tempo in Participatory Rural Appraisal (PRA), definibile come
metodologia speditiva di ricerca esplorativa sul posto, che permette un rapido e
progressivo processo di apprendimento delle conoscenze necessarie alla messa in opera
del progetto, con il massimo coinvolgimento possibile delle comunità ed istituzioni
locali, attraverso un costante processo di comunicazione reciproca fra il progetto e gli
altri soggetti.
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E’ importante concepire questa raccolta di informazioni utili non come un’azione di “rapina”
nel carpire ed elaborare separatamente dagli altri le conoscenze che si apprendono, ma
come un esercizio costante di scambio, raccolta, elaborazione e restituzione di dati nei due
sensi, a tutti i livelli: dagli altri verso il progetto e dal progetto verso gli altri.
Come procedere nella pratica ?
Abbandonate le tradizionali schede di inchiesta, che fino a non molti anni fa’ mettevano a
dura prova gli intervistati con una serie di domande senza fine (molte delle quali
assolutamente inutili ai fini del progetto), un modo di agire che offre buoni/ottimi risultati
è senz’altro quello di procedere con interviste semi-strutturate, o meglio, a check list.
Si tratta di organizzare ed articolare le inchieste per punti specifici, ritenuti essenziali
per la conoscenza di quegli aspetti effettivamente funzionali e necessari alla messa in
opera del progetto.
A titolo esemplificativo, si riportano di seguito alcuni dei punti da approfondire in una
ipotetica check list riferita ad un non meglio precisato villaggio:
• Definizione qualitativa e quantitativa dei farming systems
• Informazioni su colture di sussistenza e colture da reddito (food crops e cash crops)
• Informazioni sulle on farm e off farm activities (definibili in italiano come attività in
azienda ed attività fuori azienda) e sulle fonti principali di reddito del mondo rurale
(income generating activities)
• Informazioni su gruppi/associazioni/etc. già esistenti ed operanti all’interno del
villaggio, verificandone l’affidabilità all’interno del villaggio stesso
• Informazioni sulle infrastrutture presenti: mercati, vie d’accesso (al villaggio-ai villaggi
vicini-ai mercati circostanti, alle città/cittadine più importanti verificandone la
praticabilità anche nel periodo delle piogge); assistenza sanitaria (ambulatori,
medicinali, personale qualificato,…); istruzione, punti d’acqua, mulini, vivai forestali,
fattorie/aziende specializzate di Stato, …
• Informazioni sulla istituzioni: presenza di uffici decentrati e quali, presenza nel
villaggio o nella zona di extension agents, presenza di banche, collegamenti con le
istituzioni centrali, …
• Presenza di altri progetti in zona
• Informazioni sulla capacità di spesa e di investimento del villaggio e possibilità di
accesso agli inputs agricoli
• Autorità tradizionali, regime fondiario, attitudine all’associazionismo
• …….
Questi punti, se approfonditi correttamente attraverso riunioni, colloqui individuali,
incontri con i gruppi d’interesse, possono già ampiamente fornire tutte quelle conoscenze di
base necessarie ad impostare e pianificare con una discreta dose di coerenza e realismo, le
attività di progetto.
Si aggiunge infine che, sui progetti di sviluppo agricolo, due domande banali, ma
estremamente utili da porre ai contadini per capire le loro priorità in materia di agricoltura
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ed, allo stesso tempo, la loro attitudine verso l’innovazione, sono le seguenti:
i.
“quali investimenti farebbe oggi nei suoi campi se avesse le risorse?”
ii.
“quali sono i problemi maggiori che incontra nella sua attività?”
Sulla base dell’esperienza, a volte, in determinati contesti, sono molto più efficaci domande
dirette di questo tipo, poste a singoli contadini, magari passeggiando insieme nei loro campi
e discutendo di questioni agricole varie (tecniche di coltivazione, rendimenti, come vanno le
stagioni, etc. etc.), piuttosto che procedere per vie più ufficiali e strutturate.
Non solo durante la fase diagnostica, ma durante tutto il ciclo del progetto, si ritiene
importante documentare visivamente tutti quei tematismi specifici, funzionali alle attività
di progetto, attraverso la realizzazione di “diapositive tematiche”, concepite e finalizzate
alla preparazione di moduli di formazione e volgarizzazione (training and extension
modules) a sostegno dei vari interventi o semplicemente quale strumento privilegiato di
comunicazione.
Moduli di questi tipo infatti, rappresentano un ottimo strumento di comunicazione, oltre le
parole e le relazioni tecniche, da utilizzare diffusamente a tutti i livelli: si potranno
organizzare proiezioni con/per le istituzioni (nazionali centrali e decentrate,
internazionali), per le comunità locali, presso i villaggi, attrezzandosi eventualmente con un
piccolo generatore per rendere possibili le proiezioni in mancanza di elettricità diretta,
come succede nella maggioranza dei casi.
Anche nel caso di una documentazione visiva, analogamente a quanto detto per l’indagine
socio-economica, sarà importante concepire e realizzare “diapositive mirate”, che siano
cioè effettivamente di aiuto e supporto alla messa in opera delle singole attività di
progetto o al progetto stesso nel suo complesso.
A complemento, infine, dello studio socio-economico è utile preparare anche la cartografia
di base (tipo Land use) intendendo con questa semplicemente una rappresentazione
cartografica, anche di tipo grossolano, della zona d’intervento, evidenziando e
sovrapponendo visivamente quanto più possibile le informazioni fornite dall’analisi socioeconomica.
Solo in un secondo tempo si porrà eventualmente la questione di riprodurre, a scale diverse,
la visione d’insieme e/o di dettaglio di determinate aree d’intervento, come è per esempio il
caso della identificazione e delimitazione di superfici forestali o di terreni agricoli non
omogenei o di unità mosaico alternate, …
Relativamente agli aspetti forestali e più in particolare per quanto riguarda la gestione di
foreste naturali, la visione d’insieme si attua con carte generalmente in scala 1:200.000,
mentre quelle di dettaglio con carte in scala 1:50.000.
Queste scale così piccole sono giustificate dal fatto che normalmente si tratta di
perimetrare grandi superfici omogenee, nell’ordine di svariate migliaia di ettari (10-2050.000 ha)
Su questa cartografia di base, o “fotografia” della zona d’intervento, andranno poi
localizzati i vari interventi previsti dal progetto, sviluppati i tematismi ritenuti necessari,
procedendo così alla pianificazione spaziale delle attività.
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In sintesi si può schematizzare la fase diagnostica nel modo seguente:
FASE DIAGNOSTICA
Attività
Output
indagine socio-economica
identificazione/perimetrazione
intervento
ripresa diapositive tematiche
zone
studio socio-economico
cartografia di base
moduli di formazione e volgarizzazione
1.2. Fase operativa
Si tratta generalmente di una fase successiva a quella diagnostica e si esplica attraverso
la messa a punto del piano di lavoro (work plan – plan de travail) e la realizzazione concreta
delle attività previste dal progetto in funzione dei suoi obiettivi.
A titolo esemplificativo per definire la fase operativa può valere la seguente proporzione:
(Ase + C + Mf/v) : Fd = Pl : Fo
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Cioè, l’analisi socio-economica (Ase) + la cartografia di base (C) + i moduli di formazione e
volgarizzazione (Mf/v) stanno alla fase diagnostica (Fd) come il piano di lavoro (Pl) sta alla
fase operativa (Fo), dove per piano di lavoro si intende un documento cartaceo su cui
riportare la pianificazione puntuale delle attività nell’unità di tempo (generalmente 12
mesi): chi fa cosa, con chi, dove, per ottenere quale risultato, quando.
Il piano di lavoro è, in estrema sintesi, il risultato operativo di tutte le informazioni
elaborate nello studio socio-economico, il quale tanto più risponderà alla realtà oggettiva
dell’area d’intervento, tanto più rappresenterà una solida base di partenza per la
realizzazione del progetto.
Il piano di lavoro non rappresenta solo uno strumento di lavoro della pianificazione, ma
anche uno dei documenti formali (insieme al documento di progetto, al budget ed alla varia
documentazione tecnica prodotta nel tempo) su cui articolare le azioni di monitoraggio e
valutazione delle attività del progetto (Project Monitoring and Evaluation).
Un possibile schema di piano di lavoro potrebbe essere il seguente, specificando
eventualmente anche l’unità responsabile per ogni attività o gruppo di esse, gli inputs
necessari (ma generalmente questo dato è già indicato nel budget), altro, secondo
necessità.
Obiettivi,
descrizione e
localizzazione
attività
1.
1.1
1.2
1.3
….
2.
2.1
2.2
2.3
….
Budget
G
F
M
UNITA’ DI TEMPO
A
M
G
L
A
S
O
N
D
Risultati attesi
(output) per
attività
Obiettivo: ……
Attività: ……..
attività
attività
obiettivo
attività
attività
attività
Infine, in allegato al piano di lavoro ed a complemento delle elaborazioni derivate dalla fase
diagnostica, può essere utile evidenziare i “punti di forza” ed i “punti di debolezza” (for &
against) del progetto visto complessivamente o per parti di esso (p.es. per singoli obiettivi
o attività).
Ciò contribuirà ulteriormente alla messa in atto di tutte quelle strategie operative ed
eventualmente politiche necessarie per una buona esecuzione del progetto, informando
preventivamente nei modi e nei tempi giusti tutte le parti coinvolte.
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1.3. La partecipazione delle comunità locali alle attività del progetto
E’ ormai scontato, per lo meno a livello istituzionale centrale, che parlare di sviluppo rurale
sottintenda la partecipazione attiva delle comunità locali ma, nella realtà, il discorso della
partecipazione è molto complesso e delicato.
Nonostante vi sia parecchia letteratura in merito, chi lavora sul terreno (in the field) nei
progetti di sviluppo rurale si trova spesso a fronteggiare situazioni in cui non è affatto facile
capire e decidere fino a dove può e deve arrivare il progetto e fino a dove possono e devono
arrivare gli altri.
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Cosa si intende allora per partecipazione delle comunità locali ad un progetto ?
Fino a circa metà degli anni ’80, le comunità locali non erano associate attivamente in alcuna
delle fasi della progettazione se non come “manovalanza avventizia/stagionale” per la
realizzazione delle attività e degli interventi previsti, spesso pagati alla giornata in cash o in
kinds (p.es. razioni di cibo – food for work), ma senza un coinvolgimento “consapevole” da
parte dei lavoratori. Questi venivano infatti reclutati generalmente senza strategie precise,
sulla base di un approccio tipicamente dall’alto (top-down approach) e spesso assolutamente
casuale, che vedeva nelle comunità locali esclusivamente la forza- lavoro necessaria alla messa
in opera e realizzazione dei progetti, e non, al contrario, comunità attive nel farsi carico del
proprio sviluppo.
In seguito, come già accennato, questo approccio è cambiato e si è passati, attraverso fasi
intermedie, ad un approccio allo sviluppo “dal basso” (bottom-up approach) dove
effettivamente c’è stato un grande sforzo di inversione di tendenza nell’associare le comunità
locali alle diverse fasi della pianificazione (participatory planning), della progettazione e
dell’esecuzione dei progetti.
Ma il bottom-up approach ha prodotto, insieme ad un importante cambiamento di rotta, anche
una tendenza (spesso demagogica) nel voler ottenere la partecipazione dei contadini troppe
volte a “costo zero”, pensando fossero sufficienti una buona opera di sensibilizzazione e
volgarizzazione per motivare le persone a partecipare, a titolo gratuito, alle attività più
diverse, ritenendole già sufficientemente gratificate dal fatto di essere coinvolte in prima
persona da un progetto.
Si ritiene, dunque, importante guardare alla realtà con maggiore obiettività, realismo e senso
critico, facendo anche un bilancio di tutte quelle attività iniziate su queste basi “naif” (…)
della partecipazione e che, una volta terminato il progetto, ma spesso anche prima, sono
regolarmente naufragate.
Può essere illuminante pensare a cosa succede a cosa nostra in materia di partecipazione delle
comunità locali allo sviluppo rurale.
Nei Paesi dell’UE - ad esempio – l’agricoltura viene assistita in questi ultimi anni (1997-99) con
un sostegno pari all’1.5% del Pil (che significa circa 600.000 lire/pro capite), contro per
esempio un sostegno dell’8% del Pil da parte della Turchia (1997-99) (Nomisma, 2001);
entrando ancora più nello specifico e pensando ai Piani di Sviluppo Rurale attualmente in corso
(Reg.1257/99, AGENDA 2000), si rileva che mediamente per le misure forestali a diverso
titolo sono previsti contributi per i beneficiari variabili dal 30-50 al 100% della spesa
ammissibile, indipendentemente che i soggetti siano pubblici o privati e che le misure generino
redditi o altri servizi.
Questo tipo di riflessione può essere utile per sottolineare il fatto di come risulti
particolarmente complesso e delicato il discorso della “partecipazione”, tenuto conto che gli
stessi Paesi sviluppati per primi erogano assistenza finanziaria quale supporto importante del
loro stesso sviluppo rurale, mentre nei Paesi del sud del mondo, dove l’obiettivo principale di
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sviluppo resta ancora l’autosufficienza alimentare e dove non esiste un sistema fiscale che
garantisca un sostegno pubblico importante a tutti i settori che lo necessitano, gli stessi Paesi
sviluppati vorrebbero che lo sviluppo rurale e agricolo si muovesse attraverso i canali
dell’autopromozione.
Per affrontare il discorso della partecipazione, sulla base della mia esperienza personale, mi è
sempre servito molto suddividere le attività di progetto secondo lo schema seguente, tenendo
conto di “cosa” ogni singola attività avrebbe prodotto (se reddito o servizi per il singolo o per
la collettività), ed in base a questo mettere a punto le modalità di partecipazione delle
comunità locali.
. attività del progetto che generano reddito
. attività del progetto che generano servizi per la collettività
. attività miste che generano reddito e servizi.
Attività del progetto che generano reddito: si tratta di attività o microrealizzazioni che
generano reddito contribuendo in maniera più o meno importante ad una integrazione
economica del budget famigliare.
Possono rientrare in questo caso per esempio la realizzazione di mini-vivai forestali di villaggio
a gestione singola o collettiva per la vendita delle piantine oppure l’attivazione del credito
agricolo oppure la trasformazione di prodotti per la vendita di beni ad alto/medio valore
aggiunto,….
In questi casi è consigliabile che il progetto richieda una forma di partecipazione finanziaria
in denaro ai singoli o ai gruppi di individui che vogliano promuovere attività di questo tipo, in
funzione della capacità reale di investimento da parte dei beneficiari.
Anche il solo gesto di voler partecipare con denaro cash a queste attività dimostra l’interesse
concreto delle persone ad impegnarsi effettivamente in quella specifica attività: nessuno
tirerebbe mai fuori del denaro se non intravvedesse concrete condizioni di convenienza.
Attività del progetto che generano servizi per la collettività: si tratta di attività
generalmente a forte valenza sociale che generano servizi e/o facilities per la collettività. E’ il
caso di un dispensario, di una strada, di una scuola, …
In questo caso la modalità di partecipazione può esplicarsi attraverso un contributo in kinds
da parte dei beneficiari che può essere costituito dalla “forza lavoro”, dal reperimento e
trasporto dei materiali, dalla manutenzione delle opere, …
Attività miste che generano reddito e servizi: è un caso classico il pozzo per l’acqua che
fornisce un bene indispensabile per la collettività ed allo stesso tempo può contribuire in
maniera significativa alla definizione di un reddito, come - per esempio - nel caso in cui l’acqua
venga usata per annaffiare le piantine di un vivaio privato o di orti privati, le cui produzioni
saranno in seguito vendute.
In questo caso la partecipazione alla realizzazione e manutenzione del pozzo può avvenire
attraverso una partecipazione in kinds e finanziaria. Solo così sarà possibile che il villaggio si
senta responsabile e protagonista della realizzazione e manutenzione del pozzo stesso.
A questo proposito vale la pena riportare che il Governo del Mali è stato uno dei primi ad
imporre per legge, a qualsiasi villaggio volesse realizzare un pozzo, una consistente
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partecipazione finanziaria al fine di evitare l’onerosa messa in opera di tale struttura senza
che poi vi fosse un’adeguata manutenzione e cura nel garantire le condizioni necessarie al suo
funzionamento.
In tutte queste attività il ruolo del progetto è senz’altro quello di fornire l’assistenza tecnica
necessaria, formazione e know how, di fornire un sostegno economico tutte le volte che
risulta indispensabile, di orientare le scelte, di verificare tutte le possibili opzioni, di definire
in stretta collaborazione con le istituzioni locali le modalità più efficaci per garantire una
partecipazione responsabile e consapevole da parte delle popolazioni coinvolte.
2. La componente forestale
Normalmente, per chi si occupa di questioni forestali in Africa, possono presentarsi due
generi di situazioni: lavorare nell'ambito di un progetto di sviluppo agricolo (più o meno
integrato) in cui possibilmente sia presente una componente forestale rilevante, oppure
lavorare in un progetto a specifica vocazione forestale.
Nel caso di un progetto di sviluppo agricolo, il lavoro del forestale é intimamente legato a
quello dell'agronomo e, proprio perché il progetto interessa tutto il settore agricolo, é
necessario definire l'ordine di priorità d'intervento della componente forestale rispetto a
quella agricola e rispetto alle esigenze delle comunità locali e all'assetto del territorio.
E' inutile promuovere “l'albero” come tale presso comunità la cui priorità, per esempio, é
incrementare la produzione agricola e l'allevamento ed il cui regime fondiario non assicura la
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proprietà dei frutti e del legno, ecc. ecc.
E' importante invece capire, insieme alle popolazioni locali, il posto che occupa “l'albero” in
una loro ideale lista di priorità, al fine di capirne l'importanza presso le comunità stesse e
rendersi conto dell'interesse delle persone ad investire su di esso.
In paesi dove le risorse e/o l'uso delle risorse disponibili sono estremamente limitati, nessuno
é disposto a investire il poco o il niente che ha per qualcosa che non rappresenti
effettivamente un'esigenza fondamentale alla propria vita, a meno che il soggetto in
questione non sia retribuito per farlo (vedi piantagioni artificiali).
Ecco dunque che la componente forestale si sviluppa attraverso interventi sempre più al
servizio dell'agricoltura e delle esigenze espresse dalle popolazioni locali.
Si parla, allora, di agroforestry (ingl.) o agroforesterie (franc.) o di social/community
forestry, di pratiche colturali cioé che implichino una stretta associazione fra la componente
arborea/arbustiva e le colture agricole, la zootecnia e il pascolo (compresa la produzione di
foraggio).
Le possibilità di combinare queste differenti componenti sono molteplici e dipendono da
diversi fattori: la stazione in cui si opera, le reali possibilità tecniche di associare/combinare
diverse colture, la preparazione/formazione/capacità degli agenti di terreno e degli esperti a
divulgare tecniche non praticate dai contadini, la disponibilità delle popolazioni a seguire gli
interventi concertati, ...
Gli interventi agroforestali sono comunque accompagnati da interventi prettamente forestali,
come per esempio l'impianto e/o la conduzione di un vivaio forestale per la produzione delle
piantine, l'impianto da parte della popolazione di un rimboschimento comunitario per la
produzione di legna da ardere e paleria, sistemazioni idraulico-forestali...
Generalmente gli interventi di cui sopra, sono accompagnati anche dalla divulgazione di
tecniche appropriate di conservazione dei suoli e delle acque (si rimanda alla letteratura
specializzata riportata in bibliografia).
Nel caso invece di un progetto a specifica vocazione forestale, il forestale lavora
generalmente in modo più specialistico e spesso più isolato sul "suo" problema forestale,
rischiando a volte di non avere una percezione completa e globale delle cose, sia che si tratti
di aspetti tecnici o di altra natura.
Salvo il caso di certi specifici progetti di ricerca (per es. lo studio dell'ibridazione
dell'Eucalypto, oppure il miglioramento genetico di una data specie forestale,...), si può dire
che la componente forestale non può esistere da sola come tale.
Un esempio molto esplicativo può essere il seguente.
Nell'Africa dell'Ovest dall'inizio degli anni ottanta, sia a livello nazionale che regionale (cioé
su più paesi della stessa area geografica) sono nati progetti forestali (per lo più promossi
dalle Nazioni Unite) il cui obiettivo era la "gestione razionale delle foreste naturali, protette
e demaniali, con la partecipazione delle popolazioni locali" per fini produttivi e protettivi,
partendo dalla constatazione che, comunque, le popolazioni tagliavano clandestinamente il
soprassuolo forestale presente e dunque tanto valeva coinvolgere le popolazioni stesse,
creando forme associative per la gestione razionale delle risorse legnose, per evitare
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l’esaurimento di queste ultime con tagli selvaggi e senza regole.
All'inizio, questo tipo di progetto é stato affrontato da tecnici forestali internazionali e
nazionali, la cui preoccupazione principale era quella di mettere a punto tecnicamente dei piani
di assestamento forestale adatti a quei particolari popolamenti forestali, ma di impostazione
assolutamente tradizionale e dunque di taglio squisitamente tecnico.
In seguito, é risultato evidente che le soluzioni tecniche identificate per la gestione di
migliaia di ettari di foreste naturali dovevano accordarsi e armonizzarsi anche con soluzioni
diverse non meno importanti, quali:
- l'organizzazione delle popolazioni che partecipavano alla gestione delle foreste (precooperative? cooperative? gruppi d'interesse? Con quali necessità di formazione?... );
- il circuito ufficiale di commercializzazione del legname e definizione dei prezzi
(accesso al mercato, problema del trasporto/distribuzione, assortimenti richiesti dal
mercato, problema della concorrenza con il mercato nero della legna da ardere, ...);
- l'uso della foresta da parte di altri villaggi e/o transumanti/nomadi (problema delle
piste di transumanza in foresta, problema della divagazione e pascolo degli animali in
particelle sotto rinnovazione, problema dei punti d'acqua, problema dei villaggi illegali
insediatisi all’interno della foresta e non censiti, ...);
- il controllo degli incendi in foresta (opera di sensibilizzazione delle popolazioni,
divulgazione dei fuochi precoci, ...);
- la posizione del Governo rispetto all'uso di foreste "demaniali" (State Forest, ingl.;
Forêt Classée, franc.) da parte delle comunità locali (riconoscimento da parte dei
Governi di forme associative per l'uso della foresta, possibilità di accesso al credito,
definizione di prezzi e tasse, autonomia di gestione di un conto bancario da parte delle
comunità, ...);
- l'armonizzazione degli interventi forestali con le priorità agricole della zona
(introduzione di varietà migliorate ed altri inputs agricoli, introduzione di specie
arboree ad uso multiplo, assistenza tecnica nella formazione dei contadini,
identificazione/introduzione di appropriate tecniche di coltivazione e conservazione
dei suoli e delle acque, assistenza alle attività femminili, assistenza al credito agricolo,
produzione e conservazione del foraggio, ...).
Nel tempo dunque, in questo tipo di progetto forestale si sono avvicendati e associati al lavoro
esperti internazionali e nazionali con profilo diverso da quello forestale (l'agronomo,
l'agropastoralista, il sociologo, il socio-economista, lo specialista in controllo ed uso del fuoco,
l'apicoltore), al fine di integrare il più possibile le diverse componenti che entravano in gioco
in un progetto tecnicamente facile e definito sulla carta, ma globalmente complesso e
delicato, i cui obiettivi dovevano soddisfare allo stesso tempo le esigenze del Paese, delle
comunità locali e del "committente" in funzione delle diverse realtà socio-economiche e
ambientali caratterizzanti l'area del progetto.
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2.1. Le formazioni forestali in ambiente tropicale/subtropicale e loro distribuzione
Nonostante vari tentativi di definire in base a determinati parametri, le varie formazioni
forestali tropicali, ad oggi non esiste una classificazione ufficiale di tali formazioni a cui
fare riferimento.
Nel 1956 a Yangambi (Zaire), inglesi e francesi definirono una prima nomenclatura della
vegetazione tropicale, ripresa e rielaborata in seguito da vari studiosi, esperti ed agenzie
specializzate.
Sulla base di questi studi, sinteticamente in Africa si possono distinguere cinque tipi
principali di formazioni forestali:
•
La foresta densa umida: si tratta di foresta mista a prevalenza di latifoglie
sempreverdi ed occupa circa 205 milioni di ettari.
•
Le formazioni pure a mangrovia: occupano circa 5 milioni di ettari.
16
•
Le foreste dense di altitudine: si tratta di formazioni a prevalenza di resinose (Africa
orientale) estese per 1,1 milioni di ettari.
•
Le formazioni pure a bambù: localizzate in zone montagnose di cui occupano circa 1,1
milioni di ettari.
•
Le formazioni forestali "aperte": a prevalenza di latifoglie (in zone aride e semiaride), sono costituite dalla foresta chiara, savana boscata, savana arborata, e steppa
arborata ed occupano circa 475 milioni di ettari.
Oltre le formazioni naturali esiste un'importante superficie, stimata a circa 8 milioni di ettari
(2000, FAO) di piantagioni artificiali per fini industriali, le cui specie principali sono il Teck,
la Gmelina, l'Eucalipto (Eucalyptus ssp.), il Neem (Azadirachta indica A. Juss) e alcuni pini
tropicali ( P.radiata, P.patula, P.elliottii, P.kesiya, P.merkusi) nelle zone di rimboschimento
d'altitudine (Etiopia, Kenya, Uganda, ...).
Verranno date qui di seguito alcune informazioni sulle due formazioni naturali piu' importanti
e sulle piantagioni artificiali.
Foresta densa umida
Distribuzione: intorno al Golfo di Guinea e nel bacino del Congo.
Clima: costantemente umido e caldo con temperature medie annue fra i 20-27° C;
pluviometria maggiore o uguale a 1000 mm/anno; mesi secchi fra 0-3/anno.
Questo tipo di formazione rappresenta un ecosistema estremamente complesso e delicato,
risultato di una evoluzione naturale millenaria che non si e' mai interrotta, salvo che per
l'intervento dell'uomo.
Le componenti identificate in questo ecosistema (vegetale, animale, climatica e inorganica)
sono intimamente legate e interdipendenti tra loro, cosicchè risulta difficile analizzarle
singolarmente e separatamente. In questo caso, dunque, é preferibile parlare di ambiente
forestale e, in particolare, di popolamento forestale.
Nel caso della foresta densa umida, il popolamento forestale e' composto da un gran numero
di specie arboree (generalmente più di 400), talvolta difficili se non impossibili da identificare
Per quanto riguarda la struttura del popolamento, si possono normalmente distinguere tre
strati di vegetazione, in funzione di diametro e altezza degli alberi che la compongono:
1. un primo strato composto da vegetali arbustivi e alberi di piccola taglia;
2. un secondo strato intermedio di alberi di media grandezza con diametri compresi fra 2030 cm e 30-35 m di altezza;
3. lo strato superiore (piano dominante) con alberi mediamente di 40-50 m di altezza.
17
Questi diversi piani di distribuzione della vegetazione risultano essere quasi sempre legati fra
loro da un intricato tessuto di liane che rende le operazioni forestali di utilizzazione e
abbattimento ancora più difficili e complicate.
Come per gli altri tipi di formazioni forestali, é soprattutto l’inventario forestale (al singolare
perché tu poi parli al singolare)(sia a tutto campo che per campionamento) lo strumento che
permette di conoscere qualitativamente (composizione specifica, struttura del popolamento,
stato fito-sanitario, tipo di assortimenti,...) e quantitativamente (densità, altezze, diametri,
volumi,...) il popolamento in esame.
In questo tipo di foresta, la composizione specifica del popolamento è principalmente
rappresentata da Meliaceae, Sterculiaceae, Combretaceae, Ebanaceae, Sapotaceae
Zona tropicale arida e semi-arida: foresta chiara, savana boscata, savana arborata,
steppa.
Distribuzione: Africa sub-sahariana, centrale, australe.
Clima: con una stagione secca e una stagione delle piogge ben definite. Pluviometria (P)
compresa fra 100-900 mm/anno; temperatura fra 24-31° C; mesi secchi almeno 7.
Questo tipo di formazioni sono definite da precise zone ecologiche in funzione della
pluviometria e della durata della stagione secca (generalmente fra 6-10 mesi secchi/anno).
Le due fasce di distribuzione di queste formazioni sono:
a/. la fascia saheliana, che comprende:
. fascia sahelo-sahariana: P = 100-300 mm/anno
. fascia sahelo sudanese : P = 300-600 mm/anno
b/. la fascia sudanese, che comprende:
. fascia sudano-saheliana: P = 600-900 mm/anno
. fascia sudano-guineiana: P= 900-1200 mm/anno.
Generalmente la struttura di questi popolamenti è monoplana o eventualmente biplana, di
cui il piano dominante raggiunge 20-25 m di altezza.
La copertura non è continua ed il numero delle specie, a seconda delle condizioni piu' o
meno favorevoli della stazione, e' piuttosto ridotto. Si tratta per lo più di specie decidue,
che perdono le foglie durante la stagione secca.
Le specie più comuni sono: Acacia albida Del., Acacia nilotica (L.) Willd., Acacia senegal
(L.) Willd., Acacia seyal Del., Detarium ssp., Butyrospermum paradoxa???, Adansonia
digitata L., Parkia biglobosa (Jacq.) Benth., Anogeissus leiocarpus DC., Hyphaene thebaica
Mart., Khaya senegalensis (Desr.) A. Juss., Balanites aegyptiaca (L.) Del., Tamarindus indica
18
L., ...
Piantagioni artificiali.
Come già accennato, un'importante superficie boscata è costituita dalle piantagioni
artificiali, stimata nel 1985 a circa 2,4 milioni di ettari.
Dati recenti attestano che le piantagioni in Africa hanno aggiunto gli 8 milioni di ettari
distribuiti in tutta l'Africa (SOFO 2001, FAO).
Si tratta per lo più di piantagioni monospecifiche con specie esotiche a rapido
accrescimento, come - per esempio - i rimboschimenti estensivi a Prosopis juliflora (Sw.)
DC. nelle Isole del Capo Verde o quelli a Eucalyptus camaldulensis Dehnhardt e E. Globulus
in Etiopia, per fini produttivi e protettivi.
I risultati di questo tipo di intervento sono stati generalmente poco incoraggianti a causa
di molteplici ragioni fra cui: l'emarginazione delle comunità locali rispetto al tipo di
operazione progettata (i contadini venivano associati agli interventi solo sotto forma di
"avventizi" pagati alla giornata o, peggio, retribuiti con razioni alimentari giornaliere, food
for work); gli elevati costi di impianto; i rendimenti spesso considerevolmente più bassi
delle aspettative; la mancanza di un reale sbocco industriale e commerciale dei prodotti,...
Se teoricamente questo tipo di operazione poteva rispondere alle esigenze espresse dai
governi (creare risorse, creare posti di lavoro, proteggere il paese dal degrado ambientale,
ecc), di fatto i progetti di rimboschimento si sono trasformati, il più delle volte, in isolati
"progetti chiavi in mano", consegnati dagli organismi esecutori ai governi locali, senza in
realtà aver creato alcuna vera occasione di sviluppo durevole per il mondo rurale.
Buona parte di queste aree giacciono ora abbandonate, paradossalmente, soprattutto in
quei paesi dove maggiore era l’urgenza di rinnovare/creare la risorsa “legno”: i governi non
hanno le risorse (umane ed economiche) per sfruttarle correttamente (spesso non esistono
nemmeno le condizioni di mercato necessarie) e le popolazioni, nella maggior parte dei casi,
non hanno nessun diritto d'uso dei prodotti.
Fallisce così il modello della piantagione industriale che, salvo in particolari condizioni, non
trova ragione di esistere nella maggior parte dei paesi africani, dove le priorità in materia
di legno sono diverse e dove i governi locali non hanno sufficienti risorse per uno sviluppo
economicamente e socialmente sostenibile di tali interventi e dove, infine, il mondo rurale
resta in attesa di un tipo di sviluppo più coinvolgente e attento alle problematiche dello
sviluppo socio-economico ed umano.
Subentrano dunque modelli diversi di intendere ed inserire “l'albero” nel territorio agrario,
nel rispetto delle priorità contadine. Oggi (almeno teoricamente...), dovrebbero essere le
comunità locali, in collaborazione con il personale tecnico, a identificare e progettare
l'intervento in funzione delle loro necessità, delle condizioni ecologiche e dei sistemi di
19
produzione agricola esistenti.
Ciò si traduce, per esempio, nell'utilizzazione sempre più diffusa di specie indigene ad uso
multiplo (che cioè oltre al legno possano fornire altri prodotti quali frutti, foraggio,
sostanze medicinali, materiale per artigianato locale, ecc), che possano essere facilmente
associate all'agricoltura locale (agroforestry), e nel promuovere una gestione razionale
delle risorse naturali rinnovabili (per fini produttivi e protettivi) da parte delle popolazioni
locali.
2.2. Alcune specie forestali
Acacia albida Del. (Fam. Mimosaceae)
Distribuzione: l'Acacia albida si trova nelle regioni semiaride dell'Africa, dal Sud
dell'Algeria a Transvaal e dal Senegal alla Somalia. In misura assai minore è stata segnalata
in Medio Oriente, nel Nord della Siria. E' una specie di pianura ed eccezionalmente in
Sudan vegeta ad altitudini fino a 2,700 m slm.
Caratteristiche: nel suo habitat naturale, l'Acacia albida raggiunge dimensioni
considerevoli: 15-30 m di altezza e 100 cm di diametro. Gli esemplari piu' vecchi sviluppano
una chioma molto larga a forma di ombrello capace di fare ombra su una superficie di 150
m². Gli alberi piu' giovani hanno inizialmente una forma a cono rovesciato.
Le foglie, di un verde quasi bluastro, sono bipinnate. Cio' che maggiormente distingue
questa specie dalle altre è il fatto che perda le foglie durante la stagione delle piogge ed
invece conservi la sua chioma durante la stagione secca.
Il sistema radicale è fittonante capace di penetrare a grandi profondità, alla ricerca di
falde, ma sviluppa anche un intricato sistema di radici superficiali che corrono a poca
profondità quasi parallele all'andamento del terreno.
Ecologia: questa specie, particolarmente adattabile, cresce con pluviometrie comprese fra
20
300 e 1800 mm/anno, ma puo' anche sopportare periodi di siccità di anni. Resiste a basse
temperature (fino a 6° C) come a temperature elevate (oltre 40° C).
L'Acacia albida non richiede terreni particolarmente fertili, ma ha bisogno di falde
piuttosto superficiali che possano essere raggiunte il piu' velocemente possibile dal
fittone.
Selvicoltura: questa specie è eliofila e fruttifica all'età di 7-12 anni, producendo sempre
piu' semi invecchiando.
Il numero di semi per chilogrammo è di 11,500-19,000. I semi, facilmente parassitabili,
vanno trattati per poterli conservare.
Soprattutto dopo lunghi periodi di conservazione, i semi vanno pre-trattati per garantirne
una buona germinazione. Si usa normalmente la scarificazione meccanica (tasso di
germinazione del 95% in otto giorni), oppure l'immersione in acqua bollente per 7-15
minuti, oppure l'immersione per 4-5 minuti in una soluzione al 66% di acido solforico.
I semi vengono piantati in vivaio in fitocelle le cui dimensioni devono essere almeno di 8x30
cm, riempite con una miscela di sabbia e terra.
Il sesto d'impianto varia in funzione della pluviometria e del tipo di associazione previsto:
in genere 10x10 m, ma anche 20x20 m e piu'.
L'Acacia albida riveste grande importanza non solo per i popolamenti naturali (normalmente
puri) che costituisce ma anche per l'uso che ne viene fatto da sempre in agroforestry, cioè
in associazione a colture agricole, per lo piu' cereali.
I benefici e gli usi di questa specie sono molteplici:
. migliora il terreno grazie al suo apporto in sostanza organica ed al fatto che la sua
copertura lo protegge dal sole e dunque dalle eccessive temperature durante la stagione
secca;
. ha la capacità di fissare azoto;
. crea importanti zone d'ombra per il bestiame durante la stagione secca;
. nel Sahel, questa specie è la piu' importante produttrice di foraggio per il bestiame. Le
foglie, i rametti e soprattutto i frutti sono particolarmente apprezzati dal bestiame. Si
stima che 20 alberi/ha forniscano 2,500 Kg di foraggio il cui valore nutrizionale sarebbe
pari a 1,930 Kg di orzo.
. il legno viene usato per utensileria e come combustibile. La corteccia viene usata per
l'estrazione dei tannini, mentre i fiori , la gomma e le foglie vengono usati nella farmacopea
locale.
Grevillea robusta
(Fam. Verbenaceae)
Distribuzione: la Grevillea robusta è nativa dell'Australia (Queensland e New South
Wales).
E' oggi usata nei tropici in zone di altitudine. In Africa si trova ad altitudini comprese fra
1,200-1,800 mslm.
Caratteristiche: questo albero sempreverde raggiunge i 30-35 m di altezza e 50-60 cm di
diametro. Il tronco è piuttosto diritto e cilindrico quando non ha tendenza a biforcare.
21
La Grevillea sviluppa un sistema radicale complesso e fittonante capace di penetrare in
profondità. Le foglie sono bipennate e alterne, di colore verde sopra e glauco nella pagina
inferiore.
Ecologia: questa specie richiede in genere temperature medie annue comprese fra i13-21°C.
Ha una buona resistenza al freddo e alle gelate e buon adattamento a diversi regimi
pluviometrici (P= 700-1800 mm/anno).
Vegeta al meglio in suoli freschi, sabbioso-limosi con PH=5-7.
Selvicoltura: la Grevillea è specie eliofila, che si rigenera naturalmente assai bene nelle
radure, in spazi aperti, ai margini di terreni coltivati.
Il legno è particolarmente apprezzato per paleria e legna da ardere. E' usata anche per
ombreggiare le piantagioni di tè e caffè.
Il numero di semi per Kg è di 70,000-100,000, con un tasso di germinazione del 60-80%
entro i primi due-tre mesi dalla raccolta; diversamente per conservarli per lunghi periodi è
necessario tenerli in luoghi asciutti e a basse temperature
(-7+10°C).
I semi germinano in 20-28 giorni e le piantine possono essere messe a dimora dopo 6-12
mesi, quando hanno raggiunto un'altezza di circa 25-35 cm. Le radici vanno regolarmente
potate.
Gli accrescimenti sono soggetti a forti variazioni a seconda della stazione. L'incremento
annuo è stimato a 5-10 metri cubi/ha e il turno è compreso fra 10-20 anni.
Khaya senegalensis (Desr.) A. Juss (Fam. Meliaceae)
Distribuzione: la Khaya senegalensis si trova naturalmente in Africa fra il 15° e l'8°
parallelo Nord, lungo una fascia che si estende dall'Oceano Atlantico all'Indiano attraverso
il Senegal, il Mali, il nord del Camerun, il nord dell'Uganda ed il sud del Sudan. Vegeta ad
altitudini comprese fra 0-400 m slm.
Caratteristiche: la Khaya senegalensis è una specie decidua che raggiunge i 35 m di altezza
e il metro di diametro, ma l'accrescimento come pure la forma piu' o meno regolare del
fusto dipendono dal tipo di stazione.
Le foglie sono pinnate, di colore verde brillante sopra e verde opaco/glauco nella pagina
inferiore.
I semi sono contenuti in capsule sferiche e legnose, in quantità di 15.
Ecologia: la Khaya senegalensis è tipica della savana arborata e della foresta decidua in
zona arida/semi-arida, anche se la sua zona di appartenenza è piuttosto la fascia sudanese,
caratterizzata da pluviometrie di 650-1300 mm/anno ed una stagione secca di 4-7
mesi/anno.
In queste zone vegeta in condizioni ottimali formando popolamenti puri artificiali (si tratta
in genere di vecchie piantagioni eseguite in epoca coloniale) o mischiandosi con altre specie
nelle "foreste galleria" (= formazioni ripicole, dal francese forêt galerie).
22
Per un buon accrescimento di questa specie è piu' importante una buona pluviometria che un
suolo particolarmente fertile e ricco.
Selvicoltura: questa specie è tendenzialmente eliofila e mal sopporta la competizione con
altri alberi, arbusti e/o specie erbacee.
Nella parte meridionale della sua zona di distribuzione, dove esistono due stagioni delle
piogge, fruttifica due volte. Il numero di semi per chilogrammo è pari a 4,500-7,000.
Il tasso di germinazione dei semi freschi è l'80-90%, ma si abbassa rapidamente con semi
piu' vecchi. Per la produzione di piantine in vivaio, è dunque consigliabile utilizzare seme
fresco ed eseguire la semina fra dicembre e gennaio.
Nel suo habitat naturale, la rinnovazione naturale è buona. Qualora si pianti Khaya
senegalensis è bene pensare a piantagioni miste (per es. con Chlorophora excelsa,
Triplochiton scleroxylon, Gmelina arborea, ...) in quanto la monocoltura di Khaya è soggetta
ad attacchi di Hypsipila robusta (Fam. Pyralidae).
In buone condizioni, l'accrescimento della Khaya è piuttosto rapido per i primi dieci anni (
circa 1,2-1,5m/anno), poi rallenta.
Il legno è pregiato, duro pesante e durabile, facile da lavorare, di tessitura fine.
I tronchi di forma regolare sono particolarmente apprezzati per ebanisteria. Altri usi sono
per infissi, serramenti, mortai , utensileria,...
La corteccia, le foglie e i semi sono usati nella farmacopea locale.
Butyrospermum parkii (G. Don) Kotschy (Fam. Sapotaceae)
Distribuzione: a l'estremo sud del Sahel e nella vicina savana sudanese e guineiana. Densi
popolamenti si trovano in Guinea, Mali, Burkina Faso, Niger e al nord della Costa d'Avorio,
del Benin, del Togo, del Ghana, della Nigeria e del Camerun.
Meno frequente si trova ancora in Africa Centrale e Uganda.
Caratteristiche: si tratta di una specie decidua, che raggiunge i 10-15 m di altezza,
raramente fino a 25 m.
Le foglie sono raggruppate a ciuffi e munite di lunghi piccioli (5-15 cm), se giovani
pubescenti di color rossiccio, una volta adulte invece glabre e di un verde vivo e intenso.
Alla fine della fioritura, che dura da dicembre a marzo, questa specie rimette le foglie.
I frutti sono grossi all'incirca come una noce e allo stesso modo sono muniti di un pericarpo
piuttosto spesso (4-8 mm) e carnoso e di un solo seme.
Ecologia: questo albero, meglio conosciuto come Karité, predilige suoli argillosi secchi e
sabbiosi con un buon strato di humus, ma si adatta anche a suoli piu' pietrosi e/o detritici,
penalizzando pero' la produzione di noci.
Evita le stazioni troppo umide o stagionalmente inondate.
Il profondo sistema radicale preserva il Karité anche da lunghi periodi di siccità. Ama la
luce e si trova sparso in modo isolato in zone di savana boscata o savana aperta, ma nel area
di appartenenza forma anche popolamenti puri piuttosto densi.
Ha bisogno di una pluviometria di 600-1500 mm/anno.
Selvicoltura: la rinnovazione naturale avviene con difficoltà per una serie di ragioni, fra cui:
23
. il pascolamento del bestiame;
. il passaggio del fuoco
. il lento accrescimento iniziale.
Questa specie, come l'Acacia albida ed altre specie indigene, viene associata a colture
agricole (cereali), mantenendo circa 30-50 alberi ad ettaro.
La prima raccolta dei frutti, che rappresentano il prodotto principale, avviene dopo 15 anni.
Essendo questa una delle rare piante oleaginose spontanee nella regione, sarebbe
necessario intensificare e maggiormente favorire questa coltura.
Va notato, fra l'altro, che in parecchie zone dove trova la sua diffusione naturale, il Karité
si presenta in popolamenti molto spesso coetanei o della stessa classe di età, senza che ci
sia una sottoclasse piu' giovane che possa nel tempo garantire il rinnovamento di questi
popolamenti.
Come già accennato, il prodotto principale di questa specie è rappresentato dai frutti che
forniscono il burro di Karité.
L'estrazione del burro avviene ancora con metodi piu' o meno tradizionali. Solo in pochi
paesi si è iniziata l'estrazione industriale. Il tenore in grassi di ogni noce di Karité varia
fra 40-55%.
Il burro di Karité è apprezzato come grasso commestibile. Viene usato anche per produrre
sapone, nell'industria dolciaria, nella cosmesi e nella farmacopea locale.
Gli scarti di lavorazione delle noci per l'estrazione del burro vengono usati come foraggio.
La produttività dipende come sempre dalla stazione e varia da 15 kg/albero/anno a 45
Kg/albero/anno.
Gli alberi che sono fuori produzione per l'età vengono abbattuti e forniscono un ottimo
legname da opera.
Eucalyptus camaldulensis Dehnhardt (Fam. Myrtaceae)
Distribuzione: originario dell'Australia, trova larghissima diffusione fra il 15°S ed il 38°S,
in zone temperate, tropicali e sub-tropicali, fino a 600 m slm.
Introdotto in Italia all'inizio dell'800 e in Africa all'inizio del 900.
Caratteristiche: raggiunge i 25-30 m di altezza ed il metro di diametro. La corteccia è
sottile e si sfoglia facilmente, le foglie sono lanceolate, alterne di colore verde bluastro,
glabre.
Ecologia: vegeta in zone a pluviometria compresa fra 250-625 mm e 4-8 mesi di stagione
secca, con temperature medie di 29-35°C (le piu' calde) e 11-20°C (le piu' fredde). Resiste
piuttosto bene alle gelate ed è una specie adatta a rimboschimenti in zone aride, semiaride. Non ha particolari esigenze per il tipo di suolo, salvo evitare i suoli calcarei.
Selvicoltura: questa specie, spesso controversa per l'eccessivo uso che ne é stato fatto
soprattutto in Africa, fa parte delle specie esotiche a rapido accrescimento usate per fini
protettivi (controllo dell'erosione su forti pendenze, frangivento, delimitazione di
24
perimetri irrigui,...) e produttivi (legna da ardere, paleria, materiale da costruzione,...).
L'Eucalipto viene ceduato e possiede una eccellente capacità pollonifera. Si adottano turni
di 7-15 anni e gli incrementi annui (sempre a seconda della stazione) variano fra 7 mc e 30
mc.
I semi, piccolissimi, sono circa 700 per grammo. La germinazione avviene dopo due
settimane; si stima che un chilogrammo di semi abbia un rendimento di 15,000-20,000
piantine.
Il sesto d'impianto piu' comunemente adottato è 2x2 m o 3x3 m.
Le giovani piantine sono spesso soggette ad attacchi di termiti alle radici ed al colletto; in
questi casi si usa generalmente dare del pesticida in polvere.
Il legno viene usato per legna da ardere, paleria, materiale da costruzione, utensileria.
Come l'Eucalyptus camaldulensis viene usato nei rimboschimenti di zone aride, semi-aride,
cosi' l'Eucalyptus globulus viene usato nei programmi di rimboschimento in zone umide e di
altitudine. Quest'ultimo presenta caratteristiche selvicolturali simili al Camaldulensis,
salvo accrescimenti piu' importanti (10-35 mc/anno). Anch'esso, come il Camaldulensis, é
stato largamente usato per la sua adattabilità, resistenza a condizioni atmosferiche
difficili (in Sud America si trova fino a 4,000 m di altitudine, mentre in Africa fino a 3,000
m) e soprattutto per il suo rapido accrescimento.
Prosopis juliflora (Sw.) DC. (Fam. Mimosaceae)
Distribuzione: originaria delle regioni costiere del Nord dell'America Latina, dell'America
Centrale, del Messico e delle Antille, la Prosopis é coltivata in tutti i tropici
Caratteristiche: albero di 12-15 m di altezza, spesso a portamento cespuglioso, che puo'
raggiungere anche il metro di diametro. E' una specie sempreverde, spinosa (spine di 1,2-5
cm di lunghezza), con foglie alterne biparipennate.
I fiori si presentano sotto forma di infiorescenze cilindriche di 5-10 cm di lunghezza e 1,5
cm di larghezza. I frutti assomigliano a delle specie di fagiolini selvatici.
Il sistema radicale é particolarmente sviluppato e profondo (fino a 35-50 m di profondità).
Ecologia: grazie al suo sistema radicale profondo, puo' vegetare in stazioni particolarmente
aride (anche meno di 150 mm/anno), ma in genere con pluviometrie comprese fra 150-700
mm/anno. Vive fino a circa 1,400 m di altitudine. Ama i suoli sabbiosi (ottima per la
fissazione di dune), ma vegeta anche in situazioni estreme (suoli detritici e rocciosi) purché
non siano salini o non presentino una "crosta" lateritica troppo spessa e dura per lo sviluppo
delle radici.
Selvicoltura: la Prosopis appartiene alla categoria delle specie esotiche a rapido
accrescimento.
In stazioni particolarmente favorevoli il rapido accrescimento e la forte capacità
rigenerativa ne fanno una specie "infestante", difficile da estirpare in seguito, se
necessario.
Dotata di ottima facoltà pollonifera si riproduce agamicamente e per semina diretta con
25
grande facilità.
Il sesto d'impianto piu' comunemente adottato é di 5x5 m, 6x6m, ma l'esperienza insegna
anche 10x10 m, in modo da permettere lo sviluppo di un tappeto erbaceo sottostante (per
lo piu' foraggere) e consentire il pascolo sotto copertura.
I semi (8.000-15.000/Kg) conservano la loro facoltà germinativa per due anni, se ben
conservati (luogo asciutto, areato, senza parassiti,...) e se trattati al momento della semina
danno un tasso di germinazione dell'80-90%.
I trattamenti possibili consistono in: I. immersione (1 ora) in acido solforici al 20%; II.
immersione (20 minuti) in acido solforico concentrato; III. immersione in acqua bollente e
lasciar raffreddare per 24 ore; IV. infine, bollitura dei semi in acqua bollente (7 minuti) e
lasciar raffreddare.
In natura il trattamento dei semi avviene attraverso la digestione di essi da parte del
bestiame e la disseminazione attraverso le deiezioni animali.
La semina si effettua da aprile a fine maggio e la germinazione é rapida. Le piantine, per via
del rapido accrescimento, vanno messe a dimora dopo 30, max 60 giorni.
La Prosopis é considerata una pianta a buts multiples, come si dice in francese, o, in inglese
a multipurpose species.
E' dunque una pianta polivalente: i frutti sono commestibili, usati sia nell'alimentazione
umana (se ridotti in farina) che in quella animale (contengono fino al 17% in proteine), le
foglie ed i giovani rami sono un ottimo foraggio, il legno é particolarmente apprezzato come
combustibile e per piccola utensileria, i fiori sono molto apprezzati dalle api per la
produzione di miele ed infine la Prosopis é una buona specie da utilizzare per costituire
siepi, frangivento, per migliorare il suolo e stabilizzare le dune.
N.B. I paragrafi “Le formazioni forestali in ambiente tropicale/subtropicale e loro distribuzione” e “Alcune
specie forestali” , integrati dalle esperienze/conoscenze sul campo dell’autrice, sono stati ripresi e tradotti
dai seguenti testi:
•
H.-J. Von Maidel: Arbres et arbustes du Sahel – GTZ, Eschborn 1983.
•
Centre Technique Forestier Tropical: Memento du Forestier – Ministère de la
Coopération et du Développement, Paris 1989.
26
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Technical
Paper. Roma.
AA. VV., 1985 - "Preparing agricultural investment projects" - FAO, Investment Centre
Technical Paper, Roma.
AA. VV., 1989 - "Mémento du forestier" – Centre Technique Forestier Tropical, Ministère de
la coopération et du Développement.
AA.VV. – “Sociétés paysannes du Tiers-Monde” – L’Harmattan, Paris 1990.
AA. VV. - "Mémento de l'agronome" - Collection Techniques rurales en Afrique, IV edition,
Ministère de la Coopération et du Développement, 1991.
AA. VV. - "Les actes du seminaire national sur l'aménagement des sols, la conservation de
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AA. VV. - "Small business projects: a step by step guide for private development
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AA. VV., 2001 – “State of the world’s forests – 2001” – FAO, Roma
Altieri Miguel - "Environmentally sound small-scale agriculture projects" - CODEL.VITA,
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Catenacci B. – “Il sogno dell’abbondanza” – Ediz. Cultura della Pace, Fiesole (FI) 1993.
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