Recensione di Gianni Sulprizio

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Recensione di Gianni Sulprizio
Dialoghi di Carl Rogers. Conversazioni con Martin Buber, Paul Tillich, Burrhus Frederic Skinner, Michael Polanyi
e Gregory Bateson, (a cura di) H. Kirschenbaum e V. Henderson, La Meridiana, 2008.
Gianni Sulprizio
Psicologo, psicoterapeuta; didatta della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Centrata sul Cliente dello IACP.
Non vi è dubbio che una delle caratteristiche che maggiormente colpiscono chi legge gli scritti di
Carl Rogers sia la sua capacità di unire rigore scientifico a chiarezza e semplicità d'esposizione. Ma
questa raccolta di trascrizioni, che assieme al celebre "Carl Rogers, un rivoluzionario silenzioso" ha
il pregio di mostrare un Rogers quanto mai autentico e disinvolto, oltre a lasciar emergere la
chiarezza come sua qualità connaturata si presenta come un esempio esplicito dell'intenzione di
essere con l'altro nella migliore testimonianza - quella del confronto diretto - del paradigma di cui
egli era rappresentante. Rogers appare costantemente centrato sull'interlocutore e sulla relazione,
anche nei momenti più difficili, nei confronti che lasciano un segno, celebre quello con "Fred"
Skinner. Al di là di quanto è stato scritto sulle implicazioni storiche di questi incontri, ad un
osservatore attentamente orientato a cogliere le sfumature personali del dialogo appare esplicito il
modo tutto particolare con cui Rogers gestisce nel canale comunicativo le qualità che egli
attribuisce ad un terapeuta efficace e che in questo caso potrebbero essere ugualmente attribuibili ad
un "comunicatore efficace": genuinità (oggi diremmo congruenza), comprensione empatica e
riconoscimento positivo. Come appare evidente anche ad una lettura critica Rogers non tradisce mai
le premesse epistemologiche del suo paradigma, rispetto alle quali manifesta una trasparenza che,
assieme alla tipica attitudine a interpretare la realtà in forma di ipotesi - ipotesi provvisorie egli
altrove definisce la sua teoria delle relazioni interpersonali - diventa l'arma con cui respinge
amabilmente gli attacchi a volte arroganti dei suoi interlocutori. E' questo il suo modo "speciale" per
confrontarsi, un modo che forse troppo facilmente si è portati a paragonare all'ars maieutica di
Socrate, e che traduce l'affermazione autorevole della propria opinione, la propria visione - perché è
in questo che la realtà oggettiva si converte nella visione fenomenologica - nell'intenzione di
comprendere autenticamente la visione dell'altro. Questo libro di trascrizioni di dialoghi tra grandi
diventa così da questo punto di vista un potente contraddittorio tra diverse concezioni dell'esistere: è
infatti nel divergere dal primato della fede di Buber e Tillich o dal dogmatismo tecnologico di
Skinner che Rogers coniuga - in modo in parte non intenzionale - la concezione positiva della vita,
tipica della cultura americana, con l'umanità e la saggezza della fenomenologia europea - assieme
all'esistenzialismo di Kierkegaard e il neokantismo di Heidegger - intesa come una disciplina
ontologica più interessata all'esistenza delle cose che alla loro essenza. Per Rogers, così, la fiducia
nell'esperienza soggettiva in termini filosofici diventa un modo di essere quotidiano nella forma di
un'assunzione di responsabilità soggettiva, non trascendente, che ridà dignità all'individuo quale
libero agente di scelte.