Pagina 1 - Raccontarsi Raccontando

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Collana
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…La vita si fa nel narrarla,
e la memoria si fissa con la scrittura:
ciò che non riverso in parole sulla carta,
lo cancella il tempo.
Scrivo a tentoni nel silenzio e nel
cammino scopro particelle di verità,
piccoli cristalli che stanno
nel palmo di una mano
e giustificano il mio passaggio per
questo mondo….
Isabel Allende
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L’ANELLO
dedicata a mia sorella Miria
……non lascio che neppure un singolo fantasma del ricordo svanisca
con le nuvole…..
Kahil Gibran
La stavo osservando senza darlo a vedere.
Questo era il momento in cui si toglieva l’anello,
andava in camera da letto, e lo posava sulla toletta,
dentro la ciotolina di cristallo.
Ripeteva questo gesto ogni qual volta aveva
bisogno della mani libere, ma in particolare quando
preparava la cena. Poi sino all’indomani mattina,
non lo infilava più.
Ero presente, qualche settimana prima, il
giorno che mio padre lo aveva portato in dono. Era
l’anniversario del loro matrimonio,
ed in casa
eravamo già tre bimbe. Avevo visto come, lo
sguardo di papà fosse pronto a catturare ogni suo
piccolo gesto, mentre scartava il minuscolo
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pacchettino. E poi gridi di gioia, baci, abbracci,
commozione:
-
-
Tanì, amore mio, come hai fatto a sapere che
desideravo proprio questo? –
E lui, scherzando come sempre:
Era l’unico con quella bestiaccia appiccicata
sopra, una bestiaccia brutta e cattiva come
te! Mamma aspettò, con la mano aperta, che
lui infilasse l’anello nell’anulare sinistro,
sopra la fede gettando un lungo sguardo
dentro gli occhi di papà. Lo tenne al dito solo
qualche istante, sussurrando : “più tardi, più
tardi”.
Cenammo
velocemente.
Quella
sera
ci
spedirono a dormire più presto del solito perché
volevano festeggiare soli soletti la loro ricorrenza.
La mattina dopo trovai sul tavolo del tinello, il
mozzicone di una candela rossa ed avanzi di dolci,
due coppe con del vino e, tutta accartocciata, la
velina blu, elegante, con scritto sopra “Oreficeria
Ferracin”.
Ma ora la curiosità era troppa, e si andava
sempre più caricando. Aspettai che la mamma fosse
più che indaffarata ed entrai nella sua camera da
letto. Cercai con gli occhi e con le dita la toletta, la
ciotolina di cristallo e l’anello dai riflessi blu.
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Lo presi delicatamente tra le dita. Sì, c’era incisa
una figura in oro, come un granchio, ma più lungo
e con una coda
ricurva ed appuntita. Uno
scorpione, doveva essere uno scorpione, perché mia
madre diceva spesso che la sua gelosia era causata
da essere nata nel segno dello scorpione. E una volta
la sentii dire , che anch’io ero una scorpiona, papà
un acquario, mia sorella Marilena un capro con le
corna e Miria un pesce. Che modo strano di
chiamare la gente!
Che bello però questo anello, l’oro lucidissimo e
la grande pietra blu con inciso in oro l’arcana
figura. Chissà quali poteri aveva,
visto che la
mamma ed il papà erano sempre più innamorati!
Lo infilai nel mio dito per sentire cosa si
provava. Era pesante e troppo largo, ma bellissimo.
-
Chi ti ha dato il permesso di entrare e toccare
quello che non è tuo? –
Sobbalzai, guardando nello specchio della
toletta. Vidi la mamma accigliata e scura.
-Non ci provare mai più, capito! Vergognati.
Ed io mi vergognai tantissimo, io che facevo di tutto
per essere brava, saggia, giudiziosa pur di
guadagnarmi l’affetto dei miei genitori. Non
l’avevo sentita arrivare, ed essere stata scoperta
così, mi dette la misura di quale brutta figura
stavo facendo. Me ne andai fuori nel giardino, sotto
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il fico, silenziosa e colpevole. Si avvicinò la piccola
Miria, mi strinse con le sue braccine dicendo:
“io tanto bene a te” e mi rimase vicino
cercandomi negli occhi, finché non le sorrisi.
I semi, però, erano stati comunque
gettati.
Passarono gli anni, crebbi nonostante tutto, curiosa
ed intraprendente, vogliosa di liberarmi dai sensi di
colpa e dalla timidezza, fiduciosa e battagliera. Tra
i giovani della mia generazione avanzò il bisogno
dell’irrazionale, dell’esoterico, dell’alternativo. Ed
io, in special modo con le amiche, ero quella che
sapeva quasi tutto di segni zodiacali, di sinastrie, di
simbologia, di cuspidi e di ascendenti. Imparai
anche a fare i tarocchi, traendone conoscenze
trasversali sconosciute a molti. La mia sordità
congenita mi aiutava ad affinare la percezione.
Passarono molti anni da quel giorno in cui mi
dovetti vergognare per essere stata curiosa. Mia
madre è deceduta lo scorso settembre. Non riesco
ancora a mettere a fuoco se provo quel dolore che
dovrei provare. Un intimo disagio sì, sordo e
profondo, ma non vero e proprio dolore. Io e lei non
abbiamo mai recuperato quell’intimità che, da
piccola, vivevo come un grande bisogno inespresso.
Ci siamo stimate ed osservate, a distanza, con
cortesia e rispetto. Non ho mai litigato con mia
madre, ma non ci siamo mai, neppure una volta,
abbracciate con trasporto.
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Oggi sono venute a trovarmi le mie sorelle. Mi
parlano di mamma, di tutto quello che hanno
trovato nella sua casa. Ricordi, oggetti, memorie di
una vita. Mi parlano delle lettere dei miei genitori,
fidanzati durante la guerra quando, anche amarsi
richiedeva coraggio e tenacia. Hanno portato foto,
pacchi di corrispondenza ed un cofanetto con
piccoli oggetti
destinati a me. Catenine con
scorpioni, ciondoli d’argento a forma di scorpione,
portachiavi con scorpioni, anche due scatoline di
plexiglass con dentro due scorpioni mummificati.
Uno più grande ed uno più piccolo. E poi un
sacchettino di velluto blu, chiuso da un nastrino
dorato:
- Mamma aveva destinato questo a te. E’
l’unico oggetto che non ha mai impegnato o
venduto nei momenti di difficoltà – mi dice
Miria.
Sciolgo il nastrino.
Provo un’antica emozione, profonda e seppellita
dagli anni, che prepotentemente torna a galla.
Già intuisco cosa possa contenere, ed apro
lentamente il sacchetto.
E’ l’anello, quello d’oro e con la grande pietra
intarsiata. L’intarsio raffigura come un granchio,
ma con il corpo più allungato ed una lunga coda
appuntita: uno scorpione.
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Non sono ancora riuscita ad infilarlo al dito. Mi
dico che è troppo largo. Lo guardo, cerco di cogliere
il suo arcano potere. Mi trasmette, solo a guardarlo,
tutta la sua magia. Forse, domani, lo porterò
dall’orefice, lo farò lucidare, lo farò stringere per
adattarlo al mio anulare. Forse.
Prima o poi, ne sono certa, riuscirò a riprendere
anche questo discorso interrotto tanti anni
addietro. Per tentare, ancora una volta, di
riannodare uno dei fili con il mio passato,con i miei
desideri con le mie emozioni. Forse!
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LA ROSCETTA
dedicata a Nina,
vicina di casa quando ero bambina
Lascia dormire il futuro come merita; se lo svegli prima del tempo,
otterrai un presente assonnato…
F. Kafka
Vedi quel casermone? quello con i portici! E’ lì
che abita la “Roscetta” con il marito. Quando è
andata via, la fanatica che non parlava con
nessuno, ha fatto sapere a tutti, gridandolo ai
quattro venti,
che aveva avuto
la fortuna
dell’assegnazione di un appartamento all’EUR.
A me, questa zona, mi
pare più la popolare
“Garbatella” che lo scicchettoso quartiere dell’EUR
Lo zio Gilberto aveva fermato la lambretta
contro il marciapiede ed indicava
l’enorme
caseggiato troneggiante sulla spianata di terra
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battuta lungo la via Cristoforo Colombo. Intorno il
deserto di una periferia che, alla piccola
Annamaria, sembrava sconfinata.
Sul lato opposto del casermone, la “Fiera di Roma”
e davanti il sepentone d’asfalto costeggiato di pini
marittimi che ,in fondo verso ovest, conduceva alla
pineta di Castelfusano ed al mare. Il mare,
Annamaria con le manine sul cruscotto della vespa,
un po’ guardava il casermone incuriosita, un po’
già le sembrava di sentirlo, l’odore del mare.
Si viaggiava così, negli anni ’50. L’uomo
guidava il mezzo a due ruote, la donna dietro ,
sedendosi di lato e chiudendo ben bene la gonna
sotto le cosce. Se c’era anche un bambino, il posto
privilegiato per lui era davanti , in piedi tra i
manubri come una piccola vittoriosa “nike”.
Se poi di bimbi ce ne erano due, il più piccolo
trovava collocazione tra le braccia della mamma,
attaccata, non si sa bene come, alla vita del
guidatore.
Ripresero la strada verso il mare con il vento
che faceva gonfiare l’abitino di pizzo sangallo della
bimba e sventolare il fazzoletto sulla testa della zia
Ines. Annamaria si chiese perché la Roscetta,
ovvero la moglie del postino, ovvero Sora Nina la
barese, si fosse fatta murare dentro quell’enorme
casermone.
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Non era abbastanza felice di stendere il
bucato? Eppure lo faceva cantando! E che belle
canzoni
conosceva
a
memoria:
Maruzzella,
Guaglione, e quella che le piaceva così tanto tanto
da farla piangere e che diceva più o meno così
:”..ahi ahiai paloma ....cucurucucù. .paloma...
Lei ascoltava rapita e commossa facendo finta di
giocare nel cortile della sua vecchia casa su due
piani, con l’orto, l’albero di fico, il fontanone per
lavare i panni.
Ma perchè la “roscetta” se ne era andata via? Non
era forse meglio per lei preparare i sughetti per il
marito postino, nella cucina che dava sul
giardinetto subito dopo il cancello , piuttosto che nel
casermone sullo sterrato?
Povera sora Nina la barese, schiva , di
poche parole ma che sapeva cantare meglio della
mamma; accompagnava il marito sul cancelletto
ogni mattina
mentre Annamaria prendeva il
caffellatte guardando fuori dalla finestra.
Lui grosso e rubicondo, lei minuta con tante
lentiggini e tanti capelli rossi. Aspettava che lui
montasse sulla bicicletta, lo aiutava a mettere e
tracolla la borsa di cuoio e poi, in punta di piedi,
dava il suo bacio, che doveva essere dolce come un
viatico speciale, a giudicare dall’espressione beata
ed un po’ ebete di lui.
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Non avevano bambini, e lei se ne dispiaceva
immensamente. Spesso piangeva quando si parlava
di bambini e, qualche volta, chiedeva alla mamma
di Annamaria di poter tenere il braccio l’ultima
arrivata. Perché la mamma già ne aveva due di
bimbi, uno dietro l’altro ovvero bimbe visto che
erano femminucce: Annamaria e Marilena, ma già
sospettava che tra otto mesi, ne sarebbe arrivato un
altro. E poi c’erano le due cuginette Rita e Laura
nel lato opposto della casa.
Ma perché la Roscetta era andata via da
un posto dove la cicogna arrivava spesso e
volentieri per andare ad abitare in quell’enorme
caseggiato ? Come poteva fare la povera cicogna
per trovarla e portare anche a lei un bambino da
cullare?
A cinque anni è difficile a volte capire quello
che combinano i grandi e perché. Veramente tanto
difficile anche poterli aiutare a non farsi del male!
- “vuoi venire in braccio a me? Lì davanti prendi
troppa aria e ti verrà il mal di gola”La zia Ines dal suo posto di fidanzata ufficiale
, reclamava anche lei un cucciolo da coccolare e
proteggere ed, evidentemente, oggi voleva giocare
alla “famigliolachevaalmareconunbimboabordo”
-“No, voglio stare davanti, voglio guidare” - rispose
la bimba.
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Era vero, le piaceva immensamente pensare
che fosse lei a condurre il mezzo a due ruote, ma
voleva stare davanti anche per un altro motivo: la
vera verità era che le sue manine, sfioravano
quelle dello zio Gilberto.
Era bello lo zio, alto, magro, con occhi azzurri e
capelli neri, un po’ burbero a volte, ma sempre
pronto a scherzare ed a giocare. Quando sarebbe
cresciuta, lo avrebbe sposato lei lo zio:
Era sicura che anche lui stesse solo aspettando la
sua crescita. Ecco perché era ancora scapolo
nonostante di fidanzamento con la zia Ines.
Ma adesso c’era una emergenza seria.
Bisognava che qualcuno avvertisse la cicogna di
dove abitava ora la ex vicina di casa: Altrimenti
un piccolo roscetto sarebbe caduto per errore nella
stanza da letto della sua mamma e lei si sarebbe
trovata un altro fratellino o sorellina miagolante e
prepotente. Erano già in tanti dentro casa! Il papà
, poi, era sempre ad imparare cose nuove sugli aerei
in volo per i cieli e loro a terra, nella casa con il
giardino ad aspettarlo.
Avrebbe chiesto allo zio di scrivere lui alla
cicogna per spiegare bene come stavano le cose, sì,
lui lo avrebbe fatto, un po’ sul serio ed un po’
celiando come era suo costume.
Ma come era bello lo zio!
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nessuna delle sue amichette aveva uno zio così
bello, così alto e così capace di farla volare con
capriole
da capogiro, riprendendola all’ultimo
momento ridendo dei suoi gridolini complici di
gioia e paura.
Abitava nella casa al piano di sopra, insieme
alla nonna Elena lui, mica come il papà che,
studiando, studiando, se ne andava per aereoporti!
Lo zio avrebbe saputo come e cosa scrivere. Allora
sì che lei si sarebbe sentita tranquilla che il bimbo
sarebbe arrivato e nel luogo giusto dentro la casa
del grosso marito postino e della sua minuscola
moglie. Quel palazzone era tanto grande e poi era
tutto circondato dallo sterrato pieno di polvere,
chiunque si sarebbe perso
anche una cicogna
animata dalle migliori intenzioni.
Ora che aveva trovato la soluzione, riprese a
guardare, soddisfatta, gli oleandri fioriti lungo la
strada che portava i tre sulla lambretta, verso la
spiaggia di Castelfusano. Aspirava forte l’aria
frizzante ed aveva la sensazione di volere tanto
bene a quella ex vicina di casa strana e triste.
Non sapeva ancora, Annamaria, che di lì a
tre mesi lo zio si sarebbe sposato con la zia Ines e
poco dopo la cicogna, anziché andare dalla moglie
del postino, avrebbe depositato un fagottino al
piano di sopra, in casa degli zii novelli sposi ; una
bambina, Paola, la prima di una serie di altre
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cuginette e sorelle (sarebbero diventate 12) , tutte
ancora e solo femmine!
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L’ALTALENA
Dedicata alla mia vecchia casa
…il ricordo è poesia, e la poesia non è se non ricordo (G.Pascoli)
Dovevo essere veramente molto piccola,
perché il mio primo ricordo è legato alla “casa
vecchia”, quella con il fontanone e l’albero di fico e
c’era ancora la pergola con l’uva che fu tagliata via
quando avevo 5 anni.
Sotto il fico, legata a due grossi rami, stava
l’altalena dalla quale ero caduta.
Ricordo le grida della mamma, ricordo anche le
sculacciate per aver tentato di salirci da sola,
cadendo.
Un fazzoletto bagnato asciugò il sangue che
usciva dal naso. Poi la mamma mi prese in braccio
ed approfittò del mio pianto per cercare di darmi
addormentare.
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Ecco, con il visetto sulla spalla di lei, avvertii
il sapore del sangue,l’’odore pungente delle foglie di
fico ed il tepore del sole che ,a sprazzi, appariva e
scompariva sotto la pergola; sensazioni forti e dolci,
amare e piene.
Quando spingo la memoria più indietro possibile
nella mia infanzia, e qui che si ferma il ricordo
cosciente.
Un ricordo lontano, sfocato eppure vivo.
Qualche anno dopo, quella abitazione fu
lasciata per una moderna, al terzo piano di un
moderno fabbricato. La vecchia casa abbattuta, il
giardino seppellito sotto le fondamenta di una
nuova costruzione di sette piani.
Questa sera, mentre scrivo, la vecchia casa
torna nitida davanti ai miei occhi, con il suo orto, le
rose,la pergola, il fontanone e l’albero di fico al
quale era legata una altalena.
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LO SGABUZZINO
Dedicata amia nonna Elena
L’aspetto delle cose varia secondo le emozioni, e così noi vediamo magia
e bellezza in loro; ma bellezza e magia, in realtà, sono in noi (K.Gibran)
Avrei voglia di raccontarvi dell’Istituto Scolastico
alla Certosa, della grotta con la Madonnina. E’ lì
che ho frequentato l’asilo. Quello dei piccoli e quello
dei grandi, quando avevo tre, quattro e cinque
anni.
Ricordo un canto e sento la mia voce insieme a
quella delle altre bambine:
“la solitudine si deve fuggire, si deve fuggire
sol con le compagne si può gioire, sol con le
compagne si può gioire, scegli una bimba che sappia
ballare, che sappia ballare…..”
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mentre canticchio sottovoce questo canto lontano,
un altro ricordo, prepotentemente, occupando il mio
spazio mentale.
Una porta, il buio.
Ci finii per punizione nello sgabuzzino. Cosa
avessi combinato, non lo so. Rammento solo lo
scatto della chiave, il buio e l’angoscia, l’abbandono.
Roba da chiamata a “telefono azzurro”, ma ai miei
tempi non esisteva. Piangevo, gridavo di voler
uscire. La porta rimaneva serrata. Il sole fuori, il
buio intorno, tratte un piccolo fascio di luce che
penetrava da una piccolissima finestrella chiusa da
una retina anti insetti.
Sentii una voce, da quella finestrella:
“ Anna, Anna, non piangere, vieni , vieni da
nonna”
Mi avvicinai e vidi le sue dita che mi
passavano attraverso la retina anti insetti, un
pescetto di liquerizia. Lo presi e cominciai a
succhiarlo e lei ancora:
“ Stai buona,non piangere. Io ho portato la
seggiolina. Mi siedo qui vicino alla finestrella, a
fare la maglia e, quando vuoi un altro pescetto, mi
chiami e io te lo passo.”
Rassicurata da quella presenza e con gli occhi
che si stavano abituando all’oscurità vidi un vestito
a fiori, sbilenco su di una stampella che attirò la
mia attenzione. E poi una bilancia di ottone con
tutti i pesi e pesini in perfetto ordine, una
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cappelliera, un quadro con scene di caccia, gli occhi
di mio nonno che mi guardavano da un vecchio
ritratto. Curiosa aprii con cautela una cassettiera.
Era colma di avanzi di pizzo, pannolenci, velluto,
organdis. E poi bottoni, fibbie, nastri e nastrini. Su
tutto aleggiava un odore a me sconosciuto. Era
naftalina.
Toccare, guardare, frugare, annusare. Iniziò
uno splendido gioco. Con vecchi abiti ed avanzi di
tessuti, divenni principessa salvata da un principe e
sirena amata dal pescatore. E ancora, regina di un
regno incantato e fata che sapeva volare.
Prima che il sole calasse, fui liberata. La
nonna era già andata via per non farsi vedere.
Quello sgabuzzino restò, per tutta la mia
infanzia, il mio luogo segreto, dove mi nascondevo
per incontrare la magìa, il mistero,il sogno. Ancora
oggi, i magazzini dei rigattieri, le botteghe di
vintage, i mercatini dell’usato, continuano a
chiamarmi, complici. Fuori dalle vie principali, tra
i vicoli della Roma più nascosta e segreta. La
magìa!
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(ideogramma del coraggio)
IL CORAGGIO
DI TUTTI I GIORNI
dedicata a Rita ed Ilaria
…. Anche lei aveva salito il Calvario, che è una montagna scoscesa….. E
non sentiva neanche i suoi piedi che la portavano… Non sentiva le
gambe sotto di sè….. anche lei aveva salito il suo calvario….. anche lei
era salita, salita…….quello che è strano è che tutti la rispettavano. La
gente rispetta molto i genitori dei condannati. Dicevano addirittura “
la povera donna”..…e intanto picchiavano suo figlio…..
(Charles Peguy,
Rita ed io, siamo cresciute nello stesso
giardino della casa di nostra nonna, insieme
alle nostre sorelle ed alle nostre cugine.
Dodici bambine in tutto, che hanno
condiviso spazi e tempo, studiando nello stesso
Istituto di Suore e giocando nello stesso cortile.
Rita ed io eravamo le più grandicelle , le prime
ad uscire insieme con i rispettivi fidanzatini,
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nell’età dell’innocenza e della fiducia nella
futuro.
Da due anni, le giornate di Rita, sono
scandite da incontri sulla violenza nella carceri
ed udienze presso aule di tribunale: giovedì 9
febbraio, giovedì 16, sabato 18, giovedì 23,
martedì 28, mercoledì 7 marzo…. e lei, insieme
a sua figlia Ilaria ed a suo marito Gianni è
sempre lì in aula, tenace, paziente, fiduciosa
nella capacità di scovare verità e nel fatto che
giustizia sarà applicata.
Ho chiesto a Rita dove ha saputo trovare
il coraggio che la sostiene e lei mi ha risposto:
“l’ho trovato nello sguardo fiero ed implacabile
di mia figlia, Ilaria. Ho colto lo sguardo di lei
ormai donna e non più solo figlia, quando il
dolore atroce quello che ti lascia incredula e
devastata, ha bussato alla porta della mia casa
portando, nel modo peggiore, una notifica di
nomina
per svolgere “accertamenti urgenti
non ripetibili” sulla salma di Stefano. Parole
burocratiche, dietro alle quali si celava un
significato tremendo: Stefano era morto ed era
necessaria una autopsia.
In quelle terribili giornate io non volevo
più mangiare
né bere, perché volevo solo
morire. E’ stato allora che Ilaria mi ha preso
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per le spalle, fissandomi negli occhi e
dicendomi: - Mamma devi reagire, devi farlo
per Valerio e Giulia, i miei bambini hanno
bisogno della loro nonna! Devi reagire e
combattere perché a nessun altro ragazzo
debba succedere quello che è successo a Stefano.
E’ stato così che mia figlia Ilaria e diventata
madre di sua madre ed è stato così che ho
potuto rendere pubblico un devastante dolore
privato.
E’ stato così che ho compreso come non fossero
le Istituzioni carcerarie colpevoli di quanto era
successo a Stefano, ma solo quella manciata di
persone che hanno tradito sia la loro stessa
umanità che il compito loro assegnato dalla
collettività.
E’ stato così che insieme ad Ilaria ed al padre di
Stefano, abbiamo potuto trovare le parole ed i
comportamenti più dignitosi; non odiando
nessuno, ma provando solo profonda pietà per
quelle
persone. Quella pietà che avremmo
voluto avessero provato anche loro
nei
confronti di Stefano, inerme e fragile,
abbandonato proprio da chi doveva prendersi
cura di lui”
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Ilaria, per diventare la madre di sua
madre, ha dovuto affrontare traumi per il
quali non era pronta e che ha raccontato nel
suo libro dedicato al fratello. In quelle pagine
racconta il giorno in cui è riuscita ad ottenere
il permesso di poter vedere Stefano, dopo un
lungo lottare contro burocrazia e burocrati,
all’interno dell’obitorio dell’ospedale Pertini di
Roma. Ilaria non ha avuto subito il coraggio
per entrare, mentre i genitori sì, sono entrati
subito.
E sono state proprio le loro urla
strazianti di orrore e incredulità che l’hanno
spinta a varcare quella soglia.
Nel suo libro “volevo dirti che non eri solo”
Ilaria ha ricordato così quei terribili momenti:
“… Gridavano frasi difficilmente comprensibili,
sentivo mio padre ripetere : “Oddio, Oddio!”, e
mia madre che tra i singhiozzi chiedeva a
ripetizione “Che cosa gli hanno fatto?, Cosa gli
hanno fatto?” Ho afferrato quel po’ di coraggio
che ancora mi sorreggeva ed ho varcato la
porta. Stefano era disteso su una barella,
protetto da una teca di vetro, ma se non avessi
saputo che era lui difficilmente l’avrei
riconosciuto. Uno spettacolo tremendo. Aveva
il volto scuro e nero, quasi che fosse bruciato, e
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incavato fino alle ossa. Poco più di un teschio.
Aveva una macchia sotto lo zigomo destro, mai
vista prima, la mandibola storta, un bozzo
enorme sotto il sopracciglio sinistro; e poi gli
occhi sembravano usciti dall’orbita, il destro
pesto e incassato verso l’interno”.
E da quel momento comincia il calvario
per ottenere giustizia fatto di domande che
attendono ancora una completa risposta. Quali
sono state le circostanze che hanno portato
Stefano
alla morte?
Perché quella morte
assurda avvenuta quando era affidato nelle
mani dello Stato, quello stesso Stato in cui
ancora Rita, Ilaria, e Gianni vogliono credere?
Perché
burocrazia e menzogne hanno
frapposto decine di ostacoli tra Stefano ed i
suoi familiari quando, quest’ultimi, chiedevano
notizie sulla sua salute? Perché quel diniego di
concedere a Stefano un colloquio con il suo
avvocato
Abbraccio mia cugina e, nel suo sguardo,
vedo la stessa fierezza implacabile che anima
lo sguardo di Ilaria. E’ stata lei, quindi, che ha
saputo trasmettere a sua figlia insieme al latte
con cui l’ha nutrita, il coraggio vero. Non
quello dell’atto eclatante che rende imperiture
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le gesta degli eroi, ma il coraggio da ricercare
dentro se stessi ogni giorno, senza mai sapere se
lo troverai e se ti sosterrà ancora una volta. Ed
ogni volta che sia necessario, devi nutrire e
credere in quel coraggio, perché sai benissimo
che, senza quella forza, poco potresti fare per
te e per gli altri.
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ANASTASIA
Dedicata alla mia amica Gabriella ed alla sua gatta
La loro amicizia era seria e silenziosa come tutti i grandi sentimenti
destinati a durare una vita intera. E come tutti i grandi sentimenti,
anche questo conteneva una certa dose di pudore e di senso di colpa.
Non ci si può appropriare impunemente di un essere,sottraendolo agli
altri” (Le braci, Sàndor Màrai)
Qualcosa di inconsueto era nell’aria. Annusò
ancora una volta l’umidità del mattino.
La primavera portava con se l’odore dei fiori del
muschio. Ma c’era qualcosa in più a turbare
l’Anastasia; un richiamo prepotente di vita, di
morte.
L’Anastasia! Quel nome era stato scelto da Ennio, il
capofamiglia. Il nome dell’ultima dei Romanoff, la
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sopravvissuta all’eccidio. Come per lei il caso e mani
pietose avevano ridefinito un destino già disegnato.
Erano state Paola e Carla a convertire la strada di
sicura morte nel sentiero di una possibile vita.
La gatta giaceva sull’asfalto della via Setta, nel
punto in cui si vede il ponte sul fiume, orribilmente
schiacciata dalle ruote di un auto. Il ventre
squarciato. I piccoli non ancora nati, sembravano
immobili, chiusi alla vita.
La speranzosità ebbe il sopravvento.
Si avvicinarono, guardarono attentamente e ..........
sì, un batuffolino si muoveva debolmente, minuscolo
ma vivo, deciso a resistere ancora. Poi fu tutta una
frenetica scommessa. Una scatola di cartone calda
ed ovattata, una sveglia che imitasse il cuore della
mamma, il latte con il contagocce e le carezze
leggere sul pancino, quasi come una lingua
materna.
La Gabriella osservava con trepidazione la
scommessa di questa piccola vita. Lei, madre di
cinque figlie, maestrina e tata di altri 20 presso
l’asilo comunale.
Visse e crebbe l’Anastasia. Occhi grandi ed ipnotici,
felina ed elegante. Un carattere selvaggio e
stranito. Crebbe, amata da tutta la famiglia,
contesa e rispettata. Ma la gatta aveva scelto una
interlocutrice privilegiata: la Gabriella. Due
femmine, due madri, con un legame ancestrale
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tanto misterioso quanto intenso. Depositarie, l’una
verso l’altra, di segretezze fatte di sguardi,
linguaggi, racconti e profonde affettività, che solo
loro due sapevano comprendere.
Crebbe l’Anastasia; sfuggente, forastica e
bella, bellissima. Nessuno in casa osava dominarla.
Rubava la poltrona all’Ennio, il marito di Gabriella,
svicolava elegantemente tra gli altri animali
presenti in casa: la cagna Ulla, il porcellino d’india,
gli altri gatti. Chiunque entrasse in casa Pieri, era
oggetto della valutazione attenta del suo sguardo
inquieto ed indagatore.
Quella mattina, dormivano tutti. E quel richiamo
nell’aria era sempre più acuto. No, non era solo il
richiamo amoroso.
Conosceva il richiamo dell’amore, l’aveva già
seguito ed aveva già figliato altre volte.
No, non era solo quello. Avanzò cauta. Il cancello
sulla via Setta era leggermente aperto. Aspettava
di essere superato.
Passò oltre, seguendo quell’odore, attenta, prudente,
curiosa come sempre. Fu nello stesso punto della
curva. Dove si vede il ponte sul fiume. Nello stesso
esatto punto dove aveva incontrato la vita che
venne travolta ed uccisa.
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