Testimonianza, olbio e memoria

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Testimonianza, olbio e memoria
Testimonianza, oblio e memoria
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INDICE:
1. La trasmissione della memoria prima e dopo l’Olocausto
Emmanuel Ringelblum
2. La trasmissione della memoria orale e video
Università dello Yale
Steven Spielberg
3. La testimonianza spontanea e obbligata
4. La soggettività e relatività della testimonianza
La relazione tra storia e testimonianza
5. Memoria, oblio e ricordo
6. La memoria del passato per progettare il futuro?
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PREFAZIONE
“Dopo numerose ricerche e approfondimenti sull'affascinante tema della memoria, riesco infine a riunire tutti i miei sforzi intellettuali in un breve testo, cogliendo l'occasione anche per rielaborare alcuni dei pensieri meritevoli di Annette
Wieviorka e Primo Levi, che hanno reso l’idea della deportazione in tutti i suoi
aspetti e hanno creduto nel valore della scrittura, inteso come l’unico mezzo per
contrastare ed evadere la realtà inumana e spietata del genocidio”.
“Non dimenticate, raccontate, scrivete” 1
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Cit. Simon Doubnov, Histoire moderne de peuple jiuf, Le Cerf, Paris 1994
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La trasmissione della memoria prima e dopo l’Olocausto
La trasmissione della memoria e della storia era molto importante per il popolo ebraico durante l'occupazione tedesca: infatti l'ebreo era consapevole della
"fine degli ultimi ebrei sopravvissuti" e per questo la scrittura divenne un bisogno
vitale, un fine per conservare l'immortalità.
Già a partire dai primi mesi dell'occupazione tedesca di Varsavia cominciò a delinearsi la necessità di archiviare le memorie, il cui principio era molto chiaro
"Permettere ai futuri ricercatori di studiare la vita della società ebraica durante
uno dei suoi periodi più difficili della recente storia contemporanea”.
Questo bisogno nacque dalla intuizione di Emmanuel Ringelblum, un ebreo del
ghetto di Varsavia, che già nel 1941 colse l'importanza del momento storico che
stava vivendo, comprendendo, peraltro, che per i nazisti invece era importante
che non solo si annientassero fisicamente gli ebrei, ma che venisse meno anche il
desiderio di ricavare le loro motivazioni, ricordi e memorie.
Come sottolinea Primo Levi in “Se questo è un uomo”, nelle vicende più orribili
del Novecento, si era combattuta una lotta per la sopravvivenza della memoria
assistendo paradossalmente al fenomeno opposto, ossia al “parricidio della memoria”; l’esempio delle SS porta alla consapevolezza di quanto quest’ultimi desiderassero distruggere ogni possibile prova dei loro efferati crimini.
In un paesaggio in cui la morte è onnipresente si diffonde l'idea che l'opera, per
lo meno, sia immortale, che essa solo possa assicurare il ricordo, ossia l'eternità:
ultima resistenza contro l'oblio e la morte.
L'importanza dello scrivere, del trasmettere ciò che si comunica e si sente e si è
percepito durante la prigionia, viene enfatizzata da Elie Wiesel, uno scrittore rumeno naturalizzato statunitense di cultura ebraica e francese, che scrisse la sua
opera principale “Notte” sia in yiddish sia in francese , in “Un di Velt hot geshving”, dove lo stesso, nonostante gli anni di sofferenza nel campo di Buchenwald,
decise di continuare a vivere e affrontare la morte con la scrittura.
Ma la più grande sofferenza per Wiesel sarà evidente dieci anni dopo la detenzione, allorché si renderà conto che in Germania stava rinascendo e che gran
parte degli ex nazisti erano ancora vivi e liberi, i quali diffonderanno la voce che
i campi di concentramento erano stati solo una pura fantasia politica, nonché una
causa per fare letteratura.
Le opere di Wiesel diventano allora le prime prove contro il negazionismo, allora
non ancora considerato come tale.
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"Per questo ho pensato che sarebbe stato utile pubblicare […] questi appunti presi
a Buchenwald, benché non potranno cambiare il corso della storia".
Ma accanto alla scrittura e alla testimonianza storica si colloca un grandissimo dolore e una grande difficoltà per gli storici ebraici, come Wiesel o Shatzky
(quest’ultimo morì lasciando incompleto il quarto e ultimo tomo della sua testimonianza sul Ghetto di Varsavia a causa di una profonda crisi esistenziale): in
quale modo scrivere e riscrivere la storia quando un mondo è del tutto scomparso, quando non esiste alcuna possibilità di stabilire una minima continuità tra il
mondo di prima e quello abitato dallo storico?
Ogni storia è contemporanea, poiché vive nel presente interrogando il passato in
proiezione al futuro. Ma quando il presente non viene meno perché è già stato,
quali sono le domande che lo storico può porre al passato?
"Nel mondo non esistono più ebrei, un popolo che non esiste più e che non esisterà più" 2.
Nel periodo immediatamente dopo la Shoah, i sopravvissuti non emergono in alcuna parte del corpo sociale, ma sono riuniti semplicemente in associazioni, cioè
luoghi di riunione e di aiuto reciproco che non hanno ambizione di rivolgersi ad
altri che non abbiano vissuto la stessa esperienza.
La memoria individuale, infatti, non appartiene ancora allo spirito del tempo e
non viene usata politicamente, poiché, al fine di penetrare nel corpo sociale, è
necessario che la configurazione politica cambi e che la testimonianza assuma un
peso che superi l'esperienza individuale.
Con il processo di Eichmann, avvenuto quattordici anni dopo quello di Norimberga (1946) per la prima volta in Israele per giustiziare Adolf Eichmann, gerarca nazista e responsabile del RSHA rifugiatosi a Buenos Aires, inizia una nuova epoca,
dove la memoria del genocidio diventa l’elemento costitutivo di una determinata
identità ebraica e la sua presenza nello spazio pubblico viene rivendicata con la
forza.
Infatti tale processo presentò per diversi aspetti un elemento innovatore:
l’obiettivo di dare una lezione di Storia, un tema che avrà un grande futuro con
l’inserzione della Shoah nei programmi educativi con finalità pedagogiche.
A differenza del processo di Norimberga, che voleva contribuire a dimostrare che
la Germania nazista aveva complottato per conquistare l’Europa e mostrare le
sfilza di crimini che aveva accompagnato la guerra di aggressione per punire i
major-nazisti, il processo di Eichmann voleva apparire come un processospettacolo, nel quale tutto apparisse soppesato.
La decisione di rapire Eichmann a Buenos Aires e processarlo nello Stato di Israele è ovviamente una decisione politica finalizzata sia a ricordare all’opinione
pubblica mondiale di chi sono adepti coloro che tramavano la distruzione di
Israele e di chi sono complici, consapevoli o inconsapevoli sia ad esaltare
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[Marek Edelman, Umschlagplatz, Paris]
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l’eroismo degli israeliani in contrasto con la supposta passività dei loro antenati,
che si lasciarono condurre come pecore al macello 3, sia a ricordare al resto del
mondo la vergogna di aver abbandonato gli ebrei e quindi a sollecitare le grandi
potenze a dare maggior sostengo allo Stato di Israele.
La litania delle testimonianze costituisce l’elemento essenziale del processo Eichmann: i testimoni avevano raggiunto il numero di cento undici, “una processione interminabile che si perde a vista d’occhio”.
Essi rappresentavano l’elemento essenziale del processo, poiché erano i delegati
ufficiali dell’Olocausto, e quindi i fatti.
La trasmissione della memoria orale e video
Solamente all’inizio degli anni Sessanta, sembra emergere un interesse per il genocidio: vengono pubblicati i primi scritti sulla deportazione e sui campi di sterminio, tra cui la “Notte” di Elie Wiesel, con molte altre testimonianze di diversi
sopravvissuti.
Negli anni Settanta le testimonianze audiovisive cominciano ad essere raccolte in
modo sistematico.
Agli inizi degli anni Ottanta, in Francia, sul modello americano, è apparso un
nuovo tipo di spettacolo televisivo basato sulla parola della gente comune.
L’uomo-individuo viene così posto al centro della società e retrospettivamente
della Storia.
Negli stessi anni nasce per la prima volta negli Stati Uniti d’America la necessità
di registrare su video le testimonianze dei survivors, i sopravvissuti o gli exdeportati, realizzata con il serial Olocausto, che diventa presto un vero e proprio
successo mediatico.
Grazie alla proiezione del serial, alcuni storici della Yale University, nel Massachusetts, prendono coscienza del fatto che ignoravano praticamente tutto dei sopravvissuti alla Shoah.
Questo portò a fondare nel 1982 dagli stessi ricercatori un “progetto cinematografico sui sopravvissuti della Olocausto”.
Il metodo di raccolta della parola, elaborato via a via a Yale, è intimamente legato all’obiettivo principale di far nascere una parola e permettere il suo ascolto.
Ma è soprattutto la nascita della Survivors of the Shoah Visual History, fondata da
Steven Spielberg nel 1994, a cambiare completamente i termini della raccolta
delle testimonianze.
Il progetto di creare degli archivi di testimonianze nasce, dunque, durante le riprese del film.
I due films di finzione sul genocidio, visti da un pubblico di decine di milioni di
telespettatori mondiali, furono all’origine delle due più importanti raccolte di testimonianze.
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[Le procès Eichmann, Ed. Complexe, Bruxelles 1989]
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Spielberg, diversamente dai promotori di Yale, non pone più l’accento sulla persona del sopravvissuto, ma al centro del suo progetto c’è il concetto di trasmissione.
Mentre i promotori di Yale insistevano sul sentimento dei sopravvissuti d’aver vissuto su un altro pianeta, il progetto di Spielberg si fonda sulla volontà di mostrare
la gente comune, che è sopravvissuta al naufragio della guerra.
E poiché i racconti dei sopravvissuti vertono sulla vita quotidiana per circa la metà della testimonianza, per la prima volta viene costruito un quadro esaustivo della vita nelle comunità ebraiche dello scorso secolo.
E’ importante ricordare che sarebbe la prima volta in cui la storia dell’evento viene raccontata da coloro che l’hanno vissuta.
La video testimonianza, secondo il metodo concepito da Spielberg, deve essere
calibrata: deve durare, in linea di massima, due ore, di cui più della metà deve
essere dedicata al periodo della guerra e il tempo restante (rimanente?) alla vita
quotidiana antecedente e posteriore all’evento, in modo tale che il sopravvissuto
possa esprimere un messaggio che corrisponda a “ciò che desidererebbe lasciare
in eredità alle future generazioni”.
Il nuovo modo di testimoniare rivoluziona anche l‘ambito dell’insegnamento:
l’abbandono dei testi scritti a profitto delle tecnologie moderne.
La testimonianza spontanea e obbligata
Alla testimonianza spontanea e a quella sollecitata dai bisogni della giustizia, ha fatto seguito l’imperativo sociale della memoria.
Al sopravvissuto viene chiesto di onorare un ‘dovere della memoria’ , al quale
non può moralmente sottrarsi.
Tuttavia, nell’ingiunzione a testimoniare, a raccontare davanti ai giovani o “a
mettere nel cassetto” la propria storia, c’è un altro imperativo che irrita alcuni
deportati, “Sii deportato e testimonia”, ovvero quella costrizione di essere racchiusi in un’unica identità, quella di deportato; e quella di essere, in quanto deportato, solo colui o colei che testimonia.
Di che cosa testimoniare allora? Di quale sapere è portato il sopravvissuto dal
momento che è portatore di un sapere? Qual è l’orizzonte dell’orrore che deve
vaccinare contro l’orrore?
“Da noi ci si attende che testimoniamo, prima che sia troppo tardi” [Anne-Lise
Stern].
La testimonianza è dunque cambiata: non è più unicamente la necessità interiore,
per quanto essa continui ad esistere, a spingere il sopravvissuto alla deportazione
e raccontare la propria storia davanti alla telecamera, ma è un vero e proprio imperativo sociale che fa del testimone un apostolo e un profeta.
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Il crollo del comunismo, alla fine degli anno Ottanta, ha inoltre reso possibile i
viaggi sui luoghi dello sterminio ebraico - Auschwitz e Birkenau in particolar modo.
La conoscenza deriverebbe, così, dal confronto con la verità, la realtà del luogo e
del “vissuto” del deportato.
Una messa in scena (situazione?) il cui obiettivo è quello di trasformare il giovane
in un testimone del testimone.
Il discorso del testimone è determinato anche dalla sua età: ad esempio il testimone degli anni Novanta o del Duemila è un uomo o una donna di una certa età,
che ha ormai concluso la sua carriera professionale e che non avrà più figli.
Per lui, come per qualsiasi sua coetanea, l’avvenire e le possibilità che esso apre
si sono fortemente ristrette.
Da ciò la sua testimonianza è largamente influenzata dalla propria esistenza.
La Storia dell’individuo si trova dunque ad essere intrecciata intorno agli anni
della sua vita trascorsi nel campo o nei ghetti, in virtù di un semplice postulato:
quello secondo cui questa esperienza è stata l’esperienza decisiva di un’intera vita.
Il testimone, mentre testimonia, si rivolge al cuore, non alla ragione, suscitando
compassione, pietà, indignazione e talvolta persino un senso di rivolta.
Il testimone stipula un patto di compassione con colui che lo ascolta, così come
colui che scrive la propria autobiografia stipula con il proprio lettore un patto autobiografico, una particolare interazione tra trasmissione e ricezione.
Questa è una visione che mette in un profondo disagio lo storico, non perché sia
insensibile alla sofferenza, perché non venga a sua volta turbato dai racconti delle sofferenze e affascinato da alcuni di essi, ma perché sente che questa giustapposizione di storie non è un racconto storico, ma che, anzi, in un certo senso, lo
cancella.
Si ci pone allora questa domanda: come costruire un discorso storico coerente se
ad esso si contrappone un’altra verità, quella delle memorie individuali?
Come fare appello alla riflessione, al pensiero, al rigore quando i sentimenti e le
emozioni invadono la scena pubblica?
La testimonianza viene così a staccarsi dalla Storia, si allontana ancor più
dall’evento.
E leggendo o ascoltando la voce della testimonianza, ognuno di noi impara mote
cose sull’umanità in generale, sulla violenza di certi traumi e sul loro carattere
irreparabile.
Ma allora si impara qualcosa dalla Storia?
L’eco degli eventi informa sulla potenza dell’evento, ma non rende conto di
ciò che è stato.
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Questa mancata trasmissione degli eventi fa sì che molti uomini, di fronte a profondi mutamenti sociali e politici, non solo dimentichino una parte consistente
della loro storia, ma, ancora peggio, la trasformino.
Infatti, se guardiamo al passato con occhi critici, si vedrà come esso sia carico di
rovine in disfacimento, non solo di edifici ed intere città, ma anche di valori morali ripudiati, di lingue morte e di esistenze che di sé non hanno lasciato alcuna
traccia, se non segni sbiaditi e indecifrabili.
L’indifferenza e l’opportunismo associati ad una disgregazione dei valori,
accelerano una volontaria cancellazione, per non dire, una vera e propria rimozione delle radici storiche di un popolo.
L’oblio del proprio passato modifica l’identità di un individuo e di una Nazione, perché essa è plasmata, non solo dal patrimonio ereditato dalle “memorie
storiche”, ma anche da ciò che è stato dimenticato o si è stati obbligati ad obliare.
Per capire allora perché si dimentica, bisognerebbe domandarsi perché, al contrario, si ricorda.
La memoria di un popolo è incessantemente promossa da forme di ricordo in
comune, come festività civili o religiose, libri di storia o semplicemente tramite la
diffusione della propria lingua, ma, quando vi è una disarmonia sociale, i criteri
attraverso cui si selezionavano gli episodi da ricordare e dimenticare si affievoliscono e si scopre allora che la memoria può essere intesa come un campo di battaglia in cui si lotta per la conquista del passato.
Ricordare è certamente un fissare attraverso simboli ed immagini l’identità di un
popolo, ma tali immagini possono, però, essere rielaborati allontanandosi
dall’impronta originata di chi li ha forgiati; così il concetto di Nazione si può trasformare nell’idea esasperata di nazionalismo, alimentando effetti sociali devastanti.
Memoria e oblio sono dunque inscindibili nel loro reciproco legame, perché
l’individuo ha bisogno di entrambi per vivere, in quanto emigrante nel tempo che
si serve dello stesso passato per costruire il futuro, creando un’identità fondata
sul ricordo e sulla dimenticanza, la cui assenza non permetterebbe la possibilità
di cambiamento.
L’oblio collettivo è determinato dal desiderio di non ricordare e spesso sono
proprio gli eventi più traumatici, che hanno modificato la storia di un popolo, ad
essere volutamente dimenticati.
Tuttavia, come dice Primo Levi, bisogna ricordare il male nelle sue estreme efferatezze e saperlo discernere, anche quando si presenta in forma apparentemente
innocua.
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La memoria del passato per progettare il futuro?
La memoria dell’orrore, infatti, deve trasformarsi, non solo in un battersi il
petto di fronte ai crimini, ma anche in una volontà di cambiare e, affinché alcune
situazioni non debbano più ripetersi, è meglio ricordarle o memorizzare almeno i
sintomi da cui possono nuovamente nascere; d’altro canto, chiunque pensi al
passato, lo fa in base alle domande che gli vengono dettate dal presente, e senza
dubbio, la sistemazione del proprio passato, in un quadro di cui faccia parte anche il presente, è un fenomeno che avviene anche inconsapevolmente.
Un eccesso di memoria deducibile da una sola storia monumentale, al contrario,
può schiacciare il presente, perché allora si vive soltanto rammemorando il passato e non desiderando di immaginare il futuro.
La memoria non va intesa come una semplice registrazione di ciò che è avvenuto, perché è sempre soggetta a revisionismi e diverse interpretazioni; in tal
senso, per comprendere la storia, non è possibile ricostruire oggettivamente il
passato, inteso come una mera ripetitività degli eventi, ma soltanto trovare la nota comune ermeneutica rivolta ai caratteri universali.
D’altra parte, nell’elaborazione sia individuale sia collettiva, è inevitabile che si
operi una selezione degli eventi più significativi e spesso sono proprio questi ultimi ad essere reinterpretati in contesti diversi e quindi tendenzialmente soggetti a
fraintendimenti e cattive letture.
La condanna dello storicismo da parte del filosofo Friedrich Nietzsche ci sollecita ad un ripensamento sull’uso indebito della storia, rinnegando l’idea di Magistra Vitae e appellandoci alla storia foriera di consigli per il futuro.
La memoria può essere intesa come riappropriazione del sé nell’attesa di un
avvenire, che si riesce a scorgere attraverso un attento studio del passato; in tal
senso, sarebbe una sorta di programmazione del futuro, guardando a ritroso, tenendo conto, però, della necessità di non eccedere in inutili determinismi, in
quanto, nonostante si fondi su solide basi del passato, non può essere soggetta a
rigide omologazioni.
Questa operazione è utile invece alla cosiddetta crescita della coscienza civile, se si riconoscono bene i fenomeni dai quali possono derivare lutti, danni e
sofferenze per l’umanità e, in particolar modo, i loro inizi, perché è proprio da un
male apparentemente minore che ne può derivare uno maggiore.
Forse popoli come l’italiano, il tedesco o il russo, che hanno avuto un certo tipo
di esperienze, devono stare più attenti ai principi, intesi come grandi valori, e più
accorti nel valutare i loro inizi, che apparentemente sembrano indifferenti, ma
che possono condurre a conseguenze traumatiche.
La pienezza della nostra vita, anche la gioia e non solo la tragedia, consiste
nel rendere il passato fruttuoso per il nostro presente e nel considerarlo come “il
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sogno di una cosa”, avrebbe detto Karl Marx, che apre le porte verso il futuro,
passando continuamente dalla dimensione di ciò che è stato a quella di ciò che
sarà.
La memoria del passato, quindi, per progettare il futuro resta un valore imprescindibile per l’oggi, nemica dello sfaldamento dell’identità di un individuo e
di una Nazione, e, pertanto, non può essere impunemente negata, in nome
dell’economia, della tecnologia e dello scientismo.
Se uno Stato tradisce l’insieme delle idee e dei valori spirituali ed etici che
costituiscono l’anima della nazione, la sua identità profonda si dissolverebbe e la
gente si sentirebbe tradita in ciò che ha di più intimo e di più suo.
Tradire l’anima di un popolo significa sgretolare ciò che consente ad ognuno di
sentirsi parte di un tutto e derubarlo di ciò che gli è stato tramandato come patrimonio, che è la sua forza unificante.
Ma allora, al fine di evitare ciò, qual è il dovere degli storici, di coloro che producono un racconto storico, e quello degli insegnanti di storia che iniziano i giovani a tale racconto?
Semplicemente quello di fare il loro mestiere, anche se i risultati del loro lavoro
alimentano il dibattito pubblico o la memoria collettiva o vengono ancor peggio
strumentalizzati dall’istanza politica.
E ciò perché, quando il tempo scolorisce le tracce, rimane l’iscrizione degli eventi
nelle Storia che è l’ultimo avvenire del passato.
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Bibliografia:
Annette Wieviorka, L’era del testimone, Raffaello Cortina Editore, Milano 1999
Simone Weil in A. Wieviorka, Déportation et génocide, Hachette, Paris 2003
Primo Levi, Le devoir de la memoire, Mille et une Nuit, Paris 1995
Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 1981
Annick Cojean, La voix de l’indicible, Le Monde, 25 avril 1995
Interview exclusive à Steve Spielberg, Libération, 20 avril 1995
Interview exclusive à Michael Berembaum, Libération, 12 janvier 1998
Hannah Arendt, La banalità del male – Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli
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