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La mano, la saliva, l’aceto: quando l’istinto si fa medico Cuor contento, il ciel l’aiuta (anche in salute?) PIERO LOTITO Cuor contento, il ciel l'aiuta. Altro che erbe, è questa la prima forma di medicina: star sereni, distendere l'animo e lo sguardo, osservare la vita come si fa con un dono inaspettato (in effetti, non c'è nessuno che possa dire di aver capito di essere sul punto di nascere). Certo, anche i giovialoni finiscono coll'ammalarsi, ma il detto popolare incoraggia all'accettazione serena della sofferenza, perché se vi si riesce, è come essere mezzo guariti. Al di là di ogni proverbio, c'è tutta una gamma di rimedi istintivi che un giorno meriterebbero di essere codificati in una sorta di “medicina del riflesso”, intendendo in questo caso il riflesso come gesto primordiale di sopravvivenza. A dirla così, può anche sembrare materia da antropologi. Si tratta invece di un repertorio assolutamente familiare e quotidiano. Toccarsi il ginocchio che ha battuto contro il paraurti dell'auto parcheggiata malamente, per esempio, che senso ha? E massaggiarlo, accarezzarlo, compulsarlo, come se in quel modo si potesse annullare o almeno attenuare il dolore? Ecco, questo è il punto: attenuare il dolore. Può esserci mano più... materna della nostra? Quel calore (oggi si parla di energia, è più in voga) può ricordare in altre occasioni – non si sa se a torto o a ragione – le applicazioni pranoterapeutiche. Un filo robusto lega gli interventi che continueremo a chiamare della “medicina del riflesso”: l'immediata reperibilità degli strumenti (la mano, prima fra tutti) e delle sostanze utili al tentativo di guarigione. La saliva, mettiamo. Un graffio al viso, una lieve ferita alla mano stessa? Quasi senza pensarci, portiamo alle labbra il punto colpito e lo umettiamo con l'accessibilissimo “medicamento”, lasciando che la ptialina (un po' tutti, a naso, sappiamo che le sorprendenti proprietà dell'enzima vanno ben oltre la semplice funzione amilasica della prima digestione dei carboidrati) disinfetti e cicatrizzi l'offesa. Forse non apriamo subito la finestra, se ci sentiamo soffocare dall'aria viziata del nostro ufficio? Cer- chiamo ossigeno, ricorriamo a un nuovo afflusso per sopperire alla momentanea carenza. Stando seduti alla nostra scrivania, sentiamo che una gamba si è “addormentata”? Ci viene naturale alzarci, muovere qualche passo e magari battere il piede a terra. Non sappiamo perché lo facciamo, ma confidiamo che questi gesti ci aiutino a superare la fastidiosa sensazione. La mano, ancora. Non esiste al mondo apparecchio più prodigioso: carezza la pancia indolenzita; stringe la fronte afflitta da emicrania; il dorso (più sensibile, pare) sente se il calore della guancia segnala una febbre in arrivo; tocca il polso del debilitato alla ricerca dei battiti perduti; “stira” l'altra mano, intorpidita dal freddo o dal perdurare di una stretta; massaggia le palpebre affaticate dalla lunga permanenza davanti al computer. In più, la mano si fa tramite e alleata della medicina ufficiale, applicando creme e unguenti, iniettando medicinali con la siringa, portando alla bocca compresse e pozioni. I rimedi esterni “del riflesso”, poi. Qui sappiamo che la letteratura è sterminata. Ugualmente, un esempio potrebbe anche risultare rivoluzionario. Nei tempi difficili della guerra, in alcune zone rurali del Sud le mamme non si perdevano d'animo di fronte al pianto disperato dei loro bambini (soprattutto, non li uccidevano): in assenza di biberon, intingevano una pezzolina in un decotto di papavero e la spingevano tra le labbra del discolo, che in un minuto si assopiva come un angioletto. Il callo da curare con applicazioni di polpa di pomodoro, il vino per una sommaria disinfezione delle ferite superficiali, una benda imbevuta di aceto per dar sollievo al mal di testa, la moneta (fredda) sulle punture degli insetti, la buccia di patata sui piccoli ematomi e via così, in un meraviglioso catalogo dell'inventiva e dell'osservazione naturale. Tutto questo ha rappresentato fin qui la strada forzata di un desiderio: far presto, eliminare il malanno nel più breve tempo possibile e con l'au- 35 silio dei mezzi più semplici, perché la semplicità è considerata una fondamentale componente della terapia (non tanto a garanzia di questa, quanto della scarsa pericolosità del male). Mani alla tempia, un gesto istintivo di difesa, quando la testa ci sembra sul punto di scoppiare. Il meccanismo psicologico del guarire. Perché il più delle volte i solitari hanno vita breve? Perché non c'è nessuno che li tranquillizzi, che dica loro: «Sciocchezze, vedrai che domani starai meglio». La parola buona è il primo e il più efficace dei placebo. Se i bambini smettono (non sempre) di piangere al solo vedere che la mamma sta per prenderli in braccio, gli adulti hanno dovuto sviluppare tutta una serie di surrogati: abbracci virtuali che li coccolino, li consolino e a volte li guariscano. Lo stesso racconto dei propri guai in salute al primo che si incontra, si rivela quasi sempre taumaturgico. E si sa come sia facile che in questi casi i malanni del narratore si trasferiscano all'incolpevole ascoltatore: quasi sempre sotto forma di emicrania, il più diffu- 36 so dei transfert. In fondo, nel vasto campo dei piccoli disturbi anche le contromisure possono attingere al trucco, in una sorta di “contrappasso del riflesso”. Così, una volta individuata la persona che ha il vizietto di liberarsi dei propri mali descrivendoli all'interlocutore, basta evitarla o, se proprio non si riesce a svoltare al primo angolo, star bene attenti a limitarsi al buongiorno, senza minimamente chiederle della salute. Il «come stai?» va insomma bandito. Ne va del nostro benessere.