Caro Fulvio
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Caro Fulvio
Caro Fulvio... Caro Fulvio, come sai sono stato dapprima pigro (lo confesso) e poi incerto quanto a redigere la prefazione al tuo libro. Ancora adesso, non sono sicuro di condividere tutte le posizioni che nei vari saggi e capitoli tu sostieni. Molte delle situazioni che tu descrivi e commenti non le conosco come te, e non ho tempo né voglia di farmi una cultura indipendente sui relativi temi. Per molto tempo non ho seguito il tuo lavoro, e credo che questo sia una mia colpa, non tua. Io sono un neofita dell’estremismo, ci siamo conosciuti negli ultimi anni, o mesi, incontrandoci a qualche manifestazione più o meno “maledetta”, nel senso di non ammessa dalla sinistra ufficiale, moderata,ecc. L’ultima, qualche mese fa, è stata la manifestazione romana di solidarietà con Cuba. E la cosa non mi sembra priva di particolare significato Il mio “estremismo”, che è maturato negli anni in cui sono stato parlamentare europeo dei DS, e che è poi esploso anche per merito dei DS stessi che non mi hanno più ricandidato, è ora quasi esclusivamente un affare di “politica estera”. Proprio nell’incontro romano in cui ci siamo visti mi ricordo di aver detto, neanche tanto per scherzo, che l’unico partito italiano a cui mi sentirei di iscrivermi è per l’appunto l’associazione Italia-Cuba, magari in attesa che ne nasca anche una intitolata a Italia-Venezuela nel qual caso prenderei una doppia tessera. Voglio dire che il panorama italiano, quello generale e quello specifico della sinistra, mi sembra tale da allontanare ogni serio proposito di impegno politico. Naturalmente ragiono per paradossi,: Che sono gli stessi per cui non sapevo davvero se accettare l’onore che mi fai (lo dico senza ironia) nel chiedermi di “prefarti”. 7 Ho tanti amici e compagni in gruppi di sinistra-sinistra, e sono convinto che sottoscrivendo le tue tesi o i tuoi giudizi in questo libro vado (andrei) incontro alla loro disapprovazione polemica. Che non desidero affrontare. Mi sono proposto di far tesoro della condizione di marginalità in cui i ripetuti fallimenti elettorali che ho conosciuto: la mancata ricandidatura (non la mancata rielezione) nei DS; lo scacco della mia candidatura europeo nel PdCI (scacco che debbo a Marco Rizzo, il quale oggi, paradossalmente, è il mio principale referente e amico politico), la mancata elezione a sindaco di San Giovanni in Fiore (sì, mi ero cacciato anche in quella non semplice situazione, contro la destra e contro la sinistra “ufficiale”); questa condizione di marginalità (un amico mi dice, con la parole di Flaiano, che “l’insuccesso mi ha dato alla testa”) non intendo perderla per impegnarmi in uno dei tanti piccoli gruppi che, ciascuno in perfetta buona fede, si propongono di “unificare la sinistra”. Io che da tempo predico la necessità di un marxismo “nichilista” – solo nel senso dell’abbandono di tutta la bardatura ancora scientista che esso aveva in origine – mi trovo a dover combattere contro un nichilismo psicologico che rischia di sopraffarmi. Non credo più, cioè, che in Italia si possa costruire un progetto politico eticamente accettabile e capace di suscitare quella partecipazione emotiva senza di cui non si combina niente. Il quadro delle condizioni”oggettive” – perché volute da poteri molto più forti di tutti noi – in cui cerchiamo ancora di muoverci impone infiniti compromessi, prezzi altissimi che la sinistra, non solo quella moderata e istituzionale del PD, ma anche la sinistra pretesa“estrema”, è stata anche da ultimo costretta a pagare in cambio di niente. La crisi di governo aperta nei giorni gennaio-febbraio 2008 ha interrotto l’azione non certo rivoluzionaria del governo Prodi proprio nel momento in cui i benefici fiscali, “redistributivi”, concessi dapprima alle aziende, dovevano finalmente essere estesi ai salari. 8 Destino cinico e baro? O calcolo di qualche grande vecchio? Non parliamo poi del rinnovo delle “missioni” all’estero dei nostri soldati, compreso l’Afghanistan. Eccetera. Si dice anche che Tony Blair, il bugiardo Tony partito per l’Iraq insieme all’infame Bush diventerà il ministro degli Esteri, o addirittura il presidente, dell’Unione Europea. NATO, Unione Europea, ONU (ma c’è ancora?), commissione di Bruxelles che approva o no i nostri bilanci. Noi siamo un paese semicoloniale e possiamo fare solo quello che l’Impero americano ci permette di fare: poco o niente, cioè. Se anche la sinistra non riesce a unificarsi e, per sua fortuna, non diventa tutta PD, non va poi così male. Anche la volontà di unificazione è sempre diretta dal proposito di diventare “forza di governo”, giusto quello che ha distrutto il vecchio partito comunista e che ormai ci conduce tutti sulla via della neutralizzazione di ogni politica. La popolarità di Sarkozy e della sua spregiudicatezza nel pescare a destra e a sinistra i propri consiglieri significa solo questo: la politica abdichi ai suoi pochi poteri per lasciare il posto ai tecnici. Far funzionare il sistema – s’intende capitalistico – senza metterlo in discussione nelle sue strutture di base è la sola cosa che si chiede ai politici. Il disordine in cui continua a presentarsi il panorama (di quel che resta) della sinistra-sinistra è forse l’ultimo valore per cui vale la pensa impegnarsi, pensando che in una situazione come la nostra ciò che vale la pena di fare è “fare disordine”, impedire che la macchina funzioni con i suoi ritmi sempre più disciplinanti. E non è vero che così rischiamo di non far funzionare gli ospedali, la raccolta della spazzatura, i treni… Forse che adesso funzionano? Auguri, caro Fulvio, e un saluto fraterno, anche se un po’ mesto Gianni Vattimo 9 10 Introduzione Forza e potere del dispotismo esistono solo grazie alla paura di resistere (Thomas Paine) L o l i t a del russo Nabokov era un romanzo più noioso che pruriginoso ma che, nell’atmosfera rancida e conformista degli anni ’50, secolo scorso, fece scandalo perché solleticava le zone oscure in cui si rintanano i tabù,È la cui mortificazione, nell’era dell’ipocrisia escatologica, viene universalmente coltivata come virtù. Era il tempo del co–regno Vaticano–PCI, due convenzionalismi morali speculari, anni prima che Pasolini denunciasse la fanghiglia dell’omologazione da queste due chiese inflitta all’inclita e al volgo. Era la storia di un maturo professore che si rimbecillisce appresso a una scaltra e provocante squinzietta, appena adolescente, che avrebbe potuto essere abbondantemente sua figlia. Quello che in Nobokov era implicito, in uno dei più grandi analisti cinematografici del potere, Kubrick, (da noi le legnate gliele dava il prematuramente scomparso Elio Petri del “Cittadino al di sopra di ogni sospetto”; oggi farebbe la fine di un Luttazzi), nel film omonimo (1962), divenne esplicito e di epocale valenza politica. Kubrick ci descrive lo scontro di tre poteri: quello del benestante padrone maschilista borghese che, tra mille tormenti, rasenta la morale del buoncostume corrente contorcendosi nel tentativo di fare della ragazzetta un suo dominio assoluto; quello della nascente donna che usa le armi del titillamento alternato alla frustrazione, cinicamente finalizzati alla conquista della propria autonomia; e un terzo potere, incarnato da un personaggio trifronte, poliziotto, psicanalista, scienziato, le tre figure del condizionamento, della repressione e della verità rivelata che costituiscono gli strumenti dell’autorità nell’era del 11 capitalismo a fascistizzazione soft. Finisce che il terzo frega in successione gli altri due, rubando Lolita al professore e poi prostituendola, che la bambina si estingue nello squallore di un matrimonio di consolazione con filiazione accidentale, mentre il professore trascina nella propria distruzione morale e psicologica quella fisica del rivale. Lo uccide sparandogli attraverso il dipinto di una donna, evidente metafora di una Lolita che il maschio, non potendola colonizzare, ammazza. Una specie di fine del mondo in un cataclisma di autodistruzione. Mettiamo al posto del professore Humbert Humbert ciò che Kubrick intendeva: l’espressione del paternalismo borghese capitalista che ambisce al dominio e s’illude di parteciparvi, restando però perennemente nella condizione di massa di manovra dei poteri veri, per lo più opachi, se non occulti (ne abbiamo un esempio italiano nel Sordi del “Borghese piccolo piccolo”). Prendiamo la quasi adolescente, immatura, ma scalpitante Lolita per simbolo delle classi escluse, frustrate e impegnate, in un tempo di caduta delle speranze, nel mero sforzo di risolvere la propria inadeguatezza, svaporato un progetto radicale e generale, con una sottomissione ruffiana a base di adeguamenti e trucchi, senza prospettiva di riscatto. E sveliamo sotto i panni della losca triade polizia–strizzacervelli–scienziato organico le immutabili articolazioni del Leviatano capitalista nei suoi meccanismi di repressione diretta e indiretta. Come dire: un ministro di polizia o della guerra; gli imbonitori di ogni specie che, perfidi o cretini, atteggiandosi a sponsor della causa delle vittime, rendono i cervelli disponibili al rovesciamento dei propri interessi; e i tecnici degli stereotipi e delle compatibilità inesorabili dello status quo. Vengono in mente delle facce da porre sotto questi tre cappelli. Magari qualche nostro statista da Legge 30, decreto espulsioni, pacchetti sicurezza, “intervento umanitario”. Eppoi, forse, politici e mediatici che, da sinistra, nel nome della pace e della sicurezza, assolvono al ruolo di portatori d’acqua? Grande esempio nella mia vicenda quel Claudio Grassi, leader di una vibrante opposizione di sini12 stra alla corruzione politica di Bertinotti, che poi rientra alla greppia, diventa parlamentare e, in buona sostanza, ha svolto semplicemente il ruolo di calmiere dei traditi e incazzati. La terza categoria la troviamo nella panoplia di esperti che alimentano con il loro combustibile tecnico–scientifico l’autodafé degli “eretici”: Aids, aviaria, Sars, “ambientalisti del no”, rom, rumeni, terroristi islamici, tifosi, giovani in genere, baby–gang, bamboccioni perdigiorno, “toghe rosse” che violano l’impunità del potere… comunisti. Sono i sussidiari che, con il concorso di una sinistra che ha voluto buttare il suo oggetto sociale, depistano su lacerazioni sociali e culturali ricomponibili all’interno del sistema: omosessuali, bisessuali, transgender, femministe. Cause da lotta per sacrosanti diritti civili, ma usate per offuscare la centralità – risolutrice anche per queste – del conflitto tra sfruttatori e sfruttati. Nelle manifestazioni delle donne per le pari opportunità e contro il paternalismo, in quelle analoghe dei GLBT, avete mai sentito uno straccio di riferimento alle stragi di omosessuali, alla decimazione delle donne, effetto non collaterale dell’azione imperialista in Iraq? Là dove neanche più di emancipazione antimaschilista si tratta, ma di battaglia per la nuda vita? E allora si insinua il tarlo del dubbio sull’integrità e lucidità politica dei promotori. Infatti, Lolita, per certe femministe ultrà – di solito quelle saldamente embedded nelle stanze del Palazzo e che poi votano per l’uccisione dell’Afghanistan, donne comprese – non è che la vittima del patriarcato, mica di un sistema fondato sulla generale oppressione dei deboli, che siano immigrati, “selvaggi”, operai, precari, vecchi e giovani forzati all’improduttività e, tra tutti, con accanimento storico, donne. Una simile valutazione è considerata vetero, tanto che “moderno” sarebbe scrivere sulle insegne “collettivi femministi e lesbici”, “donne e lesbiche”, donne e gay”, dove, come rileva Ida Dominijanni, la e “ vuole significare l’aggiunta di un’altra identità e di un’altra soggettività politica” che paiono avere come controparte, non un assetto di dominio e sfruttamento via via 13 più spietato man mano che scende per li rami, da meno oppresso a più oppresso, bensì gli uomini in quanto tali e, addirittura, gli eterosessuali non donne e neanche gay. Si domanda la giornalista del “manifesto”: “Ma degli orientamenti sessuali vogliamo fare altrettante identità e altrettante soggettività politiche? La politica della sessualità mira a moltiplicare o a decostruire le identità?” Con il risultato registrato già nella seconda metà degli anni ‘70, quando “l’assalto al cielo” delle femministe prese per primo livello del “cielo” i compagni della sinistra rivoluzionaria, affiancandosi oggettivamente alla micidiale controffensiva capitalista e, quindi, maschilista, e da questa venendo travolto insieme al resto. Mi pare che la sappiano più lunga quelle donne indie, incontrate a Quito, Ecuador, che, ben consapevoli della propria condizione subalterna, percepivano come priorità l’abbattimento dei meccanismi politici e sociali che, per perpetuare un patriarcato imposto a tutti, uomini compresi, si avvalgono anche del complice carceriere maschilista. Denunciano così la fallacia della solita sostituzione che si fa tra l’uomo e il caporale, o tra caporale e generale. È successo nel corso di una di quelle assemblee nazionali che riuniscono in una fiammata, a volte breve, a volte di qualche continuità, le fiammelle sparse, spesso fuochi fatui, di un’opposizione che vuole sperimentarsi antagonista e, comunque, fuori dall’omologazione praticata al vertice da quelle che giustamente sono state definite le “due destre”. Micropartiti localistici, associazioni e comitati territoriali contro la guerra e contro scempi territoriali, sindacati di base, singoli irriducibili e a volte bislacchi, galletti vociferanti di sparuti pollai, sopravvissuti di antiche famiglie marxiste in virulenta polemica tra loro, comunque il meglio che la devastata piazza d’Italia possa offrire. Ma è anche una sinistra che, se non pullula, come l’istituzionale, di infiltrati, spie, provocatori, votati al servaggio, fa rampollare arrampicatori di basso conio, balenghi e manovratori di piccolo cabotaggio. Il modello è inevitabilmente la sinistra sto14 rica. Basta vedere chi si è allevata in seno, fin dai tempi dell’onesto Berlinguer, tra opusdeisti, guerrafondai, massoni, vocati all’inciucio ontologico (che poi è nient’altro che il salto del fosso), ossessi delle privatizzazioni e quindi del servaggio al capitale e, perciò, picchiatori di lavoratori. Basta ricordare i cosiddetti “miglioristi” del PCI, pontieri verso l’associazione a delinquere craxista e con essa protagonisti della tangentopoli milanese. Il loro capo prosegue l’opera, tra sventolio di stendardi tricolori e sbattimento di sciabole marca USA, ai vertici della Repubblica. Tornando alla sinistra–sinistra, quello del PCI è un retaggio che pare non ci si riesca a strofinare di dosso. C’è per esempio una quota dominante ne “il manifesto” che, al primo riaffiorare di una pezza di lenzuolo che paia lo spettro del PCI, si ringalluzzisce tutta e fa il tifo, si tratti di Bertinotti, Cofferati, o di una “Cosa rossa” che si limita a raccattare i tappi galleggianti sulla sbobba inrancidita dal cosiddetto Centrosinistra. E dove collocare coloro, onnipresenti nella pubblicistica di sinistra, che si appropriano e diffondono tutti gli stereotipi tossici profusi dalle agenzie imperialiste della distrazione di massa? E quelli che avallano, senza l’ombra di un dubbio, o di una ricerca, l’attribuzione degli attentati a Osama bin Laden, vuoi “combattente antimperialista”, vuoi cavernicolo duce del terrorismo islamico. Che sostengono la strumentale balla USA, finalizzata a squalificare la resistenza patriottica, che ormai in Iraq la resistenza sarebbe tutta Al Qaida. Che accreditano l’antimperialismo degli ayatollah, regime più cinicamente ambiguo di tutti, o l’intervento di “interposizione” in Libano e, domani, “umanitario” in Darfur? Sono solo bietoloni, amanti del quieto vivere, o c’è sotto qualcosa di peggio? E quegli altri che, spumeggianti di capipopolo e aridi di radicamento sociale, un giorno arrivano a sostenere una lista “Arcobaleno per Veltroni”, un Mister Hyde che si continua a prendere per Jekill, mentre è il più affine ai progetti di “rinascita” piduisti, neocon e sionisti, 15 clericali e massonici e, invece, dopo un risultato elettorale da prefisso telefonico, sfilano con gli striscioni dell’“Intifada fino alla vittoria” e si propongono come cupola dell’antiveltronismo? Farlocchi, o girelloni sospinti dal vento dell’arrivismo ovunque dal fondo traluca uno strapuntino? Di solito la luce più costante e coerente, nella nostra oscurità da Goetterdaemmerung, tramonto degli dei, promana dai Cobas di Piero Bernocchi. Una presenza politico–sindacale di dimensioni ridotte, ma di formidabili lucidità e coraggio politici. Chi non ricorda il testimone della resistenza da loro raccolto, ogni qual volta la stanchezza, l’opportunismo, la viltà di quasi tutti gli altri aveva desertificato le piazze e relegato nella rassegnazione i contenuti di un’opposizione senza se e senza ma? Non per nulla fogli “comunisti” come “Liberazione” e “il manifesto” non si sognano di dargli voce e, quando si presenti l’opportunità, tipo una marcia contro il precariato eternizzato dal governo Prodi, gli danno pure addosso. Si saranno mai chiesti, quelli de “il manifesto”, quando innalzano le ricorrenti geremiadi sul proprio disastro economico, se le basse vendite non possano essere fatte risalire anche a qualche arrendevolezza di troppo verso l’alto e qualche strutturale oscuramento del basso? Sono centomila, di solito, coloro che rispondono all’appello di manifestare a sinistra sul serio. Essendo, ahinoi, “il manifesto” insostituibile, in virtù di un’accettabile politica sociale, di una controversa politica culturale, e a dispetto di una catastrofica informazione internazionale, com’è che vende meno di trentamila copie? Perché, dai fasti della Rue de Rivoli a Parigi, la veneranda maestra Rossana Rossanda in un commento che, fin dal titolo Ehi! , richiama all’ordine i discoli della “Cosa rossa”, “unica alternativa”, constata che in fondo tutti noi “ce la caviamo, abbiamo un tetto sopra la testa, un piatto da mangiare e che il meccanismo mondiale che produce morte non la produce per l’assoluta maggioranza di noi?” E perché, di conseguenza, i 7 milioni di proletari e intellettuali che tirano la cinghia e i quasi tre milioni che stanno alla fame (13% della 16 nazione) capiscono che quello della madame parigina non è il loro giornale? O perché, attaccando su paginoni i “paranoici complottisti” che, insieme a quasi tutto il Sud del mondo e a un documentato movimento di contestazione internazionale, hanno smascherato la patacca tragica dell’11/9, qualcuno percepisce che “il manifesto” crede più ai bugiardoni criminali che non ai bersagli della loro mendacia? Sono domande che Valentino Parlato, bandiera un po’ sfrangiata del giornale, cui, anno dopo anno, danno l’imbarazzante compito di estrarre plusvalore dalle, in maggioranza pressoché deserte, tasche dei lettori, ignora. Nell’occasione dell’assemblea di cui sopra, un infervorato giovanotto mi rampognò aspramente dal palco: “Esprimo la mia solidarietà alla compagna così brutalmente interrotta da Fulvio Grimaldi, tanto più che era una donna”. È stato un momento stellare. L’anatema astutamente omaggiava quel sesso, visto che nell’aria ancora aleggiavano gli slogan di una grande manifestazione delle “donne contro la violenza maschile”, cui indistintamente tutti, dal ministro di polizia, agevolato nell’emanazione di un brutale “pacchetto sicurezza”, all’immancabile Bertinotti, avevano tributato “partecipe plauso”. Ma il ragazzo contraddiceva l’assunto. Non era l’interruzione in quanto tale, incrinatura della liturgia assembleare, a essere stigmatizzata, ma l’interruzione di una donna, poveretta, creatura per definizione più debole e, dunque, minore. Che avesse detto castronerie, o cose sublimi. La vittima così maschiamente difesa contro il mio “ma che cazzo dici!” era una giovane di quel Partito Umanista che da qualche tempo frequenta cortei ed assemblee del “movimento” all’insegna di un buonismo che neanche il pluricitato manzoniano Conte Zio del troncare, sopire, sopire, troncare. Era esplosa in un’appassionata perorazione contro, non solo la solita aborrita violenza, ma il conflitto tout court, “Dialoghiamo, lavoriamo per la conciliazione”, ripeteva con toni appassionati, il conflitto è male, l’inciucio è bene. Pareva di sentire il presidente Napolitano, reduce da una carriera tutta 17 all’insegna del “volemose bene”, tanto gradito a coloro, sul palco del paese e del mondo, che vorrebbero una platea di giulivi consenzienti, mentre gli scaricano addosso sputi e sprangate. Pareva anche il leader del Partito Democratico, Veltroni, mentre, “pacatamente, serenamente”, faceva convolare a nozze tripartite, ovviamente in Chiesa, la sua banda di bulimici di poltrone, l’accozzaglia mafiosa del guitto da avanspettacoli di guerra e, a titolo di reggicoda, l’infinitamente disponibile, a ogni vippismo politico–mondano, bertinotteria. Il Veltrusconi, che “il manifesto” mi aveva copiato, si elevava così a Veltrusconotti, segno dei tempi se ce n’è uno. Pareva, quello della quaresimalista umanista, il brano delle litanie anti–violente di certi pseudosinistri e criptodestri fagiolizzati*, primus inter pares Bertinotti, impegnati a sostituire il “nemico” con “l’onorevole collega”, semmai “rispettato avversario”, e a bendarsi gli occhi per non vedere lo tsunami imperialista. Come fanno i bambini piccoli piccoli, o i grandi furbi furbi: chiudiamo gli occhi, il pericolo non lo vediamo, quindi non c’è. Il guaio è che questo formidabile stratega del disarmo unilaterale altrui, costi quel che costi, anche l’attraversata di un deserto di sangue come l’Afghanistan, o come l’annichilimento politico–ideologico dei suoi seguaci, da anni esercita incontrastato la pratica di bendare gli occhi agli altri. Cito questo episodio infimo perché è l’epitome della confusione–distorsione nella quale, come in uno specchio deformante che rende irriconoscibili e orridi, si agita quel poco di “sinistra” mediatica cui era stato assegnato, o che pretendeva di essersi assunto, il ruolo di ispirare e accompagnare con gli strumenti della controinformazione la resistenza nella fase di un feroce protocapitalismo di ritorno, più dissennato e sanguinario della prima versione, e della vendetta neocolonialista contro popoli, Stati, civiltà, che si erano liberati e che, a scanso di ripetizione, andavano estinti. Molti bravi italiani – ancora qualche refolo di anni ‘70 spirava dagli orizzonti di un occaso che minacciava di 18 volgersi in eclisse – avevamo affidato la richiesta di conoscenza, con la consapevolezza e determinazione che ne dovevano venire, a partiti, leader, giornali. Da essi, dalla loro capacità di identificare il nemico e di forgiare le armi per combatterlo e vincerlo, di prefigurare quel famoso “altro mondo possibile”, se non proprio la rivoluzione socialista, ci dovevano arrivare le informazioni giuste, le verità vere, le alternative ai luoghi comuni del conformismo e dell’accettazione dell’esistente, le indicazioni di lotta contro la più perfida classe dirigente mai apparsa dai tempi dei papi cinquecenteschi. Insomma, il bisturi per incidere e rimuovere la neoplasia di quel padronato che, ringalluzzito da una serie di arretramenti concordati con – o subiti da – antagonisti più qualificati e, al tempo stesso reso famelico dalla propria crisi incombente, minacciava di tutto volgere in metastasi terminale. È sul fallimento–tradimento di questi protagonisti di una resistenza non impossibile e di una controffensiva necessaria, che gran parte di questo libro si arrovella, nella forma di un’incazzatura che sarebbe futile definire eccessiva, giacchè si proporziona in misura addirittura minimalista alla dimensione della fellonia e della diserzione operate. Mamma, ho perso la sinistra è la parafrasi di una serie di film di successo e dall’esito lieto che, comunque, vogliamo prefissarci anche noi insieme a tanti, ormai quasi tutti fuori da questo paese, in Iraq, Afghanistan, in Libano e Palestina, in quasi tutta l’America Latina. Realtà di formidabile e vincente resistenza e di opzioni antagoniste, cui nessuno dei nostri sinistri, per convenienza consociativa, o per ignoranza, o per spocchia ideologica, o per razzismo eurocentrico, ritiene di doversi riferire, di utilmente potersi alleare. “La resistenza irachena non ci parla, gli Hezbollah sono integralisti oscurantisti, in Afghanistan bisogna liberarsi anzitutto del burka, l’intifada è violento terrorismo, Hugo Chavez assomiglia troppo a un caudillo, Fidel Castro pratica l’annientamento dei dissidenti, in Sudan il governo compie un genocidio, Mugabe è un dittatore che, 19 espropriando i coloni inglesi, rovina il paese…” Il libro si divide in un breve “PRIMA” e in un lungo “DOPO”. Dimensioni che sembrerebbero incongrue per un autore della mia età, ma che non si riferiscono alla misura delle due parti. Corrispondono, la prima, a una fase, diciamo, “riformista”, di un sicuro procedere deterministico, quando tutto pareva ancora possibile e, l’altra, a una fase nella quale il precipitare di ogni riferimento e l’accelerazione da ciò determinata nella corsa alla fine della specie, ha riproposto l’esigenza e l’ineluttabilità della rottura rivoluzionaria. Il “PRIMA” parte dagli anni ’90 del Novecento e arriva, per sommi capi, alla mia, di giornalista, espulsione dal circuito dei massmedia e all’uscita dell’attivista politico dalle formazioni più o meno istituzionali delle sedicenti sinistre. La divisione del libro è anche, per non innaturale coincidenza, in sommario rapporto con alcuni eventi epocali che hanno impresso un indirizzo cogente al procedere dell’umanità, l’11 settembre degli attentati a New York e Washington, la guerra maltusiana di distruzione e spopolamento dell’Occidente e di Israele contro nazioni di troppo, un capitalismo inferocito e che si vuole globalizzato, tanto da aver perfino inglobato sinistre storiche, non si sa se più rassegnate, o più fameliche. Eventi ai quali, appunto, ha corrisposto l’epocale defezione di uomini, formazioni e media, che le masse avevano fatto nascere e collocato nella propria trincea, quella opposta. Riconoscere e denunciare questo rinnegamento, fonte di mistificazioni lobotomizzanti e basto che ci lega al recinto, mi pare la condizione dalla quale ripartire. È stato, nell’esperienza personale, un percorso a balzelloni e, nella seconda metà del secolo lungo, davvero breve. Un istruttivo romanzo di formazione. Nel 1967 lasciai la BBC di Londra, con ancora quella fiducia nell’oggettività possibile, peraltro puramente apparente, trasmessami dal prestigioso ente, per farmi mandare dal quotidiano “Paese Sera”, fiancheggiatore del PCI, alla Guerra dei sei giorni in Palestina. La posizione del giornale, in linea con quella dell’URSS e con un’opi20 nione assolutamente egemone da destra a sinistra, revanscisti nazifascisti antiebraici esclusi, era del tutto favorevole al “popolo di sopravvissuti, rientrati nella loro terra e aggrediti da oceaniche armate arabe”. Oggi l’estrema destra ha capito chi sono i suoi affini e sta incondizionatamente con il colonialismo razzista del neo–Stato ebraico. Seguendo l’esercito israeliano nella sua travolgente avanzata sopra le terre e le città palestinesi e verso Siria ed Egitto, era facile rendersi conto che la verità era un’altra. Spuntarono, tra le macerie, moschee e kefieh, genti e culture di cui ci avevano negato l’esistenza, pur trattandosi di popolazione dall’insediamento millenario. E le famigerate armate arabe, prive di appoggio esterno, male equipaggiate e spossate nelle forze umane dalla lunga, vittoriosa lotta anticoloniale, si dissolsero come neve al sole. Eravamo rimasti vittime di un inganno totalizzante. In spregio alla pesantissima censura israeliana, gran parte della stampa mondiale, non monopolizzata, e dell’opinione pubblica potè arrivare alla verità. Allora era ancora possibile. Cinque anni dopo, 30 gennaio 1972, mi trovai per “Giorni Vie Nuove”, altra pubblicazione paracomunista, a Derry, Irlanda del Nord. Insieme a un fotografo francese fummo gli unici a fotografare e registrare dall’interno la strage di 14 inermi compiuta dai parà britannici su una pacifica marcia di cittadini per i diritti civili. Due ore dopo la BBC, proprio lei, faceva annunciare dal comandante in capo, generale Ford, che a Derry le truppe inglesi erano state bersaglio di cecchini dell’IRA e, dunque, avevano dovuto reagire. L’IRA non c’era affatto, ma sarebbe bastata la definizione di “terroristi” a convincere tutti, se le nostre foto e registrazioni e, dopo, inchieste indipendenti, non avessero sbugiardato generali, premier e BBC. Allora era ancora possibile. Come è stato possibile anche per il Vietnam e, più tardi, già molto limitatamente, per la prima Guerra del Golfo. Fu allora che venne perfezionato uno strumento dalla potenza spaventosa: la demonizzazione degli avversari da assalire con 21 quella strategia, apertamente vantata nei documenti della destra guerrafondaia statunitense e presto seguita dall’intendenza europea, che andava svelandosi come un’autentica rivincita coloniale planetaria. Il 24 marzo del 1999 al TG3 ci dissero che, con le bombe sulla popolazione civile di Belgrado, era iniziato un “intervento umanitario” teso a fermare la “pulizia etnica del dittatore ipernazionalista Milosevic”. Lasciai la Rai e andai sul posto per scoprire un governo che si difendeva disperatamente dagli ipernazionalismi suscitati dai chi era interessato a disfare quel modello di convivenza che era la Jugoslavia multiculturale e multiconfessionale; tanto una tirannia da far svolgere regolari elezioni a ripetizione, elezioni che all’opposizione filoccidentale (18 partiti su 20), ampiamente foraggiata dall’esterno, aveva assicurato il governo delle maggiori città; che i maggior mezzi d’informazione erano in mano all’opposizione e potevano tranquillamente auspicare il rovesciamento violento del “dittatore”; che l’avanguardia delle sollevazioni “popolari” si chiamava Otpor, era istruita dalla CIA (poi avrebbe fatto da consulente per altre “rivoluzioni colorate” ), ma era anche benedetta da Disobbedienti, “Liberazione” e “il manifesto”; che la “pulizia etnica” l’avevano fatta formazioni kosovare albanesi, cui gli USA avevano prestato i servigi di Osama bin Laden, nei confronti di minoranze che ammontavano al 40% della popolazione. Questi dati non passarono la barriera né dell’ostracismo alla verità scientificamente costruito dagli aggressori, né la colpevole condiscendenza dei politici e media “alternativi”. Per giornalisti considerati obiettivi, come Ennio Remondino della Rai e del pur partecipe Francesco De Tommaso de “il manifesto”, Milosevic rimase il “despota” e la pulizia etnica rimase serba. I miei documenti filmati, le testimonianze di pochi onesti e consapevoli rimasero confinati nelle nicchie di coloro, cittadini e gruppi, che ancora coltivavano la virtù almeno del dubbio. Ostracismo e condiscendenza che raggiunsero la perfezione quando si trattò di raccontare, o piuttosto di occultare e travi22