Enzo Garofalo

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Enzo Garofalo
L’esperienza napoletana
del grande pittore pugliese
Giuseppe De Nittis
di
Enzo Garofalo
G. DF. – S. A. per www.vesuvioweb.com
“Meridionale al Sud, francese a Parigi e londinese a Londra”:
così scriveva il critico Vittorio Pica nel 1914 del grande pittore di
Barletta Giuseppe De Nittis, riferendosi alla dimensione europea se non
universale della sua arte. Nonostante la verità presente in questa
affermazione De Nittis, seguendo il destino anche di altri pittori dell’800
italiano, è un artista la cui riscoperta da parte del grande pubblico risale
solo a tempi relativamente recenti.
Nell’accrescere la divulgazione della sua opera, determinante è il
ruolo svolto dalla splendida Pinacoteca che il Comune di Barletta gli ha
dedicato nell’antico Palazzo della Marra, essendo titolare per lascito della
moglie dell’artista, la francese Léontine Gruvelle, della più prestigiosa
collezione di sue opere, oltre che dell’archivio e della biblioteca.
Fondamentali anche alcune mostre di successo come quella antologica
svoltasi tra 2004 e 2005 a Roma e Milano, e alcune collettive tenutesi a
Barletta, dedicate più in generale al mondo artistico nel quale visse e operò
De Nittis, tra Italia, Francia e Inghilterra.
Insomma un artista in piena riscoperta, grazie anche al ritrovamento
in tempi recenti di varie opere del primo periodo della sua produzione
(quella della cosiddetta Scuola di Resina) quando De Nittis tagliando i
ponti con gli ambienti dell’Istituto di Belle Arti di Napoli, si dedicò
giovanissimo con uno sparuto gruppo di accoliti allo studio dal vero della
natura, dei suoi colori e della luce, facendo un’operazione coeva se non –
secondo alcuni critici – antesignana rispetto a quella degli impressionisti
francesi, mostrando così una sensibilità e una consapevolezza in linea con
le tendenze artistiche più all’avanguardia.
Tale propensione, affinatasi attraverso uno strenuo lavoro guidato
dalla volontà di superare l’eredità del passato, lo portò ad immergersi ai
suoi esordi nelle campagne dei dintorni di Barletta e di Napoli, tra la terra
e il mare, riuscendo a carpirne luce, colori e trasparenze trasferite sulla tela
con una intensità che rende le sue opere vibranti e suggestive come poche
altre. Capacità che non vennero meno ma andarono anzi rafforzandosi
ulteriormente quando il suo sguardo d’artista si rivolse verso realtà diverse
e distanti da quelle delle origini, quali erano le realtà metropolitane e
cosmopolite di città come Londra e Parigi, ma nel cui tessuto riuscì a
compenetrarsi e a farne viva materia d’arte.
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Questo primo periodo della produzione dell’artista che lo vide in
opera nell’area vesuviana (sia pure senza mai rinunciare a tornare
periodicamente nella sua cara terra di Puglia) rimane tuttavia un momento
fondamentale e altamente formativo nel suo percorso artistico che, dopo
l’allontanamento dagli ambienti accademici napoletani, avrebbe portato
avanti sostanzialmente da autodidatta.
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Ma vediamo quale fu il tragitto che lo portò a Napoli.
Napoli
Nato il 25 febbraio 1846 a Barletta da Raffaele e Teresa Barracchia
in una famiglia di ricchi proprietari terrieri, la sua vita non ebbe il più
felice degli esordi se si pensa che perse prematuramente entrambi i genitori.
Iniziò i suoi primi studi artistici sotto la guida del pittore barlettano ma di
scuola napoletana Giovanni Battista Calò, che notandone le grandi doti
incoraggiò i recalcitranti fratelli a non fargli interrompere gli studi. Anche
il giovanissimo Giuseppe fu caparbio nel perseguire i suoi intenti, mai
arrendendosi di fronte alle prospettive di indigenza paventate soprattutto
dal fratello maggiore Vincenzo.
Lasciò così la Puglia all’età di 14 anni recandosi coi fratelli a Napoli
dove si iscrisse all’Istituto di Belle Arti,
Arti presso il quale resistette appena
due anni insofferente verso insegnanti legati a metodi didattici e a canoni
artistici da lui percepiti come ormai datati, al punto da essere espulso per
indisciplina È a quest’epoca che risale la sua prima immersione fisica ed
emozionale nell’allora intatta natura dell’area vesuviana dei cui aspetti
sublimi e drammatici assorbe colori, riflessi, contorni, sfumature
traducendoli in una pittura il più delle volte già di grande purezza e
modernità, grazie alla sua capacità di cogliere in punta di pennello non
solo le forme ma anche le atmosfere climatiche ed emotive del momento:
"La natura, io le sono vicino. L'amo! Quante gioie mi ha dato! Mi
ha insegnato tutto"
scriveva De Nittis nelle sue memorie d’artista.
Prato e piante
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Forse quello di Ercolano e Portici accanto ai suoi amici artisti dediti
alla pittura all’aria aperta, da Domenico Morelli a Mario De Gregorio,
Francesco Romano e Adriano Cecioni, resta uno dei periodi più spensierati
e fecondi della sua vita come traspare dai toni entusiastici del suo taccuino
di ricordi:
"Che bei tempi! Con tanta libertà, tanta aria libera, tante corse senza
fine! E il mare, il gran cielo e i vasti orizzonti!... E da per tutto, un
profumo di menta selvatica e di aranceti, che io adoro".
Certo è che questa esperienza fece sì che il gruppo di giovani pittori
di cui De Nittis faceva parte esprimesse una corrente artistica che aderendo
ai temi propri del verismo è accostabile per alcuni versi – pur conservando
propri tratti distintivi - alla coeva avventura toscana dei Macchiaioli,
movimento con il quale De Nittis entrò in contatto durante un soggiorno
fiorentino, proteso com’era sempre alla ricerca di nuovi mezzi espressivi.
Riferendosi al piccolo movimento artistico creato da De Nittis e dai
suoi compagni, il critico d’arte Diego Martelli ricorda come essi avessero
costituito “una camerata di radicali in arte, che nessuna autorità
riconoscendo, disprezzando tutto quanto poteva procurar loro benessere,
con le concessioni fatte alla moda, si deliziarono delle intime soddisfazioni
che procura ai veri artisti, in comunione d’idee, la osservazione attenta
della natura, il fantasticare quotidiano e continuo su tutti gli effetti e su
tutte le forme dell’avvicendarsi continuo delle immagini della vita”.
Ci sono due appunti nel taccuino del pittore De Nittis, pubblicato
nel 1894 a Parigi col titolo di ‘Notes e Souvenirs’ e poi in Italia nel 1964
come ‘Taccuino 1870/1884’, che meglio di qualunque altra espressione
riassumono, attraverso la viva voce del pittore, la consapevolezza acquisita
in quegli anni in cui si divise tra Campania e Puglia e che forse esprimono
gli elementi più essenziali della sua arte:
“La natura mi ha svelato la verità che si cela nel mito…Conosco
tutti i colori, tutti i segreti dell’aria e del cielo”.
Due dati reali che cominciano a trovare espressione con forza
prorompente già nel periodo giovanile della ‘Scuola di Resina’, per poi
raggiungere l’apoteosi nella sua produzione dell’età matura, che per lui si
sarebbe fermata ai 38 anni, quando improvvisamente morì per una
emorragia cerebrale.
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Dopo il suo trasferimento nel 1867 a Parigi, De Nittis non perse il
suo rapporto con l’Italia.
l’Italia Ma è in quella città che avrebbe trovato l’amore
in Léontine Gruvelle - musa ispiratrice di tanti dipinti, che sposò a 23 anni
nel 1869 – si sarebbe avvicinato all’ambiente affine dei grandi pittori
impressionisti e avrebbe conseguito un successo che gli garantì prestigiosi
riconoscimenti, l’agiatezza economica e l’ammirazione di tantissimi altri
pittori e letterati assidui frequentatori della sua casa, dalla quale si sarebbe
allontanato a intervalli a partire dal 1874 per una felice esperienza
londinese.
Tornò in patria più volte per motivi di svago o di lavoro, sia in
Puglia che a Napoli, città dove viveva il fratello maggiore Vincenzo (poi
morto suicida nel 1882) e dove conservava diversi rapporti di amicizia. In
particolare rientrò in maniera abbastanza stabile in Italia nel 1870 dopo lo
scoppio della guerra franco-prussiana stabilendosi a Napoli e
successivamente,
successivamente per un certo periodo durato fino al febbraio 1873,
nuovamente a Resina il paesino della cinta vesuviana che aveva dato il
nome alla corrente di giovani artisti di cui De Nittis faceva parte,
rinominata poi con ironia da Domenico Morelli la ‘Repubblica di Portici’.
Portici’
Fu in questo secondo importante soggiorno nell’area vesuviana che
nacque la straordinaria serie di studi sul Vesuvio che costituiscono un
‘unicum’ nell’ambito della pittura italiana di quel tempo per gli aspetti
considerati e la modernità delle ‘inquadrature’ e di uno stile sempre più
essenziale, con quella sua capacità di essere sintetico senza perdere in
accuratezza e forza evocativa (vedi di seguito alcuni esempi di opere
riferite a tale periodo).
Sono lavori frutto di uno studio del vulcano colto in diverse ore del
giorno e con differenti condizioni atmosferiche anticipando, secondo il
parere di diversi studiosi, quello che sarebbe diventata una prassi
caratteristica dei pittori impressionisti. Si vede inoltre mutare la gamma
cromatica man mano che si passa da un Vesuvio in stato di quiescenza
trattato con toni di colore più tenui, alle immagini più minacciose con
colori più accesi e di più forte impatto. Tutto contribuisce a dar vita a una
immagine di profonda e scarna verità, non priva però di poesia, che
tuttavia non incontrerà l’approvazione del mercante Goupil al quale De
Nittis era legato contrattualmente, il quale avrebbe preferito lavori più
accondiscendenti col gusto più alla moda.
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Le scelte compiute invece da De Nittis testimoniano fortemente
della sua indipendenza sul piano creativo, anche se alla fine il pittore cercò
di andare incontro alle esigenze di mercato dando più spazio, pur senza
rinunciare alle peculiarità del suo stile, ad una maggiore presenza della
figura umana, la quale con l’andare del tempo avrebbe poi finito con
l’avere un ruolo sempre più da protagonista, come dimostrano la maggior
parte delle opere di ambientazione parigina e londinese.
Intanto con queste opere dedicate al Vesuvio, De Nittis aggiunge un
altro segmento di grande suggestione a quella tradizione tipica sia della
pittura napoletana che dei paesaggisti stranieri di stanza a Napoli che già
dalla fine del ’500, e soprattutto nel ’700, ha fatto del Vesuvio in eruzione
un suo soggetto privilegiato.
Sulle pendici del Vesuvio
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Impressione del Vesuvio
Pioggia di cenere - 1872
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Di questo periodo, nel corso del quale la moglie Léontine era in
attesa del loro figlio Jacques che sarebbe nato nel 1782, rimangono alcune
belle testimonianze nelle Memorie
Memorie,
riportare
emorie che ci piace riportare:
“Da un anno salivo ormai ogni giorno sul Vesuvio per
lavorare. E ogni giorno ci volevano sei ore di viaggio a cavallo per
andare, tornare e salire fino al cono sulle spalle delle guide, ma
allora avevo ventisei anni, benché fossi già sposato da tre anni, e
ignoravo che cosa fosse la stanchezza. Nei primi tempi mia moglie
mi accompagnava fino alla casa bianca, a mezza strada, e
rimaneva là ad aspettarmi in un giardinetto profumato di menta e
violacciocche”.
Suggestivo anche il racconto dell’improvviso risvegliarsi della
montagna di fuoco, dalle prime avvisaglie fino all’eruzione del 26 aprile
1872:
“Mi ero sistemato vicino al cratere del Vesuvio, al mio
solito posto (…). D’improvviso senza alcun motivo apparente, mi
alzai e spostai i miei attrezzi a poca distanza. Avevo fatto
appena in tempo ad allontanarmi che un ampio squarcio si aprì
proprio nel posto dove da un mese ero solito lavorare. Il getto
delle pietre e della lava arrivò fin dove mi trovavo senza ferirmi
(…). Verso l’una del mattino i due pittori Federico Rossano e
Marco De Gregorio [già amici dei primi anni NdR] vennero a
chiamarmi. – All’erta Peppino! La montagna è in fiamme. – In
un momento fui pronto. Risalimmo lentamente vico Cecere e la
strada nazionale. Malgrado un fumo denso, si vedeva un bagliore
rosso corruscare il cielo e la terra (…). La montagna scoppiettava,
la lava divorava tutto al suo passaggio e, anche a distanza, il
calore disseccava gli alberi che facevano pfffhh e si infiammavano
come fiammiferi. Procedevamo a fatica per sentieri scoscesi, che
solcavano le antiche rocce laviche. Intere famiglie, cariche di
fagotti, fuggivano trascinandosi dietro nugoli di vecchi e di
bambini. L’aria era piena di invocazioni alla Madonna, e più
spesso ancora, a san Gennaro. Intanto era giunta l’alba a
rischiarare l’immenso disastro. Era ora di andarcene”
(da “Taccuino 1870/1884” – Bari, 1964).
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Ciò che colpisce di queste descrizioni, di cui rimane la trasposizione
pittorica in varie opere, tra le quali in particolare nell’opera ‘La pioggia di
Cenere’ (v. foto sopra) del 1872, è il rapporto vivo con gli elementi naturali,
anche nelle loro manifestazioni più drammatiche, un rapporto dal quale
nasce quella straordinaria alchimia di colore e luce che rende così uniche le
sue opere e che deriva solo da quel rapporto di contiguità se non di
compenetrazione assoluta con l’ambiente naturale da lui così amato.
Oltre alle immagini del Vesuvio, la permanenza di De Nittis nei
dintorni di Napoli avrebbe dato vita a tutta una serie di opere di carattere
paesaggistico capaci di rappresentare con indiscutibile efficacia i
contrastanti aspetti di quello straordinario lembo di terra stretto tra il
vulcano e il mare: e allora scene boschive dei dintorni di Portici, dove il
virtuosismo nella resa dei giochi di luce tra i rami o tra alberi e sottobosco
raggiunge livelli inusitati, oppure scene marittime con pietrose spiagge
assolate e aperte verso ampi orizzonti, e ancora affascinanti immagini
dell’isola di Capri scorta in lontananza dalle nere e solitarie lave
solidificate del Vesuvio oppure immersa nei riflessi dorati del sole, colta sul
vasto sfondo del golfo di Napoli.
Tutte tappe di una esperienza fondante quale quella napoletana che,
insieme a quella pugliese, ha permesso a De Nittis di intraprendere e di
proseguire con esiti sempre più felici la sua meravigliosa ricerca volta a
catturare i più sottili segreti della luce e del colore, poi trasfusi nei suoi
capolavori più conosciuti.
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Uno di essi risale all’ultimo anno della sua vita (1884) e oggi
campeggia luminoso in una delle sale centrali della Pinacoteca di Barletta:
si tratta della ‘Colazione in giardino’, che può considerarsi uno degli esempi
aurei di quell’arte sincera, senza compromessi e appassionata che sarebbe
stata la principale ragione della sua vita e che gli avrebbe fatto dichiarare:
"Se un giorno mio figlio dovesse domandarmi dove trovare la felicità,
io gli risponderei: sii pittore ma siilo come me".
me"
Colazione in giardino – 1884
Courtesy per Vesuvioweb
Enzo Garofalo
(Cannibali.it) – Maggio 2009
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