25 Febbraio Il Sole 24 Ore Sanità Cartella clinica: vietato compilarla

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25 Febbraio Il Sole 24 Ore Sanità Cartella clinica: vietato compilarla
Febbraio 2015
Rassegna Responsabilità Professionale
25 Febbraio
Il Sole 24 Ore Sanità
Cartella clinica: vietato compilarla in ritardo
di Paola Ferrari
Commette omissione d'atti d'ufficio, previsto e punito dall'articolo 328 del Codice penale, comma 1, il
primario responsabile del reparto, nella fattispecie ortopedico, che non compila e non controlla l'operato dei
suoi collaboratori accettando l'imperfetta compilazione dei documenti clinici e il loro mancato inoltro,
addirittura dopo anni, al servizio che si occupa del rilascio delle copie. Questa è l'opinione della VI sezione
della Cassazione penale che nella sentenza n. 6075/2015 del 10 febbraio, pur annullando per avvenuta
prescrizione il precedente di condanna della Corte d'appello di Catania, l'ha confermato nel merito ai fini
civili.
La cartella clinica ha la funzione di garantire la compiuta attuazione del diritto alla salute, a prescindere dalla
presenza di un'urgenza sanitaria conseguente alla prosecuzione del trattamento, posto che le conseguenze
impreviste delle terapie somministrate ben potrebbero profilarsi a distanza di tempo e richiedere un
immediato accertamento. Inoltre, il paziente che la richiede è titolare di un diritto alla ricezione tempestiva
degli atti. Conseguentemente, la cartella clinica deve essere sempre formata senza ritardo, risultando
sempre funzionale a ragioni di sanità. Del resto, data l'ampiezza della tutela riconosciuta al diritto
fondamentale alla salute dall'articolo 32 della Costituzione, oltre che la tutela del diritto alla privacy, non
appare possibile limitare il diritto dell'interessato all'immediato rilascio all'ipotesi di prosecuzione delle cure,
poiché l'utente non è tenuto a esplicitare le ragioni della sua richiesta. In quest'ottica, il primario che
sovraintende al reparto diventa responsabile della tenuta dei documenti del reparto che sovraintende.
«La supremazia del paziente sul diritto alle informazioni che lo riguardano», afferma la sentenza, è un diritto
«incondizionato e non deve essere sorretto dall'illustrazione della causale» al pari dell'importanza clinica del
documento che rappresenta, in maniera necessariamente congruente sul piano temporale con l'attività
compiuta l'indicazione di tutti gli interventi effettuati sul paziente, e assolve a plurime funzioni, tutte fondate
sulla necessità di ricostruire ex post, a qualsiasi fine, l'appropriatezza degli interventi. E questo al fine di
valutarne gli effetti, la possibile sinergia con ulteriori iniziative sanitarie, e quindi consentire l'adeguatezza di
queste ultime, tutte comunque ricollegabili alla tutela della salute intesa nella sua accezione più ampia, che
prescinde dalle esigenze di intervento immediatamente successivo per la prosecuzione delle cure, e
comprende il necessario dovere informativo nei confronti del paziente su quanto effettivamente
somministratogli o eseguito durante il ricovero «e ciò», afferma la sentenza, «anche al fine di
armonizzazione delle successive cure, e di individuare, per l'ipotesi di effetti negativi, le possibili cause».
18 Febbraio
Il Sole 24 Ore Sanità
Risarcimenti: necessarie nuove regole contro la malasanità
di Roberto Simioni,presidente Obiettivo Risarcimento
Accade ai neonati, ma non solo. Ovviamente quando si tratta di bambini di pochi mesi, come Daniel a
Trapani e Nicole a Catania, le morti in ospedale fanno ancor più rumore e lasciano ancor più sbigottiti. Ma la
malasanità è una piaga generalizzata e diffusa ovunque in Italia, non solo in Sicilia. Non è un caso che tutte
le indagini demoscopiche rilevino l'aumento della diffidenza e della paura degli italiani verso la sanità (per
l'Eurispes il 68% degli italiani non si fida del proprio medico). In effetti, su 8 milioni di persone ricoverate ogni
anno, 320mila (pari a circa il 4%) subiscono danni o conseguenze dovute a errori nelle cure o a disservizi
che potrebbero essere evitati (dati Cineas). E negli ultimi anni le denunce sono aumentate (dell'80% dal
1995, dati Ania) perché i pazienti sono più consapevoli.
Mentre si gioca al rimpallo inutile delle responsabilità, con la Regione che accusa i medici, i medici che
accusano il governo, il governo che accusa la Regione, però, si continua a morire. E si continuerà ancora,
perché non è questo il modo per risolvere i problemi della malasanità in Italia. Come Obiettivo Risarcimento,
società con un'esperienza ultradecennale sul campo, riteniamo che sia necessario un confronto più ampio e
meno strumentalizzato sul tema. Partendo però da un assunto, ribadito sia dal Presidente della Repubblica,
Sergio Mattarella, sia dal ministro della Salute, Beatrice Lorenzin: lo Stato deve garantire il diritto del malato,
che è sempre e comunque il soggetto debole.
Per questo riteniamo che le proposte che Parlamento e Governo stanno analizzando siano di estrema
rilevanza. In merito, le ipotesi di ridurre i tempi di prescrizione fino ad un quinto dell'attuale siano atti
incoscienti di chi sta giocando con la salute dei cittadini. Non è riducendo i diritti dei pazienti che si elimina il
problema, anzi. Se chi subisce lesioni personali gravi per un casi di malasanità poi non ottiene un giusto
risarcimento sarà poi a carico dello Stato e dei familiari. Inoltre, poiché abbiamo sempre pensato che le
responsabilità raramente ricadono sul singolo medico e che la maggior parte delle volte siano imputabili agli
errori della filiera ospedaliera, crediamo che l'introduzione dalla figura del risk manager, del "medico legale"
Febbraio 2015
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di corsia e la razionalizzazione degli uffici amministrativi delle Asl debba essere una priorità, come d'altronde
è previsto in quasi tutte le proposte di legge in discussione in Parlamento. Poiché i sistemi di mediazione
obbligatoria fin qui previsti hanno avuto scarso successo, poi, crediamo sia utile studiare forme nuove per
chiudere le controversie in sede stragiudiziale e introdurre modalità di indennizzo diretto sul modello di
quanto già avviene in ambito rc auto.
12 Febbraio
Quotidiano Sanità
Cassazione. Paziente muore per farmaco sbagliato. Confermata condanna per omicidio colposo a
“infermiere coordinatore” che non aveva segnalato allergia riportata nell’anamnesi
Il medico incaricato dell’anamnesi, in presenza dell’infermiere coordinatore, aveva segnalato un’allergia
all’amoxicillina. Ma in reparto gli viene comunque prescritta e somministrata causandone il decesso. Per la
Corte l’infermiere coordinatore aveva comunque l’obbligo di vigilare e segnalare l’errore essendo a
conoscenza dell'allergia del paziente.
LA SENTENZA: http://www.quotidianosanita.it/allegati/create_pdf.php?all=6910065.pdf
La Corte di cassazione (sezione IV, sentenza 16 gennaio 2015, n. 2192) torna sulla responsabilità
infermieristica e sulla posizione di garanzia in capo a ogni esercente la professione sanitaria su un caso
interessante di responsabilità professionale che trae origine da un errore medico nella prescrizione di un
farmaco.
Il fatto è degno di essere attentamente ricostruito – per quello che è possibile fare all’interno di una sentenza
della Corte di cassazione, non essendo conosciuti i riferimenti dei precedenti gradi di giudizio di merito –
nella sua interezza.
Un medico durante l’anamnesi (curiosamente chiamata “intervista” nella sentenza) di un paziente – avvenuta
alla presenza di un infermiere coordinatore – rileva l’allergia all’amoxicillina del paziente stesso.
Il farmaco viene lo stesso prescritto e successivamente somministrato, all’interno di una sala operatoria, da
un’infermiera, causandone la morte in “pochi secondi”.
In primo grado entrambi gli infermieri vengono assolti. In appello viene assolta l’infermiera somministrante e
condannato l’infermiere coordinatore in quanto la Corte di appello “ha evidenziato la concreta sussistenza di
una “specifica posizione di garanzia” in capo all’infermiere coordinatore. Tale posizione di garanzia viene
posta a tutela dell’incolumità del paziente, “tenuto conto, in particolare, della qualifica professionale di vertice
rivestita dall'imputato, onerato di precisi doveri sinergici di organizzazione, di gestione, di sovraintendimento
e di segnalazione”.
Sostanzialmente si è contestato all’infermiere coordinatore “la trascuratezza …nell'omettere di procedere
alle dovute segnalazioni ai fini della correzione degli errori contenuti nella documentazione clinica
riguardante il paziente”. A fronte, cioè dell’errore medico, il coordinatore aveva l’obbligo di “sottoporre a una
nuova verifica, o a un più accurato controllo, detta documentazione clinica”. Omettere tale segnalazione
significa violare “le regole imposte dall’arte infermieristica”.
Nel ricorso per cassazione il coordinatore produce tre motivi di impugnazione di nostro interesse. Nel primo
contesta l’omessa valutazione di tre circostanze: la prima legata alla mancata disponibilità materiale della
cartella il giorno dell’intervento; la seconda circostanza è relativa all'assenza del coordinatore dall'ospedale,
“nei due giorni precedenti l'intervento” per turno di riposo “durante i quali il personale medico avrebbe dovuto
provvedere alla verifica e ai necessari controlli sulla correttezza delle prescrizioni terapeutiche disposte nei
confronti del paziente”. Ultima circostanza non valutata – secondo il coordinatore – era relativa al fatto che la
materiale somministrazione fosse avvenuta in sala operatoria dove erano presenti altri due coordinatori.
La Suprema Corte individua la fonte della responsabilità del coordinatore nella posizione di garanzia
richiamando le leggi di abilitazione all’esercizio professionale (legge 42/99, profilo professionale ex DM
739/1994, legge 251/2000 e 43/20006) e gli obblighi costituzionali ex art. 3 e 32 Cost.
Come è noto la “posizione di garanzia” si sostanzia nell’obbligo “giuridico che grava su specifiche categorie
di soggetti previamente forniti degli adeguati poteri giuridici, di impedire eventi offensivi di beni altrui, affidati
alla loro tutela per l’incapacità dei titolari di adeguatamente proteggerli” (Mantovani, 2001). Con la posizione
di garanzia si crea uno speciale vincolo tra il soggetto debole e il “garante”, tra chi, in questo caso
l’infermiere, deve preservare da danni il paziente indicato come soggetto debole.
Viene riconosciuta al coordinatore la posizione di garanzia, classificata dalla dottrina giuridica come di
concezione mista “sostanziale-formale”, che trova le sue fonti nella Costituzione e nella normativa di settore.
Non è una novità assoluta: è dalla fine degli anni novanta dello scorso secolo che l’elaborazione della
posizione di garanzia viene sempre maggiormente riconosciuta alle professioni sanitarie. L’elemento di
novità di questa sentenza risiede nel riconoscimento all’infermiere coordinatore, tenuto conto, come abbiamo
visto, della “qualifica professionale di vertice rivestita” da cui conseguono “precisi doveri sinergici di
organizzazione, di gestione, di sovraintendimento e di segnalazione”.
Febbraio 2015
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In questi ultimi decenni, pur nella imprecisione delle non chiarissime norme di carattere contrattuale e
legislativo, abbiamo assistito al consolidamento della figura del coordinatore come figura, quanto meno di
fatto, tendenzialmente gestionale. Sicuramente più spostata verso l’attività organizzativa che non quella
clinica. Il coordinatore non viene di conseguenza percepito come l’equivalente, nell’ambito del comparto,
della figura ex primariale della dirigenza, che come è noto, conserva una importante attività clinica da
affiancare alla funzione gestionale. Il coordinatore nei fatti è verosimilmente - insieme alle posizioni
organizzative del comparto - l’unica figura sanitaria gestionale praticamente a tempo pieno.
Questa sentenza restituisce al coordinatore una competenza clinico assistenziale e, di conseguenza, la
responsabilità connessa. Non solo aspetto gestionale ma, quindi, anche compiti di “sovraintendimento”
(ovviamente clinico) e di “segnalazione”.
Tra l’altro, al coordinatore è stato anche contestato, un altro aspetto “assistenziale”. Nei giorni precedenti
egli stesso aveva somministrato un anticoagulante al paziente, in previsione dell’intervento chirurgico poi
rimandato, e nell’annotazione “di tale circostanza sulla scheda di terapia unica
aveva tralasciato di
riesaminare con attenzione detta scheda, sulla quale era già stata riportata la prescrizione del farmaco X. ,
antibiotico della famiglia delle penicilline, senza rilevarne (e conseguentemente segnalarne l'occorrenza al
personale medico e infermieristico interessato) la chiara incompatibilità con l’allergia”. La mancata
segnalazione, dunque, dell’errore medico come causa prima della condanna (per omicidio colposo). Il
processo di somministrazione dei farmaci deve essere portato avanti dall’infermiere in modo “non
meccanicistico (ossia misurato sul piano di un elementare adempimento di compiti meramente esecutivi),
occorrendo viceversa intenderne l'assolvimento secondo modalità coerenti a una forma di collaborazione
con il personale medico orientata in termini critici.
Quindi collaborazione nei confronti del medico in modo critico laddove si possano supporre errori a danno di
pazienti. Questo, precisa la Suprema Corte, non viene attuato “al fine di sindacare l'operato del medico
(segnatamente sotto il profilo dell'efficacia terapeutica dei farmaci prescritti), bensì allo scopo di richiamarne
l'attenzione sugli errori percepiti (o comunque percepibili), ovvero al fine di condividerne gli eventuali dubbi
circa la congruità o la pertinenza della terapia stabilita rispetto all'ipotesi soggetta a esame”. In caso di dubbi
compete all’infermiere la segnalazione al medico. Questo si colloca in una consolidata giurisprudenza.
In un’antica sentenza la Corte precisò che in caso di errori e di dubbi sulla prescrizione era compito
dell’infermiere di “attivarsi…..al precipuo scopo di ottenerne una precisazione per iscritto che valesse a
responsabilizzare il medico e a indurlo a una eventuale rivisitazione della precedente indicazione…”. Con le
parole della cassazione di oggi, in seguito all’errore di una prescrizione, derivano, nei confronti
dell’infermiere “obblighi giuridici di attivazione e di sollecitazione volta a volta specificamente e
obiettivamente determinabili in relazione a ciascun caso concreto” (Corte di cassazione, IV sezione,
sentenza n. 1878/2000).
Sempre di più, quindi, responsabilità all’interno dell’équipe, anche se questo caso non può essere
annoverato come classico caso di responsabilità di équipe. In quest’ultima responsabilità, infatti, l’agire
professionale è caratterizzato dal c.d. “principio dell’affidamento”. Il principio dell’affidamento consiste nel
“rendere responsabile il singolo professionista del corretto adempimento dei compiti che gli sono affidati e di
fatto sgravarlo dall’obbligo di sorvegliare il comportamento altrui al superiore fine dell’interesse della vita e
della salute del paziente” (Fiandaca G, Musco E, 1995). In questo caso, coerentemente con un filone
interpretativo ormai pacifico, non era applicabile il principio dell’affidamento in quanto il coordinatore avendo
agito colposamente omettendo la segnalazione, non poteva confidare nell’eliminazione dell’errore da parte di
chi gli succedeva nella posizione di garanzia.
A parte queste annotazioni strettamente giuridiche, la notazione finale a cui possiamo giungere è relativa
alla stretta intimità di rapporti tra professione medica e professione infermieristica nell’agire quotidiano.
Luca Benci Giurista
11 Febbraio
Il Sole 24 Ore Sanità
Rc, 4mila euro a posto letto
Il contenzioso è in diminuzione ma la spesa viaggia in controtendenza
Marsh ha pubblicato la sesta edizione della Medmal Claims Italia dove sono state analizzate le richieste di
risarcimento danni di 10 anni dal 2004-2013 su un campione rappresentativo del territorio nazionale della
sanità pubblica. Il volume d’analisi si è aggirato intorno alle 42mila richieste di risarcimento che sono
pervenute alle strutture sanitarie clienti della società di brokeraggio assicurativo. Rispetto alla quinta
edizione, che si basava su un campione di 95 strutture pubbliche, quella attuale si basa su 89 strutture
perché molte aziende sono state accorpate e pertanto è diminuito a livello nazionale il numero delle aziende
pubbliche (Asl e Ao). Il campione, anche in questa versione, è rimasto invariato (è stato aggiunto l’Ao di
Seriate).
Febbraio 2015
Rassegna Responsabilità Professionale
Nella sesta edizione, a livello nazionale il valore assicurativo di un posto letto è stimato intorno a 4.074 euro,
un singolo ricovero intorno a 107 euro, un medico 6.990,29 euro e un infermiere 2.907,26 euro. Se
attraversiamo l’Italia da Nord a Sud si osserva che questo dato varia. Un posto letto al Nord costa circa
3.666,54 euro, al Centro 5.380,06 euro e al Sud oltre 2.742 euro. Per il personale medico ci sono delle
variazioni che vanno dai 6.264 euro del Nord ai 9.669 euro del Centro, ai 3.930 euro del Sud. In quasi tutte
le situazioni analizzate l’esposizione economica maggiore si verifica nel Centro Italia. I dati rispetto alla
quinta edizione sono notevolmente peggiorati sul versante economico, ma non sui tassi.
All’interno dello studio è stato possibile calcolare la frequenza degli eventi a livello nazionale e non. Dai dati
è emerso che avvengono 9,95 sinistri ogni cento posti letto, 2,62 ogni mille ricoveri, 17,07 eventi ogni cento
medici e 7,10 ogni cento infermieri.
I tassi variano, in relazione alla localizzazione geografica. In particolare i tassi diminuiscono se si prendono
in considerazione le strutture sanitarie del Nord e del Sud, mentre aumentano considerevolmente al Centro.
Bisogna dire però che si registra una generale flessione dei tassi di rischio. Se prendiamo in considerazione
due fattori come i posti letto e il personale medico si può affermare, a esempio, che il tasso per i posti letto
varia da 9,37 eventi ogni cento al Nord, 10,65 al Centro e 8,50 al Sud. Per il personale medico, si varia da
16,01 eventi ogni cento al Nord, 19,13 al Centro e 12,18 al Sud.
La tipologia delle richieste di risarcimento danni. Nel sesto report Marsh la media di richieste annue per
struttura è aumentato rispetto all’anno precedente e si attesta a 68 pratiche annue.
L’84% delle richieste danni riguarda pazienti, il 9,3% visitatori e il 3% operatori. A guidare la classifica per
tipologia di rischi, ovviamente è il rischio clinico con il 73%, seguono i rischi alla struttura (eventi in aree
comuni, parcheggi, scale ecc.) 10,2%, i danni alla proprietà (oggetti personali, protesi ecc.) 9,8% e i rischi
professionali 2,3 per cento.
L’analisi delle conseguenze seguite all’evento che ha determinato la richiesta di risarcimento vede al primo
posto le lesioni (78,1%) seguite dai danni alle proprietà (10,1%) e decesso (7,9 per cento).
Le principali tipologie di errori reclamati sono errori chirurgici (27,3%), errori diagnostici (18,0%), errori
terapeutici (10,4%), cadute di pazienti e visitatori (9,4%), danneggiamenti a cose (5,5%) e smarrimenti e furti
(4,5%). Le specialità cliniche maggiormente interessate sono: struttura e parti comuni (15,5%), ortopedia
(13,2%), pronto soccorso (13,1%), chirurgia generale (10,3%), ostetricia e ginecologia (7,6%) e medicina
generale (3%). Circa la metà delle richieste di risarcimento danni è denunciata entro i primi 6 mesi dalla data
di accadimento dell’evento; circa il 77% entro 2 anni. Nel corso dei dieci anni (2004-2013) è stato chiuso
circa il 30% delle richieste danni, mentre resta aperto poco più del 43% di pratiche e un ulteriore 24% circa
risulta senza seguito.
In questa edizione del report, l’analisi temporale delle richieste di risarcimento ha raggiunto i dieci anni ed è
stato perciò possibile sviluppare un modello statistico che permetta di stimare il numero di richieste di
risarcimento che si genereranno negli anni a venire e che sono riferite a sinistri avvenuti in un determinato
anno.
Lo sviluppo di questo modello statistico di proiezione del rischio è di notevole rilevanza per il mondo
assicurativo, in quanto permetterà di effettuare studi di retroattività delle polizze più efficaci e attendibili.
A esempio per ciò che riguarda gli eventi avversi che si sono verificati nell’anno 2013, il 46,7% sono sinistri
noti, mentre il restante sono eventi che genereranno richieste di risarcimento danni nei prossimi anni. Ciò
significa che nei prossimi dieci anni verranno potenzialmente notificate altre 956 richieste di risarcimento per
eventi accaduti nel 2013. Il modello permette inoltre di dettagliare questo ultimo dato per ciascun anno a
venire (verranno generate 600 Rrd nel 2014 relative al 2013, 145 nel 2015 e così via).
La dimensione del campione di analisi e la stratificazione dei dati per area geografica e tipologia di ospedali.
Nella sesta edizione della Medmal Claims Analysis il campione di analisi è costituito da 89 strutture sanitarie
pubbliche. La riduzione rispetto all’edizione precedente è da imputare, come riportato nel paragrafo iniziale,
all’accorpamento di alcune strutture sanitarie; pertanto è diminuito a livello nazionale il numero totale di Asl e
Ao. Dall’analisi dei dati emerge che il maggior numero delle richieste danni viene presentata al Nord 56,2%
(23.410 richieste danni), seguono le strutture del Centro col 38,2% (15.882) e il Sud con il 5,6% (2336). Se
analizziamo il dato medio per singola struttura sanitaria il Nord equivale al 42,95% (520 richieste danni), il
Centro è il 40,98% (496) e il Sud 16,07% (195).
Osservando invece il dato complessivo delle richieste danni in base alla tipologia di struttura sanitaria e/o
ospedaliera si evince che le strutture sanitarie di primo livello, ovvero quelle di base, registrano il maggior
numero di richieste danni pari a 53,97% (22.466), seguono le strutture di secondo livello (intese come
ospedali ad alta intensità di cura o ad alta specializzazione) al 24,46% (10.183) e gli ospedali universitari
sono al 19,97% (8.315). Molto distanziate sono le strutture specialistiche monotematiche come quelle
ortopediche 1,16% (481), materno-infantile 0,44% (183).
Analizzando sempre per le tipologie di ospedali il dato medio per singola struttura, i policlinici e universitari
sono al 30,23% (640 richieste danni), le strutture di secondo livello 21,88% (463) e gli ospedali di base
20,82% (441). Tra le strutture monospecialistiche quelle ortopediche hanno la percentuale più alta 22,74%
Febbraio 2015
Rassegna Responsabilità Professionale
(481), i materno-infantile 4,33% (92). Emanuele Patrini Healthcare practice leader - Risk consulting - Marsh
Spa
3 Febbraio
Il Sole 24 Ore Sanità
Rifiuto, non serve il danno
Per la sanzione è sufficiente recare pregiudizio all’ufficio o al servizio
Ferma la qualità di incaricato di pubblico servizio attribuibile all’infermiere, rientra nel “proprium”
dell’infermiere professionale quello di controllare il decorso della malattia o convalescenza del paziente
ricoverato, fungendo da «necessario tramite con il medico del reparto» a fronte di situazioni suscettibili di
spiegazioni plurime in termini di ragionevoli sviluppi patologici, tali comunque da esigere l’intervento di
mediazione e interpretazione del medico.
Con questa motivazione la Suprema corte, sezione VI penale, con sentenza n. 49537, depositata il 27
novembre 2014, ha confermato la sentenza con cui la Corte di appello di Reggio Calabria condannò a
quattro mesi di reclusione con pena sospesa e non menzione e al risarcimento del danno in favore della
parte offesa due infermieri per il delitto di indebito rifiuto di atti di ufficio (articolo 328 del codice penale).
Nel caso in esame i due infermieri professionali, in servizio presso il reparto di psichiatria dell’Ospedale,
indebitamente rifiutarono di eseguire un atto del loro ufficio omettendo di prestare assistenza sanitaria in
favore di una paziente ricoverata, ovvero di chiamare il medico di guardia affinché valutasse le patologie
sofferte dalla predetta, sia in relazione alla forte e progressiva emicrania di cui soffriva e di cui si era
esplicitamente lamentata, sia in relazione alla caduta, causata da un capogiro, in esito alla quale subì una
contusione dell’arcata sopraccigliare; comportamenti che, per ragione di sanità, dovevano essere compiuti
senza ritardo.
Secondo la difesa degli infermieri, non essendosi verificato alcun danno, quale conseguenza diretta della
realizzata omissione, la condotta addebitata non sarebbe stata punibile ai sensi dell’articolo 328 del codice
penale.
Sul punto, la Corte di cassazione ha chiarito che il rifiuto di provvedere, come nel caso di specie, integra la
materialità e la soggettività richiesta dalla norma, la quale non esige che l’atto omesso o ritardato produca
danno al paziente: il delitto di omissione di atti d’ufficio, infatti, è un reato di pericolo la cui previsione
sanziona il rifiuto, non già di un atto urgente, bensì di un «atto dovuto che deve essere compiuto senza
ritardo», ossia con tempestività, in modo da conseguire gli effetti che gli sono propri in relazione al bene
oggetto di tutela, indipendentemente dal nocumento che in concreto possa derivarne (cfr. Cassazione
penale, sezione 6, 13519/2009).
In conclusione, va ribadita la regola che il rifiuto, l’omissione o il ritardo di un atto d’ufficio, per cadere sotto la
sanzione penale non deve necessariamente cagionare un danno, essendo sufficiente il pregiudizio all’ufficio
o al servizio, insito nella condotta illegittima del pubblico ufficiale o dell’incaricato del pubblico servizio.
Nicola di Lernia
Il Sole 24 Ore Sanità
«Ospedale carente, medico assolto»
La drammatica carenza organizzativa in cui versa il pronto soccorso può costituire un’esimente penale per il
medico che si trova a operare in assenza di strumenti e direttive, nonostante il suo comportamento
gravemente negligente. Queste le considerazioni con cui la Corte di cassazione penale, sezione VI, con
sentenza n. 46336 del 10 novembre 2014 ha confermato la pronuncia con cui la Corte d’appello di Firenze,
in riforma della sentenza del Tribunale di Livorno, assolse i due medici di pronto soccorso dal reato di
omicidio colposo. Nel caso di specie, il medico del pronto soccorso ortopedico e il collega di turno del pronto
soccorso generale, erano accusati di aver colposamente cagionato la morte di un paziente avendo
tardivamente diagnosticato un’imponente frattura alla milza. Il paziente venne inizialmente trasportato presso
il pronto soccorso ortopedico a seguito di incidente stradale e il medico ortopedico, dopo gli interventi di sua
competenza, sospettò un trauma interno e non disponendo di un ecografo per una preliminare valutazione,
avviò il giovane al pronto soccorso generale, sito in un padiglione diverso. Il trasferimento avvenne con
ritardo in quanto, a causa dell’assenza di un’autolettiga, il ferito fu trasferito con l’ausilio di una barella.
Il paziente fu ricevuto quindi nel pronto soccorso generale, ma nonostante le precarie condizioni venne
contrassegnato dall’infermiera addetta al triage con codice non urgente e visitato solo dopo un’ora, quando
ormai versava in una condizione disperata, tanto che dopo cinque minuti sopraggiunse shock emorragico,
cui seguì esito letale. L’indagine peritale ha evidenziato che la patologia alla milza avrebbe potuto essere
diagnosticata tempestivamente attraverso l’esame ecografico e che il paziente avrebbe potuto essere
salvato se l’esame fosse stato eseguito immediatamente dall’ortopedico il cui comportamento, non avendo la
strumentazione idonea, è risultato immune da censure.
Febbraio 2015
Rassegna Responsabilità Professionale
La Corte ha invece ritenuto negligente il comportamento del terapeuta del pronto soccorso generale che,
avvisato dell’arrivo di un ferito per sospetto trauma addominale, avrebbe dovuto valutare la gravità del
paziente a seguito della segnalazione che, se fondata, rappresentava un rischio della massima urgenza.
Tuttavia, le documentate valutazioni del perito rendevano del tutto incerta la riconducibilità causale della
morte del paziente alla ritardata visita. Il drammatico evento è stato dunque ritenuto frutto di una serie di
concause: erroneo trasporto del paziente al ps ortopedico e non a quello generale; negata percezione di
dolori addominali da parte del ferito; assenza di un ecografo; irrazionale separazione dei diversi pronto
soccorso; mancanza di linee guida efficienti per il trasferimento; mancata valutazione dell’infermiera sulla
reale situazione del paziente. Di qui la pronunzia assolutoria in ambito penale. N.d.L.
CASI
28 febbraio
Corriere di Bologna
È morta la bimba colpita da meningite I genitori: «Denunciamo il Maggiore»
La neonata si è spenta ieri al Sant’Orsola. Fascicolo in Procura per omicidio colposo
È morta dopo aver lottato per undici giorni nel reparto di Pediatria del Sant’Orsola, dove era stata ricoverata
d’urgenza il 16 febbraio per una meningite da stafilococco. Da subito, la piccola di un mese e mezzo appena
era caduta in un coma profondo dal quale non si è più svegliata, gettando nella disperazione i genitori, che
ora vogliono denunciare il Maggiore per aver sottovalutato le condizioni di salute della figlia nelle prime fasi
del malessere che la faceva piangere ininterrottamente. Anche la Procura vuole vederci chiaro e ha aperto
un fascicolo contro ignoti per omicidio colposo. «È un atto dovuto, al fine di svolgere gli opportuni
accertamenti medico-legali», spiega il procuratore aggiunto Valter Giovannini. Fin da subito i medici aveva
capito che le condizioni della neonata erano disperate: il quadro clinico parlava di un lento e progressivo
peggioramento, fino a ieri mattina, quando la neonata è stata sopraffatta dalla malattia. «Adesso vogliamo
capire se è stato fatto tutto il possibile per salvare nostra figlia», dicono con gli occhi gonfi di lacrime Marina
e Constantin, i due ragazzi moldavi che da otto anni vivono sotto le Due Torri insieme a un’altra bambina. «I
medici dovrebbero aiutare le persone e non farle morire, secondo me al Maggiore non hanno fatto niente per
la nostra creatura — si dispera la ragazza —. Quando sono arrivata lì le hanno solo misurato la febbre, ma
si vedeva che stava molto male». Secondo la ricostruzione della 29enne, verso le 4,30 del 16 febbraio, la
neonata avrebbe iniziato a piangere a dirotto: febbre a 38 e vomito i primi sintomi riscontrati. Alle 7 ha
chiamato un’ambulanza e insieme alla figlia è arrivata al pronto soccorso pediatrico del Maggiore: una
dottoressa l’ha visitata diagnosticando un’influenza e consigliando un dermatologo per delle macchie che
erano comparse sul viso. Poi madre e figlia sono tornate a casa con un taxi, ma la situazione è rapidamente
degenerata. «Ho chiamato la mia pediatra e l’ha visitata alle 13,30 dicendomi di correre in ospedale —
aggiunge Marina —. L’ho portata al Sant’Orsola, ma era troppo tardi. È entrata in coma nel pomeriggio e poi
non l’ho più rivista…», qui il racconto si ferma tra i singhiozzi e le parole che stentano a tornare. Nei giorni
scorsi l’Ausl aveva chiarito che la «valutazione clinica era stata scrupolosa e approfondita, non c’erano segni
che facessero sospettare una patologia così grave, le caratteristiche erano quelle di un banale stato
febbrile». «Speriamo che la magistratura faccia il suo dovere, noi stiamo valutando cosa fare —
commentano i due genitori —. Aspettiamo anche di capire quando potremo celebrare il funerale, che sarà
sicuramente a Bologna». Nell’atrio del padiglione 13 del Sant’Orsola sono arrivati anche i parenti e gli amici
dei due giovani per provare a consolarli. Anche da loro solo poche parole: «I medici ci avevano detto che ci
sarebbero state poche speranze, ma noi abbiamo sperato fino all’ultimo, adesso vogliamo capire perché è
successo tutto questo». Mauro Giordano
La Repubblica Bologna
“Non sempre emergono sintomi chiari del male in vita mia 3-4 casi così”
IL PARERE/ FAUSTO FRANCIA, DIRETTORE SANITÀ PUBBLICA
ROSARIO DI RAIMONDO
«È un’infezione rarissima. Nella mia vita avrò visto tre o quattro casi simili a questo». Fausto Francia,
direttore del Dipartimento di sanità pubblica, parla della forma di meningite che ha ucciso la piccola Miriam.
Non vuole commentare l’operato dei medici dell’ospedale Maggiore, che hanno visitato la neonata
ipotizzando una febbre ma, più in generale, sottolinea come non sia scontato riconoscere subito questa
malattia: «Le diagnosi si fanno sui sintomi, e in alcuni casi i sintomi non ci sono».
Direttore Francia, di che tipo di caso parliamo?
«Di una meningite da streptococco. Una forma di cui si legge sui libri di medicina. È un batterio che in
genere provoca soltanto una tonsillite. Tanto che non esistono epidemie da streptococco e nemmeno
vaccini».
Come è stato contratto il batterio dalla neonata?
Febbraio 2015
Rassegna Responsabilità Professionale
«Evidentemente dalla famiglia, forse aveva una scarsa resistenza a questo batterio».
La piccola è stata visitata al pronto soccorso del Maggiore prima di essere portata al Sant’Orsola. I
medici hanno detto che era febbre.
«Su questo preferisco non commentare. Dico solo che in alcuni casi è possibile che la malattia sia iniziata
senza che i sintomi fossero visibili. E un medico fa le diagnosi sulla base dei sintomi. Anche una semplice
influenza può degenerare in una meningite, in particolare nei bambini: in loro si assiste a una drammatica
esplosione dei sintomi anche dopo poche ore».
I genitori dicono che la bimba aveva dei puntini sul viso e che è stato consigliato loro di andare dal
dermatologo.
«In generale è difficile che un pediatra del pronto soccorso confonda delle petecchie (i sintomi più evidenti
della meningite, ndr) con delle lesioni cutanee molto meno gravi».
Corriere di Romagna
Diagnosi sbagliate, i medici pagano i danni
RIMINI. A distanza di dieci anni la Corte dei conti chiede il risarcimento a cinque medici riminesi che hanno
sbagliato diagnosi o interventi chirurgici. Errori per cui l’Ausl ha dovuto a suo tempo pagare un risarcimento
danni di 50mila euro (per un totale di 250mila euro), pari alla franchigia applicata dall’assicurazione
all’Azienda sanitaria, e del quale ora lo Stato esige il rimborso.
Al momento sono cinque i medici ospedalieri che hanno una contestazione di responsabilità per colpa grave
relativa a casi che risalgono al periodo tra il 2004 e al 2005.
La cifra per la quale dovranno rispondere singolarmente i dottori non è ancora definita ma si potrebbe
aggirare nell’ordine di alcune decine di migliaia di euro. In uno dei cinque casi presi in esame, l’Ausl aveva
transato in via extragiudiziale 225mila euro (di cui 50mila coperti direttamente dall’Azienda) per il decesso di
un uomo visitato in pronto soccorso, rimandato a casa (con una diagnosi errata) e poi deceduto per un
aneurisma dell’aorta.
Altro caso: per un errore in sala operatoria, costato la lesione di un nervo con relativa invalidità della
paziente, nel 2005, l’Azienda sanitaria aveva risarcito, dopo una causa civile, 53mila euro (3mila
l’assicurazione, 50mila l’Ausl).
Difesi dall’avvocato Francesco Vasini, i medici chiamati a giustificarsi davanti alla giustizia contabile per
“colpa grave”, non sapevano però neanche dei contenziosi, in quanto in entrambi i casi a essere citata era
stata solo l’Azienda sanitaria che aveva finito per pagare i danni con esborso di soldi pubblici.
Soldi che ora lo Stato rivuole indietro. I sanitari però non ci stanno e nelle loro memorie difensive spiegano
che in quegli anni e fino al 2011, non erano stati informati dall’Ausl della necessità di dotarsi di una polizza
assicurativa privata, né dell’esistenza di una franchigia da 50mila euro, di fatto rimanendo scoperti ed
esposti ai rischi professionali per sei anni.
I medici che si attengono alle linee guida sono chiamati a rispondere penalmente in caso di “colpa grave”
(distinta dalla “colpa lieve”) e in questi casi può essere chiesto loro il risarcimento danni.
18 Febbraio
Corriere della Sera
Genova, neonato muore in sala parto
A Catania l’autopsia della piccola Nicole.
Si sarebbe chiamato Matteo il neonato morto due giorni fa all’ospedale Villa Scassi di Sampierdarena
(Genova) dopo un cesareo d’urgenza. Il corpo di Matteo è ora a disposizione dell’autorità giudiziaria. Un
caso che va ad aggiungersi alle morti di altri quattro bambini avvenute nei giorni scorsi a Napoli, Catania e
Trapani. A Napoli, in particolare, s’è creata la psicosi dei genitori dei piccoli ricoverati al Pediatrico
Santobono dove ieri è spirata un’altra bimba, Maria Liliana Siniscalchi, 14 mesi, figlia di Carolina Sepe,
uccisa da un vicino di casa nel 2013 che sparò contro la sua famiglia (Maria Liliana era nata mentre la
mamma era in coma). Nello stesso ospedale venerdì mattina era morta Rosa Buonomo, otto mesi, dimessa
il giorno prima (è indagato il medico che ha firmato le dimissioni di Rosa). A Ragusa, prima dell’autopsia di
Nicole, il papà Andrea Di Pietro ha dato ieri l’ultimo saluto alla neonata deceduta in ambulanza perché
nessuno degli ospedali di Catania aveva un posto libero. La mamma, colta da malore a casa, è stata
ricoverata in ospedale.
Sempre ieri, Rosario Crocetta, presidente siciliano, ha sospeso l’attività del reparto di ostetricia della clinica
Gibiino dove era nata Nicole. A.G.
17 Febbraio
La Repubblica Napoli
Santobono, la psicosi dei ricoveri
Febbraio 2015
Rassegna Responsabilità Professionale
IRENE DE ARCANGELIS
IL POLMONE destro collassato. È la prima certezza emersa dall’autopsia sul corpicino di Rosa Buonomo,
morta a otto mesi, ventiquattro ore dopo essere stata dimessa dal Santobono. Prima della corsa in ospedale
uno dei due polmoni non funzionava più. Ma sulle cause di quel collasso si dovrà ancora lavorare per
confermare l’eventuale legame tra le dimissioni e la morte. Intanto la storia di Rosa si traduce in psicosi
all’ospedale pediatrico del Vomero. Le mamme dei piccoli degenti si sono in molti casi opposte alle
dimissioni dei figli considerandole “precoci”. Tanto che ieri alle nove del mattino ai novanta posti letto
dedicati alla Pediatria ne sono stati aggiunti altri trenta. Sul fronte investigativo, oltre all’autopsia gli esperti
nominati dalla Procura nell’inchiesta per omicidio colposo hanno cominciato a studiare il registro
dell’ospedale per ricostruire, giorno dopo giorno, cosa è successo, cosa è stato diagnosticato, cosa è stato
somministrato alla piccola e da chi, nell’avvicendarsi dei turni dei medici. Allo studio i farmaci e le posologie.
Potrebbe allungarsi l’elenco degli indagati, anche se al momento l’unico è il medico che ha mandato a casa
la piccola Rosa giovedì 12 febbraio.
A PAGINA VI
Psicosi tra le mamme del Santobono aggiunti trenta posti letto in Pediatria
I genitori dei degenti si oppongono alle dimissioni dei figli Dall’autopsia sul corpo della bambina
risulta il polmone destro collassato
IRENE DE ARCANGELIS
IL POLMONE destro collassato. È la prima certezza emersa dall’autopsia sul corpicino di Rosa Buonomo,
morta a otto mesi ventiquattro ore dopo essere stata dimessa dal Santobono. Prima della corsa in ospedale
uno dei due polmoni non funzionava più. Ma sulle cause di quel collasso si dovrà ancora lavorare per
confermare l’eventuale legame tra le dimissioni e la morte. Intanto la storia di Rosa si traduce in psicosi
all’ospedale pediatrico del Vomero. Le mamme dei piccoli degenti si sono in molti casi opposte alle
dimissioni dei figli considerandole “precoci”. Tanto che ieri alle nove del mattino ai novanta posti letto
dedicati alla Pediatria ne sono stati aggiunti altri trenta. Il rovescio della medaglia è la medicina difensiva. I
camici bianchi preferiscono, sentendosi esposti a eventuali denunce, mantenere in regime di ricovero
bambini che potrebbero invece essere dimessi. Sempre ieri, la divisione di Chirurgia d’urgenza si è ritrovata
costretta a bloccare i ricoveri ordinari per destinare due box ai pazienti in surplus. «Più di una mamma ieri
pretendeva la nostra presenza costante affianco al figlio — dice un medico di pronto soccorso — ma le
medicherie erano così affollate che non avremmo potuto stare vicino a tutti costantemente». Sul fronte
investigativo, oltre all’autopsia gli esperti nominati dalla Procura nell’inchiesta per omicidio colposo hanno
cominciato a studiare il registro dell’ospedale per ricostruire, giorno dopo giorno, cosa è successo, cosa è
stato diagnosticato, cosa è stato somministrato alla piccola e da chi, nell’avvicendarsi dei turni dei medici.
Allo studio i farmaci e le posologie. Potrebbe allungarsi l’elenco degli indagati, anche se al momento l’unico
sotto inchiesta è il medico che ha firmato le dimissioni mandando a casa la piccola Rosa giovedì 12 febbraio.
Che si difende: «Ho seguito il protocollo, mi sono basato sulle analisi. I genitori però non mi hanno chiesto di
trattenere la bambina in ospedale. Sono distrutto». Dunque si andrà a ritroso, allungando eventualmente
l’elenco dei medici da indagare. Nel fascicolo, inoltre, le dichiarazioni dei genitori di Rosa che avrebbero
parlato di altri sintomi prima della corsa in ospedale e della morte. Situazione estremamen- te delicata allo
studio dei consulenti che la Procura ha scelto tra professionisti non napoletani, in quanto nella stragrande
maggioranza dei casi di autopsie su bambini la Procura si rivolge proprio ai medici del Santobono.
15 Febbraio
Corriere della Sera
I medici decidono per alzata di mano sul ricovero del bimbo che costa troppo
Milano, in un ospedale pediatrico il via libera dopo i dubbi per i bilanci in rosso
MILANO Un’alzata di mano per decidere se ricoverare un bimbo in rianimazione. Succede anche questo
nella Sanità sempre più a corto di soldi. E accade in uno dei più importanti ospedali pubblici per bambini, con
sede nel cuore di MILANO.
Mancano pochi giorni a Natale e alla clinica pediatrica De Marchi sono tempi difficili. Gli Uffici del Controllo di
gestione e programmazione si sono appena raccomandati di non sforare il bilancio. È fine anno e per i vertici
degli ospedali è fondamentale chiudere con i conti in pareggio. I direttori generali, nominati dalla Regione,
vengono giudicati anche - e soprattutto - sulla capacità di evitare buchi. A cascata, le pressioni per non
andare in rosso coinvolgono tutti.
Poche ore dopo il richiamo a spese più attente, arriva alla De Marchi la richiesta di ricoverare un bambino
egiziano di quasi un anno. Ha una grave malattia, un’immunodeficienza ereditaria, con enormi rischi di non
riuscire a sopravvivere anche alla più banale infezione.
I medici capiscono bene che per il piccolo paziente servono cure particolarmente costose. Ci sono da
spendere oltre 50 mila euro e l’esito delle terapie è tutt’altro che scontato. E c’è il pericolo di un reale
Febbraio 2015
Rassegna Responsabilità Professionale
accanimento terapeutico. Il reparto che lo deve prendere in carico ha già superato il budget di spesa
annuale, lo sforamento è di quasi 100 mila euro.
I pediatri si interrogano. Il ricovero del bimbo va accettato? Il piccolo paziente è destinato a un trapianto di
midollo in un altro ospedale ed è in arrivo alla De Marchi dopo essere già stato ricoverato in altre due
strutture. Entrambe si sono scontrate con i medesimi problemi economici della De Marchi: si sono già
prestate alle costose cure, ma ora chiedono aiuto altrove.
Per prendere la decisione si susseguono riunioni. L’ultima, la decisiva, avviene in reparto per alzata di mano.
Ai presenti - una decina - viene chiesto di esprimersi attraverso una votazione. Si decide di ricoverare il
bimbo.
Ma l’alzata di mano lascia un segno tra i presenti che ora - con il bambino miracolosamente migliorato - si
domandano: «Possibile che nel servizio sanitario un medico debba trovarsi a fare scelte di questo tipo?
Pesare la vita di un bimbo in relazione alle spese per salvarlo?».
Questione di soldi. La clinica pediatrica De Marchi è una costola del Policlinico di MILANO, ospedale
universitario che è un punto di riferimento nazionale per oltre 200 malattie rare. Per queste patologie le
terapie sono onerose perché, essendo poco diffuse, i farmaci sono particolarmente cari.
Il problema dei conti in ordine è una lotta quotidiana. E con i tagli al bilancio della Sanità degli ultimi anni la
situazione in Italia è sempre più precaria. Secondo le stime delle Regioni nel 2012 sono arrivati
complessivamente 3 miliardi di euro in meno e nel 2013 ben 5 miliardi e mezzo.
È di questi giorni, inoltre, la discussione sull’ennesima riduzione di finanziamenti per una cifra di 2,450
miliardi di euro. Eppure già oggi in Italia la spesa sanitaria è solo il 9,2% del Pil, assai inferiore a quella degli
Stati Uniti (16,9%) e di Paesi europei come la Francia (11,6%) e la Germania (11,1%). Il minore
trasferimento di soldi colpisce con un effetto domino le Regioni, gli ospedali e i singoli reparti.
Dopo aver votato, i pediatri si sono rivolti alla direzione di presidio. «Sono al corrente di quanto accaduto e
ho sostenuto i medici nella decisione dando la copertura sanitaria richiesta — spiega il direttore Basilio Tiso
—. Il bambino è stato curato e sta meglio. Nei prossimi giorni ci sarà il trapianto di midollo».
È andata bene, fa intendere Tiso, ma è difficile andare avanti così: «Con lo sforzo di tutti, amministratori,
direzione strategica dell’ospedale, medici e infermieri, questa situazione si sta risolvendo. Ma se i fondi
continueranno a diminuire — sottolinea — è indispensabile una profonda riforma del sistema sanitario.
Occorre diminuire il peso dell’apparato amministrativo, burocratico e politico sulla Sanità, in modo da
sbloccare risorse in favore degli operatori medici e infermieristici, delle tecnologie più all’avanguardia e dei
nuovi farmaci». Un medico non può e non deve fermarsi a riflettere sul costo di una cura.
La Repubblica
L’ospedale lo dimette, muore a due anni
Nuova tragedia in Sicilia. Il piccolo Daniel era stato rimandato a casa nonostante la febbre altissima e una
sospetta meningite Il pm ha chiesto di acquisire le cartelle cliniche. Il padre si dispera: “È tutto assurdo.
Siamo stati abbandonati al nostro destino”
SALVO PALAZZOLO LAURA SPANÒ
TRAPANI .
La sanità siciliana è di nuovo nella bufera. Dopo la piccola Nicole, muore un altro bambino. Daniel
Cesanello, che aveva quasi due anni, è stato rimandato a casa dai medici del Sant’Antonio Abbate di
Trapani nonostante avesse febbre altissima e vomito.
Qualche ora dopo, i genitori sono tornati di corsa in ospedale, ma non c’era più nulla da fare. Daniel è
deceduto venerdì notte. E il padre Gaetano si dispera: «È assurdo che un bambino venga rimandato a casa
con 40 di febbre e in quelle condizioni. Non doveva accadere. Siamo stati abbandonati al nostro destino».
Adesso, della morte del piccolo Daniel si sta occupando il procuratore di Trapani Marcello Viola. Ci sono da
chiarire molti aspetti di questa vicenda. Anche perché nessuno dall’ospedale ha segnalato il decesso del
bimbo, la magistratura ha appreso della vicenda solo ieri sera grazie alle segnalazioni di alcuni giornalisti. E
il procuratore ha subito inviato la polizia in ospedale per acquisire la cartella clinica. Ora, il caso è finito
anche all’attenzione dell’azienda sanitaria locale, perché fra le ipotesi del decesso c’è pure quella di una
sospetta meningite.
Venerdì mattina, Daniel aveva la febbre alta. All’asilo di Pietretagliate, una frazione di Trapani, ha avuto un
malore. La maestra ha subito chiamato i genitori, e nel giro di pochi minuti è iniziata una corsa verso il pronto
soccorso. Da lì, al reparto di Pediatria. Il bambino è stato visitato e dimesso con la diagnosi di “sindrome
influenzale”. I medici gli hanno prescritto solo una terapia di tachipirina.
Ma nel pomeriggio la situazione è peggiorata. Sono comparse delle macchie sul petto del bambino e la
febbre è aumentata. Intorno, alle 20, i genitori hanno chiamato il pediatra, che ha ipotizzato un caso di
rosolia. Mezz’ora dopo, Daniel è stato assalito dalle convulsioni. Ed è iniziata un’altra corsa verso il
Sant’Antonio Abbate. Con la solita trafila, all’ingresso. Prima il pronto soccorso, poi il reparto di Pediatria. I
medici non sono riusciti a tamponare la situazione, era già troppo grave. Cinque ore dopo il ricovero è
accaduto l’irreparabile. Ora, il corpo del piccolo è nella camera mortuaria dell’ospedale di Trapani. A vegliare
Febbraio 2015
Rassegna Responsabilità Professionale
la salma ci sono papà Gaetano, di professione carpentiere, e mamma Bice, casalinga. Con loro ci sono le
altre due figlie. «Fino ad oggi non abbiamo presentato alcuna denuncia perché non vogliamo che il nostro
angelo sia sottoposto allo scempio di un’autopsia», sussurra la signora Bice mentre scorre su Facebook le
foto sorridenti del suo bambino, che fra un mese avrebbe compiuto due anni. Qualche giorno fa, il papà
postava alcune bellissime foto dell’ultimo arrivato di casa e scriveva: «Alla fine guardi la tua famiglia e
passano tutti i pensieri». In una foto, Daniel mangia sorridente il suo gelato, in un’altra indossa la maglietta
del Trapani calcio mentre è ancora nella culletta.
«Ora siamo piombati in un incubo — ripete il padre agli amici — non si può morire così. Non possiamo far
finta che non sia successo niente». In tarda serata, all’ospedale Sant’Antonio Abbate arriva anche il
magistrato di turno della procura. Mentre alla camera mortuaria è continuo via vai di amici e parenti della
famiglia, che abita a Guarrato, una frazione di Trapani. «Vogliamo giustizia — dice un amico della coppia —
non è più ammissibile che i nostri bambini siano mandati allo sbaraglio dalla sanità».
14 Febbraio
La Repubblica
L’ospedale la dimette, bimba muore a 8 mesi
Napoli, solo 24 ore prima i medici avevano deciso di rimandarla a casa: “Stava bene”. La denuncia
dei genitori
GIUSEPPE DEL BELLO ANTONIO DI COSTANZO
NAPOLI . Avrebbe compiuto un anno il 13 giugno. È morta 24 ore dopo essere stata dimessa dall’ospedale.
E adesso sarà l’inchiesta, coordinata dal procuratore aggiunto Luigi Frunzio, a stabilire le cause del decesso
di Rosa, bimba di appena 8 mesi, ricoverata nel polo Santobono di Napoli per quattro giorni con una
diagnosi di “bronchiolite” di media gravità. La tragedia arriva subito dopo la fine assurda della neonata di
Catania, vittima di un trasferimento “troppo lungo”, e dopo la denuncia dei familiari di un paziente deceduto,
sempre a Napoli, per aver passato due notti su una barella al freddo.
La vicenda di Rosa comincia domenica sera quando, accompagnata dai genitori, approda al pronto soccorso
del Santobono con difficoltà respiratorie. La piccola viene ricoverata nella medicina d’urgenza. «Qui —
spiega il primario Antonio Campa — è stata curata come da protocollo, con farmaci e ossigenoterapia ». La
bimba non desta preoccupazioni particolari e giovedì viene dimessa in buone condizioni, tanto che, ricorda il
primario, «al momento aveva un livello di saturazione di ossigeno ottimale, pari al 98 per cento».
Passano appena 24 ore e improvvisamente la situazione precipita. Rosa respira a fatica. I genitori, che
abitano a Ponticelli, periferia occidentale della città, corrono di nuovo nello stesso ospedale. Arrivano intorno
alle 11. Ma per i medici è ormai troppo tardi. La bambina che, secondo quanto riferisce il Santobono,
sarebbe arrivata già morta, viene comunque sottoposta per oltre 20 minuti a un ultimo disperato tentativo di
rianimazione. Il pm Emilia Galante Sorrentino apre un fascicolo. Toccherà all’autopsia, con l’atto dovuto degli
avvisi di garanzia, stabilire le cause del decesso. Da chiarire anche la voce secondo cui i genitori, giovedì,
avrebbero preferito che Rosa rimanesse ancora in ospedale.
La polizia sequestra la cartella e ricostruirà la sua storia clinica anche attraverso il racconto del pediatra di
famiglia. Immediata la decisione dei genitori di presentare un esposto: vogliono sapere perché la loro figlia è
morta e se vi siano state negligenze. A voler capire le cause della morte sono anche i camici bianchi. «Ho
letto la cartella clinica — conclude Campa — la piccola paziente, al momento delle dimissioni, era in buone
condizioni con tutti i parametri in regola». Il Santobono è il punto di riferimento della Campania per le
emergenze pediatriche. Dall’inizio dell’anno, circa 15mila bambini sono stati accolti dal pronto soccorso del
Santobono, di cui 1.500 ricoverati per problematiche connesse all’epidemia influenzale. Con questi numeri e
i tagli subiti dal personale, il polo vive una stagione di particolare difficoltà per carenza di mezzi, medici e
infermieri.
13 Febbraio
La Repubblica
Una lunga catena di errori e cento chilometri di curve il destino segnato di Nicole
Le accuse al 118: “Si è mosso solo dopo ripetute richieste” A Messina il letto c’era, si è scelto di
andare più lontano
ALESSANDRA ZINITI
Una notte e una mattinata convulsa di interrogatori e accertamenti sono bastate ad acquisire una certezza:
la piccola Nicole non era in condizioni di essere trasferita. Tantomeno in ambulanza, tantomeno a Ragusa,
un’ora e un quarto di strada, 100 km di curve e tornanti, tantomeno in un’ambulanza privata probabilmente
non fornita dei presìdi medici necessari per un’emergenza come quella. Ma in Sicilia nel 2015 si può ancora
morire così, per un’assurda teoria di circostanze inaudite.
Febbraio 2015
Rassegna Responsabilità Professionale
Inaudito che nessuno dei tre ospedali di una città come Catania (per altro polo di eccellenza proprio per la
terapia intensiva neonatale) abbia dato la disponibilità ad accogliere la bambina colpita, subito dopo la
nascita, da una gravissima crisi respiratoria, inaudito che il 118 abbia indirizzato la piccola all’ospedale di
Ragusa quando c’era posto nel ben più vicino ospedale di Messina, inaudito che non sia stata stabilizzata al
pronto soccorso più vicino perché “nessuno lo ha chiesto”, inaudito che da due anni l’elisoccorso non possa
volare di notte perché l’appalto per il servizio, per risparmiare sui costi, è stato dato fino al tramonto. Chi, tra i
medici, ha autorizzato il trasferimento in queste condizioni invece di portarla al pronto soccorso più vicino è
ora in cima alla lista dei responsabili di un’indagine che oggi, dopo il sequestro delle cartelle cliniche, vedrà i
primi indagati.
È così che, a tre ore dalla sua nascita, in una clinica privata con fama di affidabilità, è morta Nicole Di Pietro.
Ci sono ancora diversi buchi neri nella ricostruzione di questa tragica nottata che ha strappato la bambina ai
suoi genitori dopo una gravidanza che non aveva presentato profili di rischio particolari ed un parto naturale
tranquillo. È un’indagine a ritroso, che ripercorre le tre ore e due minuti che sono trascorse dall’1.18, quando
Nicole è venuta alla luce alla clinica Gibiino e le 4.20 quando è arrivata, ormai senza vita, al pronto soccorso
dell’ospedale Paternò-Arezzo di Ragusa. Un’indagine affidata agli investigatori della squadra mobile di
Ragusa e coordinata dal sostituto procuratore Serena Minicucci perché la piccola, dopo aver attraversato il
territorio di ben quattro procure, è morta alle 4 del mattino nell’area di competenza di Ragusa e l’autista
dell’ambulanza ha avuto ordine di proseguire il viaggio fino all’ospedale di destinazione.
È l’1.18 del mattino quando Tania partorisce Nicole in modo naturale assistita dal suo ginecologo. Tutto
«secondo la norma», affermano i medici della clinica Gibiino. Che però si accorgono subito, entro i primi
cinque minuti, che la piccola ha una grave insufficienza respiratoria. Nella struttura privata non c’è
rianimazione né terapia intensiva. La procedura per il trasferimento — affermano in clinica — parte
immediatamente ma «solo dopo numerosi e vani tentativi, in seguito a svariate e reiterate richieste rivolte al
118». È davvero così? Lo diranno le registrazioni delle telefonate fatte dai sanitari della clinica al 118, già
acquisite dalla procura di Ragusa ma anche dall’assessore regionale alla Sanità Lucia Borsellino, la prima
che ricorda che «l’ospedale Cannizzaro ha l’obbligo di accogliere casi così e che Catania ha posti letto di
terapia intensiva neonatale al di sopra degli standard nazionali ».
Ma posti-letto disponibili a Catania non ce ne sono: tutte piene le 18 culle del Garibaldi tra terapia intensiva e
semiintensiva, tutte piene quelle del Cannizzaro e del Santo Bambino. Ma non si poteva accogliere Nicole al
pronto soccorso e affrontare l’emergenza ed eventualmente trasferire qualche altro neonato in condizioni
migliori? «Ci hanno chiesto un posto in terapia intensiva, nessuno ci ha chiesto un intervento di
stabilizzazione», dice il direttore generale del Garibaldi Giorgio Santonocito.
Da quando il 118 riceve la richiesta dalla clinica a quando arriva l’indicazione del posto disponibile a Ragusa
passa un tempo lunghissimo. Si scoprirà poi che al Policlinico di Messina il posto c’era: un percorso più
breve ma soprattutto più rapido, tutta autostrada. Ma il 118 indica Ragusa. Perché? Perché nella “mappa”
sanitaria, Catania, Ragusa e Siracusa costituiscono una “macroarea” e quindi, automaticamente, la ricerca
viene fatta con questa priorità. Per il lungo e accidentato viaggio ver- so Ragusa la clinica chiama
un’ambulanza privata. L’elisoccorso, infatti, a Catania, di notte non vola. La piazzola dell’ospedale
Cannizzaro è attrezzata e illuminata ma da due anni a questa parte l’appalto per il servizio è stato fatto
solo fino al tramonto. Dopo non ci sono i vigili del fuoco, e quindi non si vola fino all’alba. Qualunque cosa
succeda.
Sono già le tre del mattino quando Nicole, accompagnata dai medici della clinica, viene fatta salire su
un’ambulanza che non è attrezzata per l’emergenza. La culla termica e il respiratore vengono portati a bordo
dai medici ma non sono sufficienti ad affrontare la gravissima crisi respiratoria che prende la piccola
mezz’ora dopo, lungo le curve di Vizzini. Sono le quattro quando il cuoricino di Nicole si ferma. All’autista
dell’ambulanza viene dato ordine di proseguire fino all’ospedale di Ragusa. È lì che, quando si apre il
portellone, esplode la furia del giovane padre della bambina.
La Repubblica
Ma cercare un letto in rianimazione è sempre un’incognita
MICHELE BOCCI
UNA rete con le maglie irregolari. Troppo larghe o troppo strette. Per capire quello che non va nelle terapie
intensive neonatali italiane non bisogna osservare il numero totale dei centri che possono assistere bambini
pretermine o comunque con problemi di salute. No, vanno studiate la dislocazione e la quantità di letti. Solo
in questo modo si comprende come le 105 “Tin” del nostro Paese non sempre bastano ad assistere in modo
adeguato i neonati che ne hanno bisogno. In alcune zone d’Italia, per esempio nelle grandi città, ce ne sono
troppe, in altre troppo poche. A volte, inoltre, hanno un numero giusto di letti, cioè 8 intensivi e 8
sub intensivi, altre volte no. Proprio in Sicilia la quantità di centri «sarebbe adeguata, sono 17 per la bellezza
di 45 sale parto », come spiega Giovanni Corsello, presidente della Società italiana di pediatria e primario di
Neonatologia a Palermo. Ma hanno appena 60 letti. E poi in una provincia non c’è nemmeno un reparto,
quella di Caltanissetta, e in altre due il numero di posti è molto basso, Agrigento e Trapani. Eccole le maglie
Febbraio 2015
Rassegna Responsabilità Professionale
irregolari della rete. Così molti bambini devono essere spostati verso Palermo e Catania, dove i reparti si
riempiono e i malati vengono respinti, come è stato drammaticamente evidente ieri.
Il problema della dislocazione riguarda anche altre realtà, in Lazio, dove tra l’altro ogni anno nascono circa
50 mila bambini come in Sicilia, le Tin sono 11, di cui 9 a Roma. Ma a Latina non ce n’è alcuna, come
spiegano dalla Società italiana di neonatologia. Il presidente, Costantino Romagnoli, sottolinea come sia
«necessaria una diversa organizzazione. Il problema non riguarda soltanto la Sicilia: la moltiplicazione dei
punti nascita ha portato a una dislocazione non adeguata dei centri di terapia intensiva. Questo rende
necessari spostamenti che invece andrebbero ridotti e comunque, quando sono necessari, fatti al meglio ».
Ecco un altro problema, non tutte le regioni sono attrezzate per spostare i neonati con ambulanze speciali e
personale preparato, che arriva dalle stesse Tin. E la bimba morta in Sicilia era a bordo di un mezzo di
emergenza privato. «Le ambulanze per le urgenze neonatali, cosiddette “ sten” — dice ancora Romagnoli —
sono poco diffuse. Ci sono in Toscana e Lazio, in Lombardia sono due, ma mancano in regioni come
l’Abruzzo o la Campania. In Sicilia non sono presenti ovunque».
Poi c’è il problema dei punti nascita. Anche questi in Italia sono troppi e mal dislocati, ce ne sono ancora
tanti piccoli e insicuri. E soprattutto al Sud si aggiunge il tema dei parti in clinica, cioè in strutture private che
non hanno a disposizione una terapia intensiva o un pronto soccorso. Quando capita un problema in queste
realtà, l’unica possibilità è il trasferimento in un ospedale pubblico. In Sicilia si raggiungono punte del 40% di
donne che scelgono di pagare e non andare nel pubblico. In Campania la percentuale è simile e nel Lazio
poco inferiore. A livello nazionale il dato sta tra il 15 e il 20%. Non è normalmente pericoloso partorire in
clinica, almeno finché non si presenta un problema inatteso e importante.
9 Febbraio
La Repubblica Torino
Sparisce dall’ospedale, trovato morto Uscito indisturbato con flebo e pigiama
L’uomo, 49 anni, problemi con l’alcol, era scomparso giovedì notte a Rivoli Inutili le ricerche con cani ed
elicottero. Era in un bosco, ucciso dal freddo
CARLOTTA ROCCI
CON ogni probabilità è morto di freddo la notte stessa della sua scomparsa. Deve aver camminato almeno
un’ora trascinandosi dietro la flebo che aveva ancora attaccata al braccio. I carabinieri e i vigili del fuoco, che
lo hanno cercato senza sosta per tre giorni, lo hanno trovato ieri sera a tre chilometri dall’ospedale. L’uomo
si era rifugiato in un boschetto non lontano dal campo volo, al confine Rivoli e Rivalta.
Perenno abitava da solo ad Avigliana: da tempo una vicina si prendeva cura di lui, da quando i suoi problemi
di salute erano peggiorati. Era lucido e capace di intendere ma martedì scorso era stato costretto a
presentarsi al pronto soccorso perché le sue condizioni si erano aggravate. I medici lo hanno ricoverato nel
reparto di osservazione breve intensiva. Non era la prima volta che Perenno si affidava alle cure del
personale di Rivoli. «L’ultima annotazione sulla sua cartella clinica, giovedì notte, dice che il paziente era
cosciente e collaborante» spiega Alberto Piolatto, primario del pronto soccorso. «Lo abbiamo notato andare
su e giù per la stanza — dice un’infermiere che era di turno la notte della scomparsa — Più di una volta è
anche andato a prendersi un caffè alle macchinette. Per questo quando si è alzato nessuno lo ha fermato».
Le macchinette sono nella sala d’aspetto, superata la porta del reparto che si chiude in automatico e si apre
suonando.
La guardia che controlla l’ingresso lo ha visto uscire, ma poiché non era la prima volta non si è preoccupato.
Poi, quando la porta si è richiusa, lo ha perso di vista. Nessuno, né tra i pazienti in attesa, né allo sportello
dell’accettazione, ha notato quell’uomo che usciva senza giacca, senza scarpe, con la flebo. Nemmeno nel
parcheggio Perenno ha incontrato auto o ambulanze che lo abbiano fermato. Erano circa le 2 di notte. Se
qualcuno dei pochi automobilisti, che con la neve di tre giorni fa si era avventurato per strada, lo ha visto
camminare sotto i fiocchi, non ha chiamato i soccorsi e lo ha lasciato proseguire. In ospedale si sono accorti
che non era più nel suo letto dopo qualche minuto: «Erano passate le due da poco quando siamo passati
dalla stanza 13 e ci siamo accorti che non c’era. Allora è scattato l’allarme» raccontano ancora gli infermieri.
Il primo pensiero però è stato che l’uomo fosse ancora dentro l’ospedale: «Era in pigiama e abbiamo
pensato che si fosse nascosto in qualche reparto» spiega Piolatto. Sono arrivati anche i carabinieri di Rivoli
che hanno setacciato tutti gli otto piani. L’ufficio tecnico dell’Asl ha fornito mappe e chiavi di ogni stanza e
sgabuzzino. Anche i vigili del fuoco sono arrivati con diverse squadre per cercarlo. Con il passare delle ore,
però, è stato chiaro che Perenno era uscito in strada.
Le ricerche si sono allargate e sono arrivati gli uomini della Protezione civile, i cani e l’elicottero. Era ormai
sabato mattina. Le squadre hanno battuto il parcheggio, le vie vicine all’ospedale verso il centro di Rivoli,
verso corso Allamano e verso Villarbasse. Con il buio le ricerche sono state interrotte e sono riprese ieri
mattina fino alla scoperta del cadavere. Gli investigatori non hanno sollevato dubbi sull’operato dei medici e
del personale dell’ospedale, ma l’azienda sanitaria ha fatto sapere che aprirà comunque un’indagine interna.
Febbraio 2015
Rassegna Responsabilità Professionale
«È un atto dovuto — spiegano alla direzione — quando si verificano anomalie nei ricoveri. Nei prossimi
giorni ricostruiremo tutti gli spostamenti del paziente all’interno dell’ospedale fino alla scomparsa».
La Repubblica Torino
Un mese con la garza nello stomaco, scatta la denuncia
UNA garza di dieci centimetri e del filo chirurgico a lento assorbimento sarebbero stati “dimenticati” nello
stomaco di una paziente di 33 anni, Daniela F., per un mese. Il caso, che riguarda un medico dell’ospedale
di Borgosesia, in provincia di Vercelli, è stato sollevato da una donna di Valle Mosso, nel Biellese,
sottopostasi a un intervento di bendaggio gastrico per dimagrimento. La paziente, dopo l’operazione, si è
fatta medicare più volte all’ospedale di Borgosesia; ma i medici avrebbero lasciato la garza e il filo
nell’organismo, procurandole dolori e un’infezione. Secondo il racconto del marito, la donna, dopo un mese
di sofferenza in cui prendeva quattro antibiotici al giorno senza risultati, una notte ha accusato dolori
talmente forti da dover correre al pronto soccorso di Biella. Lì i medici si sono subito accorti che la ferita era
infetta e hanno rimosso garza e filo. La famiglia biellese si è rivolta a un avvocato. «Stiamo facendo le
opportune verifiche su quanto è successo per dare, nei prossimi giorni, la nostra versione dei fatti» sono le
uniche parole che arrivano dall’Asl di Vercelli: la garza potrebbe essere stata lasciata volontariamente dai
medici nel corpo della donna per motivi «terapeutici».
8 Febbraio
La Repubblica Napoli
San Giovanni Bosco, sette avvisi ai medici
SCOPPIA la polemica dopo la morte al San Giovanni Bosco, un ospedale nel degrado, di un 35enne
ricoverato e morto nel giro di 72 ore per un’influenza dopo due notti passate su una barella accanto a una
finestra dai vetri rotti coperta da cartoni e sotto un impianto da cui esce aria fredda. E si avvia l’inchiesta
giudiziaria affidata al pm Anna Frasca, che si appresta a firmare sette avvisi di garanzia indirizzati ad
altrettanti medici e operatori potenzialmente coinvolti.
GIUSEPPE DEL BELLO A PAGINA IV
Paziente morto al freddo al San Giovanni Bosco la Procura apre l’inchiesta sette avvisi per i medici
Ma i vertici dell’ospedale “Una complicanza ai polmoni non c’entra lo spiffero di vento” I legali:
“Assistenza disumana”
INCHIESTA della magistratura, avvisi di garanzia, indagine della Asl. Il direttore sanitario, Roberto Rago, è il
primo a intervenire. Nega il nesso causa-effetto: «Il giovane non è rimasto vittima dello spiffero d’aria, ma
perché affetto da altre patologie ».
Il giorno dopo la tragica vicenda del 35enne padre di un ragazzino di 7, ricoverato e morto nel giro di 72 ore
per un’influenza complicata da pneumotorace spontaneo, i vertici dell’ospedale fanno quadrato. E mentre
dalla Procura l’inchiesta giudiziaria affidata al pm Anna Frasca, si appresta a far partire 7 avvisi di garanzia
per medici e operatori, si cerca di ricostruire l’accaduto. Il cuore di Ernesto Biancolino smette di battere la
mattina di giovedì 5, dopo due notti passate su una barella dell’accettazione accostata a una finestra dai
vetri rot- ti (ma per il direttore è «solo la guarnizione che perde») coperta da cartoni, e sotto un impianto da
cui esce aria fredda al posto della calda. Circostanza che, come racconta il padre Vincenzo nel video su
napoli.repubblica. it, sarebbe stata sottovalutata: «Quando ho reclamato, mi hanno risposto: “L’apparecchio
è guasto. Dipende dall’Ufficio tecnico ma adesso, alle 8 di sera, è chiuso. Quindi, se ne parla domani
mattina...”». Sarà l’autopsia a svelare la causa del decesso. Rago insiste sulla tesi della complicanza
influenzale. E nella relazione
al manager della Asl Napoli 1 Ernesto Esposito, si legge: «Soffriva di una severa granulocitopenia, con
appena 2500 globuli bianchi, provocata probabilmente da un’assunzione massiccia e protratta di Depakin,
un farmaco antiepilettico». Non è tutto. Sempre dall’indagine tecnica si apprende che «al polmone destro
risultava uno pneumotorace, mentre il sinistro era opacizzato ». Una complicanza respiratoria, sopraggiunta
improvvisamente che avrebbe richiesto la manovra del chirurgo per inserire nel torace un tubo di drenaggio.
Intervento tardivo? Lo stabiliranno i periti, resta il fatto che nel giro di tre ore il paziente va in crisi respiratoria
acuta e muore. Gli avvocati della famiglia, Angelo e Sergio Pisani contestano le smentite del direttore
sanitario «Non soffriva di epilessia ma, a maggior ragione, se così fosse gli avrebbero riservato
un’assistenza disumana ». E infine, aggiunge Angelo Pisani: «Le frasi di Rago sono la riprova delle
condizioni precarie della sanità campana. Ma dov’era il nuovo direttore mentre Ernesto giaceva
abbandonato sulla barella? E quale condizionatore avrebbe controllato dopo la tragedia? Dicono che
sarebbe stato praticato il drenaggio al povero giovane, evidentemente quando era troppo tardi, dopo ore e
ore senza assistenza e al gelo».Napoli
Pioggia, barelle e rifiuti: ecco l’ospedale del degrado
“Manca il codice colorato da assegnare ai pazienti a seconda della gravità” “Piove, ma in Rianimazione e in
sala operatoria pioveva anche un anno fa”
Febbraio 2015
Rassegna Responsabilità Professionale
TRE giorni fa la rianimazione chiusa per pioggia, l’altro ieri le finestre tenute insieme dai cartoni. Ma che
ospedale è il San Giovanni Bosco? Il terzo presidio della città sembra una struttura da terzo mondo. Alle 12
di ieri il bianco palazzone costruito negli anni ‘70 rivela tutto il suo degrado. Situazione storica, che adesso
sta diventando inquietante.
La prima tappa è il pronto soccorso. Barelle ovunque, fuori e dentro le medicherie (come documentano le
foto sul sito web www.repubblica.it). Infissi e porte sigillate da nastri di scotch bianco, unico bagno con
sacchetti di rifiuti e carte a terra. Pazienti barellati, senza alcuna privacy e in attesa di assistenza. «Al San
Giovanni Bosco manca il triage, ilcodicecoloratodaasche segnare ai pazienti a seconda della gravità», sbotta
l’avvocato Angelo Pisani, «di fatto, viene svolto dalla guardia giurata con violazione di privacy e gran
confusione». I reparti ripropongono analogo scenario, con scale e muri scrostati, corsie sporche e servizi
fatiscenti. Un incubo che dal piano terra sale fino al sesto. La pioggia cade anche nell’antisala della
Direzione sanitaria, con un secchio nero piazzato al centro del pavimento per la raccolta dell’acqua che cade
dal soffitto. «Non mi meraviglio — sorride un medico appena pensionato — oggi continua a piovere, ma
nella Rianimazione e in sala operatoria pioveva anche un anno fa». Al primo piano, c’è l’ufficio di Roberto
Rago. È direttore da soli 5 giorni in sostituzione di Luigi De Paola, defenestrato di punto in bianco. Ammette
le condizioni critiche: su 4 sale operatorie ne funzionano solo due perché le altre sono in ristrutturazione;
piove ovunque, il personale in servizio è anziano, demotivato e numericamente insufficiente. In più, continua
a diminuire, il numero di anestesisti (solo quest’anno se ne sono andati 4 si aggiungono ai tre già in
quiescenza e mai sostituiti). Per risparmiare. Col risultato di una Regione che spende il doppio, per rispettare
il Piano di rientro.
Solo per coprire le carenze di anestesisti si ricorre allo straordinario “interno” (760 ore per 42 mila euro al
mese) e agli “ambulatoriali esterni” che coprono altre 260 ore pari a 6500 euro. In totale, ogni anno, solo per
questi specialisti la Asl sborsa oltre mezzo milione a cui vanno aggiunti i costi delle altre figure in
convenzione. «Ma adesso dovrebbero arrivare 25 anestesisti appena assunti — assicura Rago — certo, i
nostri medici boccheggiano, e io cerco di risparmiare dove possibile, senza ridurre l’assistenza. E poi le
ristrutturazioni, riprenderanno a breve». Ernesto Esposito è il manager, anche lui in affanno: deve vedersela
con la carenza di personale di tutti i presidi e i tagli. Interlocutore istituzionale, come consigliere del
presidente Caldoro, è il deputato di Ncd e ordinario di Cardiologia Raffaele Calabrò. Insieme al governatore
ripete che oggi si è raggiunto il «pareggio di bilancio grazie ai conti, finalmente a posto ». I conti forse sì, ma
i pazienti no. Loro hanno sempre meno assistenza e servizi. «Il personale manca perché il ministero ha
imposto lo stop al turn-over. Ma adesso l’abbiamo spuntata: sblocco del 15 per cento subito e quello totale
dal 2016. Lo so, la situazione è drammatica, ma è la conseguenza del commissariamento ». ( g. d. b.)
La Repubblica Bari
La operano per un errore e sbagliano
LA OPERANO per toglierle una fettuccia dimenticata nell’utero durante l’ultima gravidanza ma le lasciano
una garza. Così, in ventiquattro ore, la donna, una 33enne barese, subisce due differenti interventi chirurgici.
È l’incredibile storia denunciata ai carabinieri della compagnia di Bari San Paolo. Ma non è l’unico caso di
presunta malasanità. Alla Mater Dei, a seguito di un intervento per laparocele, è deceduto un 55enne: i
familiari hanno presentato querela per omicidio colposo.
La operano per rimuovere fascetta dimenticata nel 2010 le lasciano garza nell’utero
Doppia disavventura per una donna di 33 anni al San Paolo Uomo muore dopo intervento, altra denuncia
alla Mater Dei
FRANCESCA RUSSI
LA OPERANO per toglierle una fettuccia dimenticata nell’utero durante l’ultima gravidanza ma le lasciano
una garza. Così, in ventiquattro ore, la donna, una 33enne barese, subisce due differenti interventi chirurgici.
È l’incredibile caso di malasanità denunciato ai carabinieri della compagnia di Bari San Paolo.
La donna venerdì mattina si è presentata in caserma e ha ripercorso davanti ai militari la sua odissea. Il 3
febbraio scorso, ha raccontato la giovane mamma, si è recata al pronto soccorso dell’ospedale San Paolo
per dolori al basso ventre. È stato lì che i medici si sono resi conto che durante l’ultima gravidanza della
donna, avuta nel 2010, era stata posizionata e mai rimossa una fascetta usata per il cerchiaggio del collo
dell’utero, un intervento necessario in caso di rischio di parto prematuro. Qui, dunque, il primo errore medico.
A quel punto la 33enne è stata trasferita nel reparto di Ginecologia e sottoposta a intervento chirurgico per la
rimozione della fettuccia dimenticata per più di quattro anni. Subito dimessa, la donna è tornata a casa. Ma i
dolori sono continuati. Il giorno dopo, allora, la donna è ritornata in ospedale, sempre al San Paolo, per farsi
visitare. Lì l’incredibile scoperta. Nell’utero, durante l’intervento effettuato il 3 febbraio, era stata dimenticata
una garza. Così la donna è stata sottoposta a un ulteriore intervento chirurgico e nuovamente dimessa.
Ha aspettato ventiquattro ore, il tempo di riprendersi, poi si è presentata nella caserma dei carabinieri di Bari
San Paolo e ha denunciato il presunto doppio caso di malasanità. Su entrambi gli episodi sono in corso ora
le indagini da parte dei carabinieri per verificare tutti i passaggi clinici della donna e individuare i medici che
l’hanno avuta in cura ed eventuali responsabilità.
Febbraio 2015
Rassegna Responsabilità Professionale
Ma non è l’unico caso di presunta malasanità arrivato sul tavolo degli investigatori questa settimana. Risale
infatti a giovedì scorso, il 5 febbraio, la querela presentata da una 25enne barese agli uffici della compagnia
di Triggiano dei carabinieri. La ragazza ha denunciato la morte del padre, avvenuta subito dopo un
intervento chirurgico nella clinica Mater Dei di Bari. Una querela dunque per omicidio colposo. Sotto accusa
c’è il personale medico. L’uomo, 55 anni, era stato portato in clinica e sottoposto a un’operazione per
laparocele, una particolare ernia addominale. Intervento riuscito, avevano detto i medici ai familiari. Dopo
poche ore, però, il decesso. E dunque la successiva denuncia da parte dei parenti ai carabinieri, cui spetterà
fare luce sulla vicenda. Per accertare le cause della morte è stata disposta l’autopsia. Con la vicenda della
33enne e il decesso del 55enne salgono a tre in tutta la settimana i presunti casi di malasanità denunciati a
Bari. Lunedì scorso, infatti, era stato il papà di un piccolo di appena otto mesi a puntare il dito contro i
medici. Il bambino, dopo otto giorni di agonia, prima all’ospedale della Murgia, ad Altamura, poi al pediatrico
Giovanni XXIII di Bari, è morto per le complicanze di una laringite. Il calvario del piccolo era cominciato il 25
gennaio scorso: i genitori lo avevano portato al pronto soccorso dell’ospedale della Murgia in stato febbrile e
con una infiammazione alla laringe. Ma, a causa del peggioramento del quadro clinico, i medici avevano
disposto il trasferimento del piccolo al pediatrico Giovanni XXIII di Bari. Il bimbo era stato ricoverato nel
reparto di Rianimazione pediatrica fino al 2 febbraio scorso, la data del decesso.
6 Febbraio
La Repubblica
“Non sapevamo neanche quale orecchio operare” Così è morta Giovanna
Roma, gli anestesisti sotto accusa per il decesso della bambina “Troppe anomalie: il panico in sala e
quel malore del chirurgo”
FABIO TONACCI
ROMA .
Giovanna era sul lettino, già anestetizzata, il chirurgo aveva il bisturi in mano. Ma non sapeva quale orecchio
dovesse operare. «Il professor Magliulo era incerto, mi chiese di andare a chiedere informazioni ai genitori
della paziente, che però non trovai», mette a verbale l’anestesista Pierfrancesco Dauri, uno degli indagati
per il caso di Giovanna Fatello, la bambina di 10 anni morta nella clinica romana “Villa Mafalda” il 29 marzo
scorso durante un banale intervento al timpano. Dauri uscì dalla sala durante l’operazione e oggi è accusato,
insieme al suo aiuto Federico Santilli, di «non aver prestato sufficiente e costante attenzione» ai parametri
vitali segnalati sul monitor.
Dalle carte dell’inchiesta emergono molte “stranezze” e “contraddizioni”. Come quella del chirurgo che
all’inizio non era sicuro se operare l’orecchio destro oppure il sinistro, tanto da essere costretto a individuare
quello giusto usando l’otoscopio. Cosa è accaduto davvero in quelle quattro ore e dieci minuti, dalle 9.30 alle
13.40, quando fu dichiarato il decesso di Giovanna Fatello? Da dieci mesi il pm Mario Ardigò ha un fascicolo
aperto per omicidio colposo. Ha disposto perizie e interrogato tutti quelli presenti all’intervento.
Testimonianze che a volte hanno chiarito, altre volte hanno aggiunto dubbi. «Il saturimetro di tanto in tanto
non captava bene il segnale », si difende Santilli, anestesista dell’ospedale “San Camillo” di Rieti che si è
ritrovato in sala operatoria quasi per caso. «Quel sabato era il mio giorno libero — dichiara nell’interrogatorio
del 15 dicembre scorso — ci eravamo sentiti con Dauri e lui mi aveva chiesto se volevo coadiuvarlo. Prima
di allora la casa di cura “Villa Mafalda” era una struttura a me sconosciuta».
Una delle poche certezze è il panico che si diffuse in sala quando realizzarono che il cuore di Giovanna si
stava fermando. «Dauri urlava “qui comando io” o “qui gli ordini lì do io”», si legge in una testimonianza di un
tecnico di radiologia. Durante la rianimazione il chirurgo, Giuseppe Magliulo, si sentì male e si allontanò.
«Meglio svenire da un’altra parte che farlo lì», ha spiegato al magistrato. «Ni si sono seccate le labbra, mi
sono spogliato e sono dovuto andare a bere perché non riuscivo a emettere parola». Sono pezzi, questi,
della cronaca di una morte sotto i ferri. Una cronaca ancora imperfetta, perché le indagini sono nella fase
preliminare.
Erano dieci le persone iscritte nel registro degli indagati, ma per 8 Ardigò ha chiesto l’archiviazione. Anche
per Magliulo, sul cui operato i periti «non hanno rilevato elementi di responsabilità professionale ».
Rimangono le posizioni di Dauri e Santilli, ai quali viene contestato di «non aver prestato sufficiente
attenzione ai valori rilevati dal saturimetro installato nel monitor, che segnalavano una progressiva ipossia
(mancanza di ossigeno, ndr) », e anche di «non aver eseguito tempestivamente le manovre necessarie» per
ripristinare la ventilazione. A Giovanna, «per due o tre minuti» hanno accertato le perizie, non è arrivata aria
sufficiente nei polmoni, perché il tubo “orotracheale” o si era ostruito, o si era spostato. Resta una domanda:
perché nessuno si è accorto che Giovanna non respirava più ed era diventata cianotica?
«Quando tornai in sala operatoria — ricorda Dauri davanti al pm — la paziente era già stata intubata.
L’emergenza è sopraggiunta quando l’intervento stava volgendo al termine, dopo circa 40 minuti ». Quindi
intorno alle 10.10. «Ad un certo punto i dati visualizzati dal saturimetro cominciarono ad essere anormali,
non c’era calo dell’ossigeno ma alterazione dell’onda (sul monitor, ndr) con dati alfanumerici non attendibili».
Febbraio 2015
Rassegna Responsabilità Professionale
Dauri allora chiese all’infermiere di prendere un saturimetro portatile. «Non ricordo i valori rilevati dal nuovo
apparecchio — prosegue — perché nel giro di pochi secondi è scattato l’allarme per bradicardia ».
Lasciando così intendere che il primo macchinario non funzionasse bene.
In effetti le condizioni del monitor, prodotto in America dalla Andover e di proprietà della clinica, sono un altro
giallo. È stato analizzato da un ingegnere chiamato dalla procura: il 28 marzo, il giorno prima
dell’operazione, risulta una perdita nel tubo per la rivelazione della pressione arteriosa. Il 29 marzo non si
registrano “ warning”, ma il 31 il database interno — non si capisce bene perché — è stato resettato.
«Si è trattato di momenti drammatici — dice Dauri, ricordando le tre ore di tentativi di rianimazione, il
disperato massaggio cardiaco, i medicinali iniettati — ero sconvolto, non riuscivo a spiegarmi perché il cuore
non ripartisse. Escludo di aver disattivato gli allarmi delle varie apparecchiature alle quali la paziente era
collegata ». Secondo due periti medico-legali, però, la ricostruzione degli anestesisti «non appare attendibile
». E l’avvocato della famiglia Fatello, Francesca Florio, ha presentato ricorso contro la richiesta di
archiviazione degli altri presenti in sala. «Allo stato delle indagini — spiega — non può escludersi una
responsabilità dell’intera équipe ». Unica certezza: alle 13.40 del 29 marzo scorso, Giovanna Fatello ha
smesso di vivere.
La Provincia
Morto prima di un intervento, chiesto il rinvio a giudizio dell'anestesista
CREMONA - Il sostituto procuratore, Fabio Saponara, ha chiesto il rinvio a giudizio nei confronti di Valerio
Schinetti, anestesista all’ospedale di Manerbio, accusato di omicidio colposo: la morte di Riccardo Sapienza,
vent’anni, nel luglio del 2013 ricoverato all’ospedale Maggiore di Cremona per essere sottoposto a un
pneumotorace, deceduto ancora prima di entrare in sala operatoria. Secondo l’accusa, l’anestesista avrebbe
compiuto un errore nella manovra dell’intubazione. A marzo è fissata l'udienza preliminare davanti al gup.
«Non condividiamo assolutamente l’impostazione del pm, tanto meno l’accusa di incapacità che viene
mossa al nostro cliente», ha detto Stefano Forzani, l’avvocato bresciano che difende l’anestesista.
La Repubblica Roma
Muore a 43 anni dopo l’agoaspirato la procura sequestra le cartelle cliniche
SI ERA SOTTOPOSTA ALL’ESAME ALL’OSPEDALE SANT’ANDREA
GIUSEPPE SCARPA
MORIRE all’improvviso dopo un esame medico, l’agoaspirato. E’ accaduto a una donna di 43 anni, lunedì
scorso, appena rientrata a casa dopo la visita effettuata all’ospedale Sant’Andrea. Un decesso senza
spiegazioni, tanto che la procura ha subito aperto un fascicolo per il reato di omicidio colposo. Nessun
medico è indagato, per ora si procede contro ignoti, tuttavia il procuratore aggiunto Leonardo Frisani e il
sostituto Maria Bice Barborini vogliono vederci chiaro. Per questo hanno disposto il sequestro della cartella
clinica della paziente mentre ieri è stata eseguita l’autopsia. Quest’ultimo esame sarà fondamentale per
comprendere se sussista una relazione tra l’agoaspirato al seno operato sulla donna e il suo decesso.
Ciò che è certo è che la 43enne si è sentita male nella sua abitazione subito dopo il rientro dall’ospedale
Sant’Andrea dove si era sottoposta all’esame specialistico. Il marito disperato l’ha portata al policlinico Tor
Vergata, durante il tragitto in automobile la condizione della donna è però precipitata. Una corsa folle al
pronto soccorso che non è servita a salvare la vita della moglie e infine i mille dubbi dell’uomo su quella
visita, l’ago aspirato, fatta dalla compagna solo poche ore prima. Tanto da incaricare l’avvocato di fiducia a
sporgere una denuncia in procura. Vicenda che è ora al vaglio del pubblico ministero Maria Bice Barborini a
cui spetterà fare piena chiarezza sull’accaduto.
Nei giorni precedenti la 43enne aveva eseguito una mammografia da cui erano emersi dei noduli al seno.
L’agoaspirato sarebbe servito a fugare ogni dubbio. Lunedì scorso venne sottoposta all’esame specialistico,
le inserirono un ago sottile nel seno fino a raggiungere il nodulo da dove venne aspirato parte del contenuto
da esaminare successivamente in laboratorio per scoprire la natura di quei noduli. Semplici cisti? O nella
peggiore delle ipotesi un tumore.
Uno shock per la donna. Una condizione di forte stress nell’attesa della risposta, come accade generalmente
in queste situazioni. E’ per questo che la procura prende in considerazioni diverse ipotesi. E se oggi le
indagini sono concentrate sulla corretta esecuzione dell’esame specialistico al seno, il pm non esclude
nemmeno che la condizione di forte nervosismo che ha investito la donna nei giorni successivi alla
mammografia, fino all’esame dell’agoaspirato, possa avere avuto una relazione con il suo decesso.
La Repubblica Palermo
Otto mesi, raffreddata muore in ospedale la procura apre inchiesta
I genitori: “Quattro grosse siringhe di fisiologica per liberarle il naso” Tensione al Buccheri La Ferla, ordinata
l’autopsia sulla piccola
ROMINA MARCECA
Febbraio 2015
Rassegna Responsabilità Professionale
ACCUSANO una dottoressa e un’infermiera dell’ospedale Buccheri La Ferla. Secondo i genitori di Greta,
neonata di 8 mesi morta per alcune complicanze respiratorie per una sospetta bronchiolite, pediatra e
infermiera a fine turno avrebbero accettato con noia mercoledì sera la richiesta di ricovero della loro
bambina. «L’hanno uccisa», ripete Emanuele Barrale, papà di Greta. «Quell’infermiera ha iniettato con foga
quattro siringhe da 10 ml di fisiologica alla mia bambina, ha anche detto “Sti picciriddi scassano i c....”
perché un altro piccolo paziente stava vomitando», racconta il papà di Greta. «Mia figlia subito dopo la prima
siringa di fisiologica ha perso i sensi. Poi, non c’è stato più nulla da fare. Dopo un’ora di massaggi cardiaci e
tentativi di rianimarla nostra figlia è morta», ricorda con le lacrime agli occhi la mamma, Carmela. «Noi
abbiamo assistito impotenti ».
Greta dal 26 gennaio era raffreddata e era stata curata dalla pediatra, ma era stata anche visitata dal
neonatologo che l’aveva seguita quando il 30 maggio era nata prematura, ad appena sei mesi e mezzo.
Pesava 440 grammi e fino ad ottobre era rimasta ricoverata in neonatologia, era affetta da una
broncodisplasia. I genitori hanno presentato una denuncia alla polizia, la procura ha aperto un’inchiesta
coordinata dal sostituto procuratore Emanuele Ravaglioli. La cartella clinica è stata sequestrata, oggi sarà
conferito per l’autopsia. a pediatra della bambina aveva consigliato ai genitori la terapia con aerosol e
lavaggi con la fisiologica. «Petto e spalle — aveva detto — sono liberi». Lo aveva detto anche quattro giorni
dopo quando la mamma di Greta aveva deciso di ritornare da lei. Venerdì scorso, il 30 gennaio, i genitori
della bambina avevano contattato il neonatologo del Buccheri. Dopo una visita il responso era stato lo
stesso della pediatra, il medico aveva aggiunto alla terapia delle gocce con antibiotico. Martedì Greta era
inappetente e aveva anche vomitato. «Ho richiamato il neonatologo — dice tra le lacrime la mamma — e
dopo averla visitata una seconda volta, ha aggiunto alla terapia anche un altro antibiotico. La mia bambina
però non migliorava ». Mercoledì pomeriggio le condizioni di Greta sono peggiorate. «Abbiamo notato che
re- spirava a fatica. Ho collegato mia figlia al monitor che avevamo nella sua camera sin dalla nascita, ma
solo per precauzione, e mi sono accorta che la saturazione era al 65 per cento. Abbiamo anche applicato la
bombola dell’ossigeno, nel frattempo abbiamo chiamato il neonatologo che ci ha detto di andare subito in
ospedale».
Lì Greta è stata soccorsa, è rimasta sotto una tenda di ossigeno fino a quando le sue condizioni sono
migliorate. Il neonatologo ha consigliato il ricovero per una sospetta bronchiolite. «Mentre era in contatto con
la pediatria — raccontano i genitori — il medico chiamava anche altri ospedali per trovare un posto. Poi
siamo stati inviati in pediatria, dove la nostra bambina è stata uccisa». «Quando Greta era già incosciente —
ricorda la mamma — l’infermiera ci ripeteva che di bambini ne aveva visti centinaia e non dovevamo
preoccuparci. Le batteva il petto ma Greta non c’era più. Mia figlia era sana, era seguita continuamente e
con grande attenzione proprio perché era nata prematura». «La bambina, — dicono dall’ospedale Buccheri
La Ferla — è stata seguita in questi mesi in follow up neonatale nel nostro ambulatorio. Durante una visita di
controllo è stata riscontrata una difficoltà respiratoria, è stato disposto il ricovero in pediatria. Durante i primi
accertamenti e le prime cure, la piccola ha presentato un improvviso arresto cardiaco. Siamo addolorati e
aspettiamo gli esiti delle autorità competenti».
5 Febbraio
La Repubblica Bari
Malasanità, i cento casi della vergogna
L’associazione Codici ha raccolto le storie dei pugliesi morti o rimasti invalidi dopo un intervento sbagliato o
una diagnosi non appropriata. Non tutti ottengono giustizia: “Colpa dei tempi di prescrizione brevissimi”
GABRIELLA DE MATTEIS
PIÙ di cento casi di presunta malasanità in Puglia, storie che sono finite sulle scrivanie delle procure, che
hanno dato vita ad inchieste o a processi e che in tutto il 2014 sono state raccolte e segnalate da Codici (il
Centro per i Diritti del Cittadino). Il dato è emerso ieri in un convegno, organizzato dall’associazione, e
svoltosi nell’aula “Aldo Moro” dell’università di Bari. All’incontro hanno partecipato i segretari nazionale e
regionale di Codici, Ivano Giacomelli e Maria Bovino, docenti, magistrati e dirigenti sanitari. «Malasanità... di
chi è la colpa? » è il titolo che ha dato spunto alla discussione.
L’associazione Codici ha portato come punto di riferimento alcuni presunti casi di malasanità, verificatisi in
Puglia. Come quello di una giovane donna di Erchie, sottoposta nel novembre 2011 a taglio cesareo.
Durante l’intervento nell’ospedale Miulli di Acquaviva delle Fonti, l’équipe avrebbe dimenticato una garza
laparotomica, causando alla paziente la perdita di 30 centimetri di intestino e continui dolori. Dopo 690 giorni
una nuova operazione, nel luglio del 2013, un nuovo intervento chirurgico per l’asportazione della garza.
Due chirurghi, uno strumentista, un ginecologo e due infermieri saranno processati dal Tribunale di Bari con
l’accusa di lesioni personali colpose a partire dal prossimo 10 marzo.
C’è poi il caso di Valeria Bovino, 26 anni, agente della polizia penitenziaria di Toritto in servizio nel carcere di
San Vittore a Milano, deceduta lo scorso 17 luglio dopo essere stata ricoverata per una sospetta colica.
Dopo aver subito tre interventi ed essere stata trasferita in tre diversi ospedali, tra Manduria, Taranto e Bari,
Febbraio 2015
Rassegna Responsabilità Professionale
la giovane donna è morta. Il padre Giuseppe che all’indomani della tragedia presentò un esposto (l’inchiesta
della procura di Bari conta 20 indagati) si batte perché venga fatta luce sulle responsabilità per la morte della
figlia. E ieri ha voluto essere presente al convegno. «Hanno ucciso Valeria — ha detto — e mi batterò in
tutte le sedi finché non avremo giustizia».
L’associazione cita poi il caso del bimbo di 18 mesi morto l’estate scorsa a Bari: i medici di Altamura
avevano diagnosticato una gastroenterite al posto della Seu (indagati tre medici e un infermiere).
Non sempre le segnalazioni sui casi di malasanità approdano nelle aule di giustizia e quindi in processi e
sentenze di condanne. «Purtroppo è venuto a mancare il rapporto di fiducia tra pazienti e il medico commenta il direttore sanitario del Policlinico di Bari Alessio Nitti - i medici sono costretti sempre più a subire
attacchi ingiustificati». Secondo Giacomelli, invece, «accanto alla malasanità c’è la malagiustizia, cioè la
mancanza di protezione di chi ha subito danni, sia per il riconoscimento del nesso di causalità, sia per i
termini di prescrizione estremamente brevi».
La Repubblica Bari
Laringite fatale per bimbo di 8 mesi ospedali sotto accusa
FRANCESCA RUSSI
OTTO giorni di agonia. Prima all’ospedale della Murgia, ad Altamura, poi al pediatrico Giovanni XXIII di Bari.
Non ce l’ha fatta il piccolo di appena 8 mesi morto per le complicanze di una laringite. Ma la famiglia non ci
sta e ci vuole vedere chiaro. Così il padre ha presentato denuncia puntando il dito contro i medici.
Il calvario del bambino comincia il 25 gennaio scorso. I genitori lo portano al pronto soccorso dell’ospedale
della Murgia in stato febbrile e con una infiammazione alla laringe. Passa poco tempo e le sue condizioni si
aggravano. Così, a causa del peggioramento del quadro clinico, i medici dispongono il trasferimento del
piccolo al pediatrico Giovanni XXIII di Bari. Il bimbo viene ricoverato nel reparto di Rianimazione pediatrica
fino al 2 febbraio scorso. Alle 16 di lunedì il decesso.
La denuncia del papàdelpiccoloèstataimmediata.L’uomo,un operaio 35enne di Altamura, si è presentato
nella caserma dei carabinieri di Bari e ha raccontato tutto l’iter clinico del figlio sostenendo che non fosse
stato adeguatamente curato dal personale sanitario. Un presunto caso di malasanità, almeno stando a
quanto denunciato dai parenti. I militari indagano per omicidio colposo (questo il fascicolo di reato aperto
dalla procura di Bari) e sequestrato la cartella clinica del piccolo per individuare i medici che lo hanno avuto
in cura e accertare gli esami fatti e le diagnosi. Sul corpicino, inoltre, è stata disposta dall’autorità giudiziaria
l’autopsia per fare chiarezza sulle cause della morte.
«Purtroppo il piccolo è arrivato da Altamura in condizioni già gravi da terapia intensiva ed è stato subito
ricoverato nella Rianimazione pediatrica - spiega il direttore generale del Policlinico di Bari, Vitangelo Dattoli
- in questi casi noi acquisiamo tutta la documentazione necessaria, ma, al momento, sono in corso indagini
da parte dell’autorità giudiziaria, per questo dobbiamo attenderne gli esiti».
L’inchiesta servirà a chiarire molti dubbi: l’ospedale della Murgia, inaugurato ad aprile 2014, è finito nei mesi
scorsi sotto la lente di ingrandimento della magistratura per tre decessi sospetti, tutti di bambini di pochi
mesi.
2 Febbraio
Il Tirreno
Ambulanza impiega quasi due ore a soccorrere un uomo colpito da malore
CASTELL'AZZARA. Un uomo in pericolo di vita per un grave malore, l'ambulanza del 118 si presenta dopo
circa due ore e il paziente è messo in gravissimo pericolo. E il sindaco insorge: “Siamo stati lasciati soli. Il
sistema sanitario che dovrebbe salvaguardare la salute dei cittadini e intervenire prontamente, in caso di
immediata necessità, per Castell’Azzara fa acqua da tutte le parti. E questa volta per un pelo un mio
concittadino non ci ha rimesso la pelle”.
Il sindaco di Castell’Azzara Fosco Fortunati è fuori dai gangheri. Un dipendente comunale di 54 anni si è
sentito improvvisamente male e l'ambulanza del 118 chiamata alle 9,15 di sabato 31 gennaio, è arrivata sul
posto alle 11,10. Un’ora e cinquantacinque minuti che potevano decretare la morte di una persona. “Con la
vita non ci si scherza, né con la nostra e tanto meno con quella degli altri. Un dipendente comunale di 54
anni, che era andato alla posta per sbrigare delle commissioni per il Comune - racconta il sindaco Fortunati si è sentito male e ha chiesto di chiamare il 118. Erano le 9,15 quando è partita la chiamata. L’uomo stava
davvero male. Nell’attesa che il 118 arrivasse, io stesso - racconta il sindaco - l’ho sollevato per adagiarlo su
dei sedili. Il tempo correva e allora tutti i medici castellazzaresi contattati sono accorsi subito e hanno
cercato di dare qualche aiuto all’uomo che ormai dava espliciti segni di gravissimo malessere: sia il medico
condotto di Castell’Azzara che un medico in pensione che gentilmente ha visto la gravità della cosa e il
personale della guardia medica si sono prestati a dare qualche sollievo. Ma naturalmente con pochi risultati,
perché il malore era importante e assai grave. Nemmeno la guardia medica qui ha strumentazioni e
attrezzature sufficienti - dice ancora il sindaco - In una parola sono passate due ore. Due ore in cui il nostro
Febbraio 2015
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dipendente avrebbe potuto perdere la vita. Per fortuna così non è stato. Finalmente, dopo l’arrivo del 118, è
stato allertato l’elisoccorso che ha trasferito il paziente a Siena dove è stato sottoposto a intervento
chirurgico di oltre 9 ore. Sta lottando ancora fra la vita e la morte".
"Io - tuona ancora Fortunati - dico che a Castell’Azzara siamo cittadini di serie C. Eppure la sanità dovrebbe
essere un diritto uguale per tutti. Denuncio con forza questa cosa e ribadisco: un’ora e 55 di tempo che è
occorsa al 118 per arrivare, è un’eternità. Segno di inadeguatezza e di risposta insufficiente di un sistema
sanitario che non funziona nella nostra zona. Le guardie mediche devono essere messe in grado di poter
intervenire in caso di bisogno. Bisogna ci siano gli strumenti adeguati, occorrono risorse umane e
strumentali per le emergenze. E mentre ringrazio il medico condotto, quello in pensione e la stessa guardia
medica, mi sento di dover dire con molta forza che in questa maniera non si può continuare. Siamo
emarginati geograficamente e proprio per questa ragione, anzi, a maggior ragione, non possiamo essere
cittadini la cui salute è messa costantemente a rischio per l’insufficienza e la totale inadeguatezza della
risposta medica e di un sistema sanitario penalizzante per i cittadini”.
Le spiegazioni dell'Asl. Alla denuncia del sindaco di Castell’Azzara Fosco Fortunati per i ritardi accumulati
dal servizio del 118, la Asl 9 così spiega: “La chiamata alla centrale del 118 è arrivata da Castell’Azzara alle
10,05. L’autoambulanza che in genere parte da Pigliano per le chiamate di Castell’Azzara, era impegnata e
dunque è stata allertata l’autoambulanza di Roccalbegna. Il mezzo è arrivato alle 11,30 a Castell’Azzara, in
ritardo di circa 20-30 minuti, per le pessime condizioni della strada, ghiacciata e a tratti piena di fogliame che
ha costretto l’autista a una marcia a 30 chilometri orari. Oltre tutto non c’era segnale radio e Gps. Intanto era
stato attivato l’elisoccorso dalla centrale stessa, che nonostante i problemi metereologici è stato in grado di
alzarsi e atterrare a Castell’Azzara. Una volta arrivata l’autoambulanza - prosegue la replica dell'Asl 9 - il
medico a bordo ha immediatamente riconosciuto la gravità e individuato la patologia del paziente che è stato
stabilizzato e mandato a Siena. Alle 12,40 il paziente era all’ospedale Le Scotte. Il ritardo complessivo è
stato di circa mezz’ora”.
Le rimostranze del sindaco Fortunati che parla di “inadeguatezza e insostenibilità della situazione “ per i
castellazzaresi che si sentono cittadini di serie C rispetto all’assistenza sanitaria complessiva, trovano una
risposta da parte della Asl che spiega: “E’ in costruzione la piazzola dell’elisoccorso ed è allo studio un
progetto per permettere l’atterraggio notturno di Pegaso a Castell’Azzara. Sono poi iniziati i corsi per
volontari che siano in grado di usare il defibrillatore semiautomatico che in certe circostanze potrà essere
uno strumento fondamentale per l’assistenza immediata in casi che ne abbiano necessità”.
Il sindaco Fortunati, però ribadisce per quanto riguarda gli orari: "La chiamata al 118 è partita alle 9,15. Ci
sono anche persone presenti all'episodio, che possono confermare".