25 Febbraio Il Sole 24 Ore Sanità Cartella clinica: vietato compilarla
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25 Febbraio Il Sole 24 Ore Sanità Cartella clinica: vietato compilarla
Febbraio 2015 Rassegna Responsabilità Professionale 25 Febbraio Il Sole 24 Ore Sanità Cartella clinica: vietato compilarla in ritardo di Paola Ferrari Commette omissione d'atti d'ufficio, previsto e punito dall'articolo 328 del Codice penale, comma 1, il primario responsabile del reparto, nella fattispecie ortopedico, che non compila e non controlla l'operato dei suoi collaboratori accettando l'imperfetta compilazione dei documenti clinici e il loro mancato inoltro, addirittura dopo anni, al servizio che si occupa del rilascio delle copie. Questa è l'opinione della VI sezione della Cassazione penale che nella sentenza n. 6075/2015 del 10 febbraio, pur annullando per avvenuta prescrizione il precedente di condanna della Corte d'appello di Catania, l'ha confermato nel merito ai fini civili. La cartella clinica ha la funzione di garantire la compiuta attuazione del diritto alla salute, a prescindere dalla presenza di un'urgenza sanitaria conseguente alla prosecuzione del trattamento, posto che le conseguenze impreviste delle terapie somministrate ben potrebbero profilarsi a distanza di tempo e richiedere un immediato accertamento. Inoltre, il paziente che la richiede è titolare di un diritto alla ricezione tempestiva degli atti. Conseguentemente, la cartella clinica deve essere sempre formata senza ritardo, risultando sempre funzionale a ragioni di sanità. Del resto, data l'ampiezza della tutela riconosciuta al diritto fondamentale alla salute dall'articolo 32 della Costituzione, oltre che la tutela del diritto alla privacy, non appare possibile limitare il diritto dell'interessato all'immediato rilascio all'ipotesi di prosecuzione delle cure, poiché l'utente non è tenuto a esplicitare le ragioni della sua richiesta. In quest'ottica, il primario che sovraintende al reparto diventa responsabile della tenuta dei documenti del reparto che sovraintende. «La supremazia del paziente sul diritto alle informazioni che lo riguardano», afferma la sentenza, è un diritto «incondizionato e non deve essere sorretto dall'illustrazione della causale» al pari dell'importanza clinica del documento che rappresenta, in maniera necessariamente congruente sul piano temporale con l'attività compiuta l'indicazione di tutti gli interventi effettuati sul paziente, e assolve a plurime funzioni, tutte fondate sulla necessità di ricostruire ex post, a qualsiasi fine, l'appropriatezza degli interventi. E questo al fine di valutarne gli effetti, la possibile sinergia con ulteriori iniziative sanitarie, e quindi consentire l'adeguatezza di queste ultime, tutte comunque ricollegabili alla tutela della salute intesa nella sua accezione più ampia, che prescinde dalle esigenze di intervento immediatamente successivo per la prosecuzione delle cure, e comprende il necessario dovere informativo nei confronti del paziente su quanto effettivamente somministratogli o eseguito durante il ricovero «e ciò», afferma la sentenza, «anche al fine di armonizzazione delle successive cure, e di individuare, per l'ipotesi di effetti negativi, le possibili cause». 18 Febbraio Il Sole 24 Ore Sanità Risarcimenti: necessarie nuove regole contro la malasanità di Roberto Simioni,presidente Obiettivo Risarcimento Accade ai neonati, ma non solo. Ovviamente quando si tratta di bambini di pochi mesi, come Daniel a Trapani e Nicole a Catania, le morti in ospedale fanno ancor più rumore e lasciano ancor più sbigottiti. Ma la malasanità è una piaga generalizzata e diffusa ovunque in Italia, non solo in Sicilia. Non è un caso che tutte le indagini demoscopiche rilevino l'aumento della diffidenza e della paura degli italiani verso la sanità (per l'Eurispes il 68% degli italiani non si fida del proprio medico). In effetti, su 8 milioni di persone ricoverate ogni anno, 320mila (pari a circa il 4%) subiscono danni o conseguenze dovute a errori nelle cure o a disservizi che potrebbero essere evitati (dati Cineas). E negli ultimi anni le denunce sono aumentate (dell'80% dal 1995, dati Ania) perché i pazienti sono più consapevoli. Mentre si gioca al rimpallo inutile delle responsabilità, con la Regione che accusa i medici, i medici che accusano il governo, il governo che accusa la Regione, però, si continua a morire. E si continuerà ancora, perché non è questo il modo per risolvere i problemi della malasanità in Italia. Come Obiettivo Risarcimento, società con un'esperienza ultradecennale sul campo, riteniamo che sia necessario un confronto più ampio e meno strumentalizzato sul tema. Partendo però da un assunto, ribadito sia dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, sia dal ministro della Salute, Beatrice Lorenzin: lo Stato deve garantire il diritto del malato, che è sempre e comunque il soggetto debole. Per questo riteniamo che le proposte che Parlamento e Governo stanno analizzando siano di estrema rilevanza. In merito, le ipotesi di ridurre i tempi di prescrizione fino ad un quinto dell'attuale siano atti incoscienti di chi sta giocando con la salute dei cittadini. Non è riducendo i diritti dei pazienti che si elimina il problema, anzi. Se chi subisce lesioni personali gravi per un casi di malasanità poi non ottiene un giusto risarcimento sarà poi a carico dello Stato e dei familiari. Inoltre, poiché abbiamo sempre pensato che le responsabilità raramente ricadono sul singolo medico e che la maggior parte delle volte siano imputabili agli errori della filiera ospedaliera, crediamo che l'introduzione dalla figura del risk manager, del "medico legale" Febbraio 2015 Rassegna Responsabilità Professionale di corsia e la razionalizzazione degli uffici amministrativi delle Asl debba essere una priorità, come d'altronde è previsto in quasi tutte le proposte di legge in discussione in Parlamento. Poiché i sistemi di mediazione obbligatoria fin qui previsti hanno avuto scarso successo, poi, crediamo sia utile studiare forme nuove per chiudere le controversie in sede stragiudiziale e introdurre modalità di indennizzo diretto sul modello di quanto già avviene in ambito rc auto. 12 Febbraio Quotidiano Sanità Cassazione. Paziente muore per farmaco sbagliato. Confermata condanna per omicidio colposo a “infermiere coordinatore” che non aveva segnalato allergia riportata nell’anamnesi Il medico incaricato dell’anamnesi, in presenza dell’infermiere coordinatore, aveva segnalato un’allergia all’amoxicillina. Ma in reparto gli viene comunque prescritta e somministrata causandone il decesso. Per la Corte l’infermiere coordinatore aveva comunque l’obbligo di vigilare e segnalare l’errore essendo a conoscenza dell'allergia del paziente. LA SENTENZA: http://www.quotidianosanita.it/allegati/create_pdf.php?all=6910065.pdf La Corte di cassazione (sezione IV, sentenza 16 gennaio 2015, n. 2192) torna sulla responsabilità infermieristica e sulla posizione di garanzia in capo a ogni esercente la professione sanitaria su un caso interessante di responsabilità professionale che trae origine da un errore medico nella prescrizione di un farmaco. Il fatto è degno di essere attentamente ricostruito – per quello che è possibile fare all’interno di una sentenza della Corte di cassazione, non essendo conosciuti i riferimenti dei precedenti gradi di giudizio di merito – nella sua interezza. Un medico durante l’anamnesi (curiosamente chiamata “intervista” nella sentenza) di un paziente – avvenuta alla presenza di un infermiere coordinatore – rileva l’allergia all’amoxicillina del paziente stesso. Il farmaco viene lo stesso prescritto e successivamente somministrato, all’interno di una sala operatoria, da un’infermiera, causandone la morte in “pochi secondi”. In primo grado entrambi gli infermieri vengono assolti. In appello viene assolta l’infermiera somministrante e condannato l’infermiere coordinatore in quanto la Corte di appello “ha evidenziato la concreta sussistenza di una “specifica posizione di garanzia” in capo all’infermiere coordinatore. Tale posizione di garanzia viene posta a tutela dell’incolumità del paziente, “tenuto conto, in particolare, della qualifica professionale di vertice rivestita dall'imputato, onerato di precisi doveri sinergici di organizzazione, di gestione, di sovraintendimento e di segnalazione”. Sostanzialmente si è contestato all’infermiere coordinatore “la trascuratezza …nell'omettere di procedere alle dovute segnalazioni ai fini della correzione degli errori contenuti nella documentazione clinica riguardante il paziente”. A fronte, cioè dell’errore medico, il coordinatore aveva l’obbligo di “sottoporre a una nuova verifica, o a un più accurato controllo, detta documentazione clinica”. Omettere tale segnalazione significa violare “le regole imposte dall’arte infermieristica”. Nel ricorso per cassazione il coordinatore produce tre motivi di impugnazione di nostro interesse. Nel primo contesta l’omessa valutazione di tre circostanze: la prima legata alla mancata disponibilità materiale della cartella il giorno dell’intervento; la seconda circostanza è relativa all'assenza del coordinatore dall'ospedale, “nei due giorni precedenti l'intervento” per turno di riposo “durante i quali il personale medico avrebbe dovuto provvedere alla verifica e ai necessari controlli sulla correttezza delle prescrizioni terapeutiche disposte nei confronti del paziente”. Ultima circostanza non valutata – secondo il coordinatore – era relativa al fatto che la materiale somministrazione fosse avvenuta in sala operatoria dove erano presenti altri due coordinatori. La Suprema Corte individua la fonte della responsabilità del coordinatore nella posizione di garanzia richiamando le leggi di abilitazione all’esercizio professionale (legge 42/99, profilo professionale ex DM 739/1994, legge 251/2000 e 43/20006) e gli obblighi costituzionali ex art. 3 e 32 Cost. Come è noto la “posizione di garanzia” si sostanzia nell’obbligo “giuridico che grava su specifiche categorie di soggetti previamente forniti degli adeguati poteri giuridici, di impedire eventi offensivi di beni altrui, affidati alla loro tutela per l’incapacità dei titolari di adeguatamente proteggerli” (Mantovani, 2001). Con la posizione di garanzia si crea uno speciale vincolo tra il soggetto debole e il “garante”, tra chi, in questo caso l’infermiere, deve preservare da danni il paziente indicato come soggetto debole. Viene riconosciuta al coordinatore la posizione di garanzia, classificata dalla dottrina giuridica come di concezione mista “sostanziale-formale”, che trova le sue fonti nella Costituzione e nella normativa di settore. Non è una novità assoluta: è dalla fine degli anni novanta dello scorso secolo che l’elaborazione della posizione di garanzia viene sempre maggiormente riconosciuta alle professioni sanitarie. L’elemento di novità di questa sentenza risiede nel riconoscimento all’infermiere coordinatore, tenuto conto, come abbiamo visto, della “qualifica professionale di vertice rivestita” da cui conseguono “precisi doveri sinergici di organizzazione, di gestione, di sovraintendimento e di segnalazione”. Febbraio 2015 Rassegna Responsabilità Professionale In questi ultimi decenni, pur nella imprecisione delle non chiarissime norme di carattere contrattuale e legislativo, abbiamo assistito al consolidamento della figura del coordinatore come figura, quanto meno di fatto, tendenzialmente gestionale. Sicuramente più spostata verso l’attività organizzativa che non quella clinica. Il coordinatore non viene di conseguenza percepito come l’equivalente, nell’ambito del comparto, della figura ex primariale della dirigenza, che come è noto, conserva una importante attività clinica da affiancare alla funzione gestionale. Il coordinatore nei fatti è verosimilmente - insieme alle posizioni organizzative del comparto - l’unica figura sanitaria gestionale praticamente a tempo pieno. Questa sentenza restituisce al coordinatore una competenza clinico assistenziale e, di conseguenza, la responsabilità connessa. Non solo aspetto gestionale ma, quindi, anche compiti di “sovraintendimento” (ovviamente clinico) e di “segnalazione”. Tra l’altro, al coordinatore è stato anche contestato, un altro aspetto “assistenziale”. Nei giorni precedenti egli stesso aveva somministrato un anticoagulante al paziente, in previsione dell’intervento chirurgico poi rimandato, e nell’annotazione “di tale circostanza sulla scheda di terapia unica aveva tralasciato di riesaminare con attenzione detta scheda, sulla quale era già stata riportata la prescrizione del farmaco X. , antibiotico della famiglia delle penicilline, senza rilevarne (e conseguentemente segnalarne l'occorrenza al personale medico e infermieristico interessato) la chiara incompatibilità con l’allergia”. La mancata segnalazione, dunque, dell’errore medico come causa prima della condanna (per omicidio colposo). Il processo di somministrazione dei farmaci deve essere portato avanti dall’infermiere in modo “non meccanicistico (ossia misurato sul piano di un elementare adempimento di compiti meramente esecutivi), occorrendo viceversa intenderne l'assolvimento secondo modalità coerenti a una forma di collaborazione con il personale medico orientata in termini critici. Quindi collaborazione nei confronti del medico in modo critico laddove si possano supporre errori a danno di pazienti. Questo, precisa la Suprema Corte, non viene attuato “al fine di sindacare l'operato del medico (segnatamente sotto il profilo dell'efficacia terapeutica dei farmaci prescritti), bensì allo scopo di richiamarne l'attenzione sugli errori percepiti (o comunque percepibili), ovvero al fine di condividerne gli eventuali dubbi circa la congruità o la pertinenza della terapia stabilita rispetto all'ipotesi soggetta a esame”. In caso di dubbi compete all’infermiere la segnalazione al medico. Questo si colloca in una consolidata giurisprudenza. In un’antica sentenza la Corte precisò che in caso di errori e di dubbi sulla prescrizione era compito dell’infermiere di “attivarsi…..al precipuo scopo di ottenerne una precisazione per iscritto che valesse a responsabilizzare il medico e a indurlo a una eventuale rivisitazione della precedente indicazione…”. Con le parole della cassazione di oggi, in seguito all’errore di una prescrizione, derivano, nei confronti dell’infermiere “obblighi giuridici di attivazione e di sollecitazione volta a volta specificamente e obiettivamente determinabili in relazione a ciascun caso concreto” (Corte di cassazione, IV sezione, sentenza n. 1878/2000). Sempre di più, quindi, responsabilità all’interno dell’équipe, anche se questo caso non può essere annoverato come classico caso di responsabilità di équipe. In quest’ultima responsabilità, infatti, l’agire professionale è caratterizzato dal c.d. “principio dell’affidamento”. Il principio dell’affidamento consiste nel “rendere responsabile il singolo professionista del corretto adempimento dei compiti che gli sono affidati e di fatto sgravarlo dall’obbligo di sorvegliare il comportamento altrui al superiore fine dell’interesse della vita e della salute del paziente” (Fiandaca G, Musco E, 1995). In questo caso, coerentemente con un filone interpretativo ormai pacifico, non era applicabile il principio dell’affidamento in quanto il coordinatore avendo agito colposamente omettendo la segnalazione, non poteva confidare nell’eliminazione dell’errore da parte di chi gli succedeva nella posizione di garanzia. A parte queste annotazioni strettamente giuridiche, la notazione finale a cui possiamo giungere è relativa alla stretta intimità di rapporti tra professione medica e professione infermieristica nell’agire quotidiano. Luca Benci Giurista 11 Febbraio Il Sole 24 Ore Sanità Rc, 4mila euro a posto letto Il contenzioso è in diminuzione ma la spesa viaggia in controtendenza Marsh ha pubblicato la sesta edizione della Medmal Claims Italia dove sono state analizzate le richieste di risarcimento danni di 10 anni dal 2004-2013 su un campione rappresentativo del territorio nazionale della sanità pubblica. Il volume d’analisi si è aggirato intorno alle 42mila richieste di risarcimento che sono pervenute alle strutture sanitarie clienti della società di brokeraggio assicurativo. Rispetto alla quinta edizione, che si basava su un campione di 95 strutture pubbliche, quella attuale si basa su 89 strutture perché molte aziende sono state accorpate e pertanto è diminuito a livello nazionale il numero delle aziende pubbliche (Asl e Ao). Il campione, anche in questa versione, è rimasto invariato (è stato aggiunto l’Ao di Seriate). Febbraio 2015 Rassegna Responsabilità Professionale Nella sesta edizione, a livello nazionale il valore assicurativo di un posto letto è stimato intorno a 4.074 euro, un singolo ricovero intorno a 107 euro, un medico 6.990,29 euro e un infermiere 2.907,26 euro. Se attraversiamo l’Italia da Nord a Sud si osserva che questo dato varia. Un posto letto al Nord costa circa 3.666,54 euro, al Centro 5.380,06 euro e al Sud oltre 2.742 euro. Per il personale medico ci sono delle variazioni che vanno dai 6.264 euro del Nord ai 9.669 euro del Centro, ai 3.930 euro del Sud. In quasi tutte le situazioni analizzate l’esposizione economica maggiore si verifica nel Centro Italia. I dati rispetto alla quinta edizione sono notevolmente peggiorati sul versante economico, ma non sui tassi. All’interno dello studio è stato possibile calcolare la frequenza degli eventi a livello nazionale e non. Dai dati è emerso che avvengono 9,95 sinistri ogni cento posti letto, 2,62 ogni mille ricoveri, 17,07 eventi ogni cento medici e 7,10 ogni cento infermieri. I tassi variano, in relazione alla localizzazione geografica. In particolare i tassi diminuiscono se si prendono in considerazione le strutture sanitarie del Nord e del Sud, mentre aumentano considerevolmente al Centro. Bisogna dire però che si registra una generale flessione dei tassi di rischio. Se prendiamo in considerazione due fattori come i posti letto e il personale medico si può affermare, a esempio, che il tasso per i posti letto varia da 9,37 eventi ogni cento al Nord, 10,65 al Centro e 8,50 al Sud. Per il personale medico, si varia da 16,01 eventi ogni cento al Nord, 19,13 al Centro e 12,18 al Sud. La tipologia delle richieste di risarcimento danni. Nel sesto report Marsh la media di richieste annue per struttura è aumentato rispetto all’anno precedente e si attesta a 68 pratiche annue. L’84% delle richieste danni riguarda pazienti, il 9,3% visitatori e il 3% operatori. A guidare la classifica per tipologia di rischi, ovviamente è il rischio clinico con il 73%, seguono i rischi alla struttura (eventi in aree comuni, parcheggi, scale ecc.) 10,2%, i danni alla proprietà (oggetti personali, protesi ecc.) 9,8% e i rischi professionali 2,3 per cento. L’analisi delle conseguenze seguite all’evento che ha determinato la richiesta di risarcimento vede al primo posto le lesioni (78,1%) seguite dai danni alle proprietà (10,1%) e decesso (7,9 per cento). Le principali tipologie di errori reclamati sono errori chirurgici (27,3%), errori diagnostici (18,0%), errori terapeutici (10,4%), cadute di pazienti e visitatori (9,4%), danneggiamenti a cose (5,5%) e smarrimenti e furti (4,5%). Le specialità cliniche maggiormente interessate sono: struttura e parti comuni (15,5%), ortopedia (13,2%), pronto soccorso (13,1%), chirurgia generale (10,3%), ostetricia e ginecologia (7,6%) e medicina generale (3%). Circa la metà delle richieste di risarcimento danni è denunciata entro i primi 6 mesi dalla data di accadimento dell’evento; circa il 77% entro 2 anni. Nel corso dei dieci anni (2004-2013) è stato chiuso circa il 30% delle richieste danni, mentre resta aperto poco più del 43% di pratiche e un ulteriore 24% circa risulta senza seguito. In questa edizione del report, l’analisi temporale delle richieste di risarcimento ha raggiunto i dieci anni ed è stato perciò possibile sviluppare un modello statistico che permetta di stimare il numero di richieste di risarcimento che si genereranno negli anni a venire e che sono riferite a sinistri avvenuti in un determinato anno. Lo sviluppo di questo modello statistico di proiezione del rischio è di notevole rilevanza per il mondo assicurativo, in quanto permetterà di effettuare studi di retroattività delle polizze più efficaci e attendibili. A esempio per ciò che riguarda gli eventi avversi che si sono verificati nell’anno 2013, il 46,7% sono sinistri noti, mentre il restante sono eventi che genereranno richieste di risarcimento danni nei prossimi anni. Ciò significa che nei prossimi dieci anni verranno potenzialmente notificate altre 956 richieste di risarcimento per eventi accaduti nel 2013. Il modello permette inoltre di dettagliare questo ultimo dato per ciascun anno a venire (verranno generate 600 Rrd nel 2014 relative al 2013, 145 nel 2015 e così via). La dimensione del campione di analisi e la stratificazione dei dati per area geografica e tipologia di ospedali. Nella sesta edizione della Medmal Claims Analysis il campione di analisi è costituito da 89 strutture sanitarie pubbliche. La riduzione rispetto all’edizione precedente è da imputare, come riportato nel paragrafo iniziale, all’accorpamento di alcune strutture sanitarie; pertanto è diminuito a livello nazionale il numero totale di Asl e Ao. Dall’analisi dei dati emerge che il maggior numero delle richieste danni viene presentata al Nord 56,2% (23.410 richieste danni), seguono le strutture del Centro col 38,2% (15.882) e il Sud con il 5,6% (2336). Se analizziamo il dato medio per singola struttura sanitaria il Nord equivale al 42,95% (520 richieste danni), il Centro è il 40,98% (496) e il Sud 16,07% (195). Osservando invece il dato complessivo delle richieste danni in base alla tipologia di struttura sanitaria e/o ospedaliera si evince che le strutture sanitarie di primo livello, ovvero quelle di base, registrano il maggior numero di richieste danni pari a 53,97% (22.466), seguono le strutture di secondo livello (intese come ospedali ad alta intensità di cura o ad alta specializzazione) al 24,46% (10.183) e gli ospedali universitari sono al 19,97% (8.315). Molto distanziate sono le strutture specialistiche monotematiche come quelle ortopediche 1,16% (481), materno-infantile 0,44% (183). Analizzando sempre per le tipologie di ospedali il dato medio per singola struttura, i policlinici e universitari sono al 30,23% (640 richieste danni), le strutture di secondo livello 21,88% (463) e gli ospedali di base 20,82% (441). Tra le strutture monospecialistiche quelle ortopediche hanno la percentuale più alta 22,74% Febbraio 2015 Rassegna Responsabilità Professionale (481), i materno-infantile 4,33% (92). Emanuele Patrini Healthcare practice leader - Risk consulting - Marsh Spa 3 Febbraio Il Sole 24 Ore Sanità Rifiuto, non serve il danno Per la sanzione è sufficiente recare pregiudizio all’ufficio o al servizio Ferma la qualità di incaricato di pubblico servizio attribuibile all’infermiere, rientra nel “proprium” dell’infermiere professionale quello di controllare il decorso della malattia o convalescenza del paziente ricoverato, fungendo da «necessario tramite con il medico del reparto» a fronte di situazioni suscettibili di spiegazioni plurime in termini di ragionevoli sviluppi patologici, tali comunque da esigere l’intervento di mediazione e interpretazione del medico. Con questa motivazione la Suprema corte, sezione VI penale, con sentenza n. 49537, depositata il 27 novembre 2014, ha confermato la sentenza con cui la Corte di appello di Reggio Calabria condannò a quattro mesi di reclusione con pena sospesa e non menzione e al risarcimento del danno in favore della parte offesa due infermieri per il delitto di indebito rifiuto di atti di ufficio (articolo 328 del codice penale). Nel caso in esame i due infermieri professionali, in servizio presso il reparto di psichiatria dell’Ospedale, indebitamente rifiutarono di eseguire un atto del loro ufficio omettendo di prestare assistenza sanitaria in favore di una paziente ricoverata, ovvero di chiamare il medico di guardia affinché valutasse le patologie sofferte dalla predetta, sia in relazione alla forte e progressiva emicrania di cui soffriva e di cui si era esplicitamente lamentata, sia in relazione alla caduta, causata da un capogiro, in esito alla quale subì una contusione dell’arcata sopraccigliare; comportamenti che, per ragione di sanità, dovevano essere compiuti senza ritardo. Secondo la difesa degli infermieri, non essendosi verificato alcun danno, quale conseguenza diretta della realizzata omissione, la condotta addebitata non sarebbe stata punibile ai sensi dell’articolo 328 del codice penale. Sul punto, la Corte di cassazione ha chiarito che il rifiuto di provvedere, come nel caso di specie, integra la materialità e la soggettività richiesta dalla norma, la quale non esige che l’atto omesso o ritardato produca danno al paziente: il delitto di omissione di atti d’ufficio, infatti, è un reato di pericolo la cui previsione sanziona il rifiuto, non già di un atto urgente, bensì di un «atto dovuto che deve essere compiuto senza ritardo», ossia con tempestività, in modo da conseguire gli effetti che gli sono propri in relazione al bene oggetto di tutela, indipendentemente dal nocumento che in concreto possa derivarne (cfr. Cassazione penale, sezione 6, 13519/2009). In conclusione, va ribadita la regola che il rifiuto, l’omissione o il ritardo di un atto d’ufficio, per cadere sotto la sanzione penale non deve necessariamente cagionare un danno, essendo sufficiente il pregiudizio all’ufficio o al servizio, insito nella condotta illegittima del pubblico ufficiale o dell’incaricato del pubblico servizio. Nicola di Lernia Il Sole 24 Ore Sanità «Ospedale carente, medico assolto» La drammatica carenza organizzativa in cui versa il pronto soccorso può costituire un’esimente penale per il medico che si trova a operare in assenza di strumenti e direttive, nonostante il suo comportamento gravemente negligente. Queste le considerazioni con cui la Corte di cassazione penale, sezione VI, con sentenza n. 46336 del 10 novembre 2014 ha confermato la pronuncia con cui la Corte d’appello di Firenze, in riforma della sentenza del Tribunale di Livorno, assolse i due medici di pronto soccorso dal reato di omicidio colposo. Nel caso di specie, il medico del pronto soccorso ortopedico e il collega di turno del pronto soccorso generale, erano accusati di aver colposamente cagionato la morte di un paziente avendo tardivamente diagnosticato un’imponente frattura alla milza. Il paziente venne inizialmente trasportato presso il pronto soccorso ortopedico a seguito di incidente stradale e il medico ortopedico, dopo gli interventi di sua competenza, sospettò un trauma interno e non disponendo di un ecografo per una preliminare valutazione, avviò il giovane al pronto soccorso generale, sito in un padiglione diverso. Il trasferimento avvenne con ritardo in quanto, a causa dell’assenza di un’autolettiga, il ferito fu trasferito con l’ausilio di una barella. Il paziente fu ricevuto quindi nel pronto soccorso generale, ma nonostante le precarie condizioni venne contrassegnato dall’infermiera addetta al triage con codice non urgente e visitato solo dopo un’ora, quando ormai versava in una condizione disperata, tanto che dopo cinque minuti sopraggiunse shock emorragico, cui seguì esito letale. L’indagine peritale ha evidenziato che la patologia alla milza avrebbe potuto essere diagnosticata tempestivamente attraverso l’esame ecografico e che il paziente avrebbe potuto essere salvato se l’esame fosse stato eseguito immediatamente dall’ortopedico il cui comportamento, non avendo la strumentazione idonea, è risultato immune da censure. Febbraio 2015 Rassegna Responsabilità Professionale La Corte ha invece ritenuto negligente il comportamento del terapeuta del pronto soccorso generale che, avvisato dell’arrivo di un ferito per sospetto trauma addominale, avrebbe dovuto valutare la gravità del paziente a seguito della segnalazione che, se fondata, rappresentava un rischio della massima urgenza. Tuttavia, le documentate valutazioni del perito rendevano del tutto incerta la riconducibilità causale della morte del paziente alla ritardata visita. Il drammatico evento è stato dunque ritenuto frutto di una serie di concause: erroneo trasporto del paziente al ps ortopedico e non a quello generale; negata percezione di dolori addominali da parte del ferito; assenza di un ecografo; irrazionale separazione dei diversi pronto soccorso; mancanza di linee guida efficienti per il trasferimento; mancata valutazione dell’infermiera sulla reale situazione del paziente. Di qui la pronunzia assolutoria in ambito penale. N.d.L. CASI 28 febbraio Corriere di Bologna È morta la bimba colpita da meningite I genitori: «Denunciamo il Maggiore» La neonata si è spenta ieri al Sant’Orsola. Fascicolo in Procura per omicidio colposo È morta dopo aver lottato per undici giorni nel reparto di Pediatria del Sant’Orsola, dove era stata ricoverata d’urgenza il 16 febbraio per una meningite da stafilococco. Da subito, la piccola di un mese e mezzo appena era caduta in un coma profondo dal quale non si è più svegliata, gettando nella disperazione i genitori, che ora vogliono denunciare il Maggiore per aver sottovalutato le condizioni di salute della figlia nelle prime fasi del malessere che la faceva piangere ininterrottamente. Anche la Procura vuole vederci chiaro e ha aperto un fascicolo contro ignoti per omicidio colposo. «È un atto dovuto, al fine di svolgere gli opportuni accertamenti medico-legali», spiega il procuratore aggiunto Valter Giovannini. Fin da subito i medici aveva capito che le condizioni della neonata erano disperate: il quadro clinico parlava di un lento e progressivo peggioramento, fino a ieri mattina, quando la neonata è stata sopraffatta dalla malattia. «Adesso vogliamo capire se è stato fatto tutto il possibile per salvare nostra figlia», dicono con gli occhi gonfi di lacrime Marina e Constantin, i due ragazzi moldavi che da otto anni vivono sotto le Due Torri insieme a un’altra bambina. «I medici dovrebbero aiutare le persone e non farle morire, secondo me al Maggiore non hanno fatto niente per la nostra creatura — si dispera la ragazza —. Quando sono arrivata lì le hanno solo misurato la febbre, ma si vedeva che stava molto male». Secondo la ricostruzione della 29enne, verso le 4,30 del 16 febbraio, la neonata avrebbe iniziato a piangere a dirotto: febbre a 38 e vomito i primi sintomi riscontrati. Alle 7 ha chiamato un’ambulanza e insieme alla figlia è arrivata al pronto soccorso pediatrico del Maggiore: una dottoressa l’ha visitata diagnosticando un’influenza e consigliando un dermatologo per delle macchie che erano comparse sul viso. Poi madre e figlia sono tornate a casa con un taxi, ma la situazione è rapidamente degenerata. «Ho chiamato la mia pediatra e l’ha visitata alle 13,30 dicendomi di correre in ospedale — aggiunge Marina —. L’ho portata al Sant’Orsola, ma era troppo tardi. È entrata in coma nel pomeriggio e poi non l’ho più rivista…», qui il racconto si ferma tra i singhiozzi e le parole che stentano a tornare. Nei giorni scorsi l’Ausl aveva chiarito che la «valutazione clinica era stata scrupolosa e approfondita, non c’erano segni che facessero sospettare una patologia così grave, le caratteristiche erano quelle di un banale stato febbrile». «Speriamo che la magistratura faccia il suo dovere, noi stiamo valutando cosa fare — commentano i due genitori —. Aspettiamo anche di capire quando potremo celebrare il funerale, che sarà sicuramente a Bologna». Nell’atrio del padiglione 13 del Sant’Orsola sono arrivati anche i parenti e gli amici dei due giovani per provare a consolarli. Anche da loro solo poche parole: «I medici ci avevano detto che ci sarebbero state poche speranze, ma noi abbiamo sperato fino all’ultimo, adesso vogliamo capire perché è successo tutto questo». Mauro Giordano La Repubblica Bologna “Non sempre emergono sintomi chiari del male in vita mia 3-4 casi così” IL PARERE/ FAUSTO FRANCIA, DIRETTORE SANITÀ PUBBLICA ROSARIO DI RAIMONDO «È un’infezione rarissima. Nella mia vita avrò visto tre o quattro casi simili a questo». Fausto Francia, direttore del Dipartimento di sanità pubblica, parla della forma di meningite che ha ucciso la piccola Miriam. Non vuole commentare l’operato dei medici dell’ospedale Maggiore, che hanno visitato la neonata ipotizzando una febbre ma, più in generale, sottolinea come non sia scontato riconoscere subito questa malattia: «Le diagnosi si fanno sui sintomi, e in alcuni casi i sintomi non ci sono». Direttore Francia, di che tipo di caso parliamo? «Di una meningite da streptococco. Una forma di cui si legge sui libri di medicina. È un batterio che in genere provoca soltanto una tonsillite. Tanto che non esistono epidemie da streptococco e nemmeno vaccini». Come è stato contratto il batterio dalla neonata? Febbraio 2015 Rassegna Responsabilità Professionale «Evidentemente dalla famiglia, forse aveva una scarsa resistenza a questo batterio». La piccola è stata visitata al pronto soccorso del Maggiore prima di essere portata al Sant’Orsola. I medici hanno detto che era febbre. «Su questo preferisco non commentare. Dico solo che in alcuni casi è possibile che la malattia sia iniziata senza che i sintomi fossero visibili. E un medico fa le diagnosi sulla base dei sintomi. Anche una semplice influenza può degenerare in una meningite, in particolare nei bambini: in loro si assiste a una drammatica esplosione dei sintomi anche dopo poche ore». I genitori dicono che la bimba aveva dei puntini sul viso e che è stato consigliato loro di andare dal dermatologo. «In generale è difficile che un pediatra del pronto soccorso confonda delle petecchie (i sintomi più evidenti della meningite, ndr) con delle lesioni cutanee molto meno gravi». Corriere di Romagna Diagnosi sbagliate, i medici pagano i danni RIMINI. A distanza di dieci anni la Corte dei conti chiede il risarcimento a cinque medici riminesi che hanno sbagliato diagnosi o interventi chirurgici. Errori per cui l’Ausl ha dovuto a suo tempo pagare un risarcimento danni di 50mila euro (per un totale di 250mila euro), pari alla franchigia applicata dall’assicurazione all’Azienda sanitaria, e del quale ora lo Stato esige il rimborso. Al momento sono cinque i medici ospedalieri che hanno una contestazione di responsabilità per colpa grave relativa a casi che risalgono al periodo tra il 2004 e al 2005. La cifra per la quale dovranno rispondere singolarmente i dottori non è ancora definita ma si potrebbe aggirare nell’ordine di alcune decine di migliaia di euro. In uno dei cinque casi presi in esame, l’Ausl aveva transato in via extragiudiziale 225mila euro (di cui 50mila coperti direttamente dall’Azienda) per il decesso di un uomo visitato in pronto soccorso, rimandato a casa (con una diagnosi errata) e poi deceduto per un aneurisma dell’aorta. Altro caso: per un errore in sala operatoria, costato la lesione di un nervo con relativa invalidità della paziente, nel 2005, l’Azienda sanitaria aveva risarcito, dopo una causa civile, 53mila euro (3mila l’assicurazione, 50mila l’Ausl). Difesi dall’avvocato Francesco Vasini, i medici chiamati a giustificarsi davanti alla giustizia contabile per “colpa grave”, non sapevano però neanche dei contenziosi, in quanto in entrambi i casi a essere citata era stata solo l’Azienda sanitaria che aveva finito per pagare i danni con esborso di soldi pubblici. Soldi che ora lo Stato rivuole indietro. I sanitari però non ci stanno e nelle loro memorie difensive spiegano che in quegli anni e fino al 2011, non erano stati informati dall’Ausl della necessità di dotarsi di una polizza assicurativa privata, né dell’esistenza di una franchigia da 50mila euro, di fatto rimanendo scoperti ed esposti ai rischi professionali per sei anni. I medici che si attengono alle linee guida sono chiamati a rispondere penalmente in caso di “colpa grave” (distinta dalla “colpa lieve”) e in questi casi può essere chiesto loro il risarcimento danni. 18 Febbraio Corriere della Sera Genova, neonato muore in sala parto A Catania l’autopsia della piccola Nicole. Si sarebbe chiamato Matteo il neonato morto due giorni fa all’ospedale Villa Scassi di Sampierdarena (Genova) dopo un cesareo d’urgenza. Il corpo di Matteo è ora a disposizione dell’autorità giudiziaria. Un caso che va ad aggiungersi alle morti di altri quattro bambini avvenute nei giorni scorsi a Napoli, Catania e Trapani. A Napoli, in particolare, s’è creata la psicosi dei genitori dei piccoli ricoverati al Pediatrico Santobono dove ieri è spirata un’altra bimba, Maria Liliana Siniscalchi, 14 mesi, figlia di Carolina Sepe, uccisa da un vicino di casa nel 2013 che sparò contro la sua famiglia (Maria Liliana era nata mentre la mamma era in coma). Nello stesso ospedale venerdì mattina era morta Rosa Buonomo, otto mesi, dimessa il giorno prima (è indagato il medico che ha firmato le dimissioni di Rosa). A Ragusa, prima dell’autopsia di Nicole, il papà Andrea Di Pietro ha dato ieri l’ultimo saluto alla neonata deceduta in ambulanza perché nessuno degli ospedali di Catania aveva un posto libero. La mamma, colta da malore a casa, è stata ricoverata in ospedale. Sempre ieri, Rosario Crocetta, presidente siciliano, ha sospeso l’attività del reparto di ostetricia della clinica Gibiino dove era nata Nicole. A.G. 17 Febbraio La Repubblica Napoli Santobono, la psicosi dei ricoveri Febbraio 2015 Rassegna Responsabilità Professionale IRENE DE ARCANGELIS IL POLMONE destro collassato. È la prima certezza emersa dall’autopsia sul corpicino di Rosa Buonomo, morta a otto mesi, ventiquattro ore dopo essere stata dimessa dal Santobono. Prima della corsa in ospedale uno dei due polmoni non funzionava più. Ma sulle cause di quel collasso si dovrà ancora lavorare per confermare l’eventuale legame tra le dimissioni e la morte. Intanto la storia di Rosa si traduce in psicosi all’ospedale pediatrico del Vomero. Le mamme dei piccoli degenti si sono in molti casi opposte alle dimissioni dei figli considerandole “precoci”. Tanto che ieri alle nove del mattino ai novanta posti letto dedicati alla Pediatria ne sono stati aggiunti altri trenta. Sul fronte investigativo, oltre all’autopsia gli esperti nominati dalla Procura nell’inchiesta per omicidio colposo hanno cominciato a studiare il registro dell’ospedale per ricostruire, giorno dopo giorno, cosa è successo, cosa è stato diagnosticato, cosa è stato somministrato alla piccola e da chi, nell’avvicendarsi dei turni dei medici. Allo studio i farmaci e le posologie. Potrebbe allungarsi l’elenco degli indagati, anche se al momento l’unico è il medico che ha mandato a casa la piccola Rosa giovedì 12 febbraio. A PAGINA VI Psicosi tra le mamme del Santobono aggiunti trenta posti letto in Pediatria I genitori dei degenti si oppongono alle dimissioni dei figli Dall’autopsia sul corpo della bambina risulta il polmone destro collassato IRENE DE ARCANGELIS IL POLMONE destro collassato. È la prima certezza emersa dall’autopsia sul corpicino di Rosa Buonomo, morta a otto mesi ventiquattro ore dopo essere stata dimessa dal Santobono. Prima della corsa in ospedale uno dei due polmoni non funzionava più. Ma sulle cause di quel collasso si dovrà ancora lavorare per confermare l’eventuale legame tra le dimissioni e la morte. Intanto la storia di Rosa si traduce in psicosi all’ospedale pediatrico del Vomero. Le mamme dei piccoli degenti si sono in molti casi opposte alle dimissioni dei figli considerandole “precoci”. Tanto che ieri alle nove del mattino ai novanta posti letto dedicati alla Pediatria ne sono stati aggiunti altri trenta. Il rovescio della medaglia è la medicina difensiva. I camici bianchi preferiscono, sentendosi esposti a eventuali denunce, mantenere in regime di ricovero bambini che potrebbero invece essere dimessi. Sempre ieri, la divisione di Chirurgia d’urgenza si è ritrovata costretta a bloccare i ricoveri ordinari per destinare due box ai pazienti in surplus. «Più di una mamma ieri pretendeva la nostra presenza costante affianco al figlio — dice un medico di pronto soccorso — ma le medicherie erano così affollate che non avremmo potuto stare vicino a tutti costantemente». Sul fronte investigativo, oltre all’autopsia gli esperti nominati dalla Procura nell’inchiesta per omicidio colposo hanno cominciato a studiare il registro dell’ospedale per ricostruire, giorno dopo giorno, cosa è successo, cosa è stato diagnosticato, cosa è stato somministrato alla piccola e da chi, nell’avvicendarsi dei turni dei medici. Allo studio i farmaci e le posologie. Potrebbe allungarsi l’elenco degli indagati, anche se al momento l’unico sotto inchiesta è il medico che ha firmato le dimissioni mandando a casa la piccola Rosa giovedì 12 febbraio. Che si difende: «Ho seguito il protocollo, mi sono basato sulle analisi. I genitori però non mi hanno chiesto di trattenere la bambina in ospedale. Sono distrutto». Dunque si andrà a ritroso, allungando eventualmente l’elenco dei medici da indagare. Nel fascicolo, inoltre, le dichiarazioni dei genitori di Rosa che avrebbero parlato di altri sintomi prima della corsa in ospedale e della morte. Situazione estremamen- te delicata allo studio dei consulenti che la Procura ha scelto tra professionisti non napoletani, in quanto nella stragrande maggioranza dei casi di autopsie su bambini la Procura si rivolge proprio ai medici del Santobono. 15 Febbraio Corriere della Sera I medici decidono per alzata di mano sul ricovero del bimbo che costa troppo Milano, in un ospedale pediatrico il via libera dopo i dubbi per i bilanci in rosso MILANO Un’alzata di mano per decidere se ricoverare un bimbo in rianimazione. Succede anche questo nella Sanità sempre più a corto di soldi. E accade in uno dei più importanti ospedali pubblici per bambini, con sede nel cuore di MILANO. Mancano pochi giorni a Natale e alla clinica pediatrica De Marchi sono tempi difficili. Gli Uffici del Controllo di gestione e programmazione si sono appena raccomandati di non sforare il bilancio. È fine anno e per i vertici degli ospedali è fondamentale chiudere con i conti in pareggio. I direttori generali, nominati dalla Regione, vengono giudicati anche - e soprattutto - sulla capacità di evitare buchi. A cascata, le pressioni per non andare in rosso coinvolgono tutti. Poche ore dopo il richiamo a spese più attente, arriva alla De Marchi la richiesta di ricoverare un bambino egiziano di quasi un anno. Ha una grave malattia, un’immunodeficienza ereditaria, con enormi rischi di non riuscire a sopravvivere anche alla più banale infezione. I medici capiscono bene che per il piccolo paziente servono cure particolarmente costose. Ci sono da spendere oltre 50 mila euro e l’esito delle terapie è tutt’altro che scontato. E c’è il pericolo di un reale Febbraio 2015 Rassegna Responsabilità Professionale accanimento terapeutico. Il reparto che lo deve prendere in carico ha già superato il budget di spesa annuale, lo sforamento è di quasi 100 mila euro. I pediatri si interrogano. Il ricovero del bimbo va accettato? Il piccolo paziente è destinato a un trapianto di midollo in un altro ospedale ed è in arrivo alla De Marchi dopo essere già stato ricoverato in altre due strutture. Entrambe si sono scontrate con i medesimi problemi economici della De Marchi: si sono già prestate alle costose cure, ma ora chiedono aiuto altrove. Per prendere la decisione si susseguono riunioni. L’ultima, la decisiva, avviene in reparto per alzata di mano. Ai presenti - una decina - viene chiesto di esprimersi attraverso una votazione. Si decide di ricoverare il bimbo. Ma l’alzata di mano lascia un segno tra i presenti che ora - con il bambino miracolosamente migliorato - si domandano: «Possibile che nel servizio sanitario un medico debba trovarsi a fare scelte di questo tipo? Pesare la vita di un bimbo in relazione alle spese per salvarlo?». Questione di soldi. La clinica pediatrica De Marchi è una costola del Policlinico di MILANO, ospedale universitario che è un punto di riferimento nazionale per oltre 200 malattie rare. Per queste patologie le terapie sono onerose perché, essendo poco diffuse, i farmaci sono particolarmente cari. Il problema dei conti in ordine è una lotta quotidiana. E con i tagli al bilancio della Sanità degli ultimi anni la situazione in Italia è sempre più precaria. Secondo le stime delle Regioni nel 2012 sono arrivati complessivamente 3 miliardi di euro in meno e nel 2013 ben 5 miliardi e mezzo. È di questi giorni, inoltre, la discussione sull’ennesima riduzione di finanziamenti per una cifra di 2,450 miliardi di euro. Eppure già oggi in Italia la spesa sanitaria è solo il 9,2% del Pil, assai inferiore a quella degli Stati Uniti (16,9%) e di Paesi europei come la Francia (11,6%) e la Germania (11,1%). Il minore trasferimento di soldi colpisce con un effetto domino le Regioni, gli ospedali e i singoli reparti. Dopo aver votato, i pediatri si sono rivolti alla direzione di presidio. «Sono al corrente di quanto accaduto e ho sostenuto i medici nella decisione dando la copertura sanitaria richiesta — spiega il direttore Basilio Tiso —. Il bambino è stato curato e sta meglio. Nei prossimi giorni ci sarà il trapianto di midollo». È andata bene, fa intendere Tiso, ma è difficile andare avanti così: «Con lo sforzo di tutti, amministratori, direzione strategica dell’ospedale, medici e infermieri, questa situazione si sta risolvendo. Ma se i fondi continueranno a diminuire — sottolinea — è indispensabile una profonda riforma del sistema sanitario. Occorre diminuire il peso dell’apparato amministrativo, burocratico e politico sulla Sanità, in modo da sbloccare risorse in favore degli operatori medici e infermieristici, delle tecnologie più all’avanguardia e dei nuovi farmaci». Un medico non può e non deve fermarsi a riflettere sul costo di una cura. La Repubblica L’ospedale lo dimette, muore a due anni Nuova tragedia in Sicilia. Il piccolo Daniel era stato rimandato a casa nonostante la febbre altissima e una sospetta meningite Il pm ha chiesto di acquisire le cartelle cliniche. Il padre si dispera: “È tutto assurdo. Siamo stati abbandonati al nostro destino” SALVO PALAZZOLO LAURA SPANÒ TRAPANI . La sanità siciliana è di nuovo nella bufera. Dopo la piccola Nicole, muore un altro bambino. Daniel Cesanello, che aveva quasi due anni, è stato rimandato a casa dai medici del Sant’Antonio Abbate di Trapani nonostante avesse febbre altissima e vomito. Qualche ora dopo, i genitori sono tornati di corsa in ospedale, ma non c’era più nulla da fare. Daniel è deceduto venerdì notte. E il padre Gaetano si dispera: «È assurdo che un bambino venga rimandato a casa con 40 di febbre e in quelle condizioni. Non doveva accadere. Siamo stati abbandonati al nostro destino». Adesso, della morte del piccolo Daniel si sta occupando il procuratore di Trapani Marcello Viola. Ci sono da chiarire molti aspetti di questa vicenda. Anche perché nessuno dall’ospedale ha segnalato il decesso del bimbo, la magistratura ha appreso della vicenda solo ieri sera grazie alle segnalazioni di alcuni giornalisti. E il procuratore ha subito inviato la polizia in ospedale per acquisire la cartella clinica. Ora, il caso è finito anche all’attenzione dell’azienda sanitaria locale, perché fra le ipotesi del decesso c’è pure quella di una sospetta meningite. Venerdì mattina, Daniel aveva la febbre alta. All’asilo di Pietretagliate, una frazione di Trapani, ha avuto un malore. La maestra ha subito chiamato i genitori, e nel giro di pochi minuti è iniziata una corsa verso il pronto soccorso. Da lì, al reparto di Pediatria. Il bambino è stato visitato e dimesso con la diagnosi di “sindrome influenzale”. I medici gli hanno prescritto solo una terapia di tachipirina. Ma nel pomeriggio la situazione è peggiorata. Sono comparse delle macchie sul petto del bambino e la febbre è aumentata. Intorno, alle 20, i genitori hanno chiamato il pediatra, che ha ipotizzato un caso di rosolia. Mezz’ora dopo, Daniel è stato assalito dalle convulsioni. Ed è iniziata un’altra corsa verso il Sant’Antonio Abbate. Con la solita trafila, all’ingresso. Prima il pronto soccorso, poi il reparto di Pediatria. I medici non sono riusciti a tamponare la situazione, era già troppo grave. Cinque ore dopo il ricovero è accaduto l’irreparabile. Ora, il corpo del piccolo è nella camera mortuaria dell’ospedale di Trapani. A vegliare Febbraio 2015 Rassegna Responsabilità Professionale la salma ci sono papà Gaetano, di professione carpentiere, e mamma Bice, casalinga. Con loro ci sono le altre due figlie. «Fino ad oggi non abbiamo presentato alcuna denuncia perché non vogliamo che il nostro angelo sia sottoposto allo scempio di un’autopsia», sussurra la signora Bice mentre scorre su Facebook le foto sorridenti del suo bambino, che fra un mese avrebbe compiuto due anni. Qualche giorno fa, il papà postava alcune bellissime foto dell’ultimo arrivato di casa e scriveva: «Alla fine guardi la tua famiglia e passano tutti i pensieri». In una foto, Daniel mangia sorridente il suo gelato, in un’altra indossa la maglietta del Trapani calcio mentre è ancora nella culletta. «Ora siamo piombati in un incubo — ripete il padre agli amici — non si può morire così. Non possiamo far finta che non sia successo niente». In tarda serata, all’ospedale Sant’Antonio Abbate arriva anche il magistrato di turno della procura. Mentre alla camera mortuaria è continuo via vai di amici e parenti della famiglia, che abita a Guarrato, una frazione di Trapani. «Vogliamo giustizia — dice un amico della coppia — non è più ammissibile che i nostri bambini siano mandati allo sbaraglio dalla sanità». 14 Febbraio La Repubblica L’ospedale la dimette, bimba muore a 8 mesi Napoli, solo 24 ore prima i medici avevano deciso di rimandarla a casa: “Stava bene”. La denuncia dei genitori GIUSEPPE DEL BELLO ANTONIO DI COSTANZO NAPOLI . Avrebbe compiuto un anno il 13 giugno. È morta 24 ore dopo essere stata dimessa dall’ospedale. E adesso sarà l’inchiesta, coordinata dal procuratore aggiunto Luigi Frunzio, a stabilire le cause del decesso di Rosa, bimba di appena 8 mesi, ricoverata nel polo Santobono di Napoli per quattro giorni con una diagnosi di “bronchiolite” di media gravità. La tragedia arriva subito dopo la fine assurda della neonata di Catania, vittima di un trasferimento “troppo lungo”, e dopo la denuncia dei familiari di un paziente deceduto, sempre a Napoli, per aver passato due notti su una barella al freddo. La vicenda di Rosa comincia domenica sera quando, accompagnata dai genitori, approda al pronto soccorso del Santobono con difficoltà respiratorie. La piccola viene ricoverata nella medicina d’urgenza. «Qui — spiega il primario Antonio Campa — è stata curata come da protocollo, con farmaci e ossigenoterapia ». La bimba non desta preoccupazioni particolari e giovedì viene dimessa in buone condizioni, tanto che, ricorda il primario, «al momento aveva un livello di saturazione di ossigeno ottimale, pari al 98 per cento». Passano appena 24 ore e improvvisamente la situazione precipita. Rosa respira a fatica. I genitori, che abitano a Ponticelli, periferia occidentale della città, corrono di nuovo nello stesso ospedale. Arrivano intorno alle 11. Ma per i medici è ormai troppo tardi. La bambina che, secondo quanto riferisce il Santobono, sarebbe arrivata già morta, viene comunque sottoposta per oltre 20 minuti a un ultimo disperato tentativo di rianimazione. Il pm Emilia Galante Sorrentino apre un fascicolo. Toccherà all’autopsia, con l’atto dovuto degli avvisi di garanzia, stabilire le cause del decesso. Da chiarire anche la voce secondo cui i genitori, giovedì, avrebbero preferito che Rosa rimanesse ancora in ospedale. La polizia sequestra la cartella e ricostruirà la sua storia clinica anche attraverso il racconto del pediatra di famiglia. Immediata la decisione dei genitori di presentare un esposto: vogliono sapere perché la loro figlia è morta e se vi siano state negligenze. A voler capire le cause della morte sono anche i camici bianchi. «Ho letto la cartella clinica — conclude Campa — la piccola paziente, al momento delle dimissioni, era in buone condizioni con tutti i parametri in regola». Il Santobono è il punto di riferimento della Campania per le emergenze pediatriche. Dall’inizio dell’anno, circa 15mila bambini sono stati accolti dal pronto soccorso del Santobono, di cui 1.500 ricoverati per problematiche connesse all’epidemia influenzale. Con questi numeri e i tagli subiti dal personale, il polo vive una stagione di particolare difficoltà per carenza di mezzi, medici e infermieri. 13 Febbraio La Repubblica Una lunga catena di errori e cento chilometri di curve il destino segnato di Nicole Le accuse al 118: “Si è mosso solo dopo ripetute richieste” A Messina il letto c’era, si è scelto di andare più lontano ALESSANDRA ZINITI Una notte e una mattinata convulsa di interrogatori e accertamenti sono bastate ad acquisire una certezza: la piccola Nicole non era in condizioni di essere trasferita. Tantomeno in ambulanza, tantomeno a Ragusa, un’ora e un quarto di strada, 100 km di curve e tornanti, tantomeno in un’ambulanza privata probabilmente non fornita dei presìdi medici necessari per un’emergenza come quella. Ma in Sicilia nel 2015 si può ancora morire così, per un’assurda teoria di circostanze inaudite. Febbraio 2015 Rassegna Responsabilità Professionale Inaudito che nessuno dei tre ospedali di una città come Catania (per altro polo di eccellenza proprio per la terapia intensiva neonatale) abbia dato la disponibilità ad accogliere la bambina colpita, subito dopo la nascita, da una gravissima crisi respiratoria, inaudito che il 118 abbia indirizzato la piccola all’ospedale di Ragusa quando c’era posto nel ben più vicino ospedale di Messina, inaudito che non sia stata stabilizzata al pronto soccorso più vicino perché “nessuno lo ha chiesto”, inaudito che da due anni l’elisoccorso non possa volare di notte perché l’appalto per il servizio, per risparmiare sui costi, è stato dato fino al tramonto. Chi, tra i medici, ha autorizzato il trasferimento in queste condizioni invece di portarla al pronto soccorso più vicino è ora in cima alla lista dei responsabili di un’indagine che oggi, dopo il sequestro delle cartelle cliniche, vedrà i primi indagati. È così che, a tre ore dalla sua nascita, in una clinica privata con fama di affidabilità, è morta Nicole Di Pietro. Ci sono ancora diversi buchi neri nella ricostruzione di questa tragica nottata che ha strappato la bambina ai suoi genitori dopo una gravidanza che non aveva presentato profili di rischio particolari ed un parto naturale tranquillo. È un’indagine a ritroso, che ripercorre le tre ore e due minuti che sono trascorse dall’1.18, quando Nicole è venuta alla luce alla clinica Gibiino e le 4.20 quando è arrivata, ormai senza vita, al pronto soccorso dell’ospedale Paternò-Arezzo di Ragusa. Un’indagine affidata agli investigatori della squadra mobile di Ragusa e coordinata dal sostituto procuratore Serena Minicucci perché la piccola, dopo aver attraversato il territorio di ben quattro procure, è morta alle 4 del mattino nell’area di competenza di Ragusa e l’autista dell’ambulanza ha avuto ordine di proseguire il viaggio fino all’ospedale di destinazione. È l’1.18 del mattino quando Tania partorisce Nicole in modo naturale assistita dal suo ginecologo. Tutto «secondo la norma», affermano i medici della clinica Gibiino. Che però si accorgono subito, entro i primi cinque minuti, che la piccola ha una grave insufficienza respiratoria. Nella struttura privata non c’è rianimazione né terapia intensiva. La procedura per il trasferimento — affermano in clinica — parte immediatamente ma «solo dopo numerosi e vani tentativi, in seguito a svariate e reiterate richieste rivolte al 118». È davvero così? Lo diranno le registrazioni delle telefonate fatte dai sanitari della clinica al 118, già acquisite dalla procura di Ragusa ma anche dall’assessore regionale alla Sanità Lucia Borsellino, la prima che ricorda che «l’ospedale Cannizzaro ha l’obbligo di accogliere casi così e che Catania ha posti letto di terapia intensiva neonatale al di sopra degli standard nazionali ». Ma posti-letto disponibili a Catania non ce ne sono: tutte piene le 18 culle del Garibaldi tra terapia intensiva e semiintensiva, tutte piene quelle del Cannizzaro e del Santo Bambino. Ma non si poteva accogliere Nicole al pronto soccorso e affrontare l’emergenza ed eventualmente trasferire qualche altro neonato in condizioni migliori? «Ci hanno chiesto un posto in terapia intensiva, nessuno ci ha chiesto un intervento di stabilizzazione», dice il direttore generale del Garibaldi Giorgio Santonocito. Da quando il 118 riceve la richiesta dalla clinica a quando arriva l’indicazione del posto disponibile a Ragusa passa un tempo lunghissimo. Si scoprirà poi che al Policlinico di Messina il posto c’era: un percorso più breve ma soprattutto più rapido, tutta autostrada. Ma il 118 indica Ragusa. Perché? Perché nella “mappa” sanitaria, Catania, Ragusa e Siracusa costituiscono una “macroarea” e quindi, automaticamente, la ricerca viene fatta con questa priorità. Per il lungo e accidentato viaggio ver- so Ragusa la clinica chiama un’ambulanza privata. L’elisoccorso, infatti, a Catania, di notte non vola. La piazzola dell’ospedale Cannizzaro è attrezzata e illuminata ma da due anni a questa parte l’appalto per il servizio è stato fatto solo fino al tramonto. Dopo non ci sono i vigili del fuoco, e quindi non si vola fino all’alba. Qualunque cosa succeda. Sono già le tre del mattino quando Nicole, accompagnata dai medici della clinica, viene fatta salire su un’ambulanza che non è attrezzata per l’emergenza. La culla termica e il respiratore vengono portati a bordo dai medici ma non sono sufficienti ad affrontare la gravissima crisi respiratoria che prende la piccola mezz’ora dopo, lungo le curve di Vizzini. Sono le quattro quando il cuoricino di Nicole si ferma. All’autista dell’ambulanza viene dato ordine di proseguire fino all’ospedale di Ragusa. È lì che, quando si apre il portellone, esplode la furia del giovane padre della bambina. La Repubblica Ma cercare un letto in rianimazione è sempre un’incognita MICHELE BOCCI UNA rete con le maglie irregolari. Troppo larghe o troppo strette. Per capire quello che non va nelle terapie intensive neonatali italiane non bisogna osservare il numero totale dei centri che possono assistere bambini pretermine o comunque con problemi di salute. No, vanno studiate la dislocazione e la quantità di letti. Solo in questo modo si comprende come le 105 “Tin” del nostro Paese non sempre bastano ad assistere in modo adeguato i neonati che ne hanno bisogno. In alcune zone d’Italia, per esempio nelle grandi città, ce ne sono troppe, in altre troppo poche. A volte, inoltre, hanno un numero giusto di letti, cioè 8 intensivi e 8 sub intensivi, altre volte no. Proprio in Sicilia la quantità di centri «sarebbe adeguata, sono 17 per la bellezza di 45 sale parto », come spiega Giovanni Corsello, presidente della Società italiana di pediatria e primario di Neonatologia a Palermo. Ma hanno appena 60 letti. E poi in una provincia non c’è nemmeno un reparto, quella di Caltanissetta, e in altre due il numero di posti è molto basso, Agrigento e Trapani. Eccole le maglie Febbraio 2015 Rassegna Responsabilità Professionale irregolari della rete. Così molti bambini devono essere spostati verso Palermo e Catania, dove i reparti si riempiono e i malati vengono respinti, come è stato drammaticamente evidente ieri. Il problema della dislocazione riguarda anche altre realtà, in Lazio, dove tra l’altro ogni anno nascono circa 50 mila bambini come in Sicilia, le Tin sono 11, di cui 9 a Roma. Ma a Latina non ce n’è alcuna, come spiegano dalla Società italiana di neonatologia. Il presidente, Costantino Romagnoli, sottolinea come sia «necessaria una diversa organizzazione. Il problema non riguarda soltanto la Sicilia: la moltiplicazione dei punti nascita ha portato a una dislocazione non adeguata dei centri di terapia intensiva. Questo rende necessari spostamenti che invece andrebbero ridotti e comunque, quando sono necessari, fatti al meglio ». Ecco un altro problema, non tutte le regioni sono attrezzate per spostare i neonati con ambulanze speciali e personale preparato, che arriva dalle stesse Tin. E la bimba morta in Sicilia era a bordo di un mezzo di emergenza privato. «Le ambulanze per le urgenze neonatali, cosiddette “ sten” — dice ancora Romagnoli — sono poco diffuse. Ci sono in Toscana e Lazio, in Lombardia sono due, ma mancano in regioni come l’Abruzzo o la Campania. In Sicilia non sono presenti ovunque». Poi c’è il problema dei punti nascita. Anche questi in Italia sono troppi e mal dislocati, ce ne sono ancora tanti piccoli e insicuri. E soprattutto al Sud si aggiunge il tema dei parti in clinica, cioè in strutture private che non hanno a disposizione una terapia intensiva o un pronto soccorso. Quando capita un problema in queste realtà, l’unica possibilità è il trasferimento in un ospedale pubblico. In Sicilia si raggiungono punte del 40% di donne che scelgono di pagare e non andare nel pubblico. In Campania la percentuale è simile e nel Lazio poco inferiore. A livello nazionale il dato sta tra il 15 e il 20%. Non è normalmente pericoloso partorire in clinica, almeno finché non si presenta un problema inatteso e importante. 9 Febbraio La Repubblica Torino Sparisce dall’ospedale, trovato morto Uscito indisturbato con flebo e pigiama L’uomo, 49 anni, problemi con l’alcol, era scomparso giovedì notte a Rivoli Inutili le ricerche con cani ed elicottero. Era in un bosco, ucciso dal freddo CARLOTTA ROCCI CON ogni probabilità è morto di freddo la notte stessa della sua scomparsa. Deve aver camminato almeno un’ora trascinandosi dietro la flebo che aveva ancora attaccata al braccio. I carabinieri e i vigili del fuoco, che lo hanno cercato senza sosta per tre giorni, lo hanno trovato ieri sera a tre chilometri dall’ospedale. L’uomo si era rifugiato in un boschetto non lontano dal campo volo, al confine Rivoli e Rivalta. Perenno abitava da solo ad Avigliana: da tempo una vicina si prendeva cura di lui, da quando i suoi problemi di salute erano peggiorati. Era lucido e capace di intendere ma martedì scorso era stato costretto a presentarsi al pronto soccorso perché le sue condizioni si erano aggravate. I medici lo hanno ricoverato nel reparto di osservazione breve intensiva. Non era la prima volta che Perenno si affidava alle cure del personale di Rivoli. «L’ultima annotazione sulla sua cartella clinica, giovedì notte, dice che il paziente era cosciente e collaborante» spiega Alberto Piolatto, primario del pronto soccorso. «Lo abbiamo notato andare su e giù per la stanza — dice un’infermiere che era di turno la notte della scomparsa — Più di una volta è anche andato a prendersi un caffè alle macchinette. Per questo quando si è alzato nessuno lo ha fermato». Le macchinette sono nella sala d’aspetto, superata la porta del reparto che si chiude in automatico e si apre suonando. La guardia che controlla l’ingresso lo ha visto uscire, ma poiché non era la prima volta non si è preoccupato. Poi, quando la porta si è richiusa, lo ha perso di vista. Nessuno, né tra i pazienti in attesa, né allo sportello dell’accettazione, ha notato quell’uomo che usciva senza giacca, senza scarpe, con la flebo. Nemmeno nel parcheggio Perenno ha incontrato auto o ambulanze che lo abbiano fermato. Erano circa le 2 di notte. Se qualcuno dei pochi automobilisti, che con la neve di tre giorni fa si era avventurato per strada, lo ha visto camminare sotto i fiocchi, non ha chiamato i soccorsi e lo ha lasciato proseguire. In ospedale si sono accorti che non era più nel suo letto dopo qualche minuto: «Erano passate le due da poco quando siamo passati dalla stanza 13 e ci siamo accorti che non c’era. Allora è scattato l’allarme» raccontano ancora gli infermieri. Il primo pensiero però è stato che l’uomo fosse ancora dentro l’ospedale: «Era in pigiama e abbiamo pensato che si fosse nascosto in qualche reparto» spiega Piolatto. Sono arrivati anche i carabinieri di Rivoli che hanno setacciato tutti gli otto piani. L’ufficio tecnico dell’Asl ha fornito mappe e chiavi di ogni stanza e sgabuzzino. Anche i vigili del fuoco sono arrivati con diverse squadre per cercarlo. Con il passare delle ore, però, è stato chiaro che Perenno era uscito in strada. Le ricerche si sono allargate e sono arrivati gli uomini della Protezione civile, i cani e l’elicottero. Era ormai sabato mattina. Le squadre hanno battuto il parcheggio, le vie vicine all’ospedale verso il centro di Rivoli, verso corso Allamano e verso Villarbasse. Con il buio le ricerche sono state interrotte e sono riprese ieri mattina fino alla scoperta del cadavere. Gli investigatori non hanno sollevato dubbi sull’operato dei medici e del personale dell’ospedale, ma l’azienda sanitaria ha fatto sapere che aprirà comunque un’indagine interna. Febbraio 2015 Rassegna Responsabilità Professionale «È un atto dovuto — spiegano alla direzione — quando si verificano anomalie nei ricoveri. Nei prossimi giorni ricostruiremo tutti gli spostamenti del paziente all’interno dell’ospedale fino alla scomparsa». La Repubblica Torino Un mese con la garza nello stomaco, scatta la denuncia UNA garza di dieci centimetri e del filo chirurgico a lento assorbimento sarebbero stati “dimenticati” nello stomaco di una paziente di 33 anni, Daniela F., per un mese. Il caso, che riguarda un medico dell’ospedale di Borgosesia, in provincia di Vercelli, è stato sollevato da una donna di Valle Mosso, nel Biellese, sottopostasi a un intervento di bendaggio gastrico per dimagrimento. La paziente, dopo l’operazione, si è fatta medicare più volte all’ospedale di Borgosesia; ma i medici avrebbero lasciato la garza e il filo nell’organismo, procurandole dolori e un’infezione. Secondo il racconto del marito, la donna, dopo un mese di sofferenza in cui prendeva quattro antibiotici al giorno senza risultati, una notte ha accusato dolori talmente forti da dover correre al pronto soccorso di Biella. Lì i medici si sono subito accorti che la ferita era infetta e hanno rimosso garza e filo. La famiglia biellese si è rivolta a un avvocato. «Stiamo facendo le opportune verifiche su quanto è successo per dare, nei prossimi giorni, la nostra versione dei fatti» sono le uniche parole che arrivano dall’Asl di Vercelli: la garza potrebbe essere stata lasciata volontariamente dai medici nel corpo della donna per motivi «terapeutici». 8 Febbraio La Repubblica Napoli San Giovanni Bosco, sette avvisi ai medici SCOPPIA la polemica dopo la morte al San Giovanni Bosco, un ospedale nel degrado, di un 35enne ricoverato e morto nel giro di 72 ore per un’influenza dopo due notti passate su una barella accanto a una finestra dai vetri rotti coperta da cartoni e sotto un impianto da cui esce aria fredda. E si avvia l’inchiesta giudiziaria affidata al pm Anna Frasca, che si appresta a firmare sette avvisi di garanzia indirizzati ad altrettanti medici e operatori potenzialmente coinvolti. GIUSEPPE DEL BELLO A PAGINA IV Paziente morto al freddo al San Giovanni Bosco la Procura apre l’inchiesta sette avvisi per i medici Ma i vertici dell’ospedale “Una complicanza ai polmoni non c’entra lo spiffero di vento” I legali: “Assistenza disumana” INCHIESTA della magistratura, avvisi di garanzia, indagine della Asl. Il direttore sanitario, Roberto Rago, è il primo a intervenire. Nega il nesso causa-effetto: «Il giovane non è rimasto vittima dello spiffero d’aria, ma perché affetto da altre patologie ». Il giorno dopo la tragica vicenda del 35enne padre di un ragazzino di 7, ricoverato e morto nel giro di 72 ore per un’influenza complicata da pneumotorace spontaneo, i vertici dell’ospedale fanno quadrato. E mentre dalla Procura l’inchiesta giudiziaria affidata al pm Anna Frasca, si appresta a far partire 7 avvisi di garanzia per medici e operatori, si cerca di ricostruire l’accaduto. Il cuore di Ernesto Biancolino smette di battere la mattina di giovedì 5, dopo due notti passate su una barella dell’accettazione accostata a una finestra dai vetri rot- ti (ma per il direttore è «solo la guarnizione che perde») coperta da cartoni, e sotto un impianto da cui esce aria fredda al posto della calda. Circostanza che, come racconta il padre Vincenzo nel video su napoli.repubblica. it, sarebbe stata sottovalutata: «Quando ho reclamato, mi hanno risposto: “L’apparecchio è guasto. Dipende dall’Ufficio tecnico ma adesso, alle 8 di sera, è chiuso. Quindi, se ne parla domani mattina...”». Sarà l’autopsia a svelare la causa del decesso. Rago insiste sulla tesi della complicanza influenzale. E nella relazione al manager della Asl Napoli 1 Ernesto Esposito, si legge: «Soffriva di una severa granulocitopenia, con appena 2500 globuli bianchi, provocata probabilmente da un’assunzione massiccia e protratta di Depakin, un farmaco antiepilettico». Non è tutto. Sempre dall’indagine tecnica si apprende che «al polmone destro risultava uno pneumotorace, mentre il sinistro era opacizzato ». Una complicanza respiratoria, sopraggiunta improvvisamente che avrebbe richiesto la manovra del chirurgo per inserire nel torace un tubo di drenaggio. Intervento tardivo? Lo stabiliranno i periti, resta il fatto che nel giro di tre ore il paziente va in crisi respiratoria acuta e muore. Gli avvocati della famiglia, Angelo e Sergio Pisani contestano le smentite del direttore sanitario «Non soffriva di epilessia ma, a maggior ragione, se così fosse gli avrebbero riservato un’assistenza disumana ». E infine, aggiunge Angelo Pisani: «Le frasi di Rago sono la riprova delle condizioni precarie della sanità campana. Ma dov’era il nuovo direttore mentre Ernesto giaceva abbandonato sulla barella? E quale condizionatore avrebbe controllato dopo la tragedia? Dicono che sarebbe stato praticato il drenaggio al povero giovane, evidentemente quando era troppo tardi, dopo ore e ore senza assistenza e al gelo».Napoli Pioggia, barelle e rifiuti: ecco l’ospedale del degrado “Manca il codice colorato da assegnare ai pazienti a seconda della gravità” “Piove, ma in Rianimazione e in sala operatoria pioveva anche un anno fa” Febbraio 2015 Rassegna Responsabilità Professionale TRE giorni fa la rianimazione chiusa per pioggia, l’altro ieri le finestre tenute insieme dai cartoni. Ma che ospedale è il San Giovanni Bosco? Il terzo presidio della città sembra una struttura da terzo mondo. Alle 12 di ieri il bianco palazzone costruito negli anni ‘70 rivela tutto il suo degrado. Situazione storica, che adesso sta diventando inquietante. La prima tappa è il pronto soccorso. Barelle ovunque, fuori e dentro le medicherie (come documentano le foto sul sito web www.repubblica.it). Infissi e porte sigillate da nastri di scotch bianco, unico bagno con sacchetti di rifiuti e carte a terra. Pazienti barellati, senza alcuna privacy e in attesa di assistenza. «Al San Giovanni Bosco manca il triage, ilcodicecoloratodaasche segnare ai pazienti a seconda della gravità», sbotta l’avvocato Angelo Pisani, «di fatto, viene svolto dalla guardia giurata con violazione di privacy e gran confusione». I reparti ripropongono analogo scenario, con scale e muri scrostati, corsie sporche e servizi fatiscenti. Un incubo che dal piano terra sale fino al sesto. La pioggia cade anche nell’antisala della Direzione sanitaria, con un secchio nero piazzato al centro del pavimento per la raccolta dell’acqua che cade dal soffitto. «Non mi meraviglio — sorride un medico appena pensionato — oggi continua a piovere, ma nella Rianimazione e in sala operatoria pioveva anche un anno fa». Al primo piano, c’è l’ufficio di Roberto Rago. È direttore da soli 5 giorni in sostituzione di Luigi De Paola, defenestrato di punto in bianco. Ammette le condizioni critiche: su 4 sale operatorie ne funzionano solo due perché le altre sono in ristrutturazione; piove ovunque, il personale in servizio è anziano, demotivato e numericamente insufficiente. In più, continua a diminuire, il numero di anestesisti (solo quest’anno se ne sono andati 4 si aggiungono ai tre già in quiescenza e mai sostituiti). Per risparmiare. Col risultato di una Regione che spende il doppio, per rispettare il Piano di rientro. Solo per coprire le carenze di anestesisti si ricorre allo straordinario “interno” (760 ore per 42 mila euro al mese) e agli “ambulatoriali esterni” che coprono altre 260 ore pari a 6500 euro. In totale, ogni anno, solo per questi specialisti la Asl sborsa oltre mezzo milione a cui vanno aggiunti i costi delle altre figure in convenzione. «Ma adesso dovrebbero arrivare 25 anestesisti appena assunti — assicura Rago — certo, i nostri medici boccheggiano, e io cerco di risparmiare dove possibile, senza ridurre l’assistenza. E poi le ristrutturazioni, riprenderanno a breve». Ernesto Esposito è il manager, anche lui in affanno: deve vedersela con la carenza di personale di tutti i presidi e i tagli. Interlocutore istituzionale, come consigliere del presidente Caldoro, è il deputato di Ncd e ordinario di Cardiologia Raffaele Calabrò. Insieme al governatore ripete che oggi si è raggiunto il «pareggio di bilancio grazie ai conti, finalmente a posto ». I conti forse sì, ma i pazienti no. Loro hanno sempre meno assistenza e servizi. «Il personale manca perché il ministero ha imposto lo stop al turn-over. Ma adesso l’abbiamo spuntata: sblocco del 15 per cento subito e quello totale dal 2016. Lo so, la situazione è drammatica, ma è la conseguenza del commissariamento ». ( g. d. b.) La Repubblica Bari La operano per un errore e sbagliano LA OPERANO per toglierle una fettuccia dimenticata nell’utero durante l’ultima gravidanza ma le lasciano una garza. Così, in ventiquattro ore, la donna, una 33enne barese, subisce due differenti interventi chirurgici. È l’incredibile storia denunciata ai carabinieri della compagnia di Bari San Paolo. Ma non è l’unico caso di presunta malasanità. Alla Mater Dei, a seguito di un intervento per laparocele, è deceduto un 55enne: i familiari hanno presentato querela per omicidio colposo. La operano per rimuovere fascetta dimenticata nel 2010 le lasciano garza nell’utero Doppia disavventura per una donna di 33 anni al San Paolo Uomo muore dopo intervento, altra denuncia alla Mater Dei FRANCESCA RUSSI LA OPERANO per toglierle una fettuccia dimenticata nell’utero durante l’ultima gravidanza ma le lasciano una garza. Così, in ventiquattro ore, la donna, una 33enne barese, subisce due differenti interventi chirurgici. È l’incredibile caso di malasanità denunciato ai carabinieri della compagnia di Bari San Paolo. La donna venerdì mattina si è presentata in caserma e ha ripercorso davanti ai militari la sua odissea. Il 3 febbraio scorso, ha raccontato la giovane mamma, si è recata al pronto soccorso dell’ospedale San Paolo per dolori al basso ventre. È stato lì che i medici si sono resi conto che durante l’ultima gravidanza della donna, avuta nel 2010, era stata posizionata e mai rimossa una fascetta usata per il cerchiaggio del collo dell’utero, un intervento necessario in caso di rischio di parto prematuro. Qui, dunque, il primo errore medico. A quel punto la 33enne è stata trasferita nel reparto di Ginecologia e sottoposta a intervento chirurgico per la rimozione della fettuccia dimenticata per più di quattro anni. Subito dimessa, la donna è tornata a casa. Ma i dolori sono continuati. Il giorno dopo, allora, la donna è ritornata in ospedale, sempre al San Paolo, per farsi visitare. Lì l’incredibile scoperta. Nell’utero, durante l’intervento effettuato il 3 febbraio, era stata dimenticata una garza. Così la donna è stata sottoposta a un ulteriore intervento chirurgico e nuovamente dimessa. Ha aspettato ventiquattro ore, il tempo di riprendersi, poi si è presentata nella caserma dei carabinieri di Bari San Paolo e ha denunciato il presunto doppio caso di malasanità. Su entrambi gli episodi sono in corso ora le indagini da parte dei carabinieri per verificare tutti i passaggi clinici della donna e individuare i medici che l’hanno avuta in cura ed eventuali responsabilità. Febbraio 2015 Rassegna Responsabilità Professionale Ma non è l’unico caso di presunta malasanità arrivato sul tavolo degli investigatori questa settimana. Risale infatti a giovedì scorso, il 5 febbraio, la querela presentata da una 25enne barese agli uffici della compagnia di Triggiano dei carabinieri. La ragazza ha denunciato la morte del padre, avvenuta subito dopo un intervento chirurgico nella clinica Mater Dei di Bari. Una querela dunque per omicidio colposo. Sotto accusa c’è il personale medico. L’uomo, 55 anni, era stato portato in clinica e sottoposto a un’operazione per laparocele, una particolare ernia addominale. Intervento riuscito, avevano detto i medici ai familiari. Dopo poche ore, però, il decesso. E dunque la successiva denuncia da parte dei parenti ai carabinieri, cui spetterà fare luce sulla vicenda. Per accertare le cause della morte è stata disposta l’autopsia. Con la vicenda della 33enne e il decesso del 55enne salgono a tre in tutta la settimana i presunti casi di malasanità denunciati a Bari. Lunedì scorso, infatti, era stato il papà di un piccolo di appena otto mesi a puntare il dito contro i medici. Il bambino, dopo otto giorni di agonia, prima all’ospedale della Murgia, ad Altamura, poi al pediatrico Giovanni XXIII di Bari, è morto per le complicanze di una laringite. Il calvario del piccolo era cominciato il 25 gennaio scorso: i genitori lo avevano portato al pronto soccorso dell’ospedale della Murgia in stato febbrile e con una infiammazione alla laringe. Ma, a causa del peggioramento del quadro clinico, i medici avevano disposto il trasferimento del piccolo al pediatrico Giovanni XXIII di Bari. Il bimbo era stato ricoverato nel reparto di Rianimazione pediatrica fino al 2 febbraio scorso, la data del decesso. 6 Febbraio La Repubblica “Non sapevamo neanche quale orecchio operare” Così è morta Giovanna Roma, gli anestesisti sotto accusa per il decesso della bambina “Troppe anomalie: il panico in sala e quel malore del chirurgo” FABIO TONACCI ROMA . Giovanna era sul lettino, già anestetizzata, il chirurgo aveva il bisturi in mano. Ma non sapeva quale orecchio dovesse operare. «Il professor Magliulo era incerto, mi chiese di andare a chiedere informazioni ai genitori della paziente, che però non trovai», mette a verbale l’anestesista Pierfrancesco Dauri, uno degli indagati per il caso di Giovanna Fatello, la bambina di 10 anni morta nella clinica romana “Villa Mafalda” il 29 marzo scorso durante un banale intervento al timpano. Dauri uscì dalla sala durante l’operazione e oggi è accusato, insieme al suo aiuto Federico Santilli, di «non aver prestato sufficiente e costante attenzione» ai parametri vitali segnalati sul monitor. Dalle carte dell’inchiesta emergono molte “stranezze” e “contraddizioni”. Come quella del chirurgo che all’inizio non era sicuro se operare l’orecchio destro oppure il sinistro, tanto da essere costretto a individuare quello giusto usando l’otoscopio. Cosa è accaduto davvero in quelle quattro ore e dieci minuti, dalle 9.30 alle 13.40, quando fu dichiarato il decesso di Giovanna Fatello? Da dieci mesi il pm Mario Ardigò ha un fascicolo aperto per omicidio colposo. Ha disposto perizie e interrogato tutti quelli presenti all’intervento. Testimonianze che a volte hanno chiarito, altre volte hanno aggiunto dubbi. «Il saturimetro di tanto in tanto non captava bene il segnale », si difende Santilli, anestesista dell’ospedale “San Camillo” di Rieti che si è ritrovato in sala operatoria quasi per caso. «Quel sabato era il mio giorno libero — dichiara nell’interrogatorio del 15 dicembre scorso — ci eravamo sentiti con Dauri e lui mi aveva chiesto se volevo coadiuvarlo. Prima di allora la casa di cura “Villa Mafalda” era una struttura a me sconosciuta». Una delle poche certezze è il panico che si diffuse in sala quando realizzarono che il cuore di Giovanna si stava fermando. «Dauri urlava “qui comando io” o “qui gli ordini lì do io”», si legge in una testimonianza di un tecnico di radiologia. Durante la rianimazione il chirurgo, Giuseppe Magliulo, si sentì male e si allontanò. «Meglio svenire da un’altra parte che farlo lì», ha spiegato al magistrato. «Ni si sono seccate le labbra, mi sono spogliato e sono dovuto andare a bere perché non riuscivo a emettere parola». Sono pezzi, questi, della cronaca di una morte sotto i ferri. Una cronaca ancora imperfetta, perché le indagini sono nella fase preliminare. Erano dieci le persone iscritte nel registro degli indagati, ma per 8 Ardigò ha chiesto l’archiviazione. Anche per Magliulo, sul cui operato i periti «non hanno rilevato elementi di responsabilità professionale ». Rimangono le posizioni di Dauri e Santilli, ai quali viene contestato di «non aver prestato sufficiente attenzione ai valori rilevati dal saturimetro installato nel monitor, che segnalavano una progressiva ipossia (mancanza di ossigeno, ndr) », e anche di «non aver eseguito tempestivamente le manovre necessarie» per ripristinare la ventilazione. A Giovanna, «per due o tre minuti» hanno accertato le perizie, non è arrivata aria sufficiente nei polmoni, perché il tubo “orotracheale” o si era ostruito, o si era spostato. Resta una domanda: perché nessuno si è accorto che Giovanna non respirava più ed era diventata cianotica? «Quando tornai in sala operatoria — ricorda Dauri davanti al pm — la paziente era già stata intubata. L’emergenza è sopraggiunta quando l’intervento stava volgendo al termine, dopo circa 40 minuti ». Quindi intorno alle 10.10. «Ad un certo punto i dati visualizzati dal saturimetro cominciarono ad essere anormali, non c’era calo dell’ossigeno ma alterazione dell’onda (sul monitor, ndr) con dati alfanumerici non attendibili». Febbraio 2015 Rassegna Responsabilità Professionale Dauri allora chiese all’infermiere di prendere un saturimetro portatile. «Non ricordo i valori rilevati dal nuovo apparecchio — prosegue — perché nel giro di pochi secondi è scattato l’allarme per bradicardia ». Lasciando così intendere che il primo macchinario non funzionasse bene. In effetti le condizioni del monitor, prodotto in America dalla Andover e di proprietà della clinica, sono un altro giallo. È stato analizzato da un ingegnere chiamato dalla procura: il 28 marzo, il giorno prima dell’operazione, risulta una perdita nel tubo per la rivelazione della pressione arteriosa. Il 29 marzo non si registrano “ warning”, ma il 31 il database interno — non si capisce bene perché — è stato resettato. «Si è trattato di momenti drammatici — dice Dauri, ricordando le tre ore di tentativi di rianimazione, il disperato massaggio cardiaco, i medicinali iniettati — ero sconvolto, non riuscivo a spiegarmi perché il cuore non ripartisse. Escludo di aver disattivato gli allarmi delle varie apparecchiature alle quali la paziente era collegata ». Secondo due periti medico-legali, però, la ricostruzione degli anestesisti «non appare attendibile ». E l’avvocato della famiglia Fatello, Francesca Florio, ha presentato ricorso contro la richiesta di archiviazione degli altri presenti in sala. «Allo stato delle indagini — spiega — non può escludersi una responsabilità dell’intera équipe ». Unica certezza: alle 13.40 del 29 marzo scorso, Giovanna Fatello ha smesso di vivere. La Provincia Morto prima di un intervento, chiesto il rinvio a giudizio dell'anestesista CREMONA - Il sostituto procuratore, Fabio Saponara, ha chiesto il rinvio a giudizio nei confronti di Valerio Schinetti, anestesista all’ospedale di Manerbio, accusato di omicidio colposo: la morte di Riccardo Sapienza, vent’anni, nel luglio del 2013 ricoverato all’ospedale Maggiore di Cremona per essere sottoposto a un pneumotorace, deceduto ancora prima di entrare in sala operatoria. Secondo l’accusa, l’anestesista avrebbe compiuto un errore nella manovra dell’intubazione. A marzo è fissata l'udienza preliminare davanti al gup. «Non condividiamo assolutamente l’impostazione del pm, tanto meno l’accusa di incapacità che viene mossa al nostro cliente», ha detto Stefano Forzani, l’avvocato bresciano che difende l’anestesista. La Repubblica Roma Muore a 43 anni dopo l’agoaspirato la procura sequestra le cartelle cliniche SI ERA SOTTOPOSTA ALL’ESAME ALL’OSPEDALE SANT’ANDREA GIUSEPPE SCARPA MORIRE all’improvviso dopo un esame medico, l’agoaspirato. E’ accaduto a una donna di 43 anni, lunedì scorso, appena rientrata a casa dopo la visita effettuata all’ospedale Sant’Andrea. Un decesso senza spiegazioni, tanto che la procura ha subito aperto un fascicolo per il reato di omicidio colposo. Nessun medico è indagato, per ora si procede contro ignoti, tuttavia il procuratore aggiunto Leonardo Frisani e il sostituto Maria Bice Barborini vogliono vederci chiaro. Per questo hanno disposto il sequestro della cartella clinica della paziente mentre ieri è stata eseguita l’autopsia. Quest’ultimo esame sarà fondamentale per comprendere se sussista una relazione tra l’agoaspirato al seno operato sulla donna e il suo decesso. Ciò che è certo è che la 43enne si è sentita male nella sua abitazione subito dopo il rientro dall’ospedale Sant’Andrea dove si era sottoposta all’esame specialistico. Il marito disperato l’ha portata al policlinico Tor Vergata, durante il tragitto in automobile la condizione della donna è però precipitata. Una corsa folle al pronto soccorso che non è servita a salvare la vita della moglie e infine i mille dubbi dell’uomo su quella visita, l’ago aspirato, fatta dalla compagna solo poche ore prima. Tanto da incaricare l’avvocato di fiducia a sporgere una denuncia in procura. Vicenda che è ora al vaglio del pubblico ministero Maria Bice Barborini a cui spetterà fare piena chiarezza sull’accaduto. Nei giorni precedenti la 43enne aveva eseguito una mammografia da cui erano emersi dei noduli al seno. L’agoaspirato sarebbe servito a fugare ogni dubbio. Lunedì scorso venne sottoposta all’esame specialistico, le inserirono un ago sottile nel seno fino a raggiungere il nodulo da dove venne aspirato parte del contenuto da esaminare successivamente in laboratorio per scoprire la natura di quei noduli. Semplici cisti? O nella peggiore delle ipotesi un tumore. Uno shock per la donna. Una condizione di forte stress nell’attesa della risposta, come accade generalmente in queste situazioni. E’ per questo che la procura prende in considerazioni diverse ipotesi. E se oggi le indagini sono concentrate sulla corretta esecuzione dell’esame specialistico al seno, il pm non esclude nemmeno che la condizione di forte nervosismo che ha investito la donna nei giorni successivi alla mammografia, fino all’esame dell’agoaspirato, possa avere avuto una relazione con il suo decesso. La Repubblica Palermo Otto mesi, raffreddata muore in ospedale la procura apre inchiesta I genitori: “Quattro grosse siringhe di fisiologica per liberarle il naso” Tensione al Buccheri La Ferla, ordinata l’autopsia sulla piccola ROMINA MARCECA Febbraio 2015 Rassegna Responsabilità Professionale ACCUSANO una dottoressa e un’infermiera dell’ospedale Buccheri La Ferla. Secondo i genitori di Greta, neonata di 8 mesi morta per alcune complicanze respiratorie per una sospetta bronchiolite, pediatra e infermiera a fine turno avrebbero accettato con noia mercoledì sera la richiesta di ricovero della loro bambina. «L’hanno uccisa», ripete Emanuele Barrale, papà di Greta. «Quell’infermiera ha iniettato con foga quattro siringhe da 10 ml di fisiologica alla mia bambina, ha anche detto “Sti picciriddi scassano i c....” perché un altro piccolo paziente stava vomitando», racconta il papà di Greta. «Mia figlia subito dopo la prima siringa di fisiologica ha perso i sensi. Poi, non c’è stato più nulla da fare. Dopo un’ora di massaggi cardiaci e tentativi di rianimarla nostra figlia è morta», ricorda con le lacrime agli occhi la mamma, Carmela. «Noi abbiamo assistito impotenti ». Greta dal 26 gennaio era raffreddata e era stata curata dalla pediatra, ma era stata anche visitata dal neonatologo che l’aveva seguita quando il 30 maggio era nata prematura, ad appena sei mesi e mezzo. Pesava 440 grammi e fino ad ottobre era rimasta ricoverata in neonatologia, era affetta da una broncodisplasia. I genitori hanno presentato una denuncia alla polizia, la procura ha aperto un’inchiesta coordinata dal sostituto procuratore Emanuele Ravaglioli. La cartella clinica è stata sequestrata, oggi sarà conferito per l’autopsia. a pediatra della bambina aveva consigliato ai genitori la terapia con aerosol e lavaggi con la fisiologica. «Petto e spalle — aveva detto — sono liberi». Lo aveva detto anche quattro giorni dopo quando la mamma di Greta aveva deciso di ritornare da lei. Venerdì scorso, il 30 gennaio, i genitori della bambina avevano contattato il neonatologo del Buccheri. Dopo una visita il responso era stato lo stesso della pediatra, il medico aveva aggiunto alla terapia delle gocce con antibiotico. Martedì Greta era inappetente e aveva anche vomitato. «Ho richiamato il neonatologo — dice tra le lacrime la mamma — e dopo averla visitata una seconda volta, ha aggiunto alla terapia anche un altro antibiotico. La mia bambina però non migliorava ». Mercoledì pomeriggio le condizioni di Greta sono peggiorate. «Abbiamo notato che re- spirava a fatica. Ho collegato mia figlia al monitor che avevamo nella sua camera sin dalla nascita, ma solo per precauzione, e mi sono accorta che la saturazione era al 65 per cento. Abbiamo anche applicato la bombola dell’ossigeno, nel frattempo abbiamo chiamato il neonatologo che ci ha detto di andare subito in ospedale». Lì Greta è stata soccorsa, è rimasta sotto una tenda di ossigeno fino a quando le sue condizioni sono migliorate. Il neonatologo ha consigliato il ricovero per una sospetta bronchiolite. «Mentre era in contatto con la pediatria — raccontano i genitori — il medico chiamava anche altri ospedali per trovare un posto. Poi siamo stati inviati in pediatria, dove la nostra bambina è stata uccisa». «Quando Greta era già incosciente — ricorda la mamma — l’infermiera ci ripeteva che di bambini ne aveva visti centinaia e non dovevamo preoccuparci. Le batteva il petto ma Greta non c’era più. Mia figlia era sana, era seguita continuamente e con grande attenzione proprio perché era nata prematura». «La bambina, — dicono dall’ospedale Buccheri La Ferla — è stata seguita in questi mesi in follow up neonatale nel nostro ambulatorio. Durante una visita di controllo è stata riscontrata una difficoltà respiratoria, è stato disposto il ricovero in pediatria. Durante i primi accertamenti e le prime cure, la piccola ha presentato un improvviso arresto cardiaco. Siamo addolorati e aspettiamo gli esiti delle autorità competenti». 5 Febbraio La Repubblica Bari Malasanità, i cento casi della vergogna L’associazione Codici ha raccolto le storie dei pugliesi morti o rimasti invalidi dopo un intervento sbagliato o una diagnosi non appropriata. Non tutti ottengono giustizia: “Colpa dei tempi di prescrizione brevissimi” GABRIELLA DE MATTEIS PIÙ di cento casi di presunta malasanità in Puglia, storie che sono finite sulle scrivanie delle procure, che hanno dato vita ad inchieste o a processi e che in tutto il 2014 sono state raccolte e segnalate da Codici (il Centro per i Diritti del Cittadino). Il dato è emerso ieri in un convegno, organizzato dall’associazione, e svoltosi nell’aula “Aldo Moro” dell’università di Bari. All’incontro hanno partecipato i segretari nazionale e regionale di Codici, Ivano Giacomelli e Maria Bovino, docenti, magistrati e dirigenti sanitari. «Malasanità... di chi è la colpa? » è il titolo che ha dato spunto alla discussione. L’associazione Codici ha portato come punto di riferimento alcuni presunti casi di malasanità, verificatisi in Puglia. Come quello di una giovane donna di Erchie, sottoposta nel novembre 2011 a taglio cesareo. Durante l’intervento nell’ospedale Miulli di Acquaviva delle Fonti, l’équipe avrebbe dimenticato una garza laparotomica, causando alla paziente la perdita di 30 centimetri di intestino e continui dolori. Dopo 690 giorni una nuova operazione, nel luglio del 2013, un nuovo intervento chirurgico per l’asportazione della garza. Due chirurghi, uno strumentista, un ginecologo e due infermieri saranno processati dal Tribunale di Bari con l’accusa di lesioni personali colpose a partire dal prossimo 10 marzo. C’è poi il caso di Valeria Bovino, 26 anni, agente della polizia penitenziaria di Toritto in servizio nel carcere di San Vittore a Milano, deceduta lo scorso 17 luglio dopo essere stata ricoverata per una sospetta colica. Dopo aver subito tre interventi ed essere stata trasferita in tre diversi ospedali, tra Manduria, Taranto e Bari, Febbraio 2015 Rassegna Responsabilità Professionale la giovane donna è morta. Il padre Giuseppe che all’indomani della tragedia presentò un esposto (l’inchiesta della procura di Bari conta 20 indagati) si batte perché venga fatta luce sulle responsabilità per la morte della figlia. E ieri ha voluto essere presente al convegno. «Hanno ucciso Valeria — ha detto — e mi batterò in tutte le sedi finché non avremo giustizia». L’associazione cita poi il caso del bimbo di 18 mesi morto l’estate scorsa a Bari: i medici di Altamura avevano diagnosticato una gastroenterite al posto della Seu (indagati tre medici e un infermiere). Non sempre le segnalazioni sui casi di malasanità approdano nelle aule di giustizia e quindi in processi e sentenze di condanne. «Purtroppo è venuto a mancare il rapporto di fiducia tra pazienti e il medico commenta il direttore sanitario del Policlinico di Bari Alessio Nitti - i medici sono costretti sempre più a subire attacchi ingiustificati». Secondo Giacomelli, invece, «accanto alla malasanità c’è la malagiustizia, cioè la mancanza di protezione di chi ha subito danni, sia per il riconoscimento del nesso di causalità, sia per i termini di prescrizione estremamente brevi». La Repubblica Bari Laringite fatale per bimbo di 8 mesi ospedali sotto accusa FRANCESCA RUSSI OTTO giorni di agonia. Prima all’ospedale della Murgia, ad Altamura, poi al pediatrico Giovanni XXIII di Bari. Non ce l’ha fatta il piccolo di appena 8 mesi morto per le complicanze di una laringite. Ma la famiglia non ci sta e ci vuole vedere chiaro. Così il padre ha presentato denuncia puntando il dito contro i medici. Il calvario del bambino comincia il 25 gennaio scorso. I genitori lo portano al pronto soccorso dell’ospedale della Murgia in stato febbrile e con una infiammazione alla laringe. Passa poco tempo e le sue condizioni si aggravano. Così, a causa del peggioramento del quadro clinico, i medici dispongono il trasferimento del piccolo al pediatrico Giovanni XXIII di Bari. Il bimbo viene ricoverato nel reparto di Rianimazione pediatrica fino al 2 febbraio scorso. Alle 16 di lunedì il decesso. La denuncia del papàdelpiccoloèstataimmediata.L’uomo,un operaio 35enne di Altamura, si è presentato nella caserma dei carabinieri di Bari e ha raccontato tutto l’iter clinico del figlio sostenendo che non fosse stato adeguatamente curato dal personale sanitario. Un presunto caso di malasanità, almeno stando a quanto denunciato dai parenti. I militari indagano per omicidio colposo (questo il fascicolo di reato aperto dalla procura di Bari) e sequestrato la cartella clinica del piccolo per individuare i medici che lo hanno avuto in cura e accertare gli esami fatti e le diagnosi. Sul corpicino, inoltre, è stata disposta dall’autorità giudiziaria l’autopsia per fare chiarezza sulle cause della morte. «Purtroppo il piccolo è arrivato da Altamura in condizioni già gravi da terapia intensiva ed è stato subito ricoverato nella Rianimazione pediatrica - spiega il direttore generale del Policlinico di Bari, Vitangelo Dattoli - in questi casi noi acquisiamo tutta la documentazione necessaria, ma, al momento, sono in corso indagini da parte dell’autorità giudiziaria, per questo dobbiamo attenderne gli esiti». L’inchiesta servirà a chiarire molti dubbi: l’ospedale della Murgia, inaugurato ad aprile 2014, è finito nei mesi scorsi sotto la lente di ingrandimento della magistratura per tre decessi sospetti, tutti di bambini di pochi mesi. 2 Febbraio Il Tirreno Ambulanza impiega quasi due ore a soccorrere un uomo colpito da malore CASTELL'AZZARA. Un uomo in pericolo di vita per un grave malore, l'ambulanza del 118 si presenta dopo circa due ore e il paziente è messo in gravissimo pericolo. E il sindaco insorge: “Siamo stati lasciati soli. Il sistema sanitario che dovrebbe salvaguardare la salute dei cittadini e intervenire prontamente, in caso di immediata necessità, per Castell’Azzara fa acqua da tutte le parti. E questa volta per un pelo un mio concittadino non ci ha rimesso la pelle”. Il sindaco di Castell’Azzara Fosco Fortunati è fuori dai gangheri. Un dipendente comunale di 54 anni si è sentito improvvisamente male e l'ambulanza del 118 chiamata alle 9,15 di sabato 31 gennaio, è arrivata sul posto alle 11,10. Un’ora e cinquantacinque minuti che potevano decretare la morte di una persona. “Con la vita non ci si scherza, né con la nostra e tanto meno con quella degli altri. Un dipendente comunale di 54 anni, che era andato alla posta per sbrigare delle commissioni per il Comune - racconta il sindaco Fortunati si è sentito male e ha chiesto di chiamare il 118. Erano le 9,15 quando è partita la chiamata. L’uomo stava davvero male. Nell’attesa che il 118 arrivasse, io stesso - racconta il sindaco - l’ho sollevato per adagiarlo su dei sedili. Il tempo correva e allora tutti i medici castellazzaresi contattati sono accorsi subito e hanno cercato di dare qualche aiuto all’uomo che ormai dava espliciti segni di gravissimo malessere: sia il medico condotto di Castell’Azzara che un medico in pensione che gentilmente ha visto la gravità della cosa e il personale della guardia medica si sono prestati a dare qualche sollievo. Ma naturalmente con pochi risultati, perché il malore era importante e assai grave. Nemmeno la guardia medica qui ha strumentazioni e attrezzature sufficienti - dice ancora il sindaco - In una parola sono passate due ore. Due ore in cui il nostro Febbraio 2015 Rassegna Responsabilità Professionale dipendente avrebbe potuto perdere la vita. Per fortuna così non è stato. Finalmente, dopo l’arrivo del 118, è stato allertato l’elisoccorso che ha trasferito il paziente a Siena dove è stato sottoposto a intervento chirurgico di oltre 9 ore. Sta lottando ancora fra la vita e la morte". "Io - tuona ancora Fortunati - dico che a Castell’Azzara siamo cittadini di serie C. Eppure la sanità dovrebbe essere un diritto uguale per tutti. Denuncio con forza questa cosa e ribadisco: un’ora e 55 di tempo che è occorsa al 118 per arrivare, è un’eternità. Segno di inadeguatezza e di risposta insufficiente di un sistema sanitario che non funziona nella nostra zona. Le guardie mediche devono essere messe in grado di poter intervenire in caso di bisogno. Bisogna ci siano gli strumenti adeguati, occorrono risorse umane e strumentali per le emergenze. E mentre ringrazio il medico condotto, quello in pensione e la stessa guardia medica, mi sento di dover dire con molta forza che in questa maniera non si può continuare. Siamo emarginati geograficamente e proprio per questa ragione, anzi, a maggior ragione, non possiamo essere cittadini la cui salute è messa costantemente a rischio per l’insufficienza e la totale inadeguatezza della risposta medica e di un sistema sanitario penalizzante per i cittadini”. Le spiegazioni dell'Asl. Alla denuncia del sindaco di Castell’Azzara Fosco Fortunati per i ritardi accumulati dal servizio del 118, la Asl 9 così spiega: “La chiamata alla centrale del 118 è arrivata da Castell’Azzara alle 10,05. L’autoambulanza che in genere parte da Pigliano per le chiamate di Castell’Azzara, era impegnata e dunque è stata allertata l’autoambulanza di Roccalbegna. Il mezzo è arrivato alle 11,30 a Castell’Azzara, in ritardo di circa 20-30 minuti, per le pessime condizioni della strada, ghiacciata e a tratti piena di fogliame che ha costretto l’autista a una marcia a 30 chilometri orari. Oltre tutto non c’era segnale radio e Gps. Intanto era stato attivato l’elisoccorso dalla centrale stessa, che nonostante i problemi metereologici è stato in grado di alzarsi e atterrare a Castell’Azzara. Una volta arrivata l’autoambulanza - prosegue la replica dell'Asl 9 - il medico a bordo ha immediatamente riconosciuto la gravità e individuato la patologia del paziente che è stato stabilizzato e mandato a Siena. Alle 12,40 il paziente era all’ospedale Le Scotte. Il ritardo complessivo è stato di circa mezz’ora”. Le rimostranze del sindaco Fortunati che parla di “inadeguatezza e insostenibilità della situazione “ per i castellazzaresi che si sentono cittadini di serie C rispetto all’assistenza sanitaria complessiva, trovano una risposta da parte della Asl che spiega: “E’ in costruzione la piazzola dell’elisoccorso ed è allo studio un progetto per permettere l’atterraggio notturno di Pegaso a Castell’Azzara. Sono poi iniziati i corsi per volontari che siano in grado di usare il defibrillatore semiautomatico che in certe circostanze potrà essere uno strumento fondamentale per l’assistenza immediata in casi che ne abbiano necessità”. Il sindaco Fortunati, però ribadisce per quanto riguarda gli orari: "La chiamata al 118 è partita alle 9,15. Ci sono anche persone presenti all'episodio, che possono confermare".