Articolo completo - Dionysus ex Machina
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Articolo completo - Dionysus ex Machina
Caterina Barone Le Nuvole di Aristofane* Luci accese, sipario aperto. Un attore vestito di nero con ai piedi ingombranti scarpe da clown appare in proscenio. «E one, e two, e one, two, three, four» esclama; chiude le mani, si fa buio in sala. L’attesa degli spettatori è concentrata verso il palcoscenico da dove proviene un rumoroso ronfare, ma improvvisamente un occhio di bue fa luce in platea e illumina Strepsiade che si aggira nervosamente tra il pubblico raccontando i suoi crucci: non riesce a dormire pressato com’è dai debiti contratti per assecondare la costosa e irresponsabile passione del figlio, Fidippide, – è lui che russa beatamente – per i cavalli. Un tipo davvero strano, questo ragazzo: una marionetta, nuda e con il sesso ben in vista, manovrata dallo stesso attore che da lì a poco interpreterà Socrate. Ha una voce petulante e stridula e si mostra disobbediente e svogliato: come un bambino capriccioso si rifiuta, tra gli insulti, di assecondare la richiesta del padre e di frequentare il Pensificio, la mirabolante scuola dove, a pagamento, si insegna «a parlare e a vincere, colla ragione o col torto». È questo, infatti, l’espediente che Strepsiade ha escogitato per sottrarsi ai debitori: basterà che il figlio impari l’arte della retorica e il gioco è fatto. Al rifiuto di Fidippide, il vecchio contadino decide di andare a scuola lui stesso. Il thyrion kai oikidion del testo greco è qui rappresentato come un teatrino di piccole dimensioni, chiuso da un sipario rosso. Attraverso quella minuscola apertura metateatrale gli attori entrano ed escono dalla sede dei “sapienti spiriti”. Siamo al v. 125 e già la linea dello spettacolo è chiara, dettata innanzi tutto dalla traduzione della giovane drammaturga Letizia Russo, che segue la sostanza e lo spirito del testo – pur sfoltendolo in alcune sue parti, come si percepirà con evidenza nel prosieguo dello spettacolo – ma lo veicola attraverso l’uso di un linguaggio moderno, sia nella costruzione sintattica, sia nella scelta di un lessico attuale e graffiante. Anche il termine “Pensificio”, scelto in sostituzione del più usato “Pensatoio”, marca la fisionomia spiccatamente commerciale della scuola dei Sofisti, in linea con l’obiettivo dominante dei nostri giorni: la produttività e l’utile personale; e di fatto il “Pensificio”, nell’ottica di Aristofane, è una fabbrica di pensieri strumentali e perversi. Sul turpiloquio sfrontato e triviale del commediografo greco la traduttrice calca a tratti la mano per meglio caratterizzare personaggi e situazioni, indicando un personale percorso interpretativo. Così Fidippide prende a male parole il padre: “Ti credi che me ne frega qualcosa, di te? … Vecchio, rimbambito rincoglionito”, dopo averlo costretto a * Le Nuvole di Aristofane, traduzione: Letizia Russo, regia: Antonio Latella, produzione: Teatro Stabile dell’Umbria. Interpreti: Marco Cacciola, Annibale Pavone, Maurizio Rippa, Massimiliano Speziani, scene e costumi: Annelisa Zaccheria, suono e musiche: Franco Visioli, ideazione luci: Giorgio Cervesi Ripa. Dionysus ex machina I (2010) 1-6 1 Le Nuvole di Aristofane Caterina Barone supplicarlo in ginocchio: un gesto che la Russo ricava dalla semantica del verbo greco antiboleo. STREPSIADE Sch! Sch! Zitto! Non dire bestemmie. Se però un po’ ti importa del pane di babbo tuo Fammi il favore di diventare uno di loro, e lascia perdere i cavalli. FIDIPPIDE Per Dioniso, manco se mi regali i fagiani di Leogora. STREPSIADE Te lo chiedo in ginocchio FIDIPPIDE Inginocchiati. STREPSIADE Tu che sei l’unica persona al mondo che è davvero importante per me, vai da loro, impara. La figura del figlio assume, dunque, già in questa prima parte, contorni più marcati rispetto all’originale, dove col suo atteggiamento da ragazzo viziato e superficiale assolve il ruolo di innescare le peripezie comiche della commedia, costringendo il padre a “studiare” al suo posto; qui, il comportamento aggressivo del ragazzo proietta con funzione prodromica la vicenda verso il suo sviluppo futuro, quando, compiuto il proprio iter cognitivo al Pensificio, Fidippide arriverà al punto di percuotere il padre e di minacciare lo stesso trattamento nei confronti della madre, dimostrando con stringente dialettica la legittimità di quell’ignobile gesto. Un percorso di “crescita”, il suo, reso evidente dalla metamorfosi compiuta dalla marionetta attraverso la mutazione genetica che in ultimo lo trasforma in un uomo. Dopo il fallito apprendistato del padre, quando toccherà a lui stesso sottoporsi al training retorico dei Sofisti, Fidippide sarà trascinato a corpo morto dentro la scuola. Ne uscirà con le sembianze di Socrate: l’identificazione è compiuta. Torniamo alla trama. Dopo il rifiuto del figlio, Strepsiade si presenta al Pensificio e ha un primo, spiazzante confronto con uno dei discepoli di Socrate; un impatto che marca subito la differenza tra i due mondi: quello rustico e semplice del contadino e quello pseudo raffinato e mistificante degli “intellettuali”, tanto più contrastanti tra loro quanto più il personaggio di Strepsiade non è ridotto a una comica macchietta, ma è ritratto come un individuo lucido e consapevole nell’attuare la sua perversa strategia. Il discepolo è bizzarro: ostenta movenze effeminate, parla con l’erre moscia e con consumata abilità dialettica spaccia per acute sottigliezze intellettuali le attività astruse e le elucubrazioni che si partoriscono nel Pensificio, come lo stabilire la lunghezza del salto della pulce o se la zanzara fa il verso dalla bocca oppure dal didietro. Dionysus ex machina I (2010) 1-6 2 Le Nuvole di Aristofane Caterina Barone E oltremodo bizzarro è lo stesso Socrate che appare sul tetto del teatrino, moderna mechané, munito di due palloncini gialli che agita come segnali aeroportuali, gridando ripetutamente «follow me, follow me». A tratti indossa la maschera tipica della commedia antica, grottesca, con la bocca dilatata, ma il colore giallo elettrico che la connota annulla ogni sospetto di archeologia teatrale. Latella vuole così evidenziare la funzione del filosofo nelle Nuvole, visto non come il saggio maestro di etica che noi conosciamo attraverso Platone, ma disegnato appunto come una maschera, che incarna le nuove idee sofistiche, scandalose e destabilizzanti. Mentre il discepolo, posizionatosi a quattro zampe, funge da lettino su cui deve sedersi il malcapitato Strepsiade, comincia tra lanci di coriandoli, aggressioni fisiche e verbali, e discorsi capziosi l’iniziazione del rozzo contadino ateniese, fino all’invocazione alle Nuvole, le nuove divinità oggetto di culto da parte dei Sofisti, perché appaiano. E l’apparizione non manca di stupire: non c’è un coro di figure “femminili”, come prevede il testo, ma un’unica corifea, o meglio, un uomo en travesti, pingue, fasciato da una calzamaglia nera con tutù paiettato in vita, testa rasata, sorriso accattivante, mentre con voce da contraltista intona “Mon truc en plumes”, un brano reso famoso dalla soubrette Zizi Jeanmaire negli anni Sessanta, interpretato secondo i canoni del varietà in un ironico pass de deux con coreografico ventaglio bianco di piume di struzzo. È un momento di brillante e movimentata allegria, al quale segue antifrasticamente la lettura della parabasi da parte di un attore nell’immobilità totale degli interpreti così da conferire rilievo alle parole di bruciante denuncia di Aristofane che la traduzione di Letizia Russo attualizza senza forzature: Prendiamo Cleone ancora, per esempio. Non è difficile. Prenderlo con le mani nel sacco, la tangente in mano, mettergli il collo dentro la gogna. Tutto sarà come prima. Da un errore una scelta giusta verrà fatta e tutta la Grecia ne beneficerà. (vv. 590-94) Si innesca a questo punto un processo di semantizzazione visiva del sostrato cupo e pessimistico della commedia: calano lentamente dall’alto e rimangono sospese a mezz’aria, come inquietanti nubi, decine di scheletri a segnare una frattura rispetto alla giocosità dei momenti precedenti, tanto che gli attori si svestono delle loro scarpe da clown. Sono figure in posizioni plastiche che suggeriscono immagini diverse – Cristo, Budda, le tre Grazie, tre scimmiette, un amplesso, un giro di danza – ma che, come spiega il regista, hanno un carattere soggettivo e non univoco: possono forse rappresentare l’atto finale di un processo evolutivo che porta infine all’autodistruzione, allo svuotamento di senso di ogni nostro pensiero, credenza o azione. E rimangono lì, muti testimoni di un disagio esistenziale insanabile. Dionysus ex machina I (2010) 1-6 3 Le Nuvole di Aristofane Caterina Barone Lo spettacolo si tinge, dunque, di un pessimismo che persiste fino al termine della commedia, sebbene il confronto tra il Discorso Peggiore e il Discorso Migliore ritrovi i ritmi brillanti della prima parte, con gli attori che si affrontano nel duello verbale indossando un naso da clown. Qui il regista si rifà ai meccanismi comunicativi del piccolo schermo riproducendo gli stilemi dei talk-show televisivi con garrula presentatrice (ancora la corifea en travesti) munita di cartellina e microfono, sigla di “Porta a porta”, canzoni famose; ma sorprendentemente, soprattutto per chi conosce il testo attraverso gli studi classici, il Discorso Giusto, che esalta la positività dei valori tradizionali, la pudicizia, il vigore, il rispetto degli anziani, viene declamato con mimica e intonazioni mussoliniane, come a dire che anche le parole sagge possono essere travisate a seconda dell’intento che le innerva e possono perciò essere svuotate del loro senso originario. Di contro il Discorso Ingiusto è pacato e suadente; predica l’utilità della corruzione, del vizio, del compromesso, andando in mezzo al pubblico e sollecitandone risposte e reazioni; cerca di accattivarselo, ma anche di metterne a nudo gli istinti più bassi ammantandoli di positività, fino alle battute finali che collocano tutti, avvocati, poeti tragici, uomini politici, nel variegato calderone dei “rottinculo”, termine certo scandalizzante – come ha sottolineato certa critica poco informata – per chi non conosce gli euruproktoi del testo greco. È questo uno dei momenti migliori dello spettacolo nel quale si fa tangibile il crollo delle barriere concettuali tra antico e moderno, mentre l’iterato espediente di portare gli attori in platea crea un’interazione con il pubblico, sia spaziale attraverso la prossimità fisica, sia verbale con l’apostrofe diretta agli spettatori, chiamati provocatoriamente in causa con un’operazione maieutica di socratica memoria. Completata l’educazione del giovane Fidippide, in ultimo assimilato a Socrate, lo spettacolo si avvia verso il finale su cui il regista è intervenuto in maniera più incisiva rispetto all’originale con tagli e aggiunte. È stata, infatti, eliminata la discussione tra padre e figlio riguardo al poeta migliore, se cioè sia preferibile il tradizionalista gnomico Simonide, come sostiene Strepsiade, o l’innovatore Euripide, spirito critico e dissacratore, idolatrato da Fidippide: una questione letteraria incomprensibile alla maggior parte del pubblico contemporaneo che non può cogliere il valore politicoculturale dello scontro in atto tra vecchie e nuove generazioni, tra progressisti e conservatori, nel quale è di fatto sintetizzata la posizione di Aristofane nel contesto della società del tempo. Una decurtazione la subisce anche la scena dell’incendio che, aggiunta da Aristofane in vista di una replica della commedia dopo il fiasco del 423 a.C., non fu in realtà mai rappresentata. Nello spettacolo le battute vengono “dette” da un attore in forma di copione premettendo il nome del personaggio che parla: si rinuncia in tal modo al vitalismo vendicativo di Strepsiade che in qualità di eroe comico rovescia la situazione di partenza e può indurre a una sorta di ottimismo sulla possibilità di invertire Dionysus ex machina I (2010) 1-6 4 Le Nuvole di Aristofane Caterina Barone una nefasta tendenza della società. La lettura di Latella volge invece verso un radicale pessimismo. L’atonia della voce e l’immobilismo dell’interprete in scena creano un’atmosfera di sospensione nella quale irrompono con contrastivo dinamismo tre gorilla – uno porta indosso la fascia da sindaco – che in maniera scomposta, mentre gli scheletri sospesi scompaiono verso l’alto, percorrono freneticamente il palcoscenico sulla musica rock degli Oasis: un richiamo forse troppo didascalico e scoperto all’immagine iniziale di “2001: odissea nello spazio” di Stanley Kubrick e tuttavia efficace per rendere l’idea di un regresso allo stato primordiale dell’uomo ridotto a puro istinto. È la canzone-denuncia di Battiato Povera Patria, intonata dalla corifea con voce sommessa, a chiudere lo spettacolo con una connotazione riflessiva e malinconica, macroscopicamente giustapposta al testo greco: Povera patria schiacciata dagli abusi del potere / di gente infame che non sa cos’è il pudore / si credono potenti e gli va bene / quello che fanno e tutto gli appartiene/ tra i governanti quanti patetici e inutili buffoni / questo paese devastato dal dolore / ma non vi danno un po’ di dispiacere / quei corpi in terra senza più calore / non cambierà! non cambierà! forse cambierà! / ma come scusare le iene sugli stadi e quelle sui giornali / nel fango affonda lo stivale dei maiali / me ne vergogno un poco e mi fa male / vedere un uomo come un animale / non cambierà! non cambierà! sì che cambierà! vedrai che cambierà / si può sperare che il mondo torni a quote più normali / che possa contemplare il cielo e i fiori / che non si parli più di dittature / se avremo ancora un po’ da vivere / la primavera intanto tarda ad arrivare. Un allestimento, questo di Latella, affidato a quattro soli attori giocolieri e mutanti, e basato non sul recupero archeologico, ma su un’equivalenza, dove l’atmosfera irridente e “carnevalesca”, ma tagliente, della commedia antica trova una compiuta espressione nella chiave clownesca: nasi posticci, grandi scarpe, palloncini, coriandoli, un teatro da burattini per il Pensificio concorrono a una sintesi ardita in cui si mescolano teatro lirico e pantomima, musical e burlesque. L’estenuante diatriba tra conservatorismo e innovazione, fedeltà e tradimento, rispetto del senso originario dell’opera teatrale e attualizzazione, gli estremi all’interno dei quali oscilla ogni rappresentazione di testi teatrali antichi, sta alla base di una partita che spesso si gioca sulla lama sottile di un equilibrio precario. L’allestimento di Latella traccia una via personalissima che mantenendo nella sostanza le questioni politiche, etiche e sociali presenti nella commedia, lascia al pubblico la possibilità di elaborare una propria interpretazione, individuando nel testo personali equivalenze con l’attualità. La prostituzione del logos al servizio dell’ingiustizia e della corruzione è materia quotidiana nell’esperienza del pubblico e le sovrapposizioni col presente non Dionysus ex machina I (2010) 1-6 5 Le Nuvole di Aristofane Caterina Barone necessitano di essere esplicitate con l’indicazione scoperta dei protagonisti dei nostri giorni; è artisticamente sbagliato costringere nelle pastoie del contingente un testo del V secolo a.C.: l’onomasti komodein della commedia aristofanesca non può essere riprodotto con una meccanica sostituzione di nomi, e bene hanno fatto Letizia Russo e il regista a non percorrere questa strada. Un esempio negativo a questo proposito ci viene dalla storia recente del teatro italiano e riguarda la polemica intercorsa tra Luca Ronconi e Gianfranco Miccichè in occasione della messa in scena delle Rane di Aristofane al Teatro Greco di Siracusa nella primavera del 2002. I tre grandi pannelli che rappresentavano le caricature di Berlusconi, Bossi e Fini, posizionati a fare da sfondo alla scenografia, furono ritirati dal regista a seguito delle pressioni esercitate dagli uomini dell’establishment dell’allora Forza Italia. Un episodio dal quale non ne uscirono bene né il regista, che avrebbe dovuto tener ferma la sua scelta “artistica”, se la riteneva necessaria e importante per l’interpretazione della commedia, né i politici che esercitarono un’indebita censura. Dionysus ex machina I (2010) 1-6 6