Il Rinascimento (linguistico) delle valli occitane. Tra sogno e realtà
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Il Rinascimento (linguistico) delle valli occitane. Tra sogno e realtà
Rinascimento Il (linguistico) delle oc sogno realtà Tra valli citane testo di irene borgna e Occitano tra sogno e realtà In apertura: sul palco, un gruppo di suonatori presi nel vortice onirico della musica occitana (foto di Nanni Villani). Qui sotto: il logo di Espaci Occitan e la locandina del progetto L’Occitania a pè, del 2008. C hi frequenta le Alpi Sud-occidentali non può fare a meno di notarli: sono i cartelli bilingui all’ingresso dei paesi, sono le bandiere rosse con la croce gialla appese ai balconi di alcuni municipi e impresse su numerose insegne, sono i manifesti che pubblicizzano feste, concerti ed eventi legati alla cultura occitana. L’aggettivo “occitano” da qualche anno va per la maggiore anche al di fuori delle vallate piemontesi dal Chisone al Tanaro: le feste e i balli occitani piacciono, richiamano gente dalla pianura e persino dalla Riviera, dove “Occitania” è un nome utilizzato molto più di quanto non sia compreso. Alcuni rifiutano il termine “occitano” e preferiscono definire le lingue incluse – e un po’ nascoste – da questa parola come “parlate provenzali alpine”. In effetti non si può dire “parlo occitano” nello stesso senso in cui si dice “parlo italiano”: l’italiano è una lingua, l’occitano invece è una famiglia di lingue. In altre parole: mentre l’italiano, pur nelle sue varianti regionali, rimane uno solo, dell’occitano fanno parte varie lingue come il linguadociano, il limosino, l’alverniate, l’aranese e il provenzale alpino, a sua volta frammentato nelle lingue di Limone Piemonte, di Valdieri, di Sambuco, di Chiappera, di Chianale e così via. Di fatto ogni paese delle nostre valli ha la sua lingua, che poi i linguisti hanno classificato come “parente prossima” del provenzale e “parente in secondo grado” della grande famiglia delle lingue d’Oc. Quella che a conti fatti non era altro che una classificazione stabilita dai linguisti su basi scientifiche, è stata recepita negli anni Sessanta da alcuni abitanti delle valli come un’autentica patente di nobiltà, la spinta per combattere in nome di una lingua la battaglia per il riconoscimento di diritti culturali e politici alla montagna piemontese più povera e marginale. Gli anni Sessanta coincidono con l’apice dello Occitano tra sogno e realtà spopolamento della montagna cuneese e col crepuscolo del mondo alpino tradizionale, che nell’Italia del boom economico doveva sembrare poco meno che un piccolo Medioevo fuori porta. Non è un caso che proprio allora un pugno di persone istruite, colte, sensibili che risiedevano o erano comunque legate alle valli più povere, abbia dato fuoco alle polveri del Rinascimento linguistico. Ne è scaturita una potente operazione – tuttora in corso – di riscoperta e promozione della cultura alpina locale in nome di una lingua e di una identità. Grazie al lavoro dei primi attivisti, a poco a poco i parlanti di decine di paesi e borgate scoprono sorpresi di avere in bocca non un volgare dialetto di cui vergognarsi a scuola e in città, ma un patrimonio da salvaguardare e valorizzare. e il suo fulcro nel Centro culturale e nella rivista omonimi. Sono loro i più fieri oppositori della dicitura “occitano”: si autodefiniscono provenzali, rifiutano ogni tipo di rivendicazione autonomistica di una presunta Occitania estesa dalle Alpi ai Pirenei, contestano la legittimità Da subito il movimento di riscoperta e valorizzazione ha espresso due volti e due anime, ancora adesso separate e contrapposte. Un gruppo di attivisti aveva e ha tuttora il proprio quartier generale a Sancto Lucio di Combouscuro in Valle Grana Foto di Enrica Raviola 66 Occitano tra Occitano sogno etra realtà sogno e realtà Occitano tra sogno e realtà 68 È agli occitanisti in particolare che si deve la progressiva affermazione di un’identità occitana e l’elaborazione dei simboli intorno ai quali ha preso forma l’idea di una comunità linguistica e culturale occitana. Sono loro a diffondere il nome “Occitania”, l’inno Se chanto e la bandiera occitana rossa con al centro la croce greca dorata e pomellata dei conti di Tolosa e, in alto a destra, la stella a sette punte che rappresenta le sette regioni dell’Occitania francese sognata da Fontan. L’esposizione della bandiera da parte di molti Comuni delle valli ha suscitato accese polemiche, portate avanti dalla Consulta provenzale, l’ala giovane del movimento antioccitano. Viene messa in discussione la legittimità di un simbolo che si richiama a una precisa forza politica, per quanto non italiana (il PNO francese), e in cui non si riconosce che una minima parte della popolazione. Talvolta i due approcci opposti convivono a poca distanza: nella corta Valle Gesso, a Valdieri la bandiera occitana sventola sulla facciata del palazzo comunale, mentre a Entracque, a sei chilometri di distanza, l’Amministrazione ha scelto di esporre solo i colori dell’Italia, del Piemonte e dell’Europa. Ancora agli occitanisti è dovuto il richiamo a una storia condivisa delle regioni occitane, costituita da fatti storici anche lontani nel tempo e che non hanno direttamente coinvolto le valli alpine italiane. Tuttavia questi eventi, come per esempio la grande stagione medievale della poesia trobadorica o la sanguinosa repressione dell’eresia catara (XIII secolo), sono rappresentati come parte integrante di una “comune storia occitana”, anche se si Foto di Nanni Villani e l’impiego delle bandiere e dei simboli occitani, e lavorano per la promozione congiunta del provenzale e del piemontese. Il secondo nucleo forte della minoranza linguistica alpina è nato invece dalle ceneri del MAO, il Movimento Autonomista Occitano, fondato nel 1968 da François Fontan. Fontan aveva creato in Francia il Partito Nazionalista Occitano e auspicava la realizzazione di una Grande Occitania che riunisse tutte le regioni dalle Alpi ai Pirenei in cui si parlava una delle lingue d’Oc. Negli anni Settanta e Ottanta il MAO porta avanti un discorso di autonomia amministrativa e politica per le valli occitane, presentando i propri candidati a più di un appuntamento elettorale e ricavando talvolta discreti risultati, e in ogni caso una buona visibilità. Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta il movimento politico autonomista perde la sua spinta e i militanti occitanisti ripiegano su un’intensa attività di sensibilizzazione che passa attraverso la produzione di materiale informativo e didattico in lingua, la pubblicazione di periodici, la ridefinizione della toponomastica locale Foto di Enrica Raviola e la promozione della produzione artistica in lingua. Oggi le due principali associazioni che svolgono questo compito sono la Chambra d’Oc a Roccabruna e Espaci Occitan a Dronero. 69 Occitano tra sogno e realtà Occitano tra sogno e realtà Occitani nizzardi e guasconi accorsi a Olivetta San Michele per la partenza del trekking Las Valadas Occitanas a pè, 2009; nella pagina a fianco, un momento della traversata (foto di Nanni Villani). A pagina 72, dall’alto: Segio Berardo, l’inventore del fenomeno musicale occitano (foto di Nanni Villani); Gabriella Brun, virtuosa della ghironda, e componente del gruppo A fil de ciel (foto di Nanni Villani); ormai, senza danze occitane, nelle valli non c’è festa degna di questo nome (foto di Enrica Raviola). tratta di momenti a dire il vero piuttosto lontani dal sentire della stragrande maggioranza degli abitanti del versante italiano delle Alpi. La costruzione identitaria occitana ha ricevuto un ulteriore impulso dalla discutibile e discussissima legge 482 del 1999, che ha riconosciuto in quella occitana una delle minoranze linguistiche storiche tutelate dalla Repubblica italiana. Poiché la legge prevede l’insegnamento dell’occitano nelle scuole (fino alle medie) e la possibilità di impiegare la lingua nei documenti ufficiali, e siccome l’occitano come lingua non esiste, ce lo si è dovuto inventare sulla base di alcune delle principali parlate esistenti. È nato così un occitano standard – con un dizionario e una grammatica propri – che assomiglia un po’ a tutti i dialetti, ma di fatto non è parlato spontaneamente da nessuno. Si tratta di una sorta di esperanto delle parlate provenzali alpine che non corrisponde più di fatto al parlare di nessun luogo: non più a nosto modo, dunque, ma piuttosto a nessun modo. La creazione di un occitano 70 standard ha sollevato numerose critiche, non solo da parte dei provenzalisti, ma anche dei linguisti. Il rischio di standardizzare una lingua perché venga insegnata, è quello di ottenere la tutela non delle reali parlate vive, ma di proteggere e diffondere una lingua costruita a tavolino. In secondo luogo, se anche l’insegnamento dell’occitano standard si diffondesse davvero nelle scuole (cosa che a oggi non è ancora avvenuta), si otterrebbe il risultato paradossale e per nulla confortante di avere una nuova generazione di parlanti che utilizzano una lingua in ogni caso ben diversa da quella parlata dai genitori e dai nonni. Ultima, ma non per importanza, è l’osservazione secondo la quale puntare sull’occitano standardizzato per difendere le parlate occitane è un po’ come sostenere che dovremmo concentrare i nostri sforzi per salvaguardare la civetta maculata nella realizzazione di un museo dove vengono esposte civette maculate imbalsamate, senza far niente per preservare l’animale vivo nel suo habitat o per garantirne la riproduzione. La legge 482/99 ha fortemente sbilanciato le sorti dei due fronti a favore degli occitanisti, che hanno ottenuto “l’appalto esclusivo” per la tutela della lingua, diventando i teorici, i portavoce e i protagonisti dell’occitanismo a livello sovraregionale attraverso iniziative di grande impatto, come la campagna “Occitano lingua olimpica” o le camminate che per due anni hanno attraversato l’Occitania intera. Addirittura, i fondi stanziati dalla legge hanno fatto gola ad alcuni Comuni (delle valli a sud-est di Cuneo e dell’area brigasca) che si sono opportunisticamente autodichiarati di lingua occitana (la legge lo consente), anche se i loro requisiti linguistici erano quantomeno dubbi, se non del tutto fasulli. A ben vedere, dunque, attualmente la diffusione di massa della cultura provenzale alpina passa attraverso l’attività dei militanti occitanisti: il Rinascimento provenzale alpino parla occitano. Nelle forme che ha assunto oggi, tuttavia, è però un Rinascimento incerto, in cui al proliferare delle bandiere fa da contraltare la diminuzione costante del numero di chi (una del)le lingue le parla davvero. Le stime dei parlanti delle lingue occitane ricordano tristemente le dichiarazioni di questura e organizzatori all’indomani di una manifestazione: i numeri oscillano da un improbabile 200.000 a un più sensato, ma comunque ottimistico, 40.000 locutori, cifra che corrisponderebbe in ogni caso a più della metà dei residenti totali dell’area occitana cisalpina (circa 70.000). Si tratta poi di un Rinascimento ambizioso, dove si investono energie e risorse per costruire una lingua standardizzata che possa essere insegnata nella scuola e impiegata in occasioni ufficiali, quando nel frattempo sono rimasti in pochi a parlare una lingua viva, ma di questo passo non per molto, solo nel bar e nella bottega di paese. Una lingua è legata a un mondo di vita e quando questo si modifica o viene sostituito da un altro, le lingue a esso legate seguono lo stesso destino. Il mondo contadino che i parlanti più anziani hanno 71 Occitano tra sogno e realtà Occitano tra sogno e realtà 72 cennato, è costruita senza eccessivi scrupoli filologici. La retorica dell’identità – locale, linguistica, etnica, culturale – se gode di pessima fama tra gli studiosi, incontra invece oggi un grande consenso di pubblico. Si dice che l’emergere delle politiche identitarie sia una reazione all’omogenizzazione degli stili di vita: tutti ci assomigliano di più, ma ciascuno vuole continuare a sentirsi diverso e, preferibilmente, migliore. Ma non è solo né soprattutto la paura di perdere le proprie usanze a decretare il successo delle politiche, bensì il fatto che investire sull’identità può essere anzi un modo per sfruttare i timori indotti dalla globalizzazione, trasformando la paura dell’omologazione e il corrispondente desiderio di autenticità in un buon affare. In altre parole, l’identità occitana nella sua veste attuale funziona perché attira e mobilita preziose risorse sì culturali, ma anche economiche, con il sostegno degli enti pubblici e privati che intravedono in un turismo di tipo culturale il futuro delle Alpi, e nell’identità occitana un valore aggiunto. L’identità occitana nelle Alpi Sud-occidentali è dunque di fatto un catalizzatore di risorse e una fucina di iniziative culturali ed economiche, è un modo per formare giovani e incrementare l’industria turistica creando posti di lavoro nelle valli. È in ultima istanza una delle soluzioni possibili per pensare il futuro di questa zona delle terre alte. Tuttavia, la sensazione è che il discorso identitario rischi di rendere gli abitanti delle valli e le istituzioni simili a un animale inventato dallo scrittore argentino Luis Borges, il Goofus bird, un uccello che vola all’indietro perché gli interessa di più conoscere dove è stato che sapere dove andrà. Riscoprire il passato è spesso una buona cosa, ma di per sé non vuol dire sapersi inventare un futuro, e per di più sovente conduce a ignorare un presente magari sgradevole. Fare del passato, magari opportunamente ritoccato, lo strumento di promozione dell’esistente e interpretare la realtà in termini identitari, sono solo due delle possibilità che le valli hanno per immaginarsi un futuro. Ci sono altre categorie importanti per pensare il presente impossibili da ridurre all’etichetta occitana: si chiamano ambiente, abitare e mobilità sostenibili, nuovi abitanti e nuovi mestieri della montagna. Insomma, il Rinascimento occitano è una buona puntata, ma la Foto di Enrica Raviola conosciuto non c’è più, e così la lingua che ne era il riflesso: i parlanti più giovani conoscono già una lingua più povera e più ibrida rispetto a quella dei loro nonni. Le lingue si diffondono (e sopravvivono) «per comunicazione di idee o di commercio […], non si propagano né per forza di spade, né per decreti di re, né per consigli d’accademie», scriveva Niccolò Tommaseo: se si vuole che i ragazzi continuino a parlare la lingua del loro paese, occorre che ne abbiano la voglia, e la voglia dipende da una buona ragione. In questo, il Rinascimento occitano ha un certo successo, non senza qualche ombra che gli guadagna l’epiteto di “ambiguo”. Infatti il fiorire di attività culturali – musicali, drammaturgiche, letterarie – ed economiche sotto la bandiera occitana è fonte di orgoglio e di guadagno per un certo numero di persone, spesso giovani. Tutto ciò che è occitano, che sia una locanda, un sentiero, un menu al ristorante, sembra avere un valore aggiunto, un ingrediente magico che ne incoraggia il successo. Un successo giocato a ben guardare sullo stereotipo duro a morire della montagna pura e tradizionale dove vivono “gli ultimi”: più di un turista sogna dietro agli oscuri grafemi di un cartello bilingue l’esistenza di un mondo montanaro idealizzato dove si vive “come una volta”, “quando si stava meglio anche se si stava peggio”, “la natura era più natura” e via di seguito, di luogo comune in luogo comune. Senza contare che il Rinascimento occitano ha stimolato tra gli abitanti delle valli, gratificati dal tardivo riconoscimento esterno dell’interesse della cultura alpina, iniziative autonome di riscoperta del proprio mondo. D’altro lato, la retorica occitanista ha il difetto di far coincidere la montagna con la montagna occitana: un’equazione che semplifica un universo complesso riducendolo a un’etichetta, e in più lo mistifica, perché l’identità occitana, come si è ac-