Giornalisti o Patrioti

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Giornalisti o Patrioti
Carla Vitantonio, mat. 429280/sc
Giornalisti o Patrioti
Tesina svolta durante il corso di Teorie e Tecniche del Linguaggio Giornalistico
Prof. Fiengo
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Introduzione
Durante la guerra in Afghanistan, in particolare nelle prime settimane del conflitto, nelle pagine di
moltissime testate – sia americane che europee – è apparso in maniera ricorrente il tema
dell’autocensura della stampa e, più in generale, dei mezzi di comunicazione di massa.
In questo lavoro mi propongo di svolgere una breve analisi dello sviluppo del dibattito sull’autocensura,
così come esso si è svolto in Italia.
Ho ritenuto inoltre che, per inquadrare in maniera più puntuale la situazione, fosse utile accennare allo
svilupparsi della medesima questione negli Stati Uniti d’America. Ho tralasciato invece, in linea di
massima, fonti provenienti da altri paesi, per non rendere il campo di analisi troppo ampio.
Ho fatto riferimento essenzialmente ad articoli pubblicati su carta stampata ma, in alcuni casi,
soprattutto per ciò che concerne la situazione americana, ho sfruttato documenti on-line.
Gli strumenti teorici ai quali farò riferimento saranno sostanzialmente quelli forniti da Alberto Cavallari
ne “La fabbrica del presente” e da Pierre Bourdieu in saggi come “Sulla televisione” e “Ragioni
pratiche”. Se è vero che essi sono stati formulati in contesti differenti e con scopi ben diversi (il
sociologo francese cercava un nuovo modo di classificazione dell’intera società, mentre lo studioso
italiano proponeva uno schema di riferimento strettamente attinente al giornalismo) è anche vero che
entrambi intendono il mondo dei mezzi di comunicazione di massa come un luogo dove i prodotti finali
non nascono da un percorso lineare e coerente ma dal risultato di continui scontri, squilibri e tensioni di
fattori spesso contrastanti.
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Teorie
Nella parte quarta del libro “La fabbrica del presente” Alberto Cavallari propone di considerare ogni
giornale come “un campo di forze organizzate gerarchicamente in una struttura”. Per giustificare questa
immagine ricavata dalla fisica, Cavallari aggiunge che solo essa, a suo parere, “può rispecchiare
un’industria culturale che mutazioni economiche e tecniche hanno profondamente cambiato, e una realtà
difficilmente descrivibile in altro modo. Dovremmo anzi prendere dalla fisica un’immagine ancora più
precisa e parlare di campo vettore. Perché nella struttura gerarchica forze e tensioni d’intensità ineguali,
scontri e incontri che non avvengono mai solo nello stesso punto, e che producono tensioni e torsioni,
finiscono sempre con l’assumere una direzione.”
Il giornale sarebbe dunque il prodotto di un equilibrio, in perpetua modificazione, di almeno una ventina
di forze che agiscono continuamente all’interno di esso: la forza editore, la forza prodotto, la forza
ideologia, la forza pubblicità, la forza merceologica soggiacente, la forza politica riflessa, la forza
direzione, la forza redazione, la forza professionalità, la forza sindacato, la forza dei tecnici, la forza del
gruppo sociale, la forza censura, la forza tipografia, la forza dei mezzi di produzione, la forza
tecnologica, la forza dimensione, la forza mercato, la forza identità, la forza dell’egemonia.
Questo lungo elenco lascia capire come, a seconda della prevalenza di una forza sull’altra, il prodottogiornale sia differente, e come inoltre nel tempo, col mutare dei rapporti gerarchici delle diverse forze,
lo stesso giornale possa subire dei consistenti cambiamenti.
Cavallari prosegue nell’esposizione della sua teoria osservando come, generalmente, queste forze si
organizzino in due strutture fondamentali – la struttura redazionale e quella editoriale – portatrici l’una
dei valori ideologici e l’altra di quelli mercantili, che in un gioco di continui contrasti trovano provvisori
equilibri. L’elenco stesso delle forze mostra come, mentre alcune di esse sono direttamente riconducibili
al giornale e alla sua organizzazione interna (la forza direzione, la forza redazione, etc…) altre siano
strettamente collegate a contesti differenti (il mercato, la politica…) e ne subiscano a volte le variazioni.
Lo stesso termine, campo, e con significati secondo me simili, viene utilizzato dal sociologo Pierre
Bourdieu nel tentativo di sostituire alla classificazione della società secondo classi quella della stessa
secondo spazi sociali. Ogni spazio sociale sarebbe un campo, “campo di forze che si impone con le sue
necessità agli agenti che vi operano, e insieme campo di lotte al cui interno gli agenti si affrontano, con
mezzi e forze differenziati a seconda della loro posizione nella struttura del campo di forze.” In ogni
spazio sociale “ci sono dei dominanti e dei dominati, ci sono rapporti permanenti di disuguaglianza che
si esercitano all’interno di questo spazio che è anche un campo di lotte.” Non è solo il giornalismo,
dunque, che viene inteso come campo, ma qualsiasi spazio sociale, con le sue peculiarità.
Nella descrizione dei diversi spazi sociali Bourdieu si sofferma in maniera particolare sul campo del
potere, definendolo come “lo spazio dei rapporti di forza tra le diverse specie di capitale o, più
esattamente, fra agenti abbastanza provvisti di una delle diverse specie di capitale da essere in grado di
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dominare il campo corrispondente, agenti le cui lotte si intensificano ogni volta che è messo in
discussione
il valore relativo delle diverse specie di capitale (per esempio il ‘tasso di cambio’ tra
capitale culturale e capitale economico)”.
La definizione del campo del potere permette l’interpretazione, fra gli altri, di tutti quei fenomeni di
interferenza tra campo economico e campo giornalistico e tra quest’ultimo e campo politico.
Ciò che da Cavallari viene risolto come una lotta che si svolge prevalentemente all’interno di una
testata, viene interpretato invece dal sociologo francese come una lotta tra diversi campi per la
prevalenza dell’uno, piuttosto che dell’altro, nel campo del potere. Appare chiaro comunque come
entrambi gli studiosi considerino l’informazione come il prodotto di lotte, più o meno manifeste, di
agenti caratterizzati da obbiettivi e mezzi spesso contrastanti.
Sulla base della teoria dei campi di Pierre Bourdieu sono già state svolte alcune analisi su vari dei casi
giornalistici più eclatanti degli ultimi anni (uno per tutti: il caso Lewinsky durante la presidenza Clinton
negli Stati Uniti d’America) e, soprattutto, sono state esaminate le posizioni del campo giornalistico
rispetto a quello politico durante alcuni tra i maggiori conflitti della seconda metà del ventesimo secolo:
dalla seconda guerra mondiale alla guerra del Vietnam, a quella delle Falkland, fino alla guerra del
Golfo (cfr. Fabrizio Tonello, La nuova macchina dell’informazione, Feltrinelli).
Nell’analisi svolta da Tonello, per esempio, vengono distinte completamente le circostanze della
seconda guerra mondiale da quelle caratterizzanti tutti i conflitti successivi. Il fatto stesso che si trattasse
di una guerra totale, con il coinvolgimento della popolazione intera e di tutte le risorse della nazione
(l’analisi è svolta sulla stampa statunitense) giustificava una completa superiorità del campo politico su
quello giornalistico, tanto che parlare di autonomia di quest’ultimo durante il secondo conflitto
mondiale non ha alcun senso. “ Il dominio del campo politico su quello giornalistico si esercita in tempo
di guerra con una combinazione di intimidazione, spesso brutale, e di adulazione. Da un lato si può
citare il caso di quel censore dell’esercito americano che, durante la seconda guerra mondiale, spiegò ai
suoi collaboratori quale fosse il principio di funzionamento dell’ufficio: ‘Se fosse per me, io non direi
nulla alla gente fino a che la guerra non è finita, e poi gli direi chi ha vinto.’ Dall’altro, il generale
Eisenhower che affermò di considerare i corrispondenti ‘quasi come ufficiali dello staff’, venendo
ricambiato dai giornalisti con cronache alla sua gloria”.
Diversissimo il caso dei conflitti successivi. Nella sua dettagliata analisi sui motivi dell’ostilità della
popolazione americana alla guerra in Vietnam (analisi che non riporto perché non strettamente attinente
al tema che sto trattando in questa sede) Tonello afferma che la mobilitazione del potere politicosimbolico fu volutamente parziale; “l’idea che si trattasse di una guerra ‘limitata’ impediva di ricorrere a
una censura drastica e brutale come quella della seconda guerra mondiale (…) in Vietnam, una guerra
non dichiarata che si voleva condurre senza preoccupare troppo gli americani, non era possibile
sopprimere tutte le notizie negative e crearne altrettante positive.”
Di questa esperienza il campo politico parve giovarsi in alcuni conflitti ancora successivi, e non solo
negli Stati Uniti d’America: durante la guerra delle Falkland “la stampa fu costretta ad allinearsi e i
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giornalisti che avevano dubbi li seppellirono prontamente al primo attacco di aerei argentini contro le
navi su cui viaggiavano.”
Ancora più emblematica la guerra del Golfo, quando i militari inaugurarono la prassi che i giornalisti
fossero “liberi di scrivere tutto ciò che viene detto loro di scrivere” (come dichiarato successivamente da
Peter Fisk di The Independent). Non solo alcuni inviati considerati poco corretti furono costretti a
tornare in patria, ma fu prodotta un’ingente quantità di materiali scritti e visivi per la stampa…
A determinare la maniera in cui uno stato di guerra viene affrontato dalla stampa sarebbe dunque il
dominio simbolico. Dalla guerra delle Falkland in poi esso fu saldamente in mano al campo politico.
Ho riportato cenni a questa analisi perché mi sembra che grazie a questa, e agli strumenti teorici di cui
ho detto sopra, si possa comprendere meglio il fenomeno dell’autocensura giornalistica durante la
guerra in Afghanistan. Pur essendo questo un conflitto molto simile, per mezzi e strategie militari
adottati, ala guerra del Golfo, mi è parso che le condizioni in cui esso sia scoppiato, le motivazioni, la
posizione dell’opinione pubblica, lo rendessero in parte simile alla così detta ‘guerra totale’, come lo fu
la seconda guerra mondiale, e in parte un conflitto caratterizzato da tratti completamente nuovi.
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La situazione negli Stati Uniti d’America
Il tre ottobre, pochi giorni prima dell’attacco americano in Afghanistan, compariva su MSNBC.com un
articolo di Dan Fisher che esordiva con un’affermazione capace di inquadrare perfettamente la
questione: “Most of the criticism deals with the publication of information that the writers see as
compromising the U. S. interests – information about military deployment and intelligence gathering,
analysis of possible strategy and tactics, or reporting on what may be continuing U. S. vulnerability to
attack. But some of it also questions whether, in a desire to avoid appearing unpatriotic, the media is
falling in its constitutional role as a voice independent – and to some extent, skeptical – of government.”
Dunque già prima dello scoppiare del conflitto vero e proprio, forti incertezze sul ruolo dei mezzi di
comunicazione di massa erano sentite non solo dai giornalisti, ma da molta parte della popolazione
(l’articolo a cui mi riferisco è infatti una risposta a molte e-mail di lettori arrivate a MSNBC.com).
Questi dubbi erano sì in parte derivati da una genuina riflessione della stampa sul proprio ruolo, ma
scaturivano fondamentalmente da alcune raccomandazioni della stessa Casa Bianca : “White House
press secretary Ari Fleischer contacted major media outlets and urged them not to report on the advance
itineraries of the president and vice president”. A consigli arrivati dal campo politico si univano
riflessioni dei maggiori esponenti di NBC e di MSNBC, che invitavano tutti i giornalisti a una estrema
prudenza nel diffondere qualsiasi notizia potesse in qualche modo alterare lo svolgersi integro dei
processi che avrebbero di lì a poco portato alla guerra, o mettere in pericolo la sicurezza dei massimi
vertici politici. Robert Aglow, executive producer for news alla MSNBC, affermava che, se
normalmente per pubblicare una notizia era sufficiente che questa fosse interessante, in una situazione
singolare come quella immediatamente successiva all’abbattimento delle torri gemelle erano invece
necessarie molte precauzioni supplementari.
Così, mentre qualcuno faceva esplicito riferimento alla situazione della stampa durante la seconda
guerra mondiale, Erik Sorenson, president and general manager of MSNBC Cable, affermava: “There
really isn’t any historical precedent for this. We’re all going to be making up the rules as we go, and I
don’t think we’ll be perfect at it. We’ll try not to, but I suspect we’ll do some things we’ll regret later” e
concludeva con una domanda: “Are we on the side of an American victory or on the side of the truth?”.
Nello stesso articolo Fisher accennava a un altro tema, che pure mi pare di una importanza
fondamentale: in una situazione tanto delicata c’è necessità della coesione completa della popolazione,
dell’adesione di essa alle scelte politiche e militari, e i mezzi di comunicazione di massa dovrebbero
fortemente contribuire a tale coesione. Anche in questo contesto dovrebbe dunque inserirsi la questione
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dell’autocensura, o meglio, dell’autoregolazione dei giornalisti, nella scelta e nella presentazione delle
notizie.
Il dibattito è proseguito sulle diverse testate e si è notevolmente intensificato dopo l’esplosione della
guerra, anche a causa della mancanza di immagini alle quali la CNN aveva abituato l’America.
Il sedici ottobre il Financial Times usciva con un articolo intitolato The whole truth, nel quale si legge
“Journalists have a duty to their audience and readers to show both sides of an argument. Of course,
they should signal when the ‘facts’ they report cannot be independently corroborated. But they do not
need to do so by Governments.” Ovvero non hanno bisogno delle richieste di autocensura avanzate dai
governi Britannico e Statunitense. Questa posizione pare ispirarsi direttamente a quei principi di
indipendenza del campo giornalistico da quello politico che da sempre vengono avanzati dalla stampa
anglosassone (e non solo…) e a una deontologia professionale che dovrebbe ruotare attorno
all’autoregolazione del giornalista piuttosto che all’imposizione di norme dall’esterno (come già detto
nel precedente articolo, un giornalista dovrebbe domandarsi, prima di divulgare una notizia, quali
potrebbero essere le conseguenze della pubblicazione della stessa, specialmente – ma non solo – in una
situazione tanto delicata come quella di una guerra.)
Molto presto sono arrivate pure le critiche a un tale atteggiamento della stampa statunitense (fonte
freedomforum.org, tredici ottobre). Un servizio di Reporters sans Frontieres accusava i mezzi di
comunicazione di massa americani, in particolare le reti televisive, di aver perso la propria obbiettività:
“Observers cast doubt on the objectivity of the American press. (…) The media has taken on a strongly
patriotic tone…” Come esempio viene portata la copertura televisiva all’attacco al World Trade Center:
“the fate of the victims was relegated to second position and the networks devoted their airtime to
hailing their country’s ‘new heroes’: firefighters, police and military staff, politicians. And above all
reflecting an image of a united and defiant nation, ready to wage war on those who have attacked it.”
Quindi nessun dubbio riguardo al fatto che i media stessero contribuendo a creare unità, coesione nella
popolazione. Perplessità piuttosto per tutto ciò che invece, per favorire questo processo, veniva
puntualmente tralasciato.
Sempre su freedomforum. org, il ventidue ottobre, interveniva Paul McMasters, nel tentativo di rendere
più chiara quella serie di misure censorie e autocensorie che la stampa stava subendo. Nell’articolo si
legge: “No reasonable person would argue that the press should be told every Government secret or that
it should print or publish everything it knows. But the press has proven time and again that it can handle
news in time of crisis with restraint and responsibility:” Dunque ancora un riferimento a quella capacità
di regolare la divulgazione di informazioni che, secondo l’autore dell’articolo, la stampa avrebbe già
dimostrato di possedere. Ma McMasters avanzava anche un dubbio più profondo, e probabilmente
condiviso da molti addetti ai lavori: “Yet many are using the current crisis to impose restraints and deny
access for reasons having more to do with controlling information than with national security:”
Sicurezza della nazione o gratuito controllo dell’informazione da parte del campo politico?
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McMasters sembra quasi prendere posizione a favore della seconda pi otesi, dal momento che l’articolo
prosegue con un elenco dettagliato di tutte le restrizioni effettive ed eventuali che l’informazione stava
subendo, e citando una proposta di legge che avrebbe permesso alle autorità governative un controllo
straordinario non solo sui mezzi di comunicazione di massa, ma sulle comunicazioni dei privati
cittadini. A tutto ciò, continuava l’autore, si cominciava ad aggiungere l’autocensura di alcune testate
che mettevano a tacere i collaboratori non perfettamente allineati (del resto di pochi giorni dopo è la
notizie della sospensione della giornalista Carole Simpson da parte della ABC; la giornalista era
accusata di aver diffuso notizie false che avrebbero potuto inutilmente allarmare parte della
popolazione, ma anche di aver rivelato informazioni riservate.) Nell’articolo si legge: “Information is
not only a guarantor of our freedom, but also of our security.” In alcuni casi, pertanto, la mancanza di
informazione sarebbe addirittura più dannosa della sua presenza (“Paranoia, panic and poor policies are
the likely results…”)
Il testo termina con alcune importanti asserzioni sul ruolo della stampa proprio nei momenti più delicati
per una nazione: “It provides immediate information, accurate accounts and a podium from which
public officials can speak to America as well as the rest of the world. More important, the press helps a
nation engage in a conversation with itself, rebuilding the sense of community and dispelling rumor
with the fact (…) Being unaware of danger is not the same thing as being safe from danger”.
Ancora quindi un richiamo al ruolo che la stampa dovrebbe interpretare durante periodi di crisi,
ricostruire l’identità, la coesione della popolazione, ma non togliendo informazione, bensì fornendo
quella giusta…
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Censura e autocensura in Italia: breve inquadramento
Il dibattito sulla censura e sull’eventuale autocensura dei mezzi di comunicazione di massa si è esteso a
tutta l’Europa e, naturalmente, anche all’Italia.
Ci sono stati praticamente solo due casi di giornalisti (o meglio, direttori di telegiornali nazionali) che si
sono dichiarati disposti ad operare anche sulle notizie diffuse in Italia una certa censura, si tratta del
direttore del TG4 Emilio Fede e di quello del TG5 Enrico Mentana. Quest’ultimo diceva di essere
pronto a censurare l’informazione se le autorità competenti lo avessero esplicitamente richiesto, il primo
non specificava in maniera puntuale cosa avrebbe potuto far scattare la censura alle notizie divulgate dal
TG4.
Si tratta ad ogni modo di telegiornali trasmessi da due delle emittenti nazionali di proprietà dell’attuale
Presidente del Consiglio, per cui è probabile che queste affermazioni siano riconducibili all’intenzione
di mostrare l’appoggio di queste reti all’operato del Governo (che nei giorni in cui divampava il
dibattito non aveva ancora chiarito la propria posizione rispetto alla guerra che stava scoppiando).
Ad ogni modo, non mi sembra ci siano stati in Italia evidenti casi di censura, o di autocensura, sebbene
si siano verificate (come per l’edizione del Corriere della Sera dell’otto ottobre) situazioni in cui
l’impaginazione del giornale è stata modificata (nel caso citato addirittura dopo la stampa) per favorire
una gerarchizzazione delle notizie più adeguata a rispecchiare la posizione che la testata assumeva
rispetto agli eventi.
Ciò che andrò a riportare in queste pagine è pertanto piuttosto un dibattito che si è sviluppato in Italia a
seguito del comportamento dei mezzi di comunicazione di massa statunitensi, una serie di riflessioni,
quindi, nata dal disappunto, dall’incredulità, nonché spesso dalla discordanza tre le diverse informazioni
e le diverse versioni dei fatti che arrivavano nel nostro paese.
Senza dubbio è stato molto più facile per i giornalisti italiani esprimersi in merito, a causa della
lontananza dell’evento e anche delle sue conseguenze sulla stampa, ad ogni modo esse sono state
diverse, a volte discordanti all’interno della stessa testata, ma paiono avere in comune comunque
l’assunto di base che il campo giornalistico non debba sottostare a influenze esterne, in particolare
politiche.
In effetti era proprio il giornalismo di matrice anglosassone ad aver insegnato questo, mentre l’Italia
vantava una forte tradizione di testate apertamente legate a partiti politici…
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Il dibattito
Mentre dichiarazioni censorie e autocensorie si avvicendavano negli Stati Uniti, la stampa italiana
cominciava a riflettere e a interrogarsi sulla questione. Il giorno otto ottobre . com dedicava tre pagine a
varie riflessioni sull’argomento. In un articolo intitolato Silenzi di guerra ci si domanda dove siano finiti
“i giornalisti americani spietati con i politici e gli imprenditori (più con i primi che con i secondi)”; ci si
chiede se il sentimento nazionale li renda meno aggressivi, ma si aggiunge che all’autocensura
(comprensibile, sostiene l’autore dell’articolo) si somma una censura operata non solo dalle fonti, ma
anche dalle direzioni di alcune testate. L’articolo chiude con una domanda che sembra contenere già la
sua risposta: “già nel corso della guerra del Golfo del ‘91 molti si chiesero quale ruolo dovessero
svolgere i giornalisti di giornali e televisioni al fronte. Il fronte non era dov’erano i giornalisti. E quando
il fronte c’è stato davvero non ci sono mai stati i giornalisti. Prevarranno anche stavolta i silenzi di
guerra?”
Sullo stesso tono un articolo delle pagine seguenti, che cita alcuni licenziamenti in tronco - avvenuti
negli Stati Uniti - di giornalisti che si erano permessi di criticare l’operato dei vertici politici.
“L’America ha costante bisogno di rassicurazioni e rifiuta categoricamente qualsiasi critica che possa
minare il già precario equilibrio psicologico raggiunto. Ed ecco che sembra nascere spontaneo, e non
impartito dall’alto, un processo di autocensura che coinvolge tutti, dal singolo cittadino alle istituzioni,
passando, inevitabilmente, anche per i mass media.”
Autocensura come reazione quasi spontanea di difesa, piuttosto che scelta coerente di patriottismo?
Gad Lerner, la cui intervista, condotta da Antonella Bersani, è riportata nelle stesse pagine, reputa
questa reazione “comprensibile. E’ accaduto qualcosa di cui facciamo fatica a renderci conto: settemila
morti nel cuore della loro terra. Anche negli anni passati gli USA sono stati oggetto di attentati
terroristici, ma sono sempre rimasti un po’ in sordina perché lontani. Era accaduto in Arabia o in
Yemen, non a Manhattan. E’ naturale che ora ci sia un allineamento agli interessi nazionali. (…) Non so
se esistano davvero vere e proprie liste di proscrizione, ma credo che tutto questo dipenda davvero dal
clima di tensione emotiva che si è creato.” Proseguendo, Lerner parla di una maggiore onestà, rispetto al
passato, dei giornalisti nei confronti di chi fruisce dell’informazione: “da sempre guerra significa meno
informazione, ma oggi credo che il fenomeno si sia ridotto rispetto al passato. Esempio: l’impegno
pubblico assunto dalla CNN a ‘non diffondere notizie lesive dell’interesse degli Stati Uniti’ va letto in
questo modo”
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Al termine dell’intervista, un cenno all’atteggiamento dei media in Italia: “hanno sofferto di
impreparazione, né potevano avere accesso alle informazioni cruciali di questo conflitto (…) ancora a
discolpa, c’è da dire che abbiamo attraversato una fase ‘attendista’, come accadde con la guerra del
Golfo. Ciò produce titoli che si contraddicono da un giorno all’altro.”
Una delle cose che mi sono parse rilevanti delle pagine di .com che ho citato è che molte delle analisi
svolte ritengono pienamente nella norma l’atteggiamento dei media americani, e ciò sulla base dei
comportamenti di questi durante i conflitti precedenti. Tale atteggiamento, che consiste, fra le altre cose,
nel fornire solo alcune tra le informazioni necessarie affinché un chi ne fruisce possa avere un’idea
sufficientemente completa della situazione, permetterebbe l’attivazione di quel processo che porta alla
“crescente indignazione nei confronti del nemico, la sua demonizzazione, l’idealizzazione della
giustezza delle proprie azioni e intenzioni, la negazione della presenza di interessi comuni e della
possibilità di cooperazione, l’enfasi dei valori militari, la designazione della forza militare come mezzo
appropriato per la risoluzione del conflitto e, quindi, il rifiuto di alternative pacifiche, la dichiarazione
dell’inevitabilità della soppressione del nemico. (…) Oltre alla demonizzazione del nemico la
propaganda bellica tende alla sua ‘personalizzazione’.”
Esaminando la posizione degli Stati Uniti d’America sulla base dei conflitti precedenti, in particolare del
Vietnam, Peppino Ortoleva rilevava quattro punti fondamentali dai quali il campo politico americano
non vorrebbe prescindere, quattro punti che mostrano una forte tendenza all’ingerenza di questo nel
campo giornalistico, ma non in maniera palese, come sarebbe imponendo delle misure censorie, bensì
conquistando il dominio del potere simbolico, quattro punti che, tra le altre cose, spingerebbero verso
quell’imponente fenomeno di autocensura che si è poi verificato: “rinunciare a sforzi troppo
smaccatamente propagandistici, che risulterebbero goffi e poco credibili, e puntare piuttosto su una
gestione discreta e accurata dei media: si può dire che siamo passati, a partire dalle conferenze stampa
del Golfo, dalla propaganda alle public relations. Secondo: senza introdurre una censura preventiva sui
media, che sarebbe pessima, proprio per le pr, operare un controllo di fatto sulle notizie che circolano, in
particolare regolando l’accesso ai luoghi degli scontri. Terzo: costruire eventi ‘narrabili’ con semplicità
e facilmente comprensibili, come l’operazione voluta da Bush Senior nell’isola di Grenada o la fase
Desert Storm della guerra del Golfo. Quarto: là dove la guerra non può essere breve, renderla segreta
almeno in parte, come si è già dichiarato di voler fare con la guerra al terrorismo.”
Mentre su .com, “il punto quotidiano della comunicazione”, continuavano riflessioni di questo genere
anche nei giorni successivi, toccando anche il singolare duopolio dell’immagine costituitosi tra CNN e
Al Jazeera (duopolio che, oltre a segnare il potere mediatico del ‘nemico’, costituiva senza ombra di
dubbio una forma di censura dell’immagine poiché diventava praticamente impossibile per le altre
emittenti accedere alle immagini rilevanti -.com del nove ottobre- ) anche le maggiori testate italiane si
calavano nel dibattito prendendo posizione.
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L’undici ottobre veniva pubblicato su La Repubblica un articolo di Magdi Allam che citava le recenti
accuse americane ad Al Jazeera, accuse di appoggio al terrorismo, che parlano di “concedere tempo e
attenzione eccessivi a talune dichiarazioni al vetriolo e irresponsabili”.
“I giornalisti di Al Jazeera” dice l’articolo “sono scandalizzati da queste accuse e non nascondono una
profonda preoccupazione. Sono prevalentemente laici e hanno una concezione della vita di tipo
occidentale. Vanno fieri della loro professionalità ereditata dagli anni trascorsi nella BBC e di una
strategia informativa basata sulla libertà di critica e sulla pari opportunità concessa agli interlocutori.
Sono inorriditi dal sospetto di una loro connivenza con l’islam di Bin Laden.”
Le risposte dell’emittente araba alle accuse americane suonano infatti quasi ironiche: “Ma come., è
proprio dall’America che abbiamo imparato la libertà, la libertà di espressione…” “Noi crediamo nella
democrazia e nella libertà dell’informazione e nel loro ruolo per contenere il terrorismo.” “Ci accusano
di privilegiare il punto di vista dei talebani e di Bin Laden. E’ falso. (…) Noi siamo alla ricerca di
notizie eclatanti, e oggi siamo fortunati a trovarci in Afghanistan.”
Non sono forse queste frasi che avrebbero potuto essere tranquillamente pronunciate da un giornalista
statunitense? Lascia capire l’articolo, che chiude con preoccupati interrogativi sull’esito che queste
pressioni sortiranno sulla condotta di Al Jazeera. In questo articolo è facile leggere una sincera
preoccupazione per il futuro di una certa tradizione di giornalismo indipendente di stampo anglosassone,
che pare essere stata inghiottita dal panico successivo all’undici settembre, tradizione alla quale in
quotidiano italiano si è, almeno in parte, da sempre ispirato. E Al Jazeera ci appare quasi come un
baluardo di indipendenza e imparzialità del campo giornalistico in una situazione in cui i media
americani si sono completamente sottomessi alle necessità patriottiche.
Gli articoli pubblicati su La Repubblica nei giorni successivi suonano similmente preoccupati. Il dodici
ottobre Vittorio Zucconi, da Washington, riportava le intimidazioni fatte alla stampa e alle emittenti
televisive dai vertici americani, intimidazioni mascherate da parole che si appellano alla libertà e alla
democrazia (“Il nostro non è un ordine, è un appello, un richiamo al senso di responsabilità di voi che
lavorate nel mondo dell’informazione” – diceva Ari Fleisher) E riportava anche le domande indignate
che sorgevano tra alcuni giornalisti: “Chiederete anche all’emiro del Quatar di ordinare il black out ad
Al Jazeera?” pare aver detto uno dei dirigenti della Cbs “Impedirete anche alle reti televisive europee,
alla BBC, alla tv francese e tedesca, alla Rai, che sono tutte visibili negli Stati Uniti via satellite, di
mandare in onda le cassette di Al Quaeda?”
Zucconi aggiungeva: “Nessun giornalista vuole correre il rischio di essere accusato di complicità con i
massacratori delle torri. Ma in una guerra che può durare anni, come ha avvertito Bush, il sacrificio
della libertà in cambio della sicurezza è un ricatto costituzionale che l’America non può accettare per
sempre.”
Nella stessa pagina venivano raccolte da Aldo Fontanarosa le dichiarazioni dei direttori dei maggiori
telegiornali italiani. Gran parte di loro, con sfumature diverse e senza dubbio dipendenti anche dalla
diversa tradizione giornalistica e appartenenza politica, dichiarava di non sentire la necessità di
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autocensurarsi, anzi pensava fosse necessario continuare a dare una versione dei fatti alternativa a quella
statunitense. Mentana (TG5) affermava che avrebbe operato delle censure solo se l’autorità competente
l’avesse considerato indispensabile, Fede (TG4) si dichiarava prontissimo a congelare i futuri proclami
di Bin Laden.
Lo stesso giorno interveniva anche Piero Ostellino dalle pagine del Corriere della Sera. Il tono è molto
differente. Ci sono direttive dall’alto, pare dire l’autore, ma i giornalisti americani avevano già preso
delle misure, dettate dal buon senso e dall’amor patrio, in qualche maniera autocensorie (anche se questa
parola non viene mai utilizzata all’interno del pezzo). La libertà di stampa e la responsabilità sociale non
sono due teorie contrastanti, si legge nell’articolo, e il giornalismo americano lo sta dimostrando in
maniera eccellente. Nulla di cui preoccuparsi, quindi, sembra dire tra le righe Ostellino, la stampa
statunitense sa gestirsi benissimo anche in situazioni come questa, e anche senza l’arrivo di ordini o
‘appelli’ dall’alto. Ma questa versione dei fatti suona comunque un po’ semplicistica e riduttiva.
A rispondere implicitamente alla tesi di Ostellino provava Curzio Maltese da La Repubblica del tredici
ottobre. Innanzi tutto un accenno al perpetuo tentativo dei militari di censurare il lavoro dei giornalisti:
“Non c’è una volta che i militari non l’abbiano chiesta, sempre con un motivo diverso, ma finora non
l’avevano ottenuta. Nelle democrazie non si è mai accettato che i militari debbano decidere che cosa i
cittadini possono o non possono sapere e vedere.” Ma “il clima emotivo della guerra azzera la memoria,
ogni guerra è una ‘nuova guerra’ ” dice l’autore subito dopo, per spiegare come l’esperienza del passato
non serva a illuminare sui comportamenti da tenere. La censura durante la guerra in Afghanistan ha dei
tratti del tutto particolari (come si intravvede anche nel tono rassicurante dell’articolo di Ostellino)
“oggi la censura sull’informazione non si affida più ad argomenti militareschi o ideologici ma al ricatto
morale e ai sondaggi. E’ una censura ‘umanitaria’, che gronda buone intenzioni e si appella alla
coscienza dei singoli giornalisti. E’ anche popolare, gradita alla gente, perfino a Dan Rather. E’, infine,
come ormai tutto, una censura ‘globalizzata’. Stavolta infatti gli americani non chiedono soltanto alle
proprie televisioni e ai propri giornali di non trasmettere informazioni ‘dannose’, ma si fa strada
l’ipotesi di ottenere, con le buone o con le cattive, l’oscuramento di Al Jazeera.”
Una scelta apparentemente consensuale di autoregolazione celerebbe mezzi di dominio simbolico più
subdoli e potenti da parte del campo politico – militare.
Anche da Il manifesto intanto, cominciavano ad arrivare preoccupati interventi. Il quindici ottobre
Marco D’Eramo proponeva una sua versione dei fatti; citando il video di Bin Laden mandato in onda
negli Stati Uniti, che aveva superato in audience il discorso del Presidente, scriveva: “Ancora una volta
gli Stati Uniti sono stati presi in contropiede, colpiti con le loro tecniche (…) gran parte del dominio
mondiale degli Stati Uniti si basa sulla loro (sottovalutata) capacità di plasmare l’immaginario
planetario attraverso un’incredibile sapienza nello sfruttare le tecniche medianiche, dal cinema alla
musica, che è qualcosa di più e di più profondo di una semplice guerra di propaganda”. Da qui la corsa
alla censura (“o meglio, all’autocensura”, scrive ironicamente l’autore) che sembra l’unico modo per
annientare un nemico che sappia usare altrettanto bene le armi della comunicazione.
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Il diciannove ottobre, durante il terzo forum di Gubbio, Paolo Serventi Longhi dedicava il suo intervento
proprio a questo tema. Innanzi tutto “grande è la solidarietà di tutti noi per il popolo americano”, come
dire, il fatto che la stampa voglia continuare a svolgere il suo ruolo non mette in discussione l’amor
patrio dei giornalisti, ma si tratta di due questioni separate. Infatti proseguiva: “occorre però che il
nostro modo di vivere, che la circolazione delle persone e delle idee, che i diritti e le libertà non siano
messi in discussione dalla giusta lotta al terrorismo. Invocare censure o autocensure, utilizzare
l’informazione come propaganda non aiuta a combattere il terrorismo (…) il confronto tra opinioni
consente di evitare ogni forma di violenza (…) libera informazione e confronto di opinioni non possono
e non devono subire limitazioni o controlli.”
Ma anche Serventi Longhi non dimenticava di appellarsi a “cautela e moderazione, ma anche molta
capacità professionale”.
Un intervento piuttosto allarmato, sembra, dalle defezioni di un paese e dei suoi giornalisti, che da
sempre erano stati considerati quale esempio di professionalità e indipendenza.
Ancora interventi su .com: il diciotto ottobre Gianni de Felice firmava un articolo intitolato “Il dovere di
informare”. Quindi un dichiarato appello che dovrebbero muovere da sempre, e soprattutto in situazioni
tanto delicate, la professione giornalistica. I fatti riportati sono sempre gli stessi: gli appelli alla censura,
le reazioni a volte sottomesse ma molto più spesso indignate (anche se negli stessi giorni molti altri
dicevano il contrario), gli accordi tra Al Jazeera e CNN. In questo articolo, comunque, appare piuttosto
chiara la tesi che i media statunitensi siano ancora abbastanza indipendenti da riuscire a muoversi
nonostante gli ‘appelli’ politici, e che i giornalisti riescano a volgere piuttosto bene il loro lavoro. Ma
molti fatti degli stessi giorni sembrano dimostrare il contrario.
Ancora su Il manifesto del ventitré ottobre, un’intervista di Patricia Lombroso a Steve Rendall, direttore
di Fair, l’organizzazione indipendente americana per garantire un’analisi e critica del ruolo imparziale
dei media americani. L’intervista porta un titolo che è già un programma: “L’informazione? E’ in
autocensura”. Le dichiarazioni di Rendall sono piuttosto drastiche: l’informazione non arriva, chi si
oppone al modo di vedere della maggioranza viene accusato di mancanza di spirito nazionale, si sta per
arrivare a una situazione simile al maccartismo.
Già da questo e dall’articolo di Marco D’Eramo precedentemente citato appare chiara la posizione di
molti dei giornalisti del manifesto; certo essa suona forse in parte scontata se si considera l’appartenenza
politica del quotidiano, ma neanche troppo poco realistica se si leggono con attenzione i dati a nostra
disposizione.
Il primo novembre anche La Stampa usciva con un articolo a riguardo della censura, censura delle
immagini, questa volta. Venivano citati gli appelli di Walter Isaacson a un ‘riequilibro’ e a una
‘ricontestualizzazione’ delle immagini. A non dimenticare insomma che la distruzione, i morti civili in
Afghanistan erano conseguenza diretta dell’attacco terrorista alle Twin Towers.
Il giornalista autore dell’articolo continuava ad augurarsi che almeno le immagini non subissero
censura…
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Insomma, risulta sempre più chiaro come la maggior parte delle testate italiane guardasse con timore,
preoccupazione, apprensione (a volte più marcate, a volte meno) a questo strano piegarsi dei media
americani davanti alle necessità politiche e militari.
Anche il Corriere della Sera che, abbiamo visto, aveva proposto versioni piuttosto rassicuranti, il
quattro novembre usciva con una intervista di Alessandra Farkas a Peter Arnett, ex inviato della CNN.
Le parole del reporter sono chiare: “Le grandi testate americane, non solo televisive, sono sempre troppo
propense ad ascoltare le direttive del governo nei periodi di crisi:” Arnett ricorda come anche durante la
guerra del Golfo fossero arrivate alla CNN accuse di amplificare le pretese del nemico, ma dice anche:
“La sicurezza nazionale non può essere compromessa. Quindi i media devono decidere di giorno in
giorno cosa far sapere e cosa non far sapere al pubblico. Ritengo che sia necessaria la censura delle
informazioni militari relative al movimento delle truppe, agli obbiettivi da colpire, alle operazioni di
terra. Informazioni che potrebbero essere sfruttate dal nemico. (…) Questo tipo di notizia fu oscurato
anche durante la guerra del Vietnam: la guerra più incensurata della storia.”
Sembra una versione molto equilibrata dei fatti; ci sono indubbiamente delle censure da operare, ma non
si tratta di nulla di nuovo, la gente ha il diritto di sapere cosa sta succedendo e i giornalisti hanno il
dovere di permetterlo svolgendo correttamente il loro lavoro. E non c’è necessità che i vertici politici e
militari intervengano più di quanto non facciano già con la censura delle informazioni militari.
In ultimo vorrei citare un altro articolo di Marco D’Eramo, pubblicato su Il manifesto del sei novembre.
Certo il tono suona sarcastico, ma forse proprio per questo risulta assai eloquente. Si riferisce a uno dei
video (l’ultimo) di Osama Bin Laden, e al trattamento da esso subito sui mass media americani: “Adesso
che l’Unione Sovietica è stata spazzata via, per nostra letizia, provvedono i mass media americani a
fornirci un’informazione stile Pravda, direttamente controllata dal membro del politburo Condoleezza
Rice (…) La notizia (dell’ultimo video, nds) bisogna darla, perché altrimenti si direbbe che qui c’è la
censura, ma va sepolta, perché qui si esercita l’autocensura. (…) Il problema è che i dirigenti
statunitensi sembrano intossicati dalle loro stesse tecniche d’influenza. Pensano cioè che sia tutto un
problema di cattiva pubblicità, che il contenuto della loro politica e dei loro bombardamenti è buono,
ma nel mondo il messaggio non passa, come dicono i pubblicitari:”
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Conclusioni
I risultati di questo breve excursus tra alcuni (e solo alcuni) degli articoli più significativi pubblicati in
riguardo alla censura – autocensura dei mezzi di comunicazione di massa statunitensi possono essere
sintetizzati in alcuni punti fondamentali.
♦ L’attacco terroristico alle Torri Gemelle ha generato indubbiamente una fortissima e imprevedibile
reazione emotiva, forse senza precedenti, non solo negli Stati Uniti d’America, ma in tutto il mondo
occidentale. Questa ondata si è sicuramente ripercossa anche sul campo giornalistico, in particolare
su quello statunitense
♦ Negli Stati Uniti una delle reazioni più palesi al crollo delle torri è stata un crescere smisurato della
coesione della popolazione, dell’amor patrio e dell’appoggio alle scelte dei vertici politici e militari.
Anche da questo fenomeno i media non sono rimasti esclusi
♦ Il fatto stesso che non fosse l’America ad avere il monopolio delle immagini, e che il nemico usasse
efficacemente i mezzi di comunicazione di massa quali arma di propaganda, ha portato i vertici
politici statunitensi a interessarsi a essi da un punto di vista parzialmente nuovo.
A questo punto c’è da precisare che un certo tipo di censura viene da sempre operato in situazioni
delicate come una guerra: “Prima ancora di manipolare le notizie o vietarne la diffusione, a parte i casi
di regimi totalitari, il potere ha controllato l’informazione negando o limitando l’accesso alle fonti. (…)
E’ lo spirito moderno e potenzialmente destabilizzante dell’informazione a spostare l’intervento
censorio sulle fonti, per la difficoltà, al di fuori dei regimi totalitari, di tenere sotto controllo tutti i mezzi
d’informazione: (…) Il significato della censura sulle fonti consiste nell’impedire sostanzialmente il
lavoro giornalistico, controllando e riducendo la produzione delle notizie, obiettivo del potere politico e
militare per mettere i giornalisti totalmente in balia degli uffici stampa e dell’apparato propagandistico.”
(da Alberto Papuzzi, “Professione Giornalista”)
Niente di nuovo, dunque, nell’atteggiamento del campo politico – militare e di quello giornalistico
durante questa guerra?
In effetti le riflessioni citate dimostrano che qualcosa di nuovo c’è.
Si è trattato indubbiamente di un altro, ennesimo caso di interferenza del campo politico nel
funzionamento autonomo di quello giornalistico, ed è vero che tali interferenze ormai sono così
frequenti che l’indipendenza dei giornalisti suona a volte quasi solo come una storia lontana nel tempo
(basti pensare ai fatti di Genova e al trattamento subito dalle informazioni e dalle immagini).
Ma questa volta il dominio simbolico non si è limitato alla censura delle fonti (che conosciamo bene, e
che in alcuni casi sono gli stessi giornalisti a non biasimare in quanto essa proteggerebbe il corretto
svolgimento delle operazioni militari), alla costruzione di versioni ufficiali dei fatti alle quali i
giornalisti, non presenti dove essi si svolgevano, non potevano fare altro che attenersi, agli ‘appelli’ alla
correttezza.
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L’estremo processo di demonizzazione del nemico, favorito dalle modalità dell’attacco alla Torri
Gemelle, ha prodotto un fortissimo richiamo ai valori nazionali (nazionalistici?) e patriottici, in maniera
tale che non fosse più l’autorità a imporre una certa condotta ai giornalisti, ma che fossero essi stessi ad
autocensurarsi nel timore di essere giudicati non più per il valore della loro professionalità ma per il loro
attaccamento alla patria.
In questo modo può spiegarsi quella serie di licenziamenti di professionisti da parte di testate minori, e
la famosa lista di proscrizione di giornalisti corretti o meno, e ,usando i termini di Cavallari, potremmo
dire che la forza professionalità è stata schiacciata da altre, come potebbero essere la forza politica
riflessa, la forza censura, la forza direzione…
Dunque non più, non solo, un aperto tentativo di dominio del campo giornalistico da parte di quello
politico, ma un percorso mascherato, che non tocca la professionalità degli appartenenti al campo ma la
loro umanità.
E’ pur vero che molti si sono opposti, tra i giornalisti, che molti hanno ribadito che la professionalità
non ha nulla a che fare con il patriottismo, che è proprio una corretta e completa informazione a
permettere una giusta presa di coscienza e, conseguentemente, di posizione.
E’ anche vero che molti altri hanno detto di essere in grado di regolarsi da soli, senza questi pericolosi
accenni allo spirito nazionale da parte dei vertici politici, ma alla fine pare proprio che una forte carenza
di informazione ci sia stata, e pare che, se un precedente storico c’è stato, esso possa essere solo il
secondo conflitto mondiale.
Va tenuto presente, in ogni modo, che tale paragone vale solo per ciò che riguarda lo stato di
subordinazione dei media al campo politico, perché le modalità di svolgimento delle due guerre sono
completamente differenti.
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Principale bibliografia di riferimento
Pierre Bourdieu, Ragioni Pratiche, Il Mulino
Pierre Bourdieu, Sulla televisione, Feltrinelli
Alberto Cavallari, La fabbrica del presente, Feltrinelli
Alberto Papuzzi, Professione giornalista, Donzelli
Fabrizio Tonello, La nuova macchina dell’informazione, Feltrinelli
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