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ANIMALE Ancora un anno da impiegato • CAP I L’amico fantasma, pag. 1 • CAP II Bakunin alla finestra, pag. 8 • CAP III Primavera con Mary, pag. 37 • CAP IV Sguardi tra le foglie, pag. 57 • CAP V Dell’animale incerto, pag. 72 • CAP VI Incontro col passato 1, pag. 88 • CAP VII Incontro col passato 2, pag. 101 • CAP VIII “Blowing in the wind”, pag. 120 CAPITOLO I L’AMICO FANTASMA Nella camera da letto il buio non è totale. Una luce giallognola filtra dalle persiane semichiuse, si smorza leggermente attraverso le tende della finestra e si adagia sulla mobilia, delineandone i contorni e le superfici. Il mio sguardo insonne, ormai abituato a percepire anche i dettagli in quell’ombra imperfetta, recepisce informazioni visive che, senza scampo, si tramutano in messaggi inquietanti. L’atmosfera, come al solito, è opprimente, angosciante, terrificante. E, come al solito, costringo i miei occhi a fissarsi sulla fonte di quella luce : il lampione della strada antistante l’edificio della mia abitazione, che si intravede nella fessura tra le persiane semichiuse. Al di là di quelle persiane la luce è vita. E’ di un intenso e vivido colore giallo, che conferisce una corposa dignità alle mura antiche dei palazzi del quartiere. Si tratta, infatti, di palazzi siti nel cosiddetto “centro storico” della mia città, e gli amministratori comunali hanno “oculatamente” scelto di installarvi un impianto di illuminazione artificiale “consono” alle sue fattezze di indiscutibile pregio architettonico. Esso nasconde i segni di decadenza, di incuria, e di abbandono puntualmente evidenziati dalla luce solare, ed esalta invece, quasi magicamente, gli elementi di valore storico : gli archi, i fregi, le scalinate in pietra di epoca medioevale, le facciate originali ripristinate “a nudo”. Nell’insieme, sotto il manto “protettivo” di questa luce artificiale, il borgo antico ispira sensazioni di intimo raccoglimento, di concordia e sicurezza, pur nel tetro silenzio delle ore notturne. Però le mie orecchie agognano di poter captare in lontananza, come era successo diverse volte in passato nelle stagioni più appropriate, lo stridulo verso di richiamo di un barbagianni in volo o il simpatico “chiacchiericcio” di una civetta appollaiata sui tetti. Inconfondibili e affascinanti segnali di una vita - quella in fin dei conti così labile, rispetto alla vita umana, di altri esseri, ma sicuramente più “vera” perché primordiale, trasparente, priva di sovrastrutture culturali dissimulanti - che trova ancora ospitalità, nonostante tutto, nell’ambiente proprio della specie animale dominatrice. Perché non vi lasciate ascoltare ora che ne ho bisogno ? Mi trovo al di qua di quelle persiane, oppresso da un’atmosfera affatto diversa, quasi soffocato da quella luce gialla che, penetrando all’interno della stanza, si posa, sugli 1 oggetti, fredda e tagliente, messaggera di morte; e non odo voci animali, nemmeno magari accadesse - di miei consimili. Mamma, dove sei ? Ho paura. Gli occhi sbarrati, uniche parti del corpo rimaste fuori dalla coperta del letto, si posano febbrilmente ora su un oggetto ora sull’altro della stanza, per assicurarsi che tutto sia a posto, che tutto risulti immutato, aderente alla confortante normalità di sempre. Là, di fronte e perpendicolarmente al letto, l’armadio in frassino ad ante scorrevoli. Una manica di camicia chiara penzola fuori mostrando distintamente il bottone bianco del polsino, che riflette il soffuso chiarore della maledetta luce giallognola. Chi ha aperto l’anta dell’armadio ? Che idiota ! L’ho dimenticata aperta quando mi sono coricato, certo ! Nell’angolo a destra la sagoma quadrangolare del sofà in stoffa chiara, intonata al colore delle delicate venature del frassino della mobilia. Accanto ad essa la cassettiera col soprastante grosso specchio rettangolare che, per fortuna, a causa dell’inclinazione della sua superficie rispetto alla direzione di provenienza della luce, non riflette immagini di sorta. Nell’angolo a sinistra, accanto alla porta aperta della camera, l’appendi abiti. Un brivido percorre per intero tutto il mio corpo quando gli occhi si posano sulla sagoma della vestaglia, appesa con una stampella. Che ridicolo che sono ! Sapevo bene che era lì quella vestaglia. In quale altro posto la posso appendere ? Lo sguardo fugge, con la coda dell’occhio, sul comodino adiacente al letto, all’estrema sinistra accanto al cuscino in piume d’oca, nel quale affonda, quasi impietrita, la mia testa. Il pulsare ritmico del led di luce verde del cordless, appoggiato sul comodino, ha la capacità di rianimarmi. La batteria sta caricandosi. La luce pulsa perché è viva. E’ come un cuore : il cuore della comunicazione mondiale. Pulsa, e io posso aggrapparmi alla cornetta per contattare qualsiasi persona al mondo. Ma quale persona posso contattare a quest’ora di notte? A chi posso raccontare le mie angosce? Chi mi può aiutare ? Mamma, dove sei ? Il terrore riprende il sopravvento. Il sudore freddo scende copioso sotto le ascelle, dietro la nuca, sopra le tempie. Con la bocca ed il naso sotto le coperte, respiro con affanno, respiro per gran parte la stessa aria in precedenza consumata. I globi oculari vorrebbero arrestarsi puntati in direzione di quel led, che pur si è già rivelato una falsa 2 ancora di salvezza. Ma una forza irresistibile, spaventosa, li trascina piano, piano, dalla parte opposta, in direzione di quell’angolo della stanza dove sanno già che cosa incontreranno : il “dondolo” di legno “made in China”. E il dondolo, con la sua consueta puntualità, mi aspetta all’angolo ; con la sua consueta, ossessionante ferocia, sembra oscillare lentamente avanti e indietro. SEMBRA oscillare, ma non oscilla. No, questa volta non può oscillare ! E invece SI. Non può farne a meno, è nella sua natura. Oscilla per ME. E’ quell’entità mostruosa che ospita sopra di sé a farlo oscillare. Un’entità assolutamente impalpabile, eterea, priva di forma e sostanza corporea. Eppure presente, terribilmente, infinitamente presente. Non ha connotati fisici, eppure mi osserva, mi scruta, mi dilania. La SENTO che mi osserva. E non mi lascia scampo. Sono soggiogato dalla sua presenza imperscrutabile, rimango paralizzato. Non riesco a parlare, a urlare. Con fatica indicibile riesco solo a balbettare. Chi...sei ?..Co..co..sa..vuoi ? Per tutta risposta la sento sogghignare come una vecchia megera. Ma CHI sogghigna ? Chi.. sei ?..Che..vuoi..da..me ?..Vat..te..ne !..Lasc..ia..mi..in..pace ! Il dondolo di colpo si immobilizza. L’entità impalpabile sembra assorbire la tenue luce giallognola diffusa nella stanza, e tramite essa acquisisce quasi fisicità e dinamismo. Assume le sembianze di una corporeità comunque indefinibile....e SI MUOVE. La sento...la vedo alzarsi dalla sedia a dondolo. Si approssima, maestosa e irresistibile verso di me. Il panico raggiunge il culmine. Sono sconvolto. Mi sento perduto. Ma una forza interiore di ribellione, insperata fino a pochi attimi prima, prende il sopravvento. Non soccomberò al terrore. Questa volta no! Sento di poter scandire senza balbettii il mio urlo di guerra. Vaffanculo, stronza ! E come una bestia ferita a morte, senza più speranze di fuga, riesco a convertire il panico in furia cieca ed esplosiva. Voglio colpire la......”cosa”. E la “cosa” ora è sopra di me, sta per avvolgermi, risucchiarmi nel suo “non-essere”. Provo a sollevare le coperte e a scalciare contro di essa. Non ci riesco. NON CI RIESCO. Sono ancora paralizzato. ASSOLUTAMENTE incapace di muovermi. VATTENE , maledetta ! Ma..le..det..ta...va..i..via..da..me..MAM..M..M..MA..a..iu..to..mam..ma..do..ve..se..i.. Spalanco gli occhi. Con la fronte imperlata di sudore, il respiro affannoso, sollevo di scatto tutta la parte superiore del corpo e mi dispongo seduto sul letto. Lancio uno sguardo 3 repentino sugli oggetti della stanza, pervaso dal terrore e in preda a una furiosa tachicardia. Appena un attimo per rendermi conto di essere stato in balia dell’inestirpabile e ricorrente incubo che mi perseguita, con pochissime varianti nel suo impianto strutturale, da quando ero bambino. Poi mi infilo di nuovo, con rapidità, sotto le coperte, mugolando e farfugliando imprecazioni. Superato il frangente in cui lo stato di veglia, appena raggiunto, rimane ancora paludato nelle immagini e nelle connesse emozioni del sogno, subentra l’appagante sensazione di scampato pericolo. “Era soltanto un sogno. Il solito stramaledetto incubo di sempre”. E come la lumaca che, dopo essersi ritratta per aver subìto un disturbo esterno, torna progressivamente ad allungare le piccole antenne fuori dal guscio, ora anch’io mi faccio coraggio e tiro fuori testa e braccia dalle coperte. Anche perché, sotto di esse, stavo rischiando di asfissiare. Ma ancora una volta non posso fare a meno di notare l’incredibile “veridicità” del sogno. Tanto che non riesco a sentirmi totalmente “in salvo”; anzi, avverto una perdurante, anche se controllabile, ansietà. I particolari del sogno, ancora così vivi e chiari nella mente, sono tutti, o quasi, identici a quelli della realtà che mi circonda nella stanza. La stessa tenue luminosità prodotta dal lampione della strada, gli stessi mobili nella stessa identica posizione, persino il cordless sul comodino che lampeggia ad indicare il ricaricamento delle batterie. Fortunatamente nessuna manica di camicia a penzolare fuori dell’armadio aperto; sarebbe stata a dir poco inquietante la coincidenza di un simile particolare. E soprattutto – dirigo lo sguardo ancora timoroso nell’angolo alla mia destra - la sedia a dondolo non si muove. Non è spiritata, non ospita mostruose presenze occulte. Come in tutte le altre occasioni nelle quali mi sono svegliato in preda allo stesso incubo, avverto una fugace ma chiara sensazione di conoscere quella presenza terrificante che mi perseguita, di identificarla in qualcosa di preciso, di reale, di familiare. Ma è solo la sensazione di un attimo che soccombe subito dopo, invariabilmente, all’impulso di rimuovere quella consapevolezza, di nasconderla perché insopportabile. Risulta estremamente difficoltoso dare una tranquilla spiegazione razionale al persistere di quelle immagini mostruose dell’inconscio. Uno psicanalista, si sa, ne saprebbe fornire diverse, e tutte perfettamente logiche e plausibili. Ma sono sempre stato riluttante a ricorrere alla consulenza dello specialista in materia; non per scetticismo nei confronti dei paradigmi interpretativi che hanno radici nel genio freudiano. Né, tanto meno, per stupida presunzione 4 di autosufficienza intellettuale, la quale mi impedirebbe di sottoporre “il caso” alle interpretazioni di qualcun altro. Ma semplicemente perché “il caso” riesco a figurarmelo solo come una sfida personale contro me stesso, una sfida “all’ultimo sangue” nella quale debbo attrezzarmi tanto con armi razionali, quanto con adeguate risorse emotive. Così, talvolta, mi soffermo a meditare sul perché di questo incubo ricorrente. Paura della morte, contro la quale si rivelano insufficienti gli ordinari meccanismi difensivi? Plausibile e probabile, questa spiegazione. Progressivo distacco dalla protezione materna vissuto con esagerato senso di insicurezza e mai superato completamente nelle successive fasi di formazione della personalità e di strutturazione del carattere? Plausibile anche questa, come spiegazione, la quale, d’altronde, potrebbe considerarsi come una specificazione o integrazione della precedente, suffragata dal costante ricorso alla richiesta di aiuto materno nell’epilogo, tenace e quasi invariabile, del sogno. La mia sfida personale si sta arricchendo anche di una capacità di reazione emotiva fino ad oggi mai riscontrata. Per la prima volta, in quest’ultimo episodio, posso constatare la nascita di una forza interiore di ribellione contro l’entità mostruosa dell’incubo (vaffanculo, stronza !). Socchiudo le labbra, ancora aperte a compensare l’insufficienza di ossigeno appena patita, in un ghigno di soddisfazione. Mi sento quasi un Prometeo. Ho voglia di gridare ad alta voce: “Vaffanculo, stronza. Finalmente posso e VOGLIO combatterti”. Insieme con l’ossigeno respiro coraggio. Che sensazione affascinante ! Rare volte ricordo di averla provata. Eppure, trascorsi questi brevi momenti di autoanalisi ed autocompiacimento, non riesco a trattenere il braccio destro che, sotto la pressione di una residuale inquietudine, si precipita, con un gesto repentino, sull’interruttore dell’abat-jour. La luce, finalmente ! Di colpo scompare l’atmosfera spettrale prodotta dal tenue chiarore giallognolo del lampione stradale. Dovrò ricordarmi a serrare completamente le persiane della finestra nelle notti a venire. Il proposito non mi rincuora più di tanto, cosciente del fatto che, pur ricordandomi puntualmente di attuarlo, non potrò cancellare, con altrettanta facilità, i mostri che turbano i miei sogni. Le cose della stanza mi appaiono di nuovo nella loro materiale, rassicurante familiarità. Sento di avere irrimediabilmente perso ogni stimolo al sonno, e la sveglia digitale sul 5 comodino indica appena le 3 e 15 del mattino. Ma ormai è da lungo tempo che mi sono abituato a brevi e interrotti periodi di sonno. Non ricordo più nemmeno a quando risalgono gli ultimi periodi di sonno tranquillo e continuato, di almeno 7-8 ore, dei quali ho goduto. Decido di alzarmi dal letto. Infilo pantofole e vestaglia. Sto per imboccare il corridoio quasi buio, poi esito un istante, volto lo sguardo in direzione del letto appena lasciato, per rivivere, sotto la spinta di un bisogno impellente, la candida immagine seminuda di Stella. I graziosi seni, piccoli ma prospicienti, i riccioli neri ricadenti sulle spalle, le sopracciglia lunghe, nere e folte in netto contrasto con i lineamenti delicati e tondeggianti del volto, gli occhi grandi, scuri, leggermente a mandorla, la piccola cicatrice sul lato sinistro del labbro inferiore. Il timbro di voce penetrante, di irresistibile sensualità - ora me ne accorgo ! - con il quale mi domanda, sicura di una precisa risposta : “Enrico, perché non vieni a letto ?”. Una delle tante volte passate insieme - quasi un secolo fa - in quello stesso letto dei miei incubi, stretto ma sufficiente a contenere i nostri due corpi avvinghiati. Ora una struggente malinconia, mista ad un accenno di vigorosa eccitazione (percepisco un sussulto del pene nello slip), cancella via persino il ricordo delle trascorse traversie oniriche. E subito dopo rimuovo con forza anche quest’ultimo, fugace flashback, e con esso l’insopportabile e contraddittorio stato emotivo che l’accompagna. Varco l’uscio della stanza, attraverso, senza accendere la luce, il corridoio ed entro nella cucina buia. Schiaccio l’interruttore di corrente e mi dirigo ai fornelli della stufa a gas. Preparo minuziosamente la moka del caffè e la depongo sulla fiamma di un fornello. Nell’attesa che il gradevole e vivificante aroma del caffè si sprigioni dalla moka - già pregusto quella scossa vitale che riesce sempre a infondermi - mi accosto alla finestra, l’apro e mi affaccio sulla strada. Una sferzata di aria rigida, consueta per una mattina invernale, mi investe sul petto e sul volto, costringendomi a sollevare il bavero della vestaglia e a stringere i palmi delle mani intorno alle braccia, mentre incurvo la schiena sul davanzale. Tutto sommato, quell’improvviso contrasto termico, che solitamente non produce certo un effetto gradevole sulla pelle, mi sembra davvero tonificante. Mi espongo senza ritrosia a quella carezza gelida e mi soffermo a scrutare, in una sorta di riverenza estatica, i giochi d’ombra creati dalla luce dei lampioni sulle pietre di peperino dei palazzi adiacenti al mio e sulla basaltina del pavimento stradale. Il silenzio è assoluto. Il lampione più vicino (quello responsabile del chiarore spettrale nella camera da letto) emette un ampio cono di calda luce gialla. Avverto provenire da dietro le spalle il borbottio della moka. Indietreggio e, mentre richiudo la finestra, l’aroma del caffè inizia a stuzzicarmi le 6 narici. Lo inalo profondamente e rivolgo un sorriso beffardo al mio interlocutore inconscio : “Alla prossima volta, inossidabile amico fantasma”. 7 CAPITOLO II BAKUNIN ALLA FINESTRA Cliccando col “mouse” ripetutamente su alcuni files elaborati molto tempo fa, inutili e ingombranti anche per l’archivio, li trascino con la freccetta sul “cestino” dei rifiuti (virtuale, ovviamente) per sbarazzarmene, constatata la scarsa disponibilità di kbytes sul dischetto, e creare così spazio sufficiente per approntare una lunga e urgente deliberazione. Ho sempre simpatizzato per questa singolare invenzione di marca Macintosh, così esplicita, diretta, accattivante, come molte altre invenzioni di tale famigerato sistema operativo. Non ho mai avuto dubbi nel preferire il linguaggio Macintosh al barboso e meticoloso linguaggio in MS-Dos. E noto con soddisfazione che la storia, una volta tanto, è in sintonia con i miei stessi gusti, visto che i mezzi di elaborazione informatica, almeno quelli di larga utilizzazione, si sono progressivamente orientati ad imitarne il modello, semplificando e “umanizzando” sempre più l’interfaccia comunicativo. Sento dire, da profano in materia, che presto riusciremo letteralmente a parlare col nostro personal computer, ad usare comandi verbali per chiedere che effettui le sue prestazioni. Seguo di buon occhio l’evoluzione della tecnologia potenzialmente proiettata a liberare l’uomo dagli aspetti più tediosi e faticosi del lavoro, fino al punto di farci magari dimenticare un giorno dei significati negativi fino ad oggi impliciti nel concetto di lavoro. Fino da quando ebbi modo di conoscere il pensiero di Pollock sull’automazione, mi convinsi pienamente delle possibilità liberatrici ad essa intrinseche. Salvo a ragguagliarmi sulla possibilità del tutto opposta - e anche più verosimile - che l’automazione continui a liberare dalla schiavitù del lavoro solo alcuni e a liberare molti altri dall’opportunità stessa di lavorare per sopravvivere o vivere decentemente, o che addirittura possa essere utilizzata come strumento “in primis” di dominio, controllo e sopraffazione. Questo è senz’altro un affascinante argomento di sociologia che, mi rendo conto, merita attente considerazioni. Seduto sulla mia scrivania posso solo giovarmi, per il momento, delle mirabili invenzioni tecnologiche. Richiamo il programma di scrittura, imposto il tipo e il formato dei caratteri e inizio a riprodurre il testo della deliberazione sul video. “Cazzo..... !” 8 Una breve interruzione di alcuni secondi nell’erogazione della corrente nel palazzo oscura il video e smorza il neon della stanza. “....non avevo ancora ‘salvato’ !”. Inconveniente non molto infrequente che capita agli utenti di p.c. come me sprovvisti di un gruppo di continuità. “Per fortuna avevo battuto solo poche righe...” Appena tornata la corrente ripeto la sequenza di operazioni di avvio e impostazione e riprendo la battitura da capo, col proposito di interrompere con assiduità per “salvare”. Toc-Toc. Bussano alla porta. Prima ancora che riesca a rispondere “avanti” e a voltare la testa verso la porta, questa si schiude... “Buongiorno Enrico....già al lavoro ?” La bella figura di Francesca, da poco tempo annessa all’organico del settore, produce in me una leggera scossa di eccitato imbarazzo. Ogni mattina è sempre elegantemente vestita, per lo più con tailleur variamente colorati ; il viso e le mani sapientemente curati con raffinati prodotti cosmetici, senza mai eccedere in grossolane esagerazioni, la capigliatura rigorosamente in ordine con acconciature morbide e flessuose, con mille pieghe e ondulazioni ed ognuna sempre al posto giusto....ed un profumo...che profumo ! Non saprei proprio a quali essenze assimilarlo. Non riuscirò mai a capire come certe donne trovino il tempo e la pazienza di imbellettarsi a tal punto da risultare così...perfette ! “Oh...salve Francesca...ho una proposta di deliberazione urgente da consegnare stamattina e allora....eccomi qua ! Tu piuttosto....un po’ in ritardo rispetto al solito....come mai ?” “Be’....si ! Mi sono alzata tardi....avevo un sonno incredibile !...” E poi il tempo necessario per truccarsi così ! “...Comunque ho i miei dubbi che riuscirai a completare la tua proposta di deliberazione”. La guardo con espressione interrogativa. “Perché ?” “Be’ perché lungo la strada mi sono imbattuta in un grosso corteo di studenti che credo si stia dirigendo qui al palazzo....per le solite rivendicazioni sai....e capirai il frastuono, gli schiamazzi assordanti...ecco ! Se ascolti attentamente si sentono già avvicinarsi...nemmeno a dirlo !” 9 Ma me lo dice con un risolino divertito, come a dire “povero te !”. E mentre mi volgo con l’orecchio in ascolto verso la finestra per captare il lontano vocio, mi saluta sempre più divertita: “Allora...auguri di buon lavoro...ci vediamo !” “Ciao”. Chiude sommessamente la porta e la sento allontanarsi nel corridoio con i suoi inconfondibili tacchi a spillo. Rimango fermo in ascolto per alcuni secondi del vocio che sembra in effetti si stia avvicinando. Non mi posso lasciare distrarre, devo ad ogni costo finire questa cazzo di proposta, altrimenti.... Si riapre la porta. Fa capolino il viso di Teodoro. “Allora.....questo Milan ! Strepitoso, non ti pare ?” “Oh...Teo...si ! Formidabile, davvero ! Ma c’era da aspettarselo, con quei talenti che ha in squadra.” “Dai, vieni di là, c’è Ernesto che tiene banco....è avvelenato per l’arbitraggio...sai...quando non sa come buttarla se la prende con gli arbitri...c’è da morire dalle risate. “ “No. Adesso non posso. Ho una cavolo di deliberazione da sbrigare e....” “Perché...pensi di poter lavorare stamattina ? Non li senti gli studenti come strillano ?” “Già, li sento, ma non posso interrompere. Ho delle scadenze strette.” “O.K., ci vediamo dopo...poi ti racconto. Ciao.” “Ciao.” Si richiude la porta. Mi sento un po’ contrariato, forse per gli slogans degli studenti che ora comincio a distinguere bene nella loro ritmicità incalzante. Sembra proprio che tutti vogliano che io non appronti questa deliberazione oggi ! Mi sollevo dalla poltrona, vado alla finestra e la spalanco, mi affaccio per rendermi conto personalmente dell’evento. In fondo alla via antistante la sede amministrativa si affaccia la massa caotica urlante e variopinta del corteo studentesco. A far da battistrada tre auto dei carabinieri che procedono lentamente, seguite da una ventina di uomini - in parte in divisa, in parte in borghese - delle forze dell’ordine. Subito dietro, in prima fila, un lungo striscione tenuto a braccia da una quindicina di studenti : SIAMO SEMPRE QUI CONTRO LA SCUOLA DEI PADRONI. Come un fulmine a ciel sereno mi colpisce l’impronta fortemente politicizzata che trapela dalla massimalistica frase. Certo, dalla lettura dei quotidiani avevo già appreso della 10 crescente ondata di fermenti studenteschi in tutto il paese, ma non sospettavo affatto, soprattutto per una tranquilla, piccola città come quella in cui vivo, che avesse raggiunto un tale grado di maturità politica. Pensavo si trattasse di un rivendicazionismo spicciolo, contro la cronica disfunzione organizzativa degli istituti scolastici. Da alcuni anni a questa parte ho assistito al ripetersi puntuale di un simile fenomeno, in corrispondenza del periodo iniziale dell’annata scolastica, poi invariabilmente esauritosi nel periodo successivo. Questa volta no. Questa volta sembra qualcosa di diverso. Man mano che il corteo avanza, si evidenziano alcuni particolari non secondari che confermano la mia impressione : alcune bandiere rosse con tanto di falce e martello (erano diversi anni che non facevano più comparsa nei cortei studenteschi), immagini del Che Guevara e di Mao Tse-tung, alcune isolate ma significative bandiere rossonere, quelle degli anarchici (appena le distinguo mi lascio prendere dall’emozione), un fazzoletto rosso o una kefiah araba a scacchi bianchi e neri intorno al collo di molti studenti, pugni alzati alla cadenza ritmata degli slogans. Preso da entusiastica incredulità mi adagio con i gomiti sul davanzale a scrutare con lo sguardo attento ogni più piccolo particolare della massa festante, in atteggiamento rabbioso, che avanza. Il corteo sembra molto consistente. Per il tratto scoperto alla mia visuale, ora di quasi 200 metri, è fortemente stipato per tutta la larghezza della strada, fino a rasentare le vetrine dei negozi, dalle quali si affaccia timoroso il volto di qualche esercente. Ed ho la sensazione che la coda sia ancora lontana. Davvero un corteo molto grosso, ed anche molto partecipato, a giudicare dal caotico e assordante sovrapporsi degli slogans urlati ai diversi stadi del suo flusso di scorrimento. Come se ne vedevano solo....ai “miei tempi”. Già ! Quei mitici tempi che sconvolsero gran parte del pianeta, nei quali ebbi la fortuna di vivere, lasciandomi coinvolgere, con tutto l’entusiasmo adolescenziale di cui disponevo, nel proposito di distruzione delle fondamenta istituzionali e della cultura dominante. Con quanto orgoglio li ricordo ! Non mi è mai piaciuto far vanto pubblico di essere stato partecipe di quella “rivoluzione”. Ho sempre provato fastidio e quindi evitato di assumere paternalistici atteggiamenti da “eroe in pensione”, soprattutto dinanzi a interlocutori più giovani di me, quando si è presentata l’occasione di discorrere di quei tempi. Ma non posso negare che quell’”io c’ero”, almeno dentro di me, ha sempre fatto vibrare corde emotive di profonda e convinta soddisfazione. Proprio come in questo momento, in questo interiore revival nostalgico del passato dal quale mi sento improvvisamente sopraffatto alla vista del corteo. 11 Ora però avverto anche un’altra sensazione mista all’orgoglio : la rassegnata tristezza di chi sa di essere stato spazzato via dalla storia, di chi si sente inesorabilmente superato dal tempo. L’obsolescenza. Ecco il terribile tarlo che corrode, anno dopo anno, anche le più gloriose reminiscenze del nostro vissuto. C’è una radicale ambivalenza di significato nella percezione del proprio accantonamento come una sorta di anonima reliquia museale. Da una parte, certo, cresce l’autovalorizzazione in senso “archeologico”, dall’altra si rafforza la convinzione di essere divenuti “cadaveri ambulanti”. “Santificazione” e “zombificazione” marciano di pari passo. Così, con l’animo un po’ da “papà” del ribellismo giovanile e studentesco, un po’ da “scheletro dissepolto”, sto qui incantato a rimirare la mia storia nella storia degli altri, nella lacerante ambiguità emotiva causata dal ritorno di un passato che non vuol morire nel presente. Che belli quei volti freschi e sorridenti che si lanciano occhiate di perfetta intesa reciproca, di ingenua convinzione in una comunanza indistruttibile di idee e di valori ! Come li riconosco, e come mi riconosco in essi ! Vedo quello che ero e quello che era bello essere, sentirsi, ossia innovatori della storia, portatori di un messaggio ardito, giusto, universale. Ma vedo anche la morte dei sogni, la marcia cieca dell’illusione, ignara del destino fallimentare ineluttabile che la cinica realtà riserva ad essa. L’ideale è sempre ingenuo là dove richiede una cieca fedeltà all’oggetto che persegue, e finisce per essere non solo irriso ma anche inesorabilmente sconfitto dal pragmatismo, dal realismo calcolatore e disincantato dell’ossequiente conservatore. E’ per questo che provo, oltre tutto, un fastidioso senso di vergogna nel rispecchiarmi in quei volti e in quegli ideali che da essi traspaiono. Con la mia esperienza rievoco, senza possibilità di dissimularlo e di reprimerlo, lo scoramento prodotto dallo scherno, dal risolino canzonatorio dell’adulto benpensante. E così rimango in balia di una tumultuosa miscela di emozioni che si sovrappongono e si scontrano, senza ordine, in modo incontrollato. E per fortuna il senso di fierezza non viene meno, resiste supportato dalla convinzione razionale - anch’essa frutto dell’esperienza che l’ideale, seppur ingenua e facile preda della maligna irrisione, è sempre stato una spina nel fianco con la quale lo strapotere del reale e del realismo deve comunque fare i conti, e deve saperli fare bene, con il raggiro ma anche con le concessioni, con l’astuzia e con “onorevoli ritirate strategiche” al momento opportuno. Al di là di ogni giustificato pessimismo, consola il fatto che anche l’ideale ha una sua parte, nonostante tutto, nella storia. 12 Le urla, gli schiamazzi, gli slogans e le invettive, i cori di denigrazione che cantano sulle note rubate a popolari ritornelli, divengono assordanti, rimbombano fragorosamente tra le mura dei palazzi e fanno vibrare i vetri delle finestre. Il corteo ha raggiunto la sede amministrativa, e come un fiume in piena che straripa dagli argini, si allarga e defluisce piano piano su tutta la piazzetta antistante la sede, che si rivela insufficiente a contenere tutti i manifestanti. E ancora non si distingue la coda del corteo. Grandioso ! Ne rimango affascinato. Mille colori si incontrano e si allontanano fra loro, ondeggiano, si muovono caoticamente in ogni direzione, cercando di assestarsi in spazi sempre più ristretti, fornendo alla vista l’impressione di un gigantesco formicaio impazzito. Le mura dei palazzi che circondano la piazzetta trasudano curiosità. Tante sono le persone affacciate alle finestre o a spiare dietro i vetri, alcune con un accenno di sorriso sulle labbra, ma tutte con lo sguardo impressionato per l’inatteso e inusuale trambusto, giunto d’improvviso a sconquassare la routine quotidiana. Ora si percepiscono distintamente le parole di battaglia. “CHI NON SALTA - ASSESSORE - E’ - E’...” Una gran massa di giovani urla questa frase sorridendo e saltellando. Alcuni pugni isolati si sollevano in aria, accompagnati dal grido : “BUF - FO -NI, BUF -FO -NI...”, subito imitato da un poderoso coro collettivo. Evidentemente l’offesa è diretta verso i presunti responsabili del malcontento, ossia verso gli amministratori pubblici in genere. Man mano che il coro si spegne, da un angolo appartato della piazza si solleva , ma senza trovare un grosso seguito, uno slogan ormai “storico”, uno di quelli scanditi da decenni nelle strade, e che hanno contraddistinto un certo, inconfondibile, schieramento politico : “ NE’ DIO - NE’ STATO - NE SERVI NE’ PADRONI...” Uno slogan così palesemente radicale e impegnativo, così agguerrito, seppur con scarsa eco tra i presenti, che subito evidenzia un colorito gruppetto di anarchici, caratterizzato dalle più stravaganti e fantasiose capigliature, da giubbotti che riluccicano in abbondanza di borchie e metalli vari, da jeans consunti, strappati e tagliuzzati, da scarponi e anfibi ed altri vari contrassegni di “guerra”. Bakunin, Proudhon, Kropotkin, Malatesta....questi “mostri” sacri dell’egualitarismo libertario, e più che altro il significato che essi racchiudevano per il mio oltranzistico idealismo di gioventù, riemergono alla coscienza d’improvviso come lampi nella notte, provocandomi un fremito che mi scuote tutto. Rimango per alcuni secondi suggestionato come un bambino che riceve elogi in pubblico per la prima volta. 13 Ecco ! Io queste cose le urlavo 20..25 anni fa ! “BUF - FO - NI, BUF - FO - NI...” Vivo questi attimi come un solenne riconoscimento postumo della giustezza del mio ribellismo giovanile, quello già consegnato ai libri di storia, anche se in realtà non è altro probabilmente che un “autoriconoscimento” (quanti tra i presenti hanno una chiara coscienza storica di quegli anni trascorsi che ho vissuto ?). “LADRI MANGIASOLDI, TORNATE DENTRO A LAVORARE !” Una voce isolata si solleva dalla piazzetta, subito seguita da un’assordante coro generale : “LA -DRI, LA -DRI, LA -DRI.....” Il gelo - ma non quello dell’aria mattutina che non è poi così pungente - interrompe quell’autocompiacimento. Al suo posto subentra un dubbio scioccante. Ma...con chi ce l’hanno ? “LA -DRI, LA - DRI, LA - DRI....” Con la coda dell’occhio scorgo molti volti affacciati alle finestre che si ritraggono e scompaiono all’interno delle stanze. Volto lo sguardo a destra e a sinistra...e ricevo la conferma. Ce l’hanno con noi ?...noi impiegati ?... “LA -DRI, LA -DRI, LA - DRI...”, sempre più forte. Come è possibile !..ce l’hanno con noi...con me ?... Mi ritraggo istintivamente colto da un senso di vergogna incontrollabile, che mi lascia di stucco, e avverto delle vampe di calore alle gote. Sempre d’istinto, faccio due passi indietro per nascondermi dagli sguardi della folla. Ma noi che c’entriamo ?..eh si ! Per loro c’entriamo anche noi ! Ci vedono come parte integrante del sistema...come i tirapiedi della macchina statale... “LA - DRI, LA - DRI, LA - DRI...”, il grido collettivo non accenna a placarsi. ..Ma noi siamo qui a guadagnarci il pane ! Come fanno a non rendersene conto ?... Non ho più il coraggio di riaffacciarmi al davanzale, mi giro e passeggio nervosamente per la stanza. La deliberazione...debbo riprendere a battere la deliberazione...ma come cazzo fanno a prendersela con noi ?... Poi il grido si spegne. Decido di tornare a sedere davanti al video. Lo fisso ancora frastornato, resto immobile per alcuni minuti senza riuscire a battere nemmeno una parola sulla tastiera. Alle orecchie mi giungono gli slogans ritmati che si susseguono e si 14 sovrappongono senza interruzioni. Non riesco a ragionare. Quel senso di vergogna mi ha completamente svuotato e reso incapace di connettere e di agire. E gli slogans mi martellano senza pausa; non più padronanza di me stesso. “LA - DRI, LA - DRI, LA - DRI....” Si solleva di nuovo dalla piazza quel coro ingiurioso. Il frastuono è infernale. La partecipazione dei presenti al grido è pressochè totale. Forse qualcuno degli impiegati ha osato continuare la “provocazione” restando affacciato o tornando alla finestra. E il corteo di manifestanti sembra essersi compattato, con gratificazione, nell’intento di schernire il visibile, presunto “nemico”. Come è possibile ?...ma come è possibile ?...Non possono far di tutta l’erba un fascio, come se un impiegato, un dirigente, un Assessore, un Presidente, siano tutti la stessa cosa, abbiano tutti le medesime responsabilità ! “LA - DRI, LA - DRI, LA - DRI....” Ma forse sono io che pretendo assurdamente una maturità e una capacità di discernimento da parte di giovani, per lo più studenti medi, con età compresa tra i 15 e i 20 anni, molti dei quali magari aggregatisi per la prima volta al movimento degli studenti... “LA - DRI, LA - DRI, LA - DRI....” Forse, anzi sicuramente, anch’io inveivo nei cortei contro tutto e tutti senza pormi tanti problemi di fare distinzioni, almeno al principio della mia svolta esistenziale in favore della rivoluzione. Forse l’ideale esplode sempre in una troppo sommaria, ma inevitabile, contrapposizione alla realtà costituita, per poi aggiustare il tiro lungo il percorso di crescita collettiva di chi se ne fa portavoce. Però...è davvero esagerato prendersela con semplici impiegati ! “LA - DRI, LA - DRI, LA - DRI....” Resto costernato, quasi inebetito, piantato con lo sguardo sullo schermo del computer, senza riuscire a coglierne alcuna immagine. Non è possibile ! Non posso accettare di essere considerato alla stregua di un meschino e ossequiente servitore dell’apparato istituzionale. Io sono un lavoratore, come l’operaio della fabbrica, come il carpentiere dei cantieri edili, come... “LA - DRI, LA - DRI, LA - DRI....” ....e sono stato un convinto militante anarchico !...e quelle idee..quel pensiero..non li rinnego...anzi ! La squallida esperienza di vita di questi lunghi anni di lavoro presso l’Amministrazione pubblica mi ha, con continuità, fornito le prove tangibili della verità 15 insita in quelle idee, anche se non ho più l’entusiasmo e l’ingenuità giovanili di considerarle come una “terra promessa” che un futuro ineluttabile ci consegnerà. Ora so quanto siano concrete quelle aspirazioni di libertà, uguaglianza, fratellanza, tanto quanto so con quale facilità risultino vulnerabili ai colpi inferti da parte di chi brama il potere e il privilegio. “LA - DRI, LA - DRI, LA - DRI....” Quell’ingiuria non cessa di martoriarmi. “Certo !...perché no ?” Un’idea ammaliante balena improvvisa nella mia mente. “Non posso lasciar credere che qui stiamo tutti dall’altra parte della barricata !” Scatto in piedi scrutando con rapidità ogni angolo della stanza alla ricerca di qualcosa che possa fare al caso mio. “Eccoli là !” Appoggiati di lato alla libreria, accatastati alla rinfusa, ci sono ancora dei vecchi manifesti arrotolati. Manifesti propagandistici relativi a convegni, mostre, iniziative pubbliche di vario genere, realizzate in passato dall’Amministrazione, e che ricordavo di avere conservato. Mi dirigo a passi veloci verso di essi, ne srotolo parzialmente alcuni fino a che... “Ecco, questo è grande a sufficienza, proprio ciò che stavo cercando”. Distendo il manifesto sulla scrivania esponendo la parte posteriore bianca, prendo un pennarello di colore rosso dal cassetto e mi predispongo a scrivere, incurvando la schiena sul grosso foglio. Esito, immobile, per circa un minuto, con lo sguardo fisso nel vuoto, elaborando mentalmente “la frase” a cui intendo affidare una funzione di “riscatto morale”. “Perfetto !” Allargando le labbra in un risolino di soddisfazione, e sotto la pressione di un desiderio di riscossa, inizio a scrivere la frase a grossi caratteri in stampatello, con la speranza che risulti leggibile a distanza. Nel frattempo quell’ingiuria che ha provocato il mio risentimento, viene sopraffatta dal susseguirsi di slogans più politici. Ma ha ormai lasciato il segno dentro di me. Appena terminato di scrivere, dal un cassetto della scrivania prendo anche il nastro adesivo, quindi afferro per il margine superiore il manifesto e mi dirigo alla finestra. Giunto presso il davanzale vengo di nuovo assalito dal senso di vergogna, dal timore di incrociare gli sguardi sollevati della folla giovanile. Non posso fare a meno di accucciarmi 16 per evitare di espormi di nuovo a quella sorta di linciaggio morale subìto poc’anzi, ma anche per precauzione, al fine di non essere riconosciuto da colleghi del palazzo. Ma nonostante la vergogna e l’apprensione, non so resistere all’esaltazione fanciullesca che mi assale e mi riporta indietro di almeno 20 anni. Devo farlo ! Non posso rinunciare. Con lo stato d’animo di chi crede di compiere il suo piccolo ma significativo gesto eroico quante volte provai questa sensazione quando imbrattavo di notte i muri della città con le “A” cerchiate e gli incitamenti alla sovversione - “protetto” dietro il muro del davanzale, faccio scivolare il manifesto fuori dalla finestra, fissando al telaio il margine superiore con il nastro adesivo. IERI OGGI DOMANI W IL MOVIMENTO DEGLI STUDENTI Per fortuna non c’è vento. L’operazione sembra “tecnicamente” riuscita. Ora rimane da attendere che tipo di effetto avrà sui manifestanti. Mi ritraggo dalla finestra sempre accucciato, mi rialzo in piedi e riprendo a passeggiare per la stanza. Provo la soddisfazione di chi sa di aver compiuto il proprio dovere...vada come vada. E la soddisfazione tramuta in autentica euforia ora che si fa chiara la percezione di essere riuscito a colpire nel segno. Il fragore degli slogans si è quietato, sostituito da un brusio generale che somiglia al sommesso e diffuso chiacchiericcio di una folla al mercato. Comprendo di aver indotto una certa titubanza e un certo imbarazzo tra gli studenti. Stanno leggendo, commentano, discutono il contenuto del manifesto, forse stanno valutando la serietà del messaggio. Certamente non sembrano più così sicuri di avere nemici, solo nemici, di fronte a loro. Bene !...molto bene ! Serpeggia la confusione e l’incertezza. Era quello che mi proponevo...gettare uno stimolo alla riflessione autocritica, oltre che “salvare” la mia dignità personale. Per due o tre lunghissimi e gradevolissimi minuti persiste questa situazione di “tregua” riflessiva, più che sufficiente a convincermi di aver vinto una battaglia. Prima di tutto contro me stesso, interrompendo un lungo periodo di stagnazione spirituale e di atrofizzazione degli impulsi vitali nel quale ero scivolato, in conseguenza del cumularsi di delusioni e disillusioni esistenziali ; poi contro l’irrazionalità in genere, quella bestia nera 17 che insidia come un’ombra il nostro essere e ci accompagna fino alla tomba. In effetti questa vittoria ha la capacità di riaccendere in me un fuoco ormai spento da tempo, di riattivare quella volontà di razionalità che costituì uno dei miei capisaldi ideali di gioventù. E l’assaporo come un trionfo della ragione. Poi odo alzarsi alcune urla isolate, sento la folla rianimarsi. Tornano a rimbalzare tra i palazzi gli echi di rabbia e di scontento, di gioia e di divertimento. Riprendono gli slogans ritmati, le canzoni e le invettive, e ancora con ironia graffiante e canzonatoria...ma non odo più quelle parole ingiuriose, quelle offese sommarie, quel “LA - DRI” o quel “BUF - FO NI”. L’orgoglio. Sono orgoglioso di questo gesto, di aver appeso il manifesto. Già !...il manifesto ! E’ ancora lì....e se lo vede qualche impiegato, o qualche Assessore, o il Segretario Generale ? Al senso di orgoglio si sostituisce l’ansia, innescata dalla improvvisa preoccupazione di avere forse - nonostante i quaranta anni di esperienza di vita sulle spalle - esagerato nelle proprie azioni, di essermi lasciato trasportare da impulsi di una ingenuità infantile. Se scoprono il mio gesto, che rischi corro ? Potranno avviare procedure disciplinari nei miei confronti ? Alla crescente preoccupazione si affianca anche un certo risentimento verso me stesso, per la stupidità con la quale, ancora una volta, ho sopperito con scarso autocontrollo all’emotività della situazione. Sono sempre lo stesso ! Hai voglia a proporti di mantenere sempre e comunque la razionalità o, come si suole dire,...i piedi per terra in ogni occasione ! Quando imparerò a ponderare i miei desideri, le mie azioni ? Adesso ho proprio paura. Forse faccio ancora in tempo a rimediare... Mi precipito alla finestra, mi accuccio di nuovo dietro il davanzale, strappo il nastro adesivo e ritiro dentro il manifesto, mentre il fragore delle grida studentesche ha riguadagnato un assordante livello di sonorità. ...quel “LA - DRI” non lo sento più. Straccio il manifesto e lo getto nel cestino dei rifiuti. Ritorno alla scrivania, mi lascio cadere sulla poltrona e la faccio roteare ripetutamente a destra e a sinistra sull’asse portante, incollo lo sguardo sulle schermo luminoso del video. 18 Non ci sono più prove..non succederà niente..chi vuoi che venga a cercare un manifesto appeso alla finestra ? Mi sento svuotato, non ancora tranquillo ; scarico di tensione, liberato, per effetto catartico dell’azione appena compiuta, da ogni pastoia emotiva. Passo i minuti con la mente che naviga in una dimensione remota e lo sguardo perso sui caratteri “Times New Roman” impressi nel video. La poltrona ruota qua e là, qua e là, con ritmo regolare e lento. Le urla che giungono alle mie orecchie sono divenute concitate, caotiche, confuse. Sono urla che si sovrastano l’un l’altra, che non hanno più cadenza e musicalità, che producono un chiasso infernale. E la poltrona ruota qua e là, qua e là. Non mi scompongo, non ho voglia di scompormi, di interrompere quel movimento quasi consolatorio, quello stato di torpore mentale e di rilassamento fisico. D’un tratto quel gran chiasso sembra come se venisse inghiottito, costretto dentro un ambiente chiuso ; sembra dileguarsi in lontananza...poi irrompe di nuovo da un’altra direzione, con più fragore. Evidentemente il corteo sta affluendo nel cortile interno del palazzo. Il rimbombo della urla, costrette nello spazio chiuso del cortile, produce un effetto esplosivo. Non c’è ombra di dubbio : la massa studentesca sta penetrando nella sede amministrativa, sconvolgendo la tranquillità ordinaria dell’attività impiegatizia. Riesco a sorridere al pensiero delle difficoltà che incontreranno i funzionari e gli impiegati nel proseguire le rispettive pratiche di lavoro. Immagino, non senza un pizzico di divertita malignità, le loro facce imbarazzate e i loro commenti, mentre continuo senza sosta a dondolarmi qua e là con la poltrona. Toc - Toc. Un sussulto al cuore. Bussano alla porta. Sarà stato mandato qualcuno per identificare l’autore del manifesto ? Non ho il tempo di prepararmi ad una simile eventuale infausta evenienza, né di rispondere “avanti”, che la porta si apre ed appare uno degli uscieri del piano della presidenza. “Buongiorno Dr. Porena....il Presidente la desidera con urgenza”. Il Presidente ! “Il Presidente ?...”. Credo mi si leggano in faccia segni palesi di sconcerto. Con immediatezza il mio cervello connette questa imprevista, quanto laconica, convocazione con l’azione dimostrativa di poc’anzi, eseguita sotto l’egida di una rediviva tempra “rivoluzionaria”. Mi manda a chiamare per il manifesto ?...possibile abbia già saputo ? 19 “Sì, il Presidente.....mi ha chiesto di riferirle di scendere al più presto nella sua stanza.” Dopo alcuni attimi di esitazione...”D’accordo...ora scendo. Grazie.” La porta si richiude. Esito ancora lunghi attimi, in attesa che improbabili risorse interiori mi tirino fuori dall’impasse psicologica, poi ne esco nell’unico modo possibile : “Be’, ormai è fatta, sentiamo cosa ha da dirmi !” Poche altre volte era capitato in passato che il Presidente mi interpellasse direttamente, ed era stato sempre per risolvere alcuni peculiari problemi, in relazione ai quali possiedo una certa competenza professionale - o così almeno lui sembrava credere. E tutto sommato, a parte l’inevitabile carico imprevisto di lavoro che ciò aveva comportato, ne ero rimasto lusingato, non fosse altro che per la fiducia dimostrata verso le mie capacità lavorative. Ma questa volta, considerata la delicata e anche un po’ eccezionale situazione creatasi all’interno dell’Amministrazione per via dell’inattesa invasione studentesca, mi appaiono quanto meno misteriosi i motivi della convocazione, della quale, oltretutto, mi è stata sottolineata l’urgenza. Mi alzo dalla poltrona ed esco dalla stanza. Attraverso lunghi corridoi prima di accedere all’ascensore, quindi scendo al piano della presidenza. Ovunque transito odo il rimbombo delle grida studentesche, ora ovattate, ora esaltate, al mutare della prospettiva di ascolto. E in ogni angolo incontro capannelli di impiegati, quali divertiti, quali scocciati, a parlottare sul fatto del giorno. Qualcuno più “coraggioso”, o ignaro del rischio di venire preso di mira, indugia alle finestre che si affacciano sul cortile interno, a caccia di particolari curiosi tra la massa di manifestanti. Oltrepasso senza indugio l’uscio sempre aperto dell’ufficio di segreteria del Presidente. “Salve Porena...” Una delle due avvenenti segretarie, che conosco da molti anni, mi riceve sorridendo, mentre l’altra resta assorta in un colloquio alla cornetta telefonica (qui il telefono è assai difficile trovarlo in riposo). “...dai che ti sta aspettando !” Sbarrando gli occhi e inarcando le sopracciglia, onde incutermi solerzia, fa un cenno con la mano di invito ad entrare nella stanza comunicante alle sue spalle. Non ricambio il saluto, attanagliato come sono dalla preoccupazione per i motivi dell’incontro, proseguo lungo un piccolo corridoio di pochi metri, con lo sguardo abbassato sul pavimento e mi arresto sulla soglia della stanza attigua, che ha la porta quasi completamente aperta. L’arredo dell’interno appare tale e quale l’avevo visto l’ultima volta che ero entrato lì : 20 assolutamente scarno ma “prezioso”, come si addice al massimo rappresentante di un’Amministrazione Pubblica. Una grande scrivania in noce di legno massello in stile classico, delle maestose poltrone in pelle nera, un piccolo armadio a lato in legno con vetri di tonalità grigio-fumo, dai quali traspaiono pochi grandi volumi con ottima rilegatura, due quadri alle pareti, con molta probabilità originali e “d’autore” (anche se non so dire di quale autore, sono ignorante nel campo), una bellissima “kentia” dal fogliame rigoglioso e lucido accanto alla finestra. Un grosso abat-jour acceso getta luce sulle carte sparse appoggiate sulla scrivania. Il Presidente, illuminato solo parzialmente in volto, ha la testa china su alcuni fogli e non si è ancora accorto della mia presenza all’ingresso. “Posso.... ?” Il Presidente solleva prima gli occhi, poi la testa. “Ciao Porena....entra, ti stavo aspettando !” Un vago e composto accenno di sorriso, per quanto non faccia certo trapelare una disposizione di esuberante cordialità, è comunque sufficiente ad alleviare all’istante la preoccupazione che covo dentro e a tranquillizzarmi sui motivi della convocazione (non è a causa del manifesto !). E in quelle scarse frazioni di secondo mi torna in mente l’invito rivoltomi dal Presidente, in precedenti occasioni, ad usare confidenzialmente il “tu” nei suoi riguardi.. Ma dare del “tu” ad un interlocutore non è cosa facile quando manca il presupposto di una frequentazione reciproca assidua, quando si frappongono delle oggettive, rilevanti differenze di posizione nella gerarchia sociale condivisa e, soprattutto, quando si insinua il sospetto che l’”egualitarismo” del linguaggio informale è in realtà usato per mascherare insuperabili disuguaglianze di potere. D’altronde persistere a dare del “lei” di fronte ad un’esplicita richiesta del “tu”, quasi certamente palesa una scortese volontà di mantenere le distanze o addirittura di sottolineare le reali differenze di ruolo esistenti. Paradossalmente, non ha l’effetto di dimostrare un atteggiamento di cortesia, ossequio e rispetto verso l’interlocutore, come ci si attende che dimostri, ma ha quello opposto di rivelare scortesia e disprezzo. Pertanto, come già in tante altre occasioni simili era capitato, mi rivolgo impulsivamente al Presidente utilizzando un’indecifrabile soluzione colloquiale intermedia. “Salve, Presidente !...cosa succede ?” Nel contempo mi avvicino alla scrivania. “Be’ ...sai Porena...(e qui il tono della sua voce assume una modulazione paternalistica, come di solito gli accade nei colloqui con i dipendenti - credo per procacciarsi 21 “democraticamente” un’entusiastica collaborazione)...checché se ne pensi, fare il Presidente non è cosa agevole. La gratificazione che deriva dal poter svolgere un ruolo di così grande levatura e responsabilità, non ripaga sempre appieno delle frustrazioni e delle difficoltà con le quali si deve fare i conti nel cercare di amministrare le risorse pubbliche con oculatezza ed efficacia. Ma...bando a queste che forse possono sembrare retoriche considerazioni...(negli attimi di sospensione che si concede, i lineamenti del suo volto si fanno seri, e intanto indica con la mano la poltrona sulla quale andarmi ad accomodare)...oggi, per esempio, mi trovo impelagato non soltanto con le questioni di ordinaria amministrazione - già esse stesse impegnative e spesso delicate - ma mi capita anche tra le mani questa inaspettata patata bollente...gli studenti...ti sarai accorto degli studenti ! ?” “Oh, si, certo ! E’ un po’ difficile non accorgersene....bisognerebbe essere proprio sordi !”, rispondo scherzosamente, apparecchiando per lui un amichevole disponibilità, che per altro già sembra aver messo in conto come scontata e dovuta. “Bene ! Anzi MALE !”, sottolinea in tono gravoso. “Vengo al dunque.” Mi costringo ad esibire anch’io un atteggiamento serio e attento, come il caso impone. “Gli studenti mi hanno fatto pervenire poco fa la ‘richiesta’, diciamo così, di potersi confrontare pubblicamente con me sulle loro rivendicazioni, che risultano non ben specificate. Ora - a parte l’ovvia, e perciò scusabile, intemperanza nel modo in cui mi è stata fatta recapitare la richiesta....un modo del tutto ‘giovanile’ - credo sia opportuno non disdegnarla. Non possiamo sottrarci a questo obbligo di democraticità. E, d’altronde, credo anche che questa Amministrazione abbia sempre assolto, per quanto di propria competenza, le funzioni di sostegno e assistenza a favore degli istituti scolastici e della pubblica istruzione. L’assessore preposto, purtroppo, ha assunto il proprio ruolo solo di recente, in sostituzione dell’assessore dimissionario ; pertanto ritengo che il suo contributo in questa occasione possa rivelarsi non...come dire...non all’altezza per ovvi motivi di inesperienza in materia. Il guaio è che, proprio oggi, non si trova in sede il responsabile attualmente incaricato delle funzioni anzidette ....il Dr. Antiochia, che ben conosci, immagino.” “Sì, certo che lo conosco...”, sento crescere dentro di me una certa inquietudine. Credo di comprendere dove va a parare il suo discorso. Con cogenti argomentazioni e pochi scrupoli mi sta passando in mano quella patata bollente...che scotta davvero ! 22 “E’ assente per motivi di salute, perciò assolutamente indisponibile...” Più chiaro di così ! “...Ecco. Mi sono ricordato che, se non vado errato, fino ad alcuni mesi fa ti occupavi tu, ed anche in modo egregio....” (figuriamoci !) “...dei contributi per gli interventi di manutenzione degli istituti scolastici, così come della programmazione delle iniziative di sostegno didattico per le scuole medie superiori...” Mi sta delicatamente tastando il polso per appurare se sono pronto ad accollarmi la rogna ; e so già che esito avrà la diagnosi, ma non posso sottrarmi all’esame. “Fino a sei mesi fa, per la precisione. Me ne sono occupato per tre anni consecutivi e...”, era il punto al quale voleva arrivare fino da principio. “Perfetto !” Perfetto un cazzo ! Comprendo di essere stato raggirato e anche di non poter fare niente per eluderne le conseguenze. Mi limito - subendo il giogo dello sguardo di chi è abituato ad ottenere sempre quello che vuole - a continuare la parte dell’ingenuo che non ha ancora capito niente. “Che cosa....perfetto, Presidente ?” “Caro Porena.....ancora ‘Presidente’ mi chiami ? Lascia perdere i titoli, gli appellativi formali....qui stiamo tutti su una stessa barca e tutti egualmente remiamo per farla andare. Antonio...ti ricordi che mi chiamo Antonio, no ? E dunque....” “Scusami !”, rispondo con rassegnata consapevolezza di essere stato ormai fregato ed arrendendomi ad entrare nella sintonia confidenziale che lui predilige. “Bene. Ciò che voglio dirti è che, ora come ora, soltanto una persona può con competenza ‘trattare’, diciamo così, sulle questioni che gli studenti vogliono sottoporci e fronteggiare così la delicata emergenza che si è imprevedibilmente creata. D’altronde, ripeto, non possiamo esimerci dal confronto...ne va della rispettabilità di questa Amministrazione.” Sta attendendo la mia esplicita autocandidatura allo scopo, non vuole, non ha mai voluto non è nel suo stile - pretendere o lasciare trasparire una qualche forma di coercizione nell’assolvimento delle funzioni all’interno dell’Ente. L’attende da me, ex-anarchico, dichiarato nemico dello Stato (ma lui questo non lo sa). Proprio io dovrei salvare la rispettabilità dell’Amministrazione ! E sa - lo sa con assoluta certezza - che non posso deludere la sua aspettativa. “Io....Antonio ?” 23 “Certo, Porena, chi altri se non tu.....Enrico - se non sbaglio - vero ?” Annuisco con la testa, ma la mia mente è già immersa con apprensione in un immaginario confronto (scontro ?) con la massa studentesca. Mi sorge un dubbio che debbo chiarire all’istante. “Ma il confronto avverrà, suppongo, con una rappresentanza degli studenti non con...” “Ma certo ! E’ evidente. Darò disposizioni che nella Sala Consiliare, dove farò svolgere l’incontro, non abbiano accesso più di 10-15 studenti. E poi anch’io sarò presente, almeno inizialmente, per esprimere la solidarietà di questa Amministrazione nei confronti del legittimo protagonismo cui gli studenti vogliono adempiere. Sarà comunque determinante il tuo apporto...tecnico, in quanto dovrai fornire le dovute spiegazioni e giustificazioni al nostro operato passato e presente in ordine alle competenze dell’Ente in materia, e qui ti potranno essere di aiuto le esperienze che hai acquisito in passato. Importante è anche poter abbozzare - ma soltanto abbozzare per grandi linee - programmi di intervento futuri tenendo conto delle istanze che saranno avanzate, di quelle più ragionevoli ovviamente....e qui dovrai far conto più sulle tue capacità di ‘improvvisazione’, cercando di risultare credibile...non so se mi spiego !” Annuisco ancora con un cenno del capo. Queste brevi “istruzioni” mi suggeriscono abbastanza chiaramente gli accorgimenti dialettici che dovrò adottare : equilibrismi funambolici e piroette da saltimbanco, mediante l’uso ponderato, mai troppo circostanziato, delle parole. Tutto ciò che, non solo non ho mai saputo fare, ma ho anche sempre provato repulsione a fare. “Ma ora penso...(non mi lascia il tempo di riflettere, né tantomeno di cercare eventuali vie di scampo per eludere l’incarico) ...sia il caso di muoverci e di andare in Sala Consiliare. Sai....ogni istante che passa cade benzina sul fuoco, con il rischio che divampi e diventi incontrollabile...non credi ?” Si alza diritto prima ancora che riesca a rispondergli, invitandomi di fatto a fare altrettanto e a seguirlo. Mi lascia così privo di qualsiasi spazio di manovra, togliendomi il terreno da sotto i piedi. Attraverso lunghi e stretti corridoi - dei quali, fino a quel momento, supponevo solo l’esistenza - mi conduce alla Sala Consiliare, arrestandosi una sola volta lungo il percorso per dare, sottovoce, alcune disposizioni ad un usciere in divisa grigia. Appena entrati nella Sala, essa mi appare anche più enorme del solito, forse perché deserta, forse per la particolare prospettiva visuale, dalla quale ora, per la prima volta, la osservo. E ne rimango 24 impressionato. Il Presidente va a sedersi nella poltrona posta in posizione centrale dinanzi al lunghissimo tavolo semicircolare, ove usano raccogliersi tutti i consiglieri durante le sedute preordinate. Mi fa cenno di imitarlo sedendo al suo fianco, nel posto di norma occupato dal vicepresidente. Assesta il microfono davanti a sé, spinge un pulsantino su un apparecchio di comando, verifica il funzionamento battendo due piccoli colpi con il dito indice sullo stesso microfono, che subito li trasmette amplificati per tutta la Sala. Quindi volge lo sguardo verso di me. “Prova anche tu !” Mi affretto ad eseguire le medesime operazioni. Appena premuto il pulsantino di accensione, dal lato destro in fondo all’aula, dirimpetto a noi, odo provenire un confuso brusio. “Sono loro”, egli mormora, restando in atteggiamento tranquillo, da persona “navigata” in ogni genere di incontri. Di fronte a questa ostentata sicurezza mi sento come un pulcino spelacchiato. Provo sempre una incoercibile ansia quando debbo parlare in pubblico, soprattutto quando so di doverlo fare per mezzo di un microfono. E ora non ho nemmeno il tempo di adattarmi psicologicamente all’idea. La porta per l’accesso di giornalisti ed ospiti vari, durante le sedute di Consiglio, si spalanca. Un usciere ha appena il tempo di affacciarsi sulla soglia, ma non quello di annunciare l’arrivo degli studenti, i quali lo sopravanzano con irruenza e senza andar troppo per il sottile. Affluiscono nella sala creando un certo trambusto. Le facce sono quelle che mi aspettavo di vedere : fresche, sorridenti, traboccanti di una disarmante vitalità, propria solo di chi è sostenuto da potenti ideali che non hanno ancora conosciuto la sconfitta. Alcune dimostrano un’età superiore alla media. Presumibilmente sono quelle di studenti universitari. Il che rafforza l’impressione che ho ricevuto in prima mattina sull’elevato grado di maturità e politicizzazione di questo movimento. Di certo il confronto si preannuncia impegnativo, e il Presidente, nel colloquio avuto con me, su questo aspetto del problema ha del tutto sorvolato (forse per evitare di scoraggiarmi ?). Entrano 10, 15, 20 studenti, e il flusso caotico continua. Rivolgo lo sguardo verso di lui come per cercare una spiegazione. Egli lo ignora, restando immobile a fissare la consistente flotta che si intravede assiepata dietro l’uscio e che non accenna ad esaurirsi. D’improvviso i suoi occhi tradiscono un lieve allarmismo. Si alza in piedi di scatto e tende deciso il braccio in direzione dell’uscio. 25 “No..no ! Scusate...gli accordi presi prevedevano che a parlamentare intervenisse una rappresentanza di 10-15 studenti massimo !” Dal fondo della Sala, lontana ma nitida e risoluta nel tono, si leva una voce di risposta : “Ci dispiace deluderla, Presidente, ma durante l’attesa abbiamo considerato che, in rappresentanza di tutti gli istituti scolastici di città e provincia, nonché delle varie facoltà universitarie che hanno aderito a questa manifestazione, sono assolutamente insufficienti 15 persone. Nessuna delle varie organizzazioni di lotta che si sono autonomamente costituite, e sono tante - glielo assicuro - ha rinunciato a inviare propri rappresentanti...ed è giusto che sia così. D’altronde il movimento non ha ritenuto opportuno eleggere fino ad ora un organo ristretto che possa con piena legittimità farsi portavoce di tutte le istanze presenti al suo interno, in quanto i tempi sembrano prematuri.” La perspicacia dimostrata dal giovane ammutolisce il Presidente che, visibilmente irritato, si risiede incassando la sconfitta. Fingendo di accettare senza disappunto la variazione al programma, il fatto compiuto, abbozza un sorriso di generosa accondiscendenza e si volta verso di me. “Be’...tenendo conto di una così ampia e articolata partecipazione alla protesta, credo sia opportuno soprassedere e lasciare entrare tutti i rappresentanti che vogliono. D’altronde nella sala c’è ancora molto spazio, inutile arroccarsi su questioni di principio...non trovi ?...però sono astuti questi studentelli !” “Già !”, gli rispondo, sorridendo anch’io. Con un sorriso che nasconde un lieve imbarazzo per le goffe giustificazioni con le quali egli ha cercato di salvare il prestigio e il carisma della sua alta carica sociale, sminuiti dalla logica semplice ed efficace di uno studente. La sala si va riempiendo, fino ben oltre il numero di posti a sedere previsti per ospitare il pubblico ; cosicché gli studenti si dispongono via via lungo gli spazi laterali a ridosso delle pareti. Il presidente tamburella con frenesia le dita Sul tavolo, spaziando con lo sguardo spazientito ora a destra, ora a sinistra. Poi si alza di nuovo in piedi, si aggiusta il microfono portandolo all’altezza delle labbra. “Ora basta !...per favore ! Ora basta ! Possiamo dare inizio all’incontro....la sala è colma....” Alcuni fischi lo interrompono. Una voce dal tono sarcastico sembra addirittura voler redarguire l’impazienza dimostrata : “Egregio Presidente...molti rappresentanti sono ancora fuori, e davanti al tavolo c’è ancora spazio sufficiente per ospitarne altri, magari seduti in terra...” 26 “Per favore....per favore ragazzi, non creiamo problemi ; è già anche abbastanza tardi e non posso trattenermi a lungo...altre questioni urgenti mi attendono....se lo ritenete opportuno fate entrare pure i vostri rappresentanti ma...in silenzio, vi prego, in silenzio. Intanto diamo inizio alla seduta....all’incontro. Chi di voi intende prendere per primo la parola ? Chi vuole illustrare le richieste ?” Il presidente rimane in attesa di una risposta, con l’atteggiamento spavaldo di chi sa che una risposta la può pretendere. Ma gli studenti, intanto, una seconda concessione già l’hanno ottenuta e si riuniscono in capannelli per consultarsi, a momenti anche con una certa animosità. “Allora...ragazzi ? Chi si fa avanti per primo ?”, egli sollecita con aria quasi di sfida, e aggiunge : “Vi consiglio di utilizzare i microfoni a voi più vicini che si trovano sul tavolo dei consiglieri”. Una terza concessione, questa però volontaria, elargita all’evidente scopo di sottolineare la perfetta democraticità del confronto. Proseguono per alcuni minuti frenetiche consultazioni tra gran parte degli studenti, sotto lo sguardo indagatore, iniettato di ira malcelata, del Presidente. Poi dal raggruppamento più rumoroso si stacca lo studente che, con la sua concisa arringa, aveva inflitto poc’anzi la prima lezione dialettica al “Gran Capo” dell’Amministrazione. Alto, magro, dal volto pallido e incavato, sporcato da una rada peluria, gli occhi piccoli e stretti, di forma quasi orientale, ben visibili dietro sottili lenti circolari, capelli cortissimi a spazzola, lo sguardo fiero tipico del leader carismatico. La sua voce è ferma e convinta, come di chi ha mille ragioni da vendere : “Signor Presidente...” “Al microfono, prego, al microfono...così possiamo ascoltare tutti bene .” Con quell’aggeggio spera forse di indurlo ad un atteggiamento timoroso ? Con me potrebbe.... “Sì....d’accordo.” Avvicinatosi al banco dei consiglieri e preso in mano il microfono più vicino, lo studente, quasi sicuramente universitario, spinge il pulsantino di accensione dietro suggerimento di alcuni compagni e riprende a parlare : “Signor Presidente ! Messi così alle strette, gli studenti qui presenti hanno designato il sottoscritto ad illustrare le richieste del movimento. Resta inteso che, quanto andrò esponendo, non rappresenta necessariamente tutto il movimento, né tantomeno esaurisce le sue rivendicazioni. Posso solo garantire che cercherò di enucleare le principali esigenze 27 maturate tra gli studenti della nostra provincia in questi ultimi mesi di lotta ; le loro esigenze più sentite, almeno fino a questo momento...” “Bene ! Molto bene ! Le esponga, se possibile, provando ad essere il più chiaro e sintetico possibile.” Perché queste continue interruzioni ? Tatticismo ?Azioni di disturbo per provocare nervosismo al nemico ? O sta cercando di entrare in più stretta confidenza con esso ? Mi sento confinato in un cantuccio come un coniglio in gabbia, ma almeno ho evitato la mischia, ho eluso ogni attenzione diretta...per il momento. “Innanzitutto voglio mettere in primo piano, come credo che meriti, la cronica precarietà delle strutture e delle attrezzature a disposizione tanto delle scuole medie superiori, quanto delle facoltà universitarie. E vi includo i mezzi di trasporto per i fuori sede. Assolutamente insufficienti, arretrati, carenti, malsani, disorganizzati e quant’altro di indecente si riesca a immaginare.... (scroscia un applauso fragoroso)....La nostra provincia, rispetto a tante altre province del territorio nazionale - ci siamo documentati - offre dei servizi per l’istruzione pubblica a dir poco vecchi di almeno 20-30 anni. Dove erano, in questi ultimi decenni, i nostri amministratori pubblici ? Che fine hanno fatto i soldi stanziati e in molte altre province spesi per migliorare il servizio scolastico ?... (altro applauso scrosciante) ...Chiediamo, pertanto, che per l’inizio del prossimo anno scolastico e accademico si avviino concretamente i lavori di aggiornamento e miglioramento delle strutture, degli impianti, dei mezzi di trasporto e ....., in proposito, abbiamo stilato una lista completa e dettagliata delle cose da fare, riferite ad ogni singolo istituto, che però non le leggo - tanto per accogliere la sua richiesta di sinteticità. “In secondo luogo, ma non certo al secondo posto per importanza, il movimento rileva l’inadeguatezza degli organismi di consultazione e di rappresentanza studentesca istituzionalizzati da oltre 15 anni. In questi anni di funzionamento essi hanno dimostrato, in modo inequivocabile, di essere dei raffinati strumenti di controllo degli umori e delle aspirazioni della massa studentesca, giammai degli strumenti di cogestione e compartecipazione all’organizzazione degli indirizzi didattici e dei sistemi di insegnamento. Si era voluto far credere che essi potessero svolgere delle funzioni di innalzamento dei livelli di democraticità all’interno del mondo della scuola, ma è risultata subito abbastanza chiara la loro vera natura di mezzi subdoli per carpire il più largo consenso possibile nei confronti dei programmi e delle direttive calate dall’alto. In altre parole, costituiscono una beffa e una mistificazione, un ingannevole paravento contro le 28 autentiche istanze di partecipazione diretta, da parte dei giovani, alla propria formazione (altro applauso ed incitamenti all’autogestione della scuola). “In terzo luogo...” “Un momento...un momento !”, interrompe il Presidente, “Va tutto molto bene, ragazzi, sono soddisfatto della maturità e lucidità con le quali il vostro rappresentante sta esponendo le legittime rivendicazioni del...movimento. Ma affinché il suo non risulti un monologo o, peggio ancora, un comizio sterile - e questo lo dico nel vostro interesse - vi consiglierei di procedere con un metodo...come dire...più redditizio, sottoponendo punto per punto al parere tecnico del funzionario competente che siede al mio fianco, il Dr. Porena. Lui, persona di indiscutibile serietà e professionalità, saprà dare le risposte esaurienti ai vostri dubbi e ai vostri quesiti...(avverto sopra di me gli sguardi puntati degli studenti come fossero canne di fucile di un plotone di esecuzione, ma non ho il coraggio di verificare sollevando gli occhi, che sono proiettati su un oggetto indeterminato del tavolo)....e, inoltre, saprà illustrare le reali possibilità che questo ente amministrativo ha di accogliere, sostenere, agevolare o, in qualche modo, venire incontro ad ogni richiesta (sono proprio cotto a puntino). Personalmente, ora, non posso che limitarmi ad esprimere piena solidarietà, anche a nome dell’Amministrazione che rappresento, nei confronti della protesta e delle modalità, fino a questo memento civili, con le quali è stata condotta. Qualsiasi amministratore, credo, non può che guardare di buon occhio la vitalità che si annida in essa, questa sacrosanta voglia di partecipazione, di impegno democratico finalizzato, almeno implicitamente, a dare impulso di ringiovanimento alle istituzioni pubbliche e alla società tutta, troppo spesso ancorate a sclerotici, superati ordinamenti. Ciò che dico spero possa aiutarvi a vedere, nella nostra Amministrazione, non necessariamente una controparte nemica da sconfiggere, ma un possibile alleato per migliorare la qualità della vita di tutti, in primo luogo di voi giovani che rappresentate il futuro. Ora, con questa speranza, sono costretto a congedarmi da voi per riprendere l’attività di tutti i giorni che, capirete, non può essere trascurata per riguardo agli interessi di tutta la popolazione. So, comunque - e questo mi conforta - di lasciarvi alla qualificata assistenza tecnica del funzionario qui presente, che reputo, senza ombra di dubbio, all’altezza della situazione. Egli saprà avviare un fattivo momento interlocutorio per instaurare una successiva, duratura intesa tra il vostro movimento e questa Amministrazione (una perfetta uscita di scena che mi lascia immerso nella merda fino al collo). 29 Seguono alcuni secondi di quasi assoluto silenzio. Il Presidente spegne il pulsantino del microfono e si accinge ad abbandonare l’aula. Non ha il tempo di voltarsi completamente che una sonora bordata di fischi e schiamazzi ingiuriosi si solleva contro di lui. Visibilmente scosso dall’esplosiva reazione - seppur non credo si aspettasse di ricevere applausi e omaggi floreali - si arresta pietrificato per pochi istanti, poi, con lo sguardo abbassato, allarga le braccia per mimare l’impossibilità di trattenersi in aula ulteriormente. Quindi si avvia con passo deciso verso la porta dalla quale eravamo entrati insieme, ostentando sicurezza d’intenti, senza mostrare tentennamenti e senza voltarsi indietro, sotto una pioggia furiosa di fischi. Rimango disarmato e solo in questa baraonda, frastornato e incapace di abbozzare un qualche tipo di reazione. Non sono certo abituato a fronteggiare simili situazioni, non da questa angolazione prospettica, del tutto atipica per la mia esperienza di vita. Comprendo che è il momento della mia entrata in scena obbligatoria, ma lo scoramento mi paralizza. Poi, d’istinto, rimanendo seduto e con mia stessa grossa sorpresa, mi trovo a gesticolare con le braccia un supplichevole invito alla calma rivolto agli astanti. “Vogliamo il Presidente...vogliamo i responsabili dell’Amministrazione qui davanti a noi !”, grida una voce anonima in fondo all’aula, seguita da un rinforzo di fischi e da invettive (“buffoni”, “non ti nascondere Presidente”, “esci fuori coniglio”....). Devo fare qualcosa al più presto. Mi alzo in piedi mentre accosto il microfono alle labbra. Alcune parole mi escono di bocca, dopo aver superato, non so come, il blocco alla gola. Ma nella sala non echeggiano. Il pulsantino....lo spingo, e finalmente : “Scusate....per favore....scusatemi...” - la voce si disperde tra gli insulti e i fischi - “...vi prego...scusatemi...”, alzo sensibilmente il tono di voce. Con gradualità lo scontento si affievolisce e si trasforma in un diffuso brusio. Ne approfitto. “Ragazzi....” - a questo paternalistico appellativo, già usato dal Presidente, non riesco a trovare alternative accettabili (come li potrei chiamare senza risultare freddo e distaccato ?) - “...io ritengo si possa intavolare una discussione anche in assenza del Presidente, considerato che il suo apporto non può estendersi al di là delle dichiarazioni di impegno e disponibilità già esplicitamente espresse. A questo punto occorre valutare quali siano i problemi e le difficoltà tecniche da superare per avviare a soluzioni praticabili le vostre istanze, facendo leva, nei limiti del possibile, sulle risorse e le prerogative istituzionali di questa Amministrazione. E dunque, al momento,...” 30 “Parla come mangi !”, mi interrompe burlescamente una voce nascosta nella calca assiepata lungo le pareti laterali, cui fa eco una risata generale. “Sì..scusate il mio linguaggio un po’ burocratico al quale sono ormai assuefatto...cercherò di evitarlo. E, dicevo, al momento, per questo scopo, non abbiamo più bisogno del Presidente. Appena saremo riusciti a fissare dei punti di intesa minimi, potremo allora sottoporli all’avallo definitivo del Presidente e della Giunta reggente.” “Bene, d’accordo !”, riprende a parlare il “leader” alto e pallido interrotto poc’anzi. “Raccolgo i suoi suggerimenti, come ho già raccolto quelli del suo superiore, e propongo di affrontare subito la discussione del primo punto che ho, per sommi capi, già esposto. Si potrà così valutare immediatamente la ‘praticabilità’ delle soluzioni tecniche che questa Amministrazione intende offrirci”(segue applauso). “Per maggior concretezza le sottopongo la lista delle necessità che abbiamo compilato, cui prima avevo accennato.” Si avvicina con passo deciso e mi consegna alcuni fogli dattiloscritti. Chinato con la testa su quei fogli da alcuni minuti, credo di riuscire a dare l’impressione di una persona che sta seriamente esaminando e valutando il loro contenuto. In realtà, già da un semplice primo rapido sguardo mi sono subito reso conto dell’enorme distanza che separa quell’interminabile elenco di richieste e le scarse disponibilità finanziarie di cui può disporre l’Amministrazione in materia, almeno stando ai ricordi della mia precorsa esperienza nello svolgimento delle mansioni inerenti. Mentre gli studenti si concedono una pausa tra risolini e battute scherzose, presi dall’eccitazione per l’esaltante momento che stanno vivendo, ho così tutto il tempo di piangermi addosso. Invece che cercare possibili risposte da dare alle singole richieste elencate - già so che non esistono risposte concrete ed esaurienti da fornire, se non, ad essere ottimisti, per una piccolissima percentuale di quelle richieste - mi trovo a fare i conti con gli effetti di uno scoramento che annichiliscono ben anche il desiderio di rispondere. Sono in un vicolo cieco. Anche le gocce gelide di sudore che scendono dalle ascelle sul torace, producendo un tremito della pelle, me lo dicono. Non è la prima volta che mi trovo in mezzo ai guai per essermi lasciato lusingare dalle dimostrazioni di fiducia (astute o sincere il risultato non cambia) nei confronti della mia presunta capacità a risolvere un certo problema. Ma questa volta credo di aver toccato il fondo della coglioneria. Lasciarmi ammaliare dalle sirene di potere per meschini giochi di nascondimento delle responsabilità nel malgoverno della cosa pubblica ! Proprio io che non ho mai creduto alla buona fede di chi esercita il comando ! E sì che, in questi lunghi anni di attività lavorativa presso l’amministrazione pubblica, non mi 31 sono certo mancate le conferme concrete di quanti interessi, calcoli politici, bramosie carrieristiche, favoritismi, clientelismi, ed altre più o meno oscure finalità, siano infarcite le relazioni interpersonali tra chi occupa i diversi livelli della gerarchia di potere. “Avanti, facciamola finita ! Dateci delle risposte concrete !”, grida la solita voce anonima della protesta. Esplode di nuovo un boato di urla, accompagnato da un ritmato battito di piedi sul pavimento. Il frastuono è indescrivibile, vibra tutto, intorno e sotto di me. Sento accapponarmi la pelle. Il tremore degli oggetti mi lascia pensare agli effetti di un sisma. Rimango imbambolato ed inerme sotto la percussione prolungata di quel boato. Percepisco lo sbriciolarsi di ogni capacità di resistenza interiore. I miei incubi non sono peggiori della situazione che sto vivendo. D’improvviso la porta laterale, la stessa dalla quale ero entrato insieme al Presidente, si spalanca e si affaccia trafelato un usciere in divisa. Prende a gesticolare vivacemente con le braccia per far calmare gli animi. Questo nuovo elemento del contesto, forse anche un po’ comico, agisce in me come un’endovenosa di glucosio, mi ricarica di energie. Scatto in piedi imitando i gesti dell’usciere. Pian piano nell’aula si ristabilisce una relativa calma, e l’ometto in divisa grigia si mette a parlare a gran voce : “No...no...così non va bene ! Il Presidente mi manda a dire che non può assolutamente tollerare un simile baccano all’interno del palazzo e che, se si ripeterà ancora, sarà costretto a far intervenire le forze dell’ordine”. Si solleva all’istante un coro di fischi e insulti. “Torna fuori servo del padrone !”, “Va a lavorare in fabbrica, leccaculo !” Risate e fischi si susseguono senza sosta. L’usciere insiste per un po’ con i gesti per far cessare gli schiamazzi, poi desiste scoraggiato, forse vergognoso e intimorito, ritornando sui suoi passi a testa china e richiudendo la porta alle sue spalle. Mi ritrovo da solo in piedi, come un carciofo, a subire gli scherni della massa scatenata. Ma proseguo a gesticolare. “Calma, per favore !”, ripeto più volte, “Riprendiamo il confronto sereno. Procediamo a discutere in dettaglio le richieste della vostra lista.” E finalmente torna la quiete, ma tornano anche a convergere gli sguardi su di me. “Sì, andiamo al sodo. Vogliamo concrete risposte e subito !”, grida un’altra voce anonima. “Bene !”, rispondo prontamente per anticipare un altro probabile applauso. “Allora...nella vostra lista è riportato, a quanto vedo, un elenco lungo e dettagliato di...disfunzioni, carenze relative ad ogni singolo istituto scolastico. Mi pare di capire che alcune siano di 32 tipo organizzativo, altre di tipo strutturale, ovverosia riferite all’obsolescenza degli edifici e degli spazi fisici nei quali vi trovate ad operare (come farò ad arrivare all’ultimo punto della lista ?)”. Cerco di riprendere fiato e coraggio. “Faccio innanzitutto presente che questa Amministrazione non ha ancora impiegato i fondi annuali dei quali dispone per far fronte a questo tipo di problemi, in quanto deve, prima ancora, approntare una graduatoria delle priorità d’intervento, e credo anzi che questa vostra lista possa tornare utilissima allo scopo. La cosa si complica là dove leggo che è necessaria la costruzione ex-novo di un edificio per l’istituto tecnico per Geometri e di un edificio per il Liceo Scientifico. Ora domando : avete un’idea di quali risorse finanziarie occorrono e di quante difficoltà tecnico-burocratiche esistono per edificare due nuovi e moderni istituti ? Siete al corrente di quali invece siano le risorse finanziarie assegnate dagli organi centrali, statali e regionali, a questa Amministrazione ed entro quali e quanti vincoli burocratici essa si trovi normalmente costretta a svolgere le proprie competenze ?” Negli attimi di silenzio che seguono passo in rassegna gli sguardi titubanti degli studenti, e mi soffermo per ultimo su quelli del loro portavoce, che però non sembrano tradire alcuna insicurezza. E’ proprio lui che, con misurata compostezza, risponde alle mie domande : “Vede, Dr...... Porena - se non vado errato - (annuisco con la testa) a noi studenti non interessa tanto sapere chi è che deve risolvere i nostri problemi, e nemmeno tanto in che modo li possa o li debba risolvere, ma ‘quando’ si deciderà a risolverli una volta per tutte.” Una tipica frase fatta che però non è certo priva di un fondo di verità e che, nemmeno a dirlo, suscita l’ennesimo applauso di approvazione. “Se ci rivolgiamo alla vostra autorità è perché essa costituisce il più diretto punto di riferimento locale di tutta la macchina statale. E a voi dunque spetta il compito di agire, o di far agire chi di dovere ; non potete sottrarvi alle vostre precise responsabilità sul malfunzionamento, per non dire peggio, del servizio di istruzione pubblica.” “D’accordo. Non intendo mettere in discussione le responsabilità che questa Amministrazione, in quanto ente di governo, comunque in una certa misura viene a ricoprire ; ma soltanto evidenziare i limiti operativi e finanziari entro i quali essa si trova costretta a svolgere le proprie competenze. Per quanto concerne gli interventi di manutenzione, di miglioramento, di adeguamento delle strutture scolastiche esistenti, i margini di manovra sono sicuramente ampi e i tempi di realizzazione relativamente brevi. Non altrettanto si può dire a proposito della costruzione ex-novo di istituti scolastici. In questo caso le esigenze finanziarie sono ingenti e occorre ricorrere al supporto straordinario 33 di organi statali superiori. Di conseguenza, i tempi di realizzazione necessariamente si allungano, e si complica di molto l’iter burocratico che deve essere percorso. Ecco...ritengo che, in questo secondo caso, dovremo approntare insieme...., dico insieme questa Amministrazione e il vostro movimento, una strategia congiunta per far pressione e....” “Mi scusi se la interrompo, Dr. Porena. A noi risulta che, per quanto riguarda il primo caso - quello della manutenzione e dell’adeguamento delle strutture - i tempi di realizzazione non siano affatto così brevi come lei afferma, o almeno non lo sono stati per il passato. E infatti, nella lista che le abbiamo presentato, sono incluse richieste atte a migliorare ed adeguare l’efficienza degli impianti che risalgono ad anni indietro, ove non addirittura a decenni (segue un lungo mormorio di approvazione). Riguardo invece al secondo punto....be’....ci risulta che i nostri padri già avvertissero l’esigenza, quando frequentavano la scuola, di un nuovo istituto per geometri e.....va be’, lasciamo perdere ! Voglio solo aggiungere che ho l’impressione che si voglia continuare a nascondere o minimizzare le responsabilità con il consueto gioco dello ‘scaricabarili’...” “Ha ragione !”, lo sostiene un altro studente dal fondo della sala, che si distingue per l’evidente capigliatura alla ‘moicana’. “Smettiamola con le chiacchiere ! Vogliamo i fatti, e li vogliamo subito !” Esplode la sala in un nuovo fragoroso applauso, che questa volta sembra interminabile. Urla, fischi, invettive. Centinaia di piedi riprendono a battere ritmicamente sul pavimento. Una spaventosa vibrazione si trasmette dal solaio ai muri delle pareti, ai vetri delle finestre, alla mobilia. “BUF-FO-NI, BUF-FO-NI...”, e ancora “LA-DRI, LA-DRI...”. Una bolgia infernale. Sopraffatto dallo sconforto, ho l’impressione di vivere l’avvenimento in una dimensione surreale, sento vacillare le mie capacità cognitive. Non distinguo più un insulto dall’altro. Solo l’insulto. La spietata denigrazione. Le frustate. Una frustata appresso all’altra. Ognuna mi dilania, approfondisce il solco scavato dalla precedente. L’orgoglio è a pezzi, si sbriciola. Una frustata dopo l’altra. Un calore intensissimo, che cresce sempre più, prende possesso delle mie viscere, come lava incandescente sul punto di eruttare. Un fuoco che brucia, che divampa, che sale fino alle gote e preme per uscire, prorompere senza freni. E non sento più freni, inibizioni, meccanismi di autocontrollo. Solo un’onda, un’onda travolgente alla quale non posso, non voglio opporre resistenza. Scatto in piedi come una molla, abbranco il microfono. “Come cazzo vi permettete di offendermi ?...”, urlo a squarciagola, e nemmeno capisco se la mia rabbia venga amplificata, percepita, ascoltata. “...Io non sto prendendo per il culo 34 nessuno ! Avete capito ?...(avete capito ? mi potete capire ?)...Non potete fare di tutta l’erba un fascio ! Io sono un lavoratore, un semplice lavoratore e basta !..(lo sapete cosa significa lavorare, guadagnarsi da vivere, umiliarsi giorno dopo giorno per sopravvivere ?)...Io non sono il portavoce dello Stato...non governo io questo paese, questa città...mi ascoltate ?” Il caos generale. Nessuna risposta, tante risposte, grida, insulti, offese di ogni genere, slogans di rabbia. E la mia rabbia, inefficace, impotente, ridicola. Un putiferio indescrivibile in cui brancolo confuso, smarrito, avvilito, vilipeso ed assolutamente incompreso. Vedo (è un’allucinazione ?) la porta spalancarsi in fondo all’aula. Da sopra le teste degli studenti esagitati distinguo, come in un sogno, un coacervo di caschi blu che preme per entrare da quella porta. Vi riesce. Alcune aste scure si sollevano in aria (manganelli ! ?). Urla di paura si stagliano distinte nel frastuono generale e danno il ‘là’ ad una baraonda terrificante che all’istante dilaga nella sala. “La polizia ! No...la polizia no ! Non è possibile...è inconcepibile !” La massa studentesca, come un’onda di piena, si proietta compatta verso il tavolo dei consiglieri, verso di me, travolgendo tutto. “Assassini !...Assassini !...” Le sedie, la pedana di legno, il lungo tavolo semicircolare scricchiolano, poi si frantumano. La ressa mi trascina verso le vetrate alle mie spalle. I tendaggi in velluto rosso davanti alle finestre si staccano, precipitano al suolo ammantando gli studenti. Alcuni vetri si infrangono, cadono con fragore a terra in un tintinnio agghiacciante. La calca ondeggia in ogni direzione, mi trasporta con se di qua e di là. Sono schiacciato dai corpi. La pressione sui polmoni mi toglie il respiro. Ogni resistenza fisica è vana. Ho i timpani martoriati dalle grida atterrite. Riesco ad emettere un filo di voce: “La polizia no !...no !” Alcuni studenti vengono afferrati per le braccia, altri per i capelli. I manganelli si abbattono ovunque, sulle teste sulle spalle, sulle gambe. “Polizia assassina !”, “Ecco come sapete rispondere alle nostre richieste !”, e ancora, “Bastardi !” Qualche ragazzo abbozza una reazione istintiva con calci e pugni, subito sommerso da 4 o 5 poliziotti che menano furibondi. “Basta !...Assassini !” Gli abiti si lacerano, parti del corpo si denudano, scarpe volano via, pezzi di legno fendono l’aria intorbidita dalla polvere e dal fumo andando a colpire improbabili destinatari. Riesco, con gran fatica, ancora a respirare, e respiro il puzzo acre del sudore, del terrore, del sangue. Il sangue ! “Maledetti, il sangue !” Sventolano le bandiere, le bandiere rosse, le bandiere rossonere, le bandiere nere con la ‘A’ cerchiata nel mezzo. I pugni alzati, le macchine rovesciate, i cassonetti dell’immondizia incendiati. La rivoluzione. W LA 35 RIVOLUZIONE. I fazzoletti che coprono il volto fino sotto gli occhi, i passamontagna neri, i lunghi e grossi bastoni di legno agitati in aria, le vetrine dei negozi infrante, i tascapane a tracolla colmi di biglie di ferro e di molotov, i cubetti di porfido divelti dal selciato. NE’ DIO NE’ STATO, NE’ SERVI NE’ PADRONI...W MARX, W LENIN, W MAO TSE THUNG. Il fumo denso che avvolge tutto, la tosse violenta e irrefrenabile, gli occhi che bruciano gonfi di lacrime, i conati di vomito, e via... le fuga precipitosa, a perdifiato, lungo i vicoli, il terrore che incalza alle spalle. Malatesta, Bakunin, Kropotkin, Proudhon. La rivoluzione. W LA RIVOLUZIONE, W L’ANARCHIA, W L’ANARCHIA... 36 CAPITOLO III PRIMAVERA CON MARY E’ il 5 di aprile. Una stupenda giornata di sole, con il cielo terso, senza nemmeno una piccola “pecorella” bianca a macchiarlo (stando almeno alla visione limitata che ne ho dalla finestra dell’ufficio). Sono appoggiato da pochi minuti con gli avambracci sul davanzale e un leggero alito di vento mi soffia in faccia, insufficiente a scomporre i miei capelli. E’ una di quelle giornate che ravviverebbero anche un moribondo, che non possono lasciare indifferenti, ma, al contrario, riescono ad elettrizzare anche coloro che sono abituati a trascorrere gran parte del proprio tempo nel chiuso di stanze illuminate al neon (anzi, spesso, soprattutto questi). Non faccio di certo eccezione io a questa “regola naturale”, che rimango addirittura frastornato dall’influsso vivificante di tale bagno di luce e di tiepido calore primaverile. E questa sensazione risulta forse più accentuata dal fatto che sono appena trascorse giornate molto grigie e piovose, con connotazioni tipicamente invernali, strascichi di una stagione fredda ormai terminata per il calendario. E che la sensazione di ebbrezza, questo corporale “effetto primavera”, si manifesti come un fenomeno di dimensione sovra-individuale, come una sorta di “anima collettiva”, non dipendente da semplici predisposizioni caratteriali personali - dimostrazione della potenza plasmante degli elementi ambientali sull’uomo - riesco a dedurlo, nel piccolo della mia “nicchia” di mondo, dall’insolito e pronunciato vocio che sento provenire dall’atrio al piano terra della sede amministrativa, in cui da molti anni ormai offro le mie prestazioni di lavoro. Sono le ore 14,00 e gran parte del personale impiegatizio si appresta, con inconsueta vivacità, al rituale della timbratura del cartellino per l’uscita. Accensioni di motorette (mezzi prediletti da molti impiegati per sfuggire al caos del traffico urbano), rombi di automobili, sportelli che sbattono, risatine che seguono a battute d’occasione, saluti più o meno formali, più o meno amichevoli, accordi dichiarati e appuntamenti improvvisati : come al solito, certo, in una routine che si compie da tempo immemore, ma con quel pizzico di allegria in più, di euforico dinamismo, che può non essere notato solo da chi dispone di scarsa capacità riflessiva e poco spirito di osservazione. Avrei dovuto trattenermi ancora in ufficio, per evitare noiosi rientri di recupero d’orario a fine mese, ma non so resistere. Accosto i battenti della finestra, metto in ordine alcune pratiche sulla scrivania, richiudo la mia “24 ore” dopo avervi riposto la pipa, il quotidiano 37 ed altri effetti personali, infilo il soprabito (sarà il caso con questo tepore ?) lasciandolo slacciato, spengo il personal computer e mi precipito fuori dalla stanza e giù per la scalinata di servizio. Appena mi affaccio sul cortile interno, un intenso bagliore mi investe e mi convince definitivamente : passerò il pomeriggio all’aperto, farò una lunga camminata... “Ciao, Enri.” “Oh, ciao Filippo.” ...ai margini del fiume Filante, nella Valle della Polledrara, così approfitterò per vedere se le “spugnole” sono uscite. “Mi scusi, Dr. Porena, la troverò domani in ufficio ?” “Salve, Sig. Castellini...certo che mi troverà...è per la questione dei contributi alle attività imprenditoriali ?” “Esatto. Spero proprio che riusciremo a trovare una soluzione accettabile, tenuto conto delle limitate disponibilità finanziarie dell’ente....” “Non si preoccupi. Non è la prima volta che vengono concessi simili contributi ; si tratta di evidenziare la rilevanza sociale dell’intervento e....comunque ne parleremo domani, d’accordo ?” “Bene, dottore. Arrivederci a domani, allora.” “A domani, arrivederci.” Un sorriso d’occasione, una decisa stretta di mano e proseguo verso il portone d’entrata, estraendo dal portafogli il cartellino magnetico. Ma è sempre qui, per la miseria ! Anche all’ora di uscita. Bisogna che domani appronti assolutamente una proposta di deliberazione, poi deciderà il dirigente di settore se sottoporla all’approvazione oppure.... “Porena..hei Porena...sei disponibile oggi alle 16,00 per una partitella ?” “Oggi ?...Mi dispiace, oggi non posso Costantini, ho da fare. Se non sbaglio ne avevamo programmato già una per martedì prossimo...a quella ci sarò senz’altro. Ma oggi...” “Ho capito, sei proprio una frana. O.K., ciao.” “Ciao”, oggi proprio no! Debbo controllare le spugnole..saranno uscite ? Il periodo è quello giusto. E poi una giornata così...troppo bella ! Immagino lo spettacolo della valle...così piena di vita...ci saranno chissà quanti fiori, il via vai degli uccelli per accoppiarsi.. La prima metà della stagione primaverile mi ha sempre affascinato in modo irresistibile. Non posso fare a meno di trascorrere, gran parte dei pomeriggi di questo periodo, all’aria 38 aperta. Anche negli altri periodi dell’anno fuggo spesso dalla città e me ne vado ad esplorare gli angoli più selvaggi del territorio circostante, ma all’inizio della primavera non vi posso proprio rinunciare. Troppo forte il richiamo che sento, troppo potente il desiderio di cedere agli stimoli vitali che quegli ambienti riescono a trasmettermi. “bip” - USCITA - ORE 14,05 La schermata sul video della macchina segna-orario, posta nell’atrio del palazzo, registra l’uscita all’inserimento del cartellino. In questa operazione giornaliera, reiterata per anni, accompagnata dalla solita discreta sonorità (bip), ormai non avverto più l’avvilente sensazione di essere marchiato come un capo di bestiame. La sincronizzazione ai ritmi di funzionamento dell’apparato burocratico è divenuta parte integrante dei miei stessi ritmi biologici. Comunque sono ancora una volta fuori. Il tempo di giungere a casa, consumare in fretta un paio di panini, cambiarmi d’abito e...via al fiume. La “station wagon” che acquistai quattro anni fa risponde molto bene quando schiaccio il pedale dell’acceleratore, e non ha problemi di tenuta di strada, nemmeno su questo tracciato provinciale secondario con il manto tutto scassato, frequentato soprattutto da trattori e autocarri. Ogni volta che esco in automobile per delle escursioni nel “verde”, in particolare in simili giornate di sole, non riesco a domare quella frenesia che mi prende dentro, come se qualcosa mi stesse per sfuggire e non volessi a tutti i costi lasciarla sfuggire. Sempre all’andata, mai al ritorno, quando invece mi sento scarico, appagato, talvolta malinconico. Le note furibonde del rock dei Litfiba, che escono dall’impianto stereofonico, compiono il resto, fanno vibrare i finestrini dell’auto, rimbombano nel petto, coprono il rombo del motore e tengono incollato il mio piede sull’acceleratore. Infondono coraggio, si sa. Il rock duro ha questa capacità : distrugge i timpani ma ammalia demoniacamente, trascina in un sabba orgiastico dove tutto è consentito. Chi è abituato ad ascoltarlo, quando l’ascolta, è tentato di osare. Si accoppia bene col mio senso di frenesia, trova in esso un alleato viscerale. Insieme mi inducono a provare l’ebbrezza della velocità, che nei momenti di “saggezza” ordinaria reputo stupida e ridicola. E corro per non lasciarmi scappare...qualcosa, come la belva bracca la sua preda, ai limiti della prudenza, bussando all’uscio del diavolo, là dove i precetti e i consigli per l’autoconservazione suonano come una barbosa litania da bacchettoni moralisti. Lasciata la provinciale e imboccata una stradina di campagna ricoperta di ghiaia, intravedo in lontananza, stagliarsi nitida, la sagoma nera del castello medioevale “RoccaRuggeri”. Un castello di perimetro rettangolare ottimamente conservato nelle sue fattezze 39 strutturali, con tanto di fossato difensivo circostante, quattro torrioni merlati circolari agli angoli, una piazzetta interna, un portone enorme al centro della facciata anteriore - al quale si accede mediante un ponte costruito a cavallo del fossato - un tetto ricoperto da una miriade di comignoli. Proprio come nelle fiabe. E come in un incantesimo fiabesco mi sentii trasportato la prima volta che ebbi modo di visitarlo al suo interno, passeggiando sulla sua balconata delimitata da una serie contigua di archi e colonne, e sbirciando dalle aperture esterne negli ampi saloni arredati di recente con mobilia in stile d’epoca (e forse anche con autentici pezzi d’antiquariato). Il castello si erge su un pianoro, nel punto più alto di un colle, e la stradina che percorro vi ascende gradatamente. Man mano che mi avvicino, distinguo sempre più precisa la silhouette delle numerose taccole che svolazzano intorno ai torrioni. Quando tutte insieme si appollaiano sul tetto formano una estesa e compatta macchia scura. Una grandiosa comunità di questi corvidi ha scelto come propria dimora le solitarie vestigia del sontuoso monumento storico ; ciò, d’altronde, rientra nelle normali abitudini comportamentali di tali volatili, tanto che, un castello senza i suoi ospiti corvini, risulterebbe probabilmente sminuito di quel fascino inquietante che esercita sull’immaginario collettivo. Un castello senza taccole - ovvero senza corvi o cornacchie che siano - è come un castello senza fantasmi. Illustrare una fiaba ai bambini, incentrata sulla vita di un castello, omettendo questi tipici elementi di contesto, significa mutilarla di alcuni suggestivi stimoli emozionali, privarla della sua vibrante carica di mistero. Giunto in prossimità del maniero, dal finestrino aperto dell’automobile mi investe lo “schioccare” assordante delle taccole, un po’ meno stridulo di quello prodotto dai loro parenti stretti, cornacchie e corvi, ma egualmente efficace nell’evocare una certa atmosfera - del tipo “dark” per intenderci - anche se la luminosità del giorno non si addice ad essa. Parcheggio l’automobile al posto di sempre e mi avvio per il sentiero che scende verso il fiume Filante (in realtà un fosso a modesto carattere torrentizio). Nel suo tratto iniziale il sentiero schiude alla vista un panorama esaltante. Ogni volta che lo percorro rimango, invariabilmente, costernato. Alla sensazione di meraviglia per la grandiosità dello scenario che la morfologia del paesaggio realizza, si accompagna quella di frustrazione per l’impossibilità di godere, oltre il mero apprezzamento visivo, degli elementi che compongono lo scenario stesso. Vorrei potermi integrare “tangibilmente” con essi, potermi materialmente “liquefare” in essi, in un approccio sensoriale esaustivo che coinvolga tutto il mio essere. Avverto con rabbia il bisogno di perdermi in ogni luogo, “dentro” ogni luogo, allo stesso tempo, del paesaggio che ho di fronte, in una sorta di simbiosi integrale 40 che consenta di ritrovarmi, di rispecchiarmi nella sua essenza intima. Un bisogno che provo sempre in simili occasioni e che ogni volta viene schiaffeggiato dal senso di impotenza, dalla percezione di un’estraneità incolmabile. A volte, riflettendoci sopra, credo di interpretare, ma senza troppa convinzione, questo mio stato psicologico come il riflesso indesiderato di un conflitto latente che l’uomo moderno, in genere, porta dentro di se, incapace ad esplicitarlo. Il conflitto rimosso fra una “realtà virtuale” vissuta e la realtà autentica aborrita, nascosta, mascherata. Fare della vita un grande ed unico videogame è stata, forse da sempre, l’inconfessata aspirazione dell’uomo per sopprimere l’angoscia di vivere una realtà assai meno allettante. E l’uomo moderno sembra essersi avvicinato molto al raggiungimento di questo obiettivo. Salvo poi a ripiombare d’improvviso nell’incubo della sua essenza vera, quando i segni insopprimibili di essa riemergono in circostanze fortuite. E quando però a volte, come credo succeda a me in questa occasione, il bisogno di ricongiungimento col nostro essere reale si impone di prepotenza, si rivela tutta la nostra incapacità di riuscire a superare la condizione di estraneità. E allora mi domando : è l’aberrazione della società moderna che ci ha condotto ad un’insuperabile sradicamento o semplicemente è destino dell’uomo, fin dalle sue origini, quello di ritrovarsi alla fine solo nel cosmo, di scoprirsi alieno nel proprio universo ? Davanti a me si estende, a perdita d’occhio, una serie di rilievi collinari contigui, ammantati da una foresta compatta di querce, carpini e ornielli, la cui tonalità di colore dominante è ancora quella grigio-marrone tipica delle caducifoglie in inverno. Solo ai margini del corso del fiume la tonalità della vegetazione incomincia ad assumere una colorazione giallo-verdastra , dovuta all’emissione primaticcia dei fiori e delle foglioline della flora riparia (salici, pioppi, ontani, frassini, sambuchi). Là dove la boscaglia degrada verso il fosso, aprendosi in ampi pascoli e radure, spiccano grosse macchie biancastre, che denunciano la fioritura degli arbusteti di prugnolo. Sulle pareti di roccia calcarea che, in alcuni tratti, costeggiano e delimitano le anse del fiume, e sui pendii rocciosi esposti a mezzogiorno, appaiono, inconfondibili, le macchie di colore verde, più o meno scuro, che connotano la presenza della flora mediterranea, con essenze sempreverdi quali il leccio, la fillirea, il mirto, il lentisco, l’erica, il corbezzolo. Man mano che scendo lungo il sentiero questa grandiosa prospettiva d’insieme si riduce progressivamente fino a scomparire. La visuale si restringe tra due ali laterali di alberi e arbusti ancora spogli, ma colme di un rigoglioso sottobosco di colore verde splendente. Il mio interesse è attratto dagli esemplari vegetali più appariscenti : i cespugli 41 di ferula e asparago, le piante a foglie lanceolate dell’asfodelo prossime alla fioritura, il curioso elleboro fetido e l’elegante erba laurina. Il biancospino mostra già foglioline ben formate che preannunciano anch’esse la fioritura, il corniolo è già carico dei suoi fiorellini gialli. E poi berette da prete, ligustri, emeri sparsi ovunque. A tratti il sentiero è delimitato da pareti in roccia tufacea, con le sue sfumature di colore rossiccio, o da sistemi colonnari, anche spettacolari, di roccia basaltica di colore grigio topo, entrambi testimonianza di un’antica attività eruttiva svoltasi in quest’area geografica. Ma il particolare più eccitante ed emblematico del ritorno della stagione primaverile, quello che meglio simboleggia questo periodo dell’anno e che ci si aspetta di ritrovare con puntualità ogni volta, è la straripante vivacità della presenza floreale. Le spallette e i declivi boscosi che degradano verso l’alveo del fiume sono tempestati di macchie di ogni colore. Uno spettacolo di fronte al quale è assai difficile rimanere indifferenti. Anemoni viola, rosa e bianchi, primule, ciclamini, mammole, pervinche, scille, colombine, favagelli, botton d’oro, in giochi e contrasti di colore esaltanti. Solo con molto scrupolo e attenzione si può riuscire ad evitare di calpestare alcuni steli di questa immensa comunità. I tratti prativi aperti, che invitano con la loro soffice erba a sdraiarsi per godere dei raggi di sole, sono pennellati da un’infinità di margherite bianche, meglio note come “pratoline”. Non mancano all’appello rappresentanti del rinomato genere delle “orchis”. Mi imbatto nei primi rappresentanti di “orchis purpurea”, una delle più vistose e belle specie di orchidee del mio territorio. L’incontro, anche questa volta, è emozionante, e anche questa volta vengo colto dal desiderio di impossessarmi di uno o due esemplari, asportandoli con tutto il “pane” di terra per tentarne la coltivazione in vaso. Prevale poi il senso di colpa per aver provato questo impulso di avidità, che considero abbastanza stupido e inutile, e lascio perdere. Ancora qualche secondo per ammirare la perfetta architettura a “pannocchia” della specie in questione e proseguo senza rammarico. Il sovrapporsi caotico dei richiami degli uccelli è piacevolmente assordante. Rondoni e balestrucci già sfrecciano in cielo e scendono in picchiata sfiorando i prati. Rivedo l’upupa nel suo inconfondibile volo “saltellante”. Di lontano mi giunge la caratteristica “risata” del picchio verde. La ciclicità dei mutamenti stagionali, che si manifesta in questi normali quanto puntuali ricorsi viventi, mi conforta non poco, se penso alle insidiose incognite che pesano sull’evoluzione futura della vita del pianeta. Non è ancora silenziosa la primavera. Persino qualche solitaria farfalla resiste, mi svolazza accanto, sopravvive alla generale contaminazione chimica delle cose. 42 Con passo lento proseguo a “zigzag” sulla sponda del fiume. Ho lo sguardo abbassato a scrutare tra l’erba, in speranzosa attesa di scorgere il carpoforo di una “morchella”. Rovisto tra le piante di cicuta e in particolare mi soffermo con attenzione tra le distese di “consolida femmina” e nelle vicinanze della curiosa “latrea squamosa”. L’esperienza mi ha insegnato che questo è uno degli habitat prediletti dalle spugnole. Un segno inequivocabile della loro probabile, vicina presenza è un ‘altra specie fungina dalla consistenza cartilaginea, appartenente al genere delle “peziza”, che somiglia a una grande orecchia di colore marroncino. Quando trovo questa specie, so di poter trovare, in prossimità, le appetitose spugnole, con le quali essa condivide sia l’ambiente che l’epoca di crescita. Inoltre torno a rivisitare gli stessi identici luoghi che in passato mi hanno consentito ritrovamenti più o meno cospicui. Per circa un’ora persisto nell’intento, sotto un cielo che comincia a velarsi di un sottile strato di nubi. Un vento moderato si solleva, producendo un leggero abbassamento della temperatura dell’aria. Il sudore mi si asciuga addosso in poco tempo. Niente ! Niente di niente ! Nemmeno un piccolo esemplare fungino, che possa almeno lasciar sperare in un ritrovamento nei prossimi giorni. Sento scemare gradatamente l’intensità di concentrazione nella ricerca. Subentra la delusione, come succede sempre in questi casi, e ne subisco i suoi inevitabili riflessi somatici, una tenue spossatezza fisica che raramente avverto quando, al contrario, la tensione psicologica della ricerca si alimenta ancora di una fiduciosa attesa. Come diavolo è possibile ? Sono proprio imprevedibili queste spugnole ! Il loro ritardo nella crescita sarà forse imputabile al prolungarsi della stagione fredda ? Il terreno non ha avuto modo di scaldarsi a sufficienza ?.... Qualcosa si muove nell’erba. Istantanea è la sensazione di paura che provo. Arresto l’andatura. “Una natrice !” Un esemplare di circa due metri di “natrix natrix”, ovvero di “biscia dal collare”, striscia con lento ma deciso movimento ondulatorio, a pochi passi dai miei piedi in direzione del fiume, cercando rifugio nell’acqua. La mia attività cardiaca cresce ferocemente di intensità. Le pulsazioni mi giungono fino alla gola. Non si contano le volte che ho avuto modo di imbattermi, durante le mie consuete escursioni, negli spostamenti e nelle varie attività di questi rettili. Oltre tutto dispongo di una discreta conoscenza scientifica circa le poche specie di ofidi che popolano questa area geografica. Grazie a tale conoscenza e all’esperienza maturata, ho acquisito la capacità di distinguere con precisione, in pochi 43 secondi, una specie dall’altra, e ho l’assoluta certezza dell’innocuità di quella che ho dinanzi. D’altronde sono altrettanto consapevole della mitezza comportamentale della temuta vipera aspis e delle sue limitate possibilità deambulatorie. Volendo, è sufficiente non portarsi a tiro dei suoi terribili incisivi per evitare ogni spiacevole sorpresa e potersi godere con tranquillità i suoi movimenti. E, sempre volendo, con un bastone sufficientemente lungo, si può arrestare la sua fuga e osservarne da vicino le ornamentazioni della pelle. Eppure...eppure anche in questo caso, per l’ennesima volta, invariabilmente, non riesco a sopprimere un certo stato iniziale di tensione, di paura. Non so spiegarmene, con piena convinzione, la ragione. Non riesco a trovare altra plausibile giustificazione che quella di una predisposizione genetica orientata all’autoconservazione, un meccanismo di sopravvivenza. Solo in tale veste posso spiegare la sua tenace persistenza ad insorgere. Fatto sta che, con scatti repentini dirigo lo sguardo ora a destra, ora a sinistra, alla ricerca di un “utensile” per il mio scopo, possibilmente un bastone lungo e robusto quanto basta. Purtroppo, però, negli scarsi secondi di cui posso disporre, solo un colpo di fortuna mi può consentire di trovarne almeno uno che faccia al caso e che si trovi a portata di mano. Per lo più, a terra, scorgo solo residui e frammenti legnosi marcescenti. (Pazienza !). Non ho il tempo di esitare. Faccio un balzo in prossimità di uno di questi frammenti, l’unico che sembra lungo abbastanza per poter tentare (spero non si spezzi). Lo afferro e con altri due balzi raggiungo il malcapitato rettile il quale, nel frattempo, ha già quasi immerso la testa nell’acqua. Non gliene lascio il tempo. Con gesto fulmineo appoggio la punta del pezzo di legno sul dorso dell’animale, a circa dieci centimetri dalla testa, cercando di contenere l’intensità della pressione. Per tutta risposta la natrice si ritrae, si divincola e poi si libera dalla stretta. Solleva la parte anteriore del corpo, ricurva il collo all’indietro e rivolge gli occhi in segno di sfida contro di me. Emette il classico sibilo di minaccia. Volendo antropomorfizzare il suo comportamento e il suo linguaggio, è come se mi dicesse : “Figlio di puttana. Lasciami in pace o sono fatti tuoi.” Ovviamente non mi lascio intimidire più di tanto, trattandosi di un atteggiamento del tutto preventivato, al quale ho assistito molte altre volte. Tra l’altro, la precedente emozione di paura si è quasi del tutto esaurita, incalzata dalla concentrazione che spendo nell’eseguire l’azione predatrice. Allungo di nuovo il bastone (per fortuna sembra che regga) appoggiandolo, questa volta con precisione, sul collo della biscia. La scaravento a terra e ne immobilizzo la testa. Non sono andato tanto per il sottile. Non credo abbia avvertito il peso del bastone 44 come una carezza tra amici, anche se il mio scopo (vaglielo un po’ a spiegare !) non oltrepassa la pura volontà di imporre un “colloquio amichevole”. E’ fatta ! In fin dei conti è sempre così semplice avere il sopravvento su simili esseri. Per quanto provi ancora a divincolarsi, avvolgendo su se stessa la parte libera del corpo e tentando di rintracciare un qualsiasi sostegno su cui far leva per sfuggire alla morsa, la sua testa resta saldamente inchiodata a terra. E il bastone regge. Ha svolto in modo egregio la sua funzione, oltre la mia stessa aspettativa. Ora, alla sua morsa, sostituisco quella assai più sicura della mia mano intorno al collo. Sollevo la biscia da terra e con l’altra mano trattengo la parte centrale del corpo per limitarne i movimenti convulsi. La parte restante, verso la coda, rimasta libera, si avvolge intorno al mio avambraccio con vigore. Tra le mani percepisco il suo tentativo ostinato di sottrarsi alla stretta. Non desiste ancora, ma questa velleitaria resistenza so che ha ormai i secondi contati. Ripetutamente estrae la lingua biforcuta (mi sta “annusando”). Come in tutte le precedenti occasioni del genere, soffermo l’attenzione sulle caratteristiche ornamentali che ne disegnano l’epidermide. Sulla tonalità di fondo di colore grigio-azzurro si evidenzia una trama regolare di piccole macchie nere e una striscia chiara a mo’ di collarino alla base della testa. Al tatto la pelle è fredda - anche se tra breve si riscalderà col calore che il mio corpo le trasmette - e molto ben levigata. Il corpo è di forma lungamente affusolata. Alle narici mi giunge un lezzo nauseabondo. “Ci risiamo !” La biscia ha emesso una secrezione di odore sgradevolissimo. Ciò fa parte del suo repertorio comportamentale difensivo. Alle minacce mimiche e sonore, già messe in atto, lascia seguire, come in ogni caso in cui quelle risultano insufficienti a scoraggiare le intenzioni aggressive del predatore, una scarica di sostanze puzzolenti. Per ultimo, se si rendesse necessario, sa ricorrere ad un ulteriore stratagemma, questo davvero singolare e di indubbia efficacia.... “No ! Non farlo !” Lo sta già mettendo in atto. Speravo che non accadesse. In passato, alcune volte, perpetrando in sequenza rapida le operazioni di cattura, e limitando gli effetti negativi dello “shock” indotto, adottando gesti, per così dire, più suadenti (cioè evitando movimenti bruschi e rumori forti, attenuando la stretta delle mani per consentirle una certa possibilità di movimento), riuscivo a carpire la sua “fiducia”, a tal punto da ottenere che rinunciasse ad attuare fino in fondo il suo rituale difensivo. Questa volta non ci sono riuscito. Spalanca la bocca, in modo così esagerato come non è certo consentito alle nostre mandibole di poter fare. Lascia penzolare la lingua da un lato e fuoriuscire delle goccioline di sangue, 45 irrigidisce il corpo per poi afflosciarlo, pian piano, completamente. Sta simulando la morte. Alcune specie animali, compresa questa, attuano simili strategie deterrenti in circostanze in cui si sentono minacciate da predatori, e nella maggior parte dei casi ottengono l’effetto di scoraggiare l’aggressore nel portare a compimento la predazione. La vitalità della preda, il suo ostentato dinamismo, sono, infatti, lo stimolo principale per lo scatenamento di un’azione predatrice. Ove tali sintomi non si manifestino, o cessino di colpo di manifestarsi, viene meno, assai spesso, anche la volontà di predazione. Evidentemente, in questo caso, la carica aggressiva messa nella cattura, come forse anche il tempo eccessivo in essa impiegato, non mi hanno consentito di instaurare quel rapporto che, in termini antropomorfici, mi piace definire di “fiducia”. Ora l’animale è qui, apparentemente morto, afflosciato tra le mie mani, a rammentarmi la stupidità della bravata appena compiuta. Provo di nuovo un senso di delusione. Mentre lo depongo a terra, non posso sfuggire alla mortificazione di un tardivo pentimento (quando imparerò a controllare i miei impulsi “amichevoli” ?). “Ciao, bella. Mi dispiace, davvero ! Sappi che te la cavi bene, però.” Riprendo il cammino lungo la sponda sabbiosa del fiume. La biscia resta immobile a terra a mostrare il pigmento di colore giallo chiaro, con riflessi verdognoli, del ventre. Non sarà più lì al mio ritorno, ne sono certo ! Però quella bocca aperta...quella lingua penzoloni.... Il vento si placa, il sole ha la meglio sulle nuvole. Avverto di nuovo il tepore dell’aria sulla pelle. Ho in mente un luogo, particolarmente bello, che di rado ometto di rivisitare quando giungo da queste parti. Ancora dieci minuti di cammino, durante i quali avvisto un martin pescatore sfrecciare controcorrente sul letto del fiume, e giungo al luogo prefissato. Un incantevole angolo in cui la corrente dell’acqua attenua il suo impeto, diviene silenziosa per l’assenza di dislivelli, si allarga vistosamente tra ampie rive sabbiose che evocano la piacevole rilassatezza di soste ricreative. Anche questa volta colgo al volo l’implicito suggerimento dell’ambiente. Mi fermo nei pressi di un salice bianco col fusto reclinato verso il fiume, che ha alcuni rami pendenti fino al pelo dell’acqua. E’ carico di amenti e di fresche emissioni fogliari . Le sue radici fuoriescono dalla sabbia, alcune si insinuano nell’acqua. Mi sdraio, utilizzando la giacca verde militare che ho indosso a mo’ di cuscino, badando di espormi per intero ai raggi del sole. Scalda ancora, con prepotenza, nonostante ormai si trovi basso all’orizzonte. Gli uccelli hanno ripreso a cantare e a svolazzare tra i rami degli alberi, dopo la momentanea pausa che si erano concessi quando il cielo si era 46 velato di grigio. Le delusioni subite non riescono a togliermi il gusto di rilassare le membra stanche. E’ appagante, e chiudo gli occhi. Passano i minuti, non so quanti, e odo in lontananza un indistinto vocio. Saranno pescatori, probabilmente giovani, a giudicare dal timbro acuto e vivace delle voci. Man mano acquista maggiore definizione. A momenti è interrotto da squillanti, brevi risatine. “Sono voci femminili !” Apro gli occhi, sollevo il busto sostenendolo coi gomiti affondati nella sabbia.. Protendo un orecchio in direzione delle voci, con la curiosità di accertare a quale sesso appartengano. L’ultima risatina che mi giunge è inequivocabile : è di donna, come lo è pure la voce che interloquisce scherzosamente. Provo eccitazione, euforia, imbarazzo, ma soprattutto una crescente curiosità che mi sta divorando. Mi dispongo in posizione seduta (ho vergogna che qualcuno, in particolare se donna, possa sorprendermi in una poco onorevole pennichella). Le voci, ora vicine, lasciano pensare a donne mature, sulla quarantina come me. La curiosità diventa morbosa. Istintivamente, con la mano, aggiusto la capigliatura, poi estraggo pipa e tabacco dalla tasca della giacca (devo darmi un contegno). Carico la pipa e l’accendo. Con le prime boccate si sprigiona una nube densa di fumo tutto intorno, che per alcuni istanti sembra galleggiare nell’aria. Va tutto bene, adesso sono a posto ! Percepisco il fruscio prodotto dagli abiti che strusciano sui cespugli di rovo o di prugnolo. Sale il livello di ebbrezza, si fa più rapida la palpitazione cardiaca (quasi come quando ci si è appena fatti uno “spinello”, per il ricordo almeno che ancora ne ho). Con la coda dell’occhio intravedo, tra gli arbusti poco distanti alla mia sinistra, due sagome che si avvicinano. Simulo uno stato di assorta contemplazione del lento deflusso delle acque, fingo ignara indifferenza, e aspiro ampie boccate di fumo, ma sono in realtà impaziente che si verifichi chissà quale improbabile evento. “Oh.....buonasera !” Mi giunge questa spontanea espressione di stupore da dietro le spalle. Perseverando nella simulazione, mi volto di scatto e fingo un contenuto stupore. Approfitto dei brevissimi istanti di apparente sorpresa che ostento per lanciare uno sguardo d’insieme alle due figure. Ma non esagero, non voglio risultare indiscreto, e rispondo : “Buonasera !” 47 Seguono altri attimi di silenzioso imbarazzo, durante i quali approfondisco l’osservazione. Nel loro atteggiamento percepisco un certo timore. Appaiono esitanti, titubanti, come se fossero indecise tra l’andare avanti, arrestarsi o tornare indietro. Comprendo che è il caso di dimostrare all’istante cordialità e rispettose intenzioni, onde ripristinare la loro spensierata tranquillità, bruscamente interrottasi. Sorrido e aggiungo : “Una passeggiata ?.....con questa bellissima giornata di primavera !” Nel frattempo ho già compiuto un esame estetico delle due donne. Entrambe con un’età compresa - come avevo supposto - tra i 35 e i 40 anni. Una ha i capelli di un colore biondo oro, lunghi e lisci, è alta, magra, il volto ovale, il naso pronunciato ma non sgraziato, i seni appena accennati sotto una maglietta rosa, non proprio bella , ma, nel complesso, attraente. L’altra, assai più bassa, coi capelli neri, lunghi e ondulati, sopracciglia scure ma esili, il volto dai lineamenti tondeggianti, un naso delicato, occhi grandi, i seni vistosi, prominenti, sotto un pullover scuro, una silhouette eccitante con i fianchi perfettamente sagomati dagli abiti aderenti, nel complesso molto bella, almeno secondo le mie preferenze. Entrambe in jeans. La donna bionda ha in mano un mazzo di fiori, un misto coloratissimo di anemoni, primule, mammole, pervinche ed altre specie delle quali la zona abbonda. La donna più bassa mi trasmette un’incomprensibile sensazione di familiarità. Ho l’impressione di averla già conosciuta. E’ lei che arresta per prima l’andatura, abbozza un morbido sorriso - come a dimostrarmi di non essere affatto intimorita per l’incontro fuori programma - e risponde : “Già ! Una bellissima giornata....ci troviamo qui con un gruppo di amici per una scampagnata. Gli altri ci attendono più indietro, nelle vicinanze del castello”. Faccio appena in tempo a capire il significato implicito di questa non richiesta precisazione (che mi vuole dire : “non siamo sole, quindi niente grilli per la testa”), e subito quella voce, così delicata e sensuale come un soffio tiepido sulla pelle nuda, produce un tumulto improvviso nel mio petto, uno sconquasso, un disordine emotivo. Sento crollare quella ridicola corazza di falso contegno e simulazione dietro la quale mi stavo nascondendo. Non posso, non voglio sopprimere una furiosa concitazione. “Mariangela ! ! !” Nella pausa di imperturbabile sospensione che segue, gli occhioni scuri della donna dai capelli neri si smarriscono, cercando una spiegazione nei miei. La donna bionda aggrotta le sopracciglia, è perplessa, cerca una spiegazione nello sguardo della compagna. “Ma...tu...sei....” 48 “Si, sono io”, e le rivolgo un sorriso scomposto, senza ritegno, la mia gioia non protocollata. “Enrico ! !” Anche sul suo volto svaniscono d’incanto i segni di imbarazzo e cautela. Anche lei ora sorride con un sorriso vero, di allegra meraviglia. E sorride anche l’amica che, saltando con lo sguardo a ripetizione nello occhi di entrambi, sembra come essersi liberata da un peso che l’opprimeva. “Mary....ti ricordi ?...come ti chiamavano con quel vezzo d’epoca, quell’anglofilia così di moda ?” Lascio cadere la pipa sopra la giacca, mi alzo in piedi, spolvero i residui di sabbia rimasti attaccati sui pantaloni, mi dirigo a passi rapidi verso di lei. Giunto vicino, esito un momento, sono incerto se proporle una stretta di mano, rispettosa ma formale, o allargare le braccia per invitarla ad un abbraccio, forse inopportuno ma decisamente più sentito. Lascio la decisione ad un impulso, apro le braccia. Ritrovo le sue membra accasciate morbidamente sulle mie, in un estasiante riscontro ad un folle desiderio. L’abbraccio, in apparenza, è contenuto e composto, ma avverto un incontenibile lascivia, sento il suo corpo adagiarsi sul mio in un contatto fisico ai limiti della lussuria, prodigo e carezzevole, intimo e affettuoso, senza pudori (come quella bellissima prima volta !). Ne rimango rapito, sublimemente sconvolto dalla tenerezza. “Cara, come stai ?”, le rivolgo quasi sottovoce questa espressione che in passato mi era sempre sembrata così banale, svenevole, d’opportunità...... adesso no. Mi esce spontanea, una voce dal profondo. Per tutta risposta con le sue labbra sfiora la mia guancia sinistra, in una schiva effusione, un bacio abbozzato, fuggevole. Abbassa le palpebre - forse è troppo forte per lei il carico emotivo della situazione - e reclina fiduciosa la sua testa sul mio petto, con delicatezza (proprio come una volta, in stridente aporia, si sottrae e si concede, si dilegua alla lusinga e si offre spudoratamente senza ritrosie). “Quanto tempo è passato !”, mi ricorda con un sospiro di nostalgia, il volto nascosto al mio sguardo intenso. “Già... venti..... anzi venticinque anni...”, il sorriso mi si smorza sulle labbra. “Come è incredibile incontrarsi di nuovo, inaspettatamente, dopo tutto questo tempo, in questo posto !....” Solleva la testa, allontana il suo corpo dal mio, con movimenti leggeri : “Scusami... lei è Marilena, un’amica. Passiamo molto tempo insieme. Sai... abbiamo tante cose in comune.” 49 Protendo la mano destra verso la donna bionda. “Piacere... Enrico.” Ella mostra un atteggiamento di divertita curiosità e mi stringe la mano. “Piacere...ho sentito il suo nome pronunciato poco fa. Sembra vi conosciate molto bene, o perlomeno che vi siate conosciuti... come dire...approfonditamente, anche se in un passato quasi remoto.” Il tono di benevola ironia mi lascia immaginare il carattere di questa amica come sfacciatamente simpatico e gioviale, di allegra e spontanea esuberanza. Certo così diverso da quello della Mary dei miei ricordi. Io e Mary ci concediamo un risolino spontaneo, con il quale dimostriamo di aver apprezzato la battuta e alleggeriamo appena la tensione emotiva. Poi i nostri sguardi tornano ad incrociarsi, intensamente. In essi riaffiora una sottile nostalgia. Impossibile evitare il ritorno di lontane immagini, frenare la valanga di sensazioni confuse che ci rimandano tutte indietro, a quel felice anno trascorso insieme. E la tristezza, inesorabile, ora si va facendo strada dentro di me. Con grosso sforzo cerco di nasconderla. Mary abbassa di nuovo lo sguardo vinta dalla timidezza, poi lo risolleva come per comunicarmi di non aver nulla di cui doversi vergognare. Ma poi cede ancora sotto il peso della caparbia e impietosa fissità dei miei occhi. La perseguito, non le do scampo, cerco voracemente le sue pupille. ”Mary... Mary... dimmi che è vero !” E scruto ogni dettaglio del suo volto, sul quale si diffonde un tenue rossore. Certo, quaranta anni - uno più uno meno - lasciano il segno. Il tempo presenta il conto anche ai ricordi, tenacemente aggrappati alle giovanili illusioni di eternità e immutabilità. Eppure....è ancora lei, la Mary di allora, che aveva appena 14-15 anni. Il tempo ha spazzato via la freschezza della sua pelle, ma non quell’affascinante, ambiguo essere che era in lei, quell’identità fuggiasca e insieme smoderata che mi accalappiava come un pesce all’amo. E la sua sensualità, quella poi e addirittura accresciuta. Queste non sono illusioni, il tempo non se le è portate via, non ancora almeno. Cerco le sue mani, le trovo, le stringo, sento ricambiare la stretta. “Sei sempre la stessa, sei bellissima !” Non so nemmeno come mi escano di bocca queste parole. Nemmeno queste avrei mai immaginato di poter dire a qualcuno. In quale momento del mio passato non mi sarebbero apparse come spudorate menzogne ? Non ora, comunque, non ora. Sul suo volto si disegna una moina, un sorriso amaro, sembra volermi rimproverare di non essere sincero, di aver usato una cortesia. “No, ti prego.... lascia stare. Dimmi, piuttosto, come mai ti trovi qui ? Sei solo ? Oppure.....” 50 “Scusate se interrompo il vostro idillio...”, interviene Marilena, “...che ne pensate se vi lascio ai vostri appassionanti ricordi giovanili, e intanto mi incammino da sola verso la strada di ritorno ? Ovviamente non ti devi preoccupare, “Mary”,...” - sottolineando espressivamente l’inglesismo - “...procederò con molta tranquillità, così potrai raggiungermi. Voglio rimpinguare il mazzolino di fiori.” “Ma sì, vai pure e scusami Marilena. Mi trattengo qualche minuto poi ti raggiungo. Ma tu aspettami...non tornare al gruppo da sola, mi raccomando !”. “Fai con comodo, non ti preoccupare....arrivederci Enrico !”, e mi allunga la mano con un sorriso cordiale. “Ah... arrivederci Marilena, piacere di averla conosciuta.” Le stringo la mano, ricambio il sorriso, e mi sento dentro prendere fuoco come la paglia. Sono solo con Mary. Incredibile immaginarlo appena dieci minuti fa. La simpatica donna bionda ci volta le spalle e si incammina a ritroso lungo il sentiero già percorso. Torno a fissare gli occhi di Mary, lei fissa i miei. Questa volta riesce a resistermi, la sento più disponibile. Un imbarazzo residuo la costringe nel goffo movimento di incrociare le gambe, come a cercare un’improbabile quanto scomodo equilibrio. Ma i suoi occhi non mollano, non sono più occhi di bambina, vogliono prendersi le proprie responsabilità. “Ci sediamo ?” Lei stacca la presa di una mano, ma non l’altra, si dispone al mio fianco, ci abbassiamo insieme restando a contatto di gomiti. “Se avessi soltanto immaginato di poterti incontrare un giorno in questo posto, ne sarei divenuto un assiduo frequentatore. Durante le mie abitudinarie escursioni pomeridiane sono tornato di frequente a visitarlo ; ma con la speranza di rivederti... be’....avrei sicuramente intensificato le mie visite. Sai..., per rispondere anche alla tua domanda di poco fa, mi trovo qui perché assai spesso provo il bisogno di restare solo con me stesso. Ci riesco soltanto quando sono in un bosco, lungo il margine di un fiume, insomma, in posti come questo.” Mary mi ascolta con attenzione, il suo sguardo sembra aver superato anche il più piccolo imbarazzo. “Innumerevoli volte mi sento trascinato da un desiderio imperioso di imbattermi in stimoli vitali, di potermi specchiare in qualcosa che mi faccia sentire vivo e..., credimi, ci riesco solo qui, in luoghi come questo, quando vedo i fiori, incontro d’improvviso un animale che fugge, quando vedo volare gli uccelli o spuntare le gemme dai rami degli alberi. So bene che per te, questo mio modo di essere, è del tutto una sorpresa, è una versione del tutto nuova di conoscermi. Allora, quando mi conoscesti la 51 prima volta, questo genere di inquietudini non albergavano, come avrebbero potuto, nella mia anima. Non credere però che sia diventato uno stralunato poeta, o roba simile. Non so scrivere poesie. Credo.... forse.... di volere vivere la poesia. La mia vita ordinaria in città, il mio lavoro, il mio rapporto con le persone, ne sono assolutamente privi, sono aridi, sono deserti che non consentono nemmeno di sognare. Tutte le cose che faccio durante una giornata, da quando mi sveglio per andare a lavorare, fino alla sera quando torno a letto per dormire - per provare a dormire - sono per me una sorta di corazza, una pesante copertura che stringe, che mi soffoca...ed allora... ed allora prorompe l’esigenza di scrollarmela di dosso, di sbarazzarmene, almeno per poco tempo, e fuggo in campagna, in un bosco, fuori dalla civiltà. Ecco, qui, finalmente, non sono più in competizione con nessuno, non sono costretto a mostrarmi per quello che non sono, non c’è più bisogno che faccia l’ipocrita con gli altri, e tantomeno con me stesso. Questo noi siamo, ipocriti. Tutti quanti, almeno un po’, durante il giorno, siamo ipocriti...io penso. O sono presuntuoso a pensarlo ?” - Lei è sempre attentissima, ma non mostra alcun cenno, nessun assenso, nessun diniego “Conservo poche, cosiddette, amicizie, lo stretto indispensabile, per non morire di noia, di malinconia. Chiamarle amicizie è un puro eufemismo .......si tratta per lo più di conoscenze, di compagnie d’occasione, di frequentazioni d’obbligo più che di scelta. Ti potrà sembrare assurdo, inverosimile, ma l’amicizia con la “A” maiuscola ..... be’..... confesso che non so cosa sia. Ecco perché mi trovi qui da solo. Le mie fughe sono quasi sempre solitarie. Forse esagero, mi lascio sopraffare facilmente dallo scoramento, dal pessimismo, forse sono un depresso, uno scontento della vita che si autoemargina per fuggire i problemi del mondo. A volte proprio non riesco a capire cosa sono in realtà, e questa incertezza, questo dubbio angosciante sul mio essere, sul mio ruolo nel mondo, mi fa terribilmente soffrire. Ma ..... scusa .... ora basta, basta. Ti ho investito con un fiume di parole ....mi sono lasciato trascinare dallo stato d’animo .... credo di essere troppo problematico, contorto forse...scusami...scusami davvero.... non parlo più.” Ho la sensazione di averla letteralmente stordita. Non so cosa mi sia preso..... abbandonarmi così ! Il suo silenzio è preoccupante. Ho sbagliato tutto ! Cosa vuoi che gliene freghi di quello che io penso del mondo......... “Non hai niente di cui scusarti, Enrico”, con una calma indecifrabile Mary interrompe il suo silenzio. “Sono esterrefatta.... sorpresa di conoscerti...... così ! Sì, vedi,.....in quell’anno che passammo insieme - ti ricordi ? - da fidanzatini..... forse da innamorati, persi nella nostra ingenuità adolescenziale, non parlavamo quasi mai. La nostra conoscenza reciproca 52 era ... come dire....... istintiva, intuitiva. Qualcosa ci legava l’uno all’altra, condividevamo un influsso magico che ci univa, sentivamo di appartenerci, senza nemmeno avere la benché minima idea di come ciò potesse avvenire. Non è così ? Non era così anche per te ?” Le annuisco con la testa, questa volta io sorpreso dalla sua perspicace, per quanto succinta, analisi. “Ecco.... non mi vergogno a dirlo..... credo di averti amato, senza saperne il perché, senza chiedermene il perché. Non avevamo l’abitudine di parlare, di discutere fra noi, non sapevo come la pensassi, non sapevo chi fossi, eppure......era come se ti conoscessi da sempre, in ogni tuo più intimo dettaglio. Presagivo - è proprio questo il termine giusto - ogni atteggiamento che tu avresti avuto nei miei confronti, nelle varie occasioni, belle o brutte che fossero, prima ancora che tu lo assumessi, ed ero felice quando poi constatavo che i miei presagi si verificavano. Non sentivo alcun bisogno di chiederti niente sul tuo conto. Eri per me come un libro stampato. Eri quello che apparivi, punto e basta. Ti potrà sembrare inverosimile, ma è così. Ero totalmente convinta e appagata di possedere questa misteriosa, per me esaustiva, capacità di sondare il tuo animo, che ritenevo fosse superfluo cercarne un riscontro esterno, una conferma esplicita da parte di altri o da parte tua. Ed ora.....così, di colpo......dopo tanti anni......ti ritrovo così irrequieto.....così desideroso di rivelarti tutto d’un fiato, seppellendomi di parole, di farmi comprendere, con questa esplicita confessione, quello che sei diventato, le tue convinzioni, i tuoi desideri, le tue paure.......come se.......scusami se te lo dico.......come se tu fossi preoccupato di lasciare un immagine errata o incompiuta di te stesso .........o come se ti affannassi a rincorrere il tempo perduto. Ebbene...... certamente questo, per me, è un modo diverso di conoscerti.......ma, in fin dei conti, mi dimostra che non sei cambiato affatto, che sei lo stesso Enrico di un tempo. In questa tua voglia di scoprire subito le carte del gioco....sei davvero il solito Enrico che si concede generosamente e completamente. E sono felice di constatarlo. Il tuo aspetto fisico, è ovvio.....è cambiato......sono cambiati i tuoi capelli.....” Sorride. Con un sorriso spontaneo....e allunga una mano, le sue dita leggere si insinuano con dolcezza tra i miei capelli. Mi lascio sopraffare da una vibrazione, un moto di commozione. Il mio sguardo vola via verso il niente. La tenerezza colpisce alla sprovvista e ne rimango intimidito, allo stesso momento, infinitamente confortato, cullato, incapace di reagire. Mi sento paralizzato, con gli occhi gonfi, la mente fuori servizio, un nodo alle corde vocali. La sua libertà mi sconvolge, ancora una volta, come allora, la sua libertà che 53 cattura, ammansisce, stordisce. E’ tornata a sconvolgermi, ancora......come è possibile ?COME E’ POSSIBILE ? Scivolo in una sorta di trance ...poi mi accorgo di stringere la sua mano, la tengo stretta, per non lasciarla scappare. Lei adesso tace. Avverto un silenzio di profondo rispetto, avverto il suo sguardo consolatorio. Faccio uno sforzo, uno sforzo terribile per sciogliere quel nodo alla gola.... “Mary....Mary.....come sei....come vorrei.....aiutami, ti prego !...vorrei poterti....dire....” “Dimmi, ti ascolto !” Sicura, energica, ma dolce...troppo dolce. I miei occhi troppo gonfi per resistere. Appoggio la testa sulla sua spalla. “Oh caro.....caro”, il suo alito caldo sull’orecchio. Il pullover che indossa è umido....quanto tempo è che mi trovo così ?.....comprendo di aver superato un limite, è il momento di fare, dire qualcosa.....Sollevo la testa, la fisso negli occhi con gli occhi bagnati, i miei vicinissimi ai suoi.... “Mary....credo di amarti....ancora.... non ho mai cessato di farlo...” “Anch’io Enrico....anch’io.” “Mary....voglio fare l’amore.....non l’abbiamo mai fatto.....per una volta almeno facciamolo...forse non ne avrò più l’occasione....Mary...” “Anch’io lo voglio....non perdiamo tempo...ne è rimasto così poco !” Ci ritroviamo distesi, io sopra di lei, le labbra sul suo collo caldo, morbido, i denti nella sua carne, ma piano, piano, mentre la saliva scende. Le passo la lingua dappertutto, non c’è angolo che non ne valga la pena....cerco la sua bocca...(mi puzzerà l’alito ? Il corpo ? Il sudore ?).... sono già a rovistare nella sua bocca, a bagnarla, a bagnarmi dentro di essa...vorrei poterla prosciugare. Le mani se ne vanno ovunque, e ovunque palpano il morbido, il caldo, il fremito della pelle. Il membro duro, sempre più duro, e dolorante, schiacciato sulle sue cosce, strozzato nelle mutande, intrappolato nella peluria, ha voglia di scoppiare. “Amami....Enri.......amami...” Le sollevo il pullover, lei se lo toglie di dosso. Mi sollevo in ginocchio, slaccio i pantaloni, lei fa altrettanto coi suoi jeans. Calo i pantaloni, non provo alcuna vergogna, è come se lo avessi rifatto già mille volte insieme a lei....e calo anche gli slip. Salta fuori il pene turgido e palpitante......lei arresta la sua opera di svestimento, si solleva sui gomiti, allunga la mano destra, lo afferra, avidamente, lo stringe, allenta la presa, lo accarezza, lo massaggia, fa scorrere il prepuzio con movimento ritmico e lento. “Si.....no....no...non ce la faccio” 54 Arresta anche il movimento della mano, solleva il busto, ce l’ha di fronte agli occhi il membro, gonfio e caldo....apre le labbra e chiude gli occhi, ingoia per intero il glande, lo stuzzica con la lingua, e con l’altra mano accarezza i testicoli. Scosse elettriche....la sua lingua che struscia....brividi intollerabili, gemo, non trattengo mugolii.... e odo anche i suoi, più cupi, prigionieri in bocca, nasali e affannati. La sua mano riprende un ritmo incalzante, serrata intorno al membro, ora anche la sua testa segue lo stesso ritmo, le labbra strusciano sul glande, la saliva lo inonda...ci sono, lo sento.....non resisto....il cazzo sta per vomitare. “Ti prego....” - la voce flebile e alterata - “...fermati ......voglio entrare in te....” Interrompe la suzione.... ed è come una cascata d’acqua sopra il fuoco. “Si....certo caro......” La testa china, finisce di spogliarsi....via le mutandine merlettate, via il reggiseno troppo piccolo per contenere seni debordanti.....si distende, si apre.... “Vieni Enrico......vieni.....” Sono stordito, inebriato, la sua nudità è eccezionale, la sua carne bianca mi riaccende come la paglia sul fuoco. Distendo il corpo sopra il suo, il contatto è travolgente, vertiginoso. Il calore del pube contro il pube sta per dare inizio ad un amplesso incandescente.....è così tenue, in confronto, il calore dei raggi del sole al tramonto sulla nostra pelle. Sollevo frettolosamente camicia e canottiera, per offrirle l’addome, il petto, tutto quanto mi è possibile. Il pene palpita tra le sue gambe, è lì, per entrare, si conficca in mezzo al pelo....Mary divarica le cosce, senza ritegno, le solleva, solleva i piedi, li avvinghia sui miei glutei....sto per penetrare, senza sforzo... “Entra...Enrico....entra....amami....” Una lunghissima, fresca folata di vento si abbatte sulla piazzola di sabbia, solleva polvere, foglie secche dell’inverno. Gli arbusti di rovo e biancospino vibrano rumorosamente, le ramificazioni alte dei cerri e dei carpini oscillano. Le infiorescenze dei salici, dei cornioli, dei noccioli si staccano dai rami, si disperdono nell’aria, mi piovono addosso. Ho la fastidiosa sensazione di un mutamento dei fattori climatici. E’ da qualche minuto, in effetti, che non odo più il cinguettio degli uccelli, il pigolio dei rondoni in volo. Un terribile rombo congela la mia eccitazione, spalanco gli occhi appena socchiusi. Sopra di me il cielo è torvo, minaccioso, a tratti intensamente plumbeo. Del sole non c’è più traccia. Mi sollevo bruscamente a sedere. “Porca puttana !....” Un temporale incombe (Era da mettere in conto ad inizio di primavera). 55 “E ora ?...Mary....perché proprio adesso ?....” La radiosa luminosità di poc’anzi si è dissolta, un’ombra compatta, tetra, ha preso il suo posto. Addirittura è quasi buio. Guardo l’orologio.. “Porca troia !”, sono quasi le 19,00 (come ho fatto a non accorgermi del tempo che passava ?). Un temporale, più che probabile, in arrivo, la luminosità disponibile scarsa, ancora qualche decina di minuti da sfruttare prima che.... D’improvviso sento freddo, sono percorso da un brivido, mi stringo tra le braccia. Mi alzo precipitosamente, indosso la giacca militare, riprendo il cammino lungo il sentiero di ritorno a rapide falcate. Un altro tuono, ancora più potente, sempre più vicino...e un lampo accecante che conferisce, per un attimo, una luminosità spettrale alla boscaglia. Il fluire delle acque del fiume sembra aver trasformato la sua gioiosa vivacità in impeto, fa paura. Inizio a trotterellare, e quasi subito dopo inizia pure l’affanno a farsi sentire. Avanzo saltellando tra le asperità e i dislivelli del terreno. I primi goccioloni colpiscono la mia testa (piove, non c’è dubbio !). Tuoni e lampi, con fragore assordante, a ripetizione. In men che non si dica una pioggia torrenziale, violenta, mi investe e mi fradicia completamente. Ora corro a velocità sostenuta, col rischio di rotolare in mezzo al fango e magari di fratturarmi un arto. La fatica diviene insostenibile, decido di fermarmi a riprendere fiato...(tanto ormai...). Con il fiato grosso alzo il viso verso il cielo quasi nero.... una cascata d’acqua mi sommerge. Sono confuso, disorientato, intimorito. Difficile rimanere indifferenti quando la natura ti esplode intorno con simile violenza. Più che altro, però, subisco l’assalto di una tristezza indicibile...e rimango lì, a lasciarmi inondare dallo scroscio d’acqua, lo sguardo fisso nel cielo...(che venga giù anche il cielo !...). “Mary....” Non so come , non so perché, scoppio a ridere (o forse a piangere)...una risata sguaiata, scomposta...incomprensibile. Che venga giù il cielo, tanto ormai...sono tutto bagnato...sono bagnato anche dentro... 56 CAPITOLO IV SGUARDI TRA LE FOGLIE Le foglie del carpino tremano, in un caldo e afoso tardo pomeriggio d’estate. L’aria immobile. Nemmeno un alito di vento. Il ronzio prodotto dagli insetti che volano tra i rovi, l’ortica, gli alti steli di cicuta e i folti cespugli di ginestra, sottolinea questa staticità imperturbabile. E le foglie del carpino tremano. Per la paura. Un tremolio appena percettibile che, il contatto con un corpo preda della paura e dell’eccitazione, trasmette loro. Il mio corpo. Un corpo infuocato e bagnato di sudore, sotto i pur esili indumenti di cotone che lo rivestono. Indumenti di colore “mimetico”, opportunamente scelti in previsione di una simile occasione. Vergogna ! Che vergogna provo nel sapere di essere condizionato persino nella scelta degli abiti, quando vado a cercare proprio la mia più selvaggia libertà nei boschi. Ma forse anche questo inevitabile travestimento è frutto di un prepotente, istintivo bisogno di autenticità. Una consolazione ? Una scusa per farmi perdonare da me stesso ? No ! Ma almeno un’attenuante sì ! E allora riesco a sopprimere, inibire momentaneamente la vergogna. Ma poi la vergogna cos’è se non dominio interiorizzato del sociale ? Il superamento della vergogna consente dunque di infrangere il dominio, di spezzare le catene che, nel subdolo travestimento dell’autocontrollo personale, del divieto interiore, esplicano l’ultima e forse più efficace risorsa di imposizione contro il desiderio e la volontà di trasgressione. Perché allora non usare un travestimento contro un travestimento ? Oltrepassare il limite, scalzare le remore morali, osare contro se stessi quando in se stessi si ravvisa un potere “altro”, adagiarsi al di là del bene e del male.....Nietzsche mi conforta. E mi lascio sovrastare dal desiderio. Dalla paura e dall’eccitazione. Che incredibile “melange” emotivo è questo ! Un’autentica esplosione pulsionale che non ha eguali nella normalità, cosiddetta o presunta “normalità”, dell’erotismo. Non tanto per l’intensità, quanto invece per la qualità del piacere alla quale si associa. Non fosse altro che per la specifica e atipica componente che di essa è parte integrante e insostituibile : la paura. La paura che, in qualsiasi altro contesto sessuale, è fattore inibente o di disturbo sullo stato di eccitazione raggiunto, in questo caso precede e accompagna costantemente l’evolversi della fase eccitativa, o addirittura vi svolge un’azione catalizzatrice, enzimatica. Ma è una paura che non deve trascendere, deve mantenersi entro limiti di tollerabilità, non 57 trasformarsi in panico. E’ sempre prossima al panico : basta un nonnulla, un piccolo rumore inatteso o di origine indecifrabile, perché scivoli senza rimedio in esso. Nel qual caso, cessa d’incanto il travolgente miscuglio emotivo. Perciò la paura deve potersi mantenere in precario equilibrio ai confini del panico, senza mai superarli. E’ questa precarietà, in fin dei conti, che conserva attivo il trasporto erotico. E poi la peculiarità di questo piacere è anche un’altra : l’oggetto sessuale è assolutamente “gratuito”. Non comporta alcuna spesa psicologica in termini di umilianti e ipocriti corteggiamenti o di altro qualsivoglia genere di dispendio energetico di approccio. E’ il piacere di animali sessualmente “pigri”, in senso lato, che non hanno voglia di perdersi in noiosi preamboli o di prostituirsi moralmente in ammiccamenti e promesse intentati allo scopo di circuire la preda. Si entra subito in possesso, in certo modo, dell’oggetto desiderato, senza sacrificare alcunché di sé a favore di chicchessia. E’ il piacere di animali egoisti. Perché.....esistono animali che non siano egoisti ? Che pur prodigandosi nei più generosi e “disinteressati” atti di apparente altruismo, non facciano, in ultima analisi, il proprio tornaconto ? E inoltre. E’ il piacere di animali violenti ? Che usano violenza nell’atto di imporsi al proprio oggetto del desiderio senza chiedere permessi, senza presentarsi, senza nemmeno rivelarsi ? Forse, anzi certamente. Ma....siamo sinceri ! La loro, la nostra, è una violenza così tenue, così “indolore”, almeno fintanto che rimane nascosta, che non lascia traccia, che non crea drammi e lacrime, che non sconvolge la vita di nessuno. Di entità assolutamente incommensurabile alle atrocità che la quotidianità riserva agli esseri mortali. E quando, per accidente o imprudenza, si disvela, crea tutt’al più qualche attimo di sgomento, di imbarazzo e di rabbia a chi si è disvelata , senza gravi strascichi futuri per la psiche. L’impatto della disvelazione è assai più traumatico sul soggetto stesso che ne è l’attore, messo a nudo nell’azione libidinosa. Da questo infausto momento una macchia indelebile sporcherà, forse per sempre, la sua memoria. Ed ecco allora perché quella paura. Di quale paura l’animale pigro, egoista, violento, è, allo stesso tempo, vittima e fruitore beneficiario ? Non la paura di chissà quale improbabile castigo, ma la paura pura e semplice di essere scoperto, ovvero la paura della vergogna. La solita stramaledetta vergogna che ne conseguirebbe. Quella vergogna che emerge sotto forma di senso del peccato, di incoercibile senso di colpa in chi sa, o crede, o non può fare a meno di credere, di trovarsi in flagrante comportamento delittuoso. E che emerge comunque, nonostante siano state erette le più solide difese, le più ardite e razionali 58 convinzioni di inesistenza di una qualsiasi colpa. Quella vergogna che ti ferisce prima, durante e soprattutto dopo lo svolgimento dell’iter ritenuto comunemente “peccaminoso”. E dopo agisce come una mano invisibile che vuol toglierti via il godimento appena “usurpato”. Questa sì che è violenza ! Violenza alla quale è difficile opporre resistenza, che ti perseguita da dentro, ti colpisce, ti umilia e non ti riconosce attenuanti, ti giudica e ti condanna e ti macchia d’infamia per l’eternità. Dimostrazione del potere smisurato di coercizione che la società riesce ad esercitare sull’individuo. Contro questo potere trovo dignitoso perseverare nella ricerca del piacere “illecito” e continuare ad essere debitore della paura. Sguardi impauriti e voluttuosi si fissano sui gesti voluttuosi degli amanti, avvinghiati nell’abitacolo dell’automobile, e ne carpiscono i sottili segreti del godimento. La carne chiara, morbida, sinuosa e palpitante. Le mani avide che si serrano su di essa e vi affondano, quasi per impossessarsi della bramosia che la corrode dal di dentro. E il mio sguardo famelico cattura tutto, dentro e fuori, e chiude un circolo orgiastico sfrenato ed esaltante. Una mano sollecita il membro eretto e lo prepara all’amplesso. Anche la mia mano stringe con prepotenza la carne turgida e calda, la scuote, quasi la percuote. Quel corpo candido e desideroso si scompone, si apre come una voragine e si deposita sul pene per fagocitarlo e per lasciarsi penetrare. Il sudore, il calore, la febbre del piacere, il respiro ansimante, i battiti del cuore a mille, il cigolio sempre più ritmico e veloce dei sedili appiccicosi. E lo sfogo estasiante negli attimi culminanti, le secrezioni dense che imbrattano l’oggetto amato, il seme che si disperde sulla polvere e irrora le foglie amiche. Poi tutto tace, tutto si ferma. Il piacere ammutolisce, il circolo dell’amore si spezza. Solo la paura continua a martellare, e la vergogna torna a tormentare. Perché mi trovo qui ? E’ il momento di scappare, dalla paura e dalla vergogna. Esito ancora alcuni istanti per sincerarmi che intorno a me ci siano solo presenze amiche : alberi, arbusti, fiori ed altri animali. Trattengo il fiato e guardo nelle varie direzioni. Poi scivolo via di soppiatto e lentamente dal nascondiglio, per non fare rumore e non essere intravisto, anche se l’impulso è quello di mettermi a correre, per lasciare subito più spazio possibile tra me e il luogo dell’illecito”, tra me e.........me. Ed avallare di fatto, ma senza gradimento, il mio sdoppiamento schizofrenico. Appena fuori portata del pericolo, gradatamente riacquisto la “normalità” condivisa da tutti. La carica eccitativa si è esaurita e la tensione si è spenta. Anche la paura non c’è più. Svuotato come succede alle zucche nelle ricorrenze annuali di Halloween , esausto 59 come potrebbe sentirsi uno scaricatore di porto alla fine della giornata lavorativa. A passi lenti e pesanti, che sprofondano nel soffice humus boschivo, con i muscoli ancora indolenziti per le inconsuete posizioni assunte nell’opera di voluttuosa osservazione, mi dirigo verso il luogo in cui ho parcheggiato l’automobile. Spompato e vagamente intristito. Un voyeur, un guardone rincoglionito ! Tutto cominciò parecchi anni addietro. Durante un agosto incandescente, trascorso, peraltro meravigliosamente, in Grecia insieme a Stella e insieme a...Cucciolo. Sì, quel bastardo di un cane, amatissimo compagno della mia vita per 12 lunghissimi anni. Al quale attribuisco il merito esclusivo della maturazione di una fondamentale presa di coscienza : quella di essere un animale. Non la devo alle letture darwiniste, che hanno invece fornito una sistemazione teorica postuma a questa presa di coscienza. Fu Cucciolo il medium che mi consentì di trasformare la mia visione esistenziale ancora ottusamente antropocentrica in una visione di eguaglianza cosmica disincantata, di trasporre i principi dell’anarchismo dall’ambito dei rapporti sociali umani a quello dei rapporti naturali fra tutte le forme viventi. Ancora così giovani, con entusiasmo da buttare via e la voglia di avventura, con una piccola utilitaria ed un’essenziale attrezzatura da campeggio, a spasso tra i paesaggi aspri ed assolati del Peloponneso e lungo le sue coste incantate, eravamo una triade perfetta. Lo sguardo radioso di Stella, pur velato dalla stanchezza per le stressanti giornate di viaggio in automobile ; lo sguardo pietoso di Cucciolo che implorava il consueto bagno nelle acque marine, sbavando decilitri di saliva ovunque ci trovassimo ; il profumo intenso delle essenze mediterranee e della salsedine, il cielo sempre terso e la luce accecante diffusa, senza scampo, in ogni angolo del paesaggio : tutto contribuiva ad infondermi il desiderio di vivere la vita come non mai. Non avevamo tempo di rattristarci di alcunché, né tanto meno di annoiarci. E sì che le occasioni per riflessioni dolorose non mancano mai, nemmeno durante una gita di piacere. Rivisitando i ricordi di quei luoghi, al di fuori dell’influsso vitalizzante diretto del mare e del sole, compaiono anche impressioni dolorose della Grecia di allora. La povertà, innanzitutto, di gran parte della popolazione che abitava nei piccoli comuni e agglomerati urbani, attraversati durante l’itinerario di viaggio. I bambini malvestiti che attorniavano la nostra utilitaria durante le soste di rifornimento, attratti dallo straniero “benestante” (proprio così !) in vacanza. Davvero avvilenti e corrosivi, quegli occhi grandi di ignara e ingenua bramosia. E poi i nugoli di mosche e di vespe che, normalmente, stazionavano sulle porzioni di carne bovina appese nelle 60 macellerie, prive di apparecchiature refrigeranti. L’acqua delle fontane pubbliche - con le quali riempivamo le taniche di scorta - che lasciavano depositare un visibile strato terroso. Le facce, rugose e stanche, delle attempate signore che, nelle stradine dei piccoli centri, si guadagnavano da vivere vendendo gustosissimi “spiedini” di carne (ahimé!, quale era il loro nome locale ?). Ma gli occhi, gli occhi della gente greca....... questo è il ricordo più indelebile che conservo. E’ come se gli sguardi dei greci riflettessero un tratto intrinseco comune, un aspetto inconscio dello spirito di quel popolo. E comunque io quel tratto ve lo scorgevo, anche se la logica mi dice che potrebbe, assai più verosimilmente, trattarsi di un “transfert” dei miei desideri, dovuto alla stima che ho sempre nutrito per le nobili origini di quel popolo. In quegli sguardi scorgevo umiltà e dignità nel contempo, coscienza del limite e insieme fiera determinazione a non soccombere ad esso. Vi leggevo il triste desiderio di una drammatica sfida all’impossibile. Di questa dolorosa impressione che conservo non ho riscontri obiettivi, come il mare o il sole, solo sguardi, atteggiamenti, messaggi impliciti. Solo questo. E soltanto oggi riesco ad evocarla. In quei giorni di agosto la mia mente affondava nel mare azzurro, caldo, trasparente, volava nell’aria brillante, di una luminosità accecante, si inebriava delle profumate essenze del pino, del rosmarino e del sale marino, si abbandonava sulla pelle e negli occhi eccitanti ed eccitati di Stella, rincorreva la giocosa, ingenua, selvaggia natura di Cucciolo, si lasciava trascinare nel vorticoso, ludico, inebriante appagamento degli impulsi primordiali. Le stonature, le note dolorose, non avevano la capacità di coinvolgermi, di disturbarmi. Dalla retina passavano direttamente in un angolo remoto del cervello, senza passare dalla regione delle emozioni, attendendo una rivisitazione successiva più approfondita, che sicuramente ci sarebbe stata, come è vero che poi c’è stata. Dopo le estenuanti tappe di marcia giornaliera, verso il tramonto, la nostra unica preoccupazione era quella di trovare un posto idoneo - lontano dai centri abitati - per la sosta della notte. Niente di più facile, avevamo l’imbarazzo della scelta. La Grecia dei nostri ricordi non sembrava ancora brutalmente antropizzata, conservava meraviglie ambientali ovunque giungessimo : grandi foreste d’alto fusto, macchie intricate, garighe cespugliose e sassose, spiagge deserte per chilometri, paludi incontaminate, speroni di roccia a strapiombo sul mare. Sorpresi e affascinati ogni volta dalle caratteristiche dei luoghi incontrati, ripetevamo il solito rassicurante e, allo stesso tempo, eccitante rituale di bivaccamento. Montavamo in pochi minuti la tendina a due posti (di quella grossa ci servivamo nelle soste prolungate di più giorni), preparavamo le cuccette con i sacchi a pelo 61 per dormire e quella speciale per Cucciolo (uno spazioso cuscino in gomma piuma), che esso quasi sempre disdegnava per godere della frescura notturna all’aria aperta. Accendevamo un piccolo fornello per improvvisare una frugale cena calda e, prima e dopo la consumazione del pasto, ci raccontavamo le impressioni del giorno e le aspettative per il giorno seguente. Cucciolo, dopo essersi rifocillato, aveva l’abitudine di acquattarsi sul ventre, con il muso appoggiato sulle zampe anteriori e le lunghe orecchie pendenti e pelose (ereditate probabilmente da un progenitore di razza cocker) sollevate di quel tanto necessario ad una perfetta ricezione sonora. Teneva sotto controllo tutta l’area circostante per centinaia di metri. Questo era il suo momento, uno dei suoi prediletti. Si “sentiva”, per così dire, utile. Era il momento della guardia. Quando calava la notte, nell’indisturbata cantilena dei grilli, era irresistibilmente chiamato a proteggere la sua piccola comunità da eventuali intrusioni entro i confini territoriali, marcati dalla propria straordinaria capacità olfattiva e uditiva. Lo scricchiolio prodotto da qualche insetto o piccolo roditore sulle foglie, la caduta di un ramoscello secco al suolo, il verso improvviso di una civetta o un barbagianni, erano più che sufficienti a scatenare la sua reazione spropositata di paura e violenza aggressiva insieme. Per un uomo, forgiatosi in millenni di progressiva razionalizzazione comportamentale, una tale reazione potrebbe risultare incomprensibile al vaglio di una considerazione superficiale. Io e Stella ormai avevamo imparato a comprenderla, non ci stupiva affatto ; anzi, col tempo, ci risultò persino bella ed esilarante, al punto di invogliarci spesse volte a gustarne l’intera sequenza, evitando di intervenire per frenarne l’irruenza. Intorno alla fine di Agosto - dopo aver visitato innumerevoli località, comprese quelle di maggior rinomanza turistica come Olimpia, Sparta ed Atene - decidemmo di fermarci alcuni giorni in un luogo situato sulla costa del versante occidentale, non molto distante da Patrasso. Era semplicemente incantevole, quanto di meglio potevamo auspicarci di trovare prima di congedarci da questa magnifica terra. Penetrammo, mediante uno stradino sabbioso, all’interno di una fascia boschiva litoranea, dall’aspetto maestoso ed integro. Era una foresta dominata da giganteschi esemplari di pinus pinea, volgarmente detti pini domestici, con i loro caratteristici altissimi fusti dal colore rossastro e screpolati in grosse placche, sulla sommità dei quali si aprivano rigogliose chiome dalla tipica forma di ombrello (mi chiedo spesso se quelle secolari testimonianze siano ancora oggi sopravvissute all’avidità umana). Il sottobosco era denso ma lasciava, al proprio interno, frequenti ampi spazi di agibilità sulle dune sabbiose, ideali per il campeggio. Un fosso 62 dagli argini paludosi - con canneti che ospitavano una ricca fauna limicola e avifauna acquatica - attraversava longitudinalmente la foresta e la separava da una fascia di macchia più fitta, bassa, cespugliosa, composta da una variegata comunità di specie vegetali mediterranee, quali il mirto, il corbezzolo, il lentisco, il ginepro coccolone, il cisto e il terebinto. Solo un piccolo ponticello in legno, costruito a cavallo del fosso, metteva in comunicazione le due fasce vegetazionali e consentiva di accedere alla spiaggia, ma soltanto a piedi, che si estendeva nuda e solitaria oltre la macchia. E si estendeva davvero per chilometri e chilometri, in una sequenza interminabile di dune sabbiose modellate dalla brezza marina, senza altri ospiti stabili viventi che l’ammofila, avanguardia conquistatrice dei litorali. Qua e là tracce di animali di passaggio e di uccelli di ripa, o residui cadaverici di animali marini, sbattuti lì dalle correnti e dalle onde (non potrò mai dimenticare l’enorme carapace di tartaruga di mare, non ancora scarnificato completamente, che trovammo in fase di decomposizione durante una delle nostre passeggiate serali). I segni di presenza umana, per quanto inverosimile possa apparire, erano molto rari. Non rintracciammo nemmeno un’impronta recente di uomo su quella distesa di sabbia fina e chiara. Il giorno in cui scoprimmo questo sperduto e strabiliante angolo di mondo, dopo una faticosa tappa in macchina, tutti sudati e stanchi sotto il sole incandescente di mezzogiorno, ebbene, potrà risultare retorico dirlo, ma non ci sembrò vero. Sembrò impossibile potesse esistere, in una qualche parte dell’Europa civile e industrializzata, sul finire del secondo millennio, un posto così selvaggio e nel contempo così ospitale. Appena guadagnata la spiaggia, dopo una camminata entusiastica di centinaia di metri sotto l’ombra tonificante dei pini e la cantilena assordante delle cicale, non perdemmo nemmeno il tempo per descriverci le sensazioni e l’ebbrezza del momento. In pochi secondi ci denudammo completamente e raggiungemmo Cucciolo che, sbuffante come una locomotiva, si era già tuffato, senza nemmeno i consueti tentennamenti, tra le lievi onde del mare. Ed altra grande sorpresa : l’acqua era così calda come mai in passato ci era riuscito di trovarne in uno qualsiasi dei tratti di litorale mediterraneo visitati, e sono stati tanti. Sguazzammo felici tra le onde carezzevoli, divertendoci, come al solito, a fare dispetti a Cucciolo, il quale, in quell’occasione, non ebbe voglia di prendersela più di tanto. Anch’esso venne travolto dagli effetti vivificanti di quell’ambiente magico e si offrì integralmente, com’era peraltro nella sua natura, all’ubriacante contesto di stimoli. Ci dimenticammo persino di pranzare quel giorno e restammo per ore in acqua e poi a ruzzolare sulla sabbia incandescente. Quel paradiso fu come se si trovasse lì per noi e per 63 nessun altro. Nessun essere umano sembrò volesse o potesse condividere con noi il miraggio di quel posto. A pomeriggio avanzato, ormai esausti ed appagati, tornammo indietro alla macchina per scaricare l’attrezzatura da campeggio e montare la tenda grande per l’ultima sosta, la più lunga, delle nostre vacanze. Accendemmo, con molte cautele, un piccolo fuoco. Il crepitio dei rami secchi sulle fiamme, l’odore appetitoso delle bistecche arrostite sulla brace e quello più avvolgente della resina dei pini, lo sciacquio lontano delle onde marine, in contrasto con il silenzio assoluto del buio circostante : questi pochi elementi esaltavano la consapevolezza di trovarci in quel luogo. Ci sentivamo come gli unici fortunati sopravvissuti ad una catastrofe planetaria. Sembrava fossimo solo noi a godere lì di quel che rimaneva. E Cucciolo a far da guardiano intransigente dei nostri sogni. Quasi impossibile non destarsi al bagliore dell’alba, quando inonda l’interno della tenda penetrando dai suoi porosi tessuti, così come al canto mattutino della capinera. E anche quella mattina dopo aprii gli occhi, subito rinfrancato dai gioiosi segnali di vita ; per poi riassopirmi immancabilmente come tutte le mattine passate in tenda, dopo aver coperto le spalle infreddolite rimaste alla mercé della frescura umida della notte. Alcune ore dopo, quando il sole aveva già prepotentemente surriscaldato l’aria, Stella si alzò delicatamente, come al solito, badando a non infastidire troppo il mio sonno (lei sapeva quanto amavo dormire nelle prime ore della mattina). Sentì Cucciolo festeggiare come sempre, con lo stesso inconcepibile entusiasmo, il ritorno tra i vivi della sua amica. Con salti, piroette, gemiti ed un andirivieni frenetico intorno a lei. “Buono, Cucciolo.... mi graffi tutta..... e svegli Enrico !” La caffettiera sul fornello iniziò poco dopo a borbottare. L’aroma del caffè giunse puntuale ai miei sopiti organi olfattivi. Di soppiatto Cucciolo si avventurò all’interno della mia cuccetta, passando attraverso lo spacco della chiusura lampo, lasciato aperto da Stella. Me lo ritrovai addosso a slapparmi tutta la faccia con la sua linguaccia ruvida e umida. “Vattene Cucciolo..... lasciami dormire in pace !” Finalmente, dopo pochi minuti, sentì giungere la voce di Stella come provenisse da un angolo remoto : “Vado in spiaggia, Enrico... ci vediamo più tardi.” Farfugliando, ebbi la capacità di risponderle. “Sì....ti raggiungo più tardi.” Mi voltai sul lato opposto, sprofondando con enorme soddisfazione la testa sul cuscino, nonostante la foresta fosse ormai in balia di un cicaleccio assordante. Il mio sonno durò ancora per circa un’ora, fino a che il sole fu così alto, e i suoi raggi così cocenti, da costringermi, già tutto 64 sudato, ad uscire fuori dalla tenda. Mi soffermai alcuni momenti ad osservare incantato lo spettacolo prodotto dalle sfumature di colore delle grandi masse verdi che mi circondavano. Non so perché, non l’ho mai capito con precisione, ma la foresta è un luogo all’interno del quale mi sono sempre trovato a mio agio. In quell’occasione, lo ricordo bene, provai, insieme ad una confortante sensazione di protezione, anche un vorace desiderio di esplorazione. Chissà quanti nascondigli, quanti microcosmi viventi, quanti angoli di magica bellezza poteva accogliere al suo interno un habitat così sconfinato e selvaggio. Mi ripromisi di scandagliarne, metro per metro, le sue profonde intimità, di sondarne i più segreti recessi, nei pochi giorni che ci rimanevano a disposizione. Preparai l’irrinunciabile colazione a base di caffè, latte e biscotti, mi lavai i denti e il viso con l’acqua contenuta in una ghirba e, nudo così come mi ero alzato, mi diressi verso il sentiero per raggiungere Stella alla spiaggia. Mi sembrò di così naturale plausibilità la nudità in quel contesto, da non prendere nemmeno in considerazione l’eventualità, peraltro assai remota, di un incontro con esseri umani ai quali doverne rendere conto. Mi soffermai per alcuni istanti sul traballante ponticello in legno (chissà da chi, in quale epoca e per quale scopo fu costruito, mi venne logico domandarmi) a scrutare l’acqua di un verde torbido del fosso sottostante, che si perdeva con piacevoli curve a serpentina tra il fitto della macchia cespugliosa, da una parte, e la serie grandiosa dei fusti di pino, dall’altra. Dalle sue sponde fangose, orlate da canne e giunchi, si levava l’intenso gracidare di un’innumerevole popolazione di rane. Di quell’ambiente tutto mi apparve superlativo, quasi di esagerata ridondanza. Puntai quindi deciso verso la spiaggia. Fervevo dalla voglia di rivivere, con Stella e Cucciolo, le emozioni del pomeriggio precedente. Risalii la china dell’ultima duna sabbiosa, oltre alla quale attendevo si scoprisse la visuale del mare. Così fu, ma un particolare di quello che vidi mi costrinse ad arrestare di colpo il passo e a indugiare sulla sommità della duna. Stella e Cucciolo non erano soli : accanto alle impudiche sinuosità del corpo nudo e disteso di Stella - che teneva sollevata solo la gamba destra, reclinandola all’interno, in modo che le fungesse da foglia di fico, per sopperire forse ad un residuale imbarazzo - e accanto a Cucciolo che se ne stava accovacciato da una parte in atteggiamento sospettoso e vigile, si trovava un giovane in costume inginocchiato sulla sabbia, dalla pelle scura e i capelli neri, dai tratti del volto decisamente mediterranei. Il giovane, quasi sicuramente un greco, e Stella colloquiavano con disinvoltura. Stella non è mai stata il tipo da lasciarsi intimorire, né tanto meno da trovarsi in disagio, per gli “abbordaggi” dell’altro sesso. Donna molto graziosa e di carattere espansivo, per indole 65 ben disposta all’esperienza senza remore verso il mondo esterno. Questa sua spontanea inclinazione, col tempo rinforzata e razionalizzata da una mentalità libera, maturata in un’epoca di grande affermazione dei valori del femminismo, hanno fatto di lei una donna ben dotata nel cercare, gestire, controllare, indirizzare a proprio gradimento i rapporti interpersonali. Una personalità, insomma, esattamente opposta alla mia, e forse proprio per questo, riuscimmo per lungo tempo a far convergere i nostri destini, come se, ciascuno di noi due, avesse trovato nell’altro il proprio completamento spirituale. E questa sua personalità le ha anche consentito, prima d’incontrarmi, una nutrita esperienza con l’altro sesso. In altre parole, ha saputo sempre far fronte, col proprio estro caratteriale e una spiccata padronanza emotiva, all’avance di un bel giovane. Una dote che non ho potuto fare a meno di ammirare. In un modo o nell’altro, a seconda dei desideri del momento, ha saputo sempre come uscirne a suo piacimento. Credo fosse capace anche di districarsi, col minor danno possibile, da pericolosi accostamenti di eventuali malintenzionati. In quell’occasione sulla spiaggia non ritenni, comunque, si trattasse affatto di un caso del genere. Dopo alcuni attimi di esitazione mi gettai sulla sabbia, al di sotto del limite superiore della duna, per togliermi dalla loro visuale. Sarei rimasto molto imbarazzato se mi avessero scorto in piedi fermo ad osservarli. Provai l’impulso irresistibile, fino ad allora mai provato in vita mia, di curiosare sull’evolversi della situazione. Il cuore prese a battermi violentemente. Sollevai la testa di quel tanto che mi consentii di spiare, senza essere scoperto, attraverso i cespugli di cisto. Neanche il prodigioso fiuto di Cucciolo poté smascherare la mia presenza, dato che la brezza marina soffiava sul suo naso l’odore della salsedine, non certo quello del mio corpo ben lontano alle sue spalle. Qualcosa di profondamente inconsueto ribollì dentro di me. Avvertì una graffiante gelosia, mai provata con tale veemenza prima di allora. Ma non c’era solo quella. E no che non c’era soltanto quella ! Il corpo abbronzato di Stella, formoso e splendente sotto i raggi ancora inclinati del sole, alle 10,30 circa del mattino, mi sembrò palpitante di vita, così eccitante come mi capitava di scorgerlo solo dopo prolungati periodi, peraltro infrequenti, di forzata astinenza sessuale fra noi. Quel corpo, e quello al suo così vicino del giovane, asciutto ed atletico, di ostentato vigore, accesero, infiammarono in me strane fantasie morbose che sul momento non compresi appieno. Frammista alla rabbiosa gelosia si stava impossessando di me un altrettanto furiosa eccitazione. Il membro parlava chiaro. Era divenuto così turgido che, compresso dal peso del corpo sulla sabbia, si scavò una nicchia in essa. Quel misto di 66 emozioni fece impazzire il mio cuore. Se non fosse stato sano e ben funzionante, credo sarebbe scoppiato come una bolla di sapone. Stavo perdendo anche la capacità di ragionare. Cosa fare ? Come comportarmi ? Mi sollevai in ginocchio e guardai timoroso intorno. L’imprevista presenza di quel giovane mi rese d’improvviso insicuro sull’apparente stato di selvaggio abbandono del luogo. Avrebbero potuto esserci altri individui nei paraggi. E se mi avessero visto in quelle condizioni, carponi e nudo col pene eretto, quasi volessi copulare con la sabbia, come succede in certi riti tribali ? Nonostante i più che giustificati timori, la rigidità dell’organo sessuale non venne meno. Fu la prima volta che provai quello strano, quanto travolgente “mélange” di paura ed eccitazione, ignaro che si sarebbe ripetuto, mutatis mutandis, innumerevoli volte in futuro. E la prima volta, come già detto, fui tormentato anche dalla gelosia. Quante forti emozioni tutte insieme ! Che non sapessi più cosa fare, be’, penso sia quanto meno comprensibile. Assicuratomi che non vi fosse alcun altra presenza umana, almeno alle mie spalle, tornai a voltarmi verso la spiaggia con lo sguardo protetto dalle foglioline di cisto. Il giovane si stava sedendo comodamente ancor più vicino alle delicate membra di Stella (oh, come mi apparvero delicate e belle le sue membra !), e Stella si sollevò con il busto, poggiando i gomiti e offrendo un primo piano dei suoi seni. Mi sembrò stessero entrando in maggior confidenza colloquiale. Cucciolo non gradì quell’ulteriore accostamento ed iniziò ad abbaiare. Ma le carezze di lei, quanto quelle sfacciatamente opportunistiche di lui, riuscirono a tranquillizzarlo e forse anche a rendere ad esso sopportabile la presenza estranea. Cucciolo non tollerava gli estranei dalle maniere rudi. Ma quel giovane sembrava avere maniere dolci e pacate. Dimostrò di saper trattare un cane. In quello stato di turbolenza interiore, non sapevo a quale me stesso dar retta. Scappare per la paura di essere sorpreso in tale frangente da qualcuno ? Avvicinarmi a loro indifferente per interrompere l’evolversi dell’incontro ? Come, col pene eretto, che non voleva saperne di sgonfiarsi mettendo a riposo la sua voglia irriverente ? E poi, seppure fossi riuscito a interrompere l’evoluzione dell’incontro, magari con un’entrata in scena civile e senza creare imbarazzo, come avrei mai potuto sapere con certezza quale sarebbe stato il comportamento di Stella ? Certo, lei si aspettava che sarei sceso prima o poi in spiaggia. Ma cosa le avrebbe impedito, se lo desiderava, di andarsene con il giovane in un luogo nascosto a sfogare i suoi impulsi sessuali ? E me lo avrebbe mai poi confessato ? Fino a quel momento il nostro rapporto era sempre stato molto franco e basato su presupposti di libera, reciproca fiducia. Ci eravamo detti, e continuavamo sempre a dirci, 67 tutto quello che di importante ci era capitato e ci capitava. Almeno così era da parte mia. Persino i nostri semplici desideri verso terze persone non rimanevano inconfessati fra noi. Questa mi parve l’occasione per verificare la sua fedeltà ai presupposti di sincerità sui quali si reggeva, o sembrava reggersi, il nostro rapporto. Optai così di ritornare, senza esser visto, sui miei passi, pur dopo molta ritrosia e ancora stordito dai caotici sommovimenti emotivi interiori. Non riuscivo a spegnere quell’incendio dentro di me, ma col pene duro stretto nella mano destra, quasi a farmi male, mi incamminai frettolosamente per tornare alla tenda. Vedendomi in tale circostanza, penso che qualsiasi persona non avrebbe potuto reagire che in due modi alternativi o anche complementari : scoppiare a ridere per il mio aspetto comico, o preoccuparsi seriamente per il mio aspetto di esagerata stravaganza. Fatto sta che raggiunsi la tenda in pochi minuti, senza aver scorto anima viva. Mi infilai nella cuccetta in posizione supina, sempre con il coso in mano. Incredibile a dirsi, ma per tutto il tragitto di ritorno, non aveva subìto che una leggera flessione. Nella tranquilla riservatezza della tenda la mente tornò a macinare le immagini di poc’anzi e altre ancora. Fu tutto un susseguirsi di scene erotiche, durante le quali non potei trattenere la mano destra dal rendersi utile. Vidi Stella sdraiata, a gambe divaricate e sollevate in aria, che gridava estasiata sotto i violenti e rapidi colpi di ventre del giovane, che la penetrava senza risparmiare nemmeno un centimetro del suo enorme membro. Su e giù, su e giù, su e giù. Bagnato di sudore, quasi privo d’aria per respirare, esplosi in un’eiaculazione copiosa e sprizzante, inzaccherando il sacco a pelo e il tessuto della cuccetta. Questa fu dunque la prima volta da guardone. Fu la volta che scoprì di essere posseduto da impulsi sessuali “diversi” di quelli della cosiddetta “normalità”. Da allora non sono rimasti più latenti, ma hanno avuto modo di palesarsi e trovare gratificazione in tantissime altre occasioni, anche se in situazioni non fortuite ma cercate, e con “oggetti” di osservazione non più familiari. Tutte le reiterazioni successive sono risultate cioè epurate del fattore gelosia, che pure non costituì, in quell’unica occasione in cui si manifestò, un elemento di disturbo, caso mai di complicazione ed amplificazione dei livelli eroticoemotivi. Appena conclusasi, nel senso di un soggettivo appagamento con l’atto masturbatorio, quella prima volta si trasformò in un profondo senso di svuotamento e sfinimento. Che durò, per la verità, molto poco, rimpiazzato da un’affluente rabbia frutto della gelosia. Questa non poté certo sopirsi, e si trovò anzi libera di imperversare. Fui sopraffatto da essa. Mi ritrovai in piedi a gironzolare intorno alla tenda, incazzato come 68 una iena. Nella retina dei miei occhi si era fissata l’immagine di quel giovane muscoloso e superdotato, mentre cospargeva di sperma l’addome e i seni di Stella. Non scorgevo più niente delle bellezze ambientali che mi circondavano. Fui tentato di correre all’impazzata verso la spiaggia. E se l’avessi fatto forse ero ancora in tempo ad imprimere un corso diverso al destino futuro del mio rapporto con Stella. Ma, per stupido e malimpiegato orgoglio, non volli andare ad interrompere l’incontro. Rimasi a consumarmi di ira ed ansia, girovagando, ancora tutto nudo, tra il sottobosco dei dintorni, convincendomi di stare ad esplorare le ricchezze vegetali del luogo. Passarono all’incirca altre due lunghissime ore, durante le quali, se le mie orecchie erano martellate dal frastuono sempre più incalzante prodotto dal coro di cicale, la mia mente era invasa di danze orgiastiche di mille demoni forti e nerboruti, dotati di membri spropositati che sputavano in continuazione. E Stella era nel mezzo, nuda e distesa, a far da vittima sacrificale in estatica accondiscendenza e con le mani protese per non lasciar disperdere il malefico liquido seminale. Il sole era alto e soffocante quando finalmente comparve a spazzare via i miei incubi ad occhi aperti. Era bella come non mai, così delicata e provocante, in andatura tranquilla e lievemente ondeggiante, col pelo pubico e i seni tondi e prominenti in mostra senza un minimo accenno di vergogna. Fui affascinato da quella visione. Il suo sguardo sicuro e dolce intercettò i miei occhi e si fermò su di essi. Sembrò volermi denudare anche dentro, privandomi di ogni capacità di iniziativa. “Enrico....ma tu sei rimasto qui tutta la mattina ! ?” Non seppi distinguere l’inflessione della sua voce : era interrogativa o esclamativa ? Chiedeva a me una conferma, o stava facendo una constatazione ? Esitai alcuni istanti non sapendo cosa risponderle. Non le avevo mai mentito fino ad allora, nemmeno su questioni di irrisoria importanza. Mi tolse dall’impaccio (involontariamente ?) lei stessa. “Non sei venuto a farti un bagno ! Non sai cosa ti sei perso. Cucciolo non voleva saperne di uscire dall’acqua.....era così tiepida e carezzevole ! Ma cosa hai fatto tutto questo tempo ? Non mi dire che hai dormito !” “No, affatto. Ho gironzolato nei dintorni. Sai.....questo posto è un paradiso incantato.....”, mi limitai a dire solo una piccola parte della verità. Allo stesso tempo desiderai ansiosamente che ella rivelasse ciò che avevo visto (dimmi del giovane, Stella. Ti prego !). 69 “Oh....ma avremo il tempo per perlustrare in largo e lungo questo posto, nei giorni che ci rimangono !” “Già”, risposi senza alcuna aggiunta, mentre carezzavo meccanicamente, privo d’entusiasmo, Cucciolo che mi scodinzolava intorno. Poi decisi, fingendo indifferenza, di metterla alle strette incalzandola con domande che pretendevano precise risposte. “E tu cosa hai fatto ? Sei rimasta in spiaggia tutto il tempo a prendere il sole e a fare il bagno ? Non hai fatto altro di particolare ?” - dimmelo Stella, dimmelo ! - quasi volessi incitarla per via telepatica a porre fine ai miei dubbi laceranti. Sul suo volto notai un lieve malcelato imbarazzo, che nascose voltandosi verso il fornello a gas. “Bisogna che prepari qualcosa da mettere sotto i denti. Non c’è proprio speranza che tu impari a cucinare, vero ? Si.... ho fatto anche qualcos’altro. Ad un certo punto, siccome non ti facevi vivo, ho passeggiato con Cucciolo lungo la spiaggia. Che meraviglia ! Avessi visto quante conchiglie.... andremo insieme a prenderne qualcuna delle più belle..... e quante impronte di uccelli ! Deve essere un vero paradiso anche per loro questo posto.” Dimmelo Stella, dimmelo...ti prego....dimmi piuttosto che ci hai scopato, invece di nascondermi tutto..., ormai la imploravo col cuore e con la mente. Le mie suppliche nascoste non ebbero alcuna risposta. Né allora, né mai più in altro momento. Il nostro bellissimo gioco di accordo, libertà e verità, costruito con passione ed entusiasmo da entrambi, si interruppe in quell’occasione. I nostri fulgidi ideali e propositi andarono a farsi fottere. Passai il resto di quei giorni d’agosto amareggiato, senza più voglia di tuffarmi in quel sole, in quel mare. Mi rimase persino un ricordo angosciante di quel luogo. E ancor oggi mi risulta difficile non attribuire ad esso quasi la responsabilità dell’accaduto. A quella natura così amica, così nemica, così piena di vita come di morte. Lei non poté non accorgersi del mio stato psicologico. Ed io mi accorsi che lei si era accorta. Sapevamo entrambi di aver tradito un impegno tante volte professato e dichiarato. Sapevamo che qualcosa di irreparabile si era verificato. Non abbiamo più avuto il coraggio, e forse nemmeno il desiderio, di porvi rimedio. Eravamo, e lo siamo tuttora, consapevoli di aver non soltanto tradito un impegno fra noi, ma anche un impegno più radicale con noi stessi, col nostro essere. L’impegno, al quale ci applicammo in tutta buona fede, affinché si riuscisse a guardare in faccia sempre, in ogni occasione, la realtà della vita, senza ipocrisie. Un impegno che forse sanno mantenere gli animali, ma non, evidentemente, l’animale uomo. Fu dunque anche un’amara disillusione esistenziale che 70 coinvolse tanto me quanto, ne sono sicuro, lei. Ritengo che siamo stati abbastanza intelligenti da non cercare scusanti al nostro comportamento in quel frangente. Non ci sono scusanti alla debolezza e finitezza umani. E non ne cercammo mai. Il nostro rapporto sopravvisse ancora per alcuni mesi, tra sospetti e incertezze di ogni genere. Si allentarono sempre più le nostre frequentazioni. Desiderammo sempre meno di stare insieme e sempre meno facemmo all’amore. E con quanto poco entusiasmo ! Non avemmo bisogno di confessarci quel senso di estraneità che si era intromesso fra noi. Non inventammo nemmeno scuse per non vederci. Semplicemente, alla fine, non ci cercammo più. Senza preliminari addii e lacrime. L’addio ce lo scambiammo quel giorno sotto il sole cocente della Grecia. Le lacrime le abbiamo consumate in silenzio, pian piano, dentro di noi. Sicuramente io dentro di me. Fu anche la morte improvvisa di Cucciolo, avvenuta tre mesi dopo la gita in Grecia, - a causa di un boccone avvelenato durante l’ultima escursione in ambiente selvaggio che facemmo tutti e tre insieme - ad accelerare il processo di separazione. In effetti Cucciolo costituiva l’ultimo legame fra noi, l’ultimo ingombrante motivo di congiunzione tra le nostre vite. Sia perché con esso, e addirittura mediante esso, avevamo condiviso lunghi anni di meravigliose esperienze, sia perché la sua compagnia impresse un cambiamento radicale nel nostro modo di concepire la vita, sia infine perché lo amavamo molto entrambi, proprio per tutto ciò che rappresentava per noi, e nessuno dei due avrebbe mai accettato di separarsene. Il destino ci sgombrò la strada da questo arduo scoglio da superare. Senza più Cucciolo, nulla ci costringeva a restare insieme. E nulla, di fatto, ci tenne più uniti. Sono passati molti anni da quando ci lasciammo. 12-15 anni.... non ho voluto più contarli. Ora sono qui, seduto davanti al volante della mia station wagon. Dopo l’ennesima fuga da me stesso. Gli unici testimoni, miei complici ed amici, gli alberi, le foglie, gli animali. Ingrano la marcia, ma prima di rilasciare la frizione, accendo il mangianastri e inserisco una cassetta. Partono le struggenti note di “Unchained Melody”, cantate dai Righteous Brothers, e io parto con esse, di nuovo in pace con la mia anima. 71 CAPITOLO V DELL’ANIMALE INCERTO “L’autentica dimensione della conoscenza umana, così come dell’esperire quotidiano, nonostante facciamo di tutto per non accorgercene o per far finta di non accorgercene, è la dimensione dell’incertezza. Voglio dire..... l’esperienza e la conoscenza che noi facciamo del mondo esterno, e anche del nostro mondo interiore, sono incerte, non sono supportate da punti di riferimento veritativi, da assiomi di orientamento permanente, capaci di garantirne un fondamento certo ed asaustivo. Solo un sapere tautologico, che ripeta nel predicato, nelle conclusioni, quanto contenuto nel soggetto e nelle premesse del discorso, può spudoratamente vantarsi di essere vero, certo, indiscutibile. Ma è il vanto di chi possiede la verità dell’aria fritta, non della realtà delle cose. La realtà delle cose che fanno parte del mondo esterno, e ben anche del mondo soggettivo interiore, conserva in sé , sempre e comunque, un aspetto di alterità, un “esser altro”, che per sua natura non può accontentarsi di un ambito cognitivo tautologico, di un procedimento esplicativo che si riavvolge perennemente in se stesso, che non ha la capacità né la volontà di uscire fuori di sé e di......” “Scusa....scusa, Enrico. Non ti seguo più. Sai bene che non ho molta dimestichezza con le questioni filosofiche, anzi proprio per niente. Oltretutto, ti confesso che non ho molta fiducia nella filosofia. Spesse volte mi da l’impressione di essere...., ti rubo il termine, proprio aria fritta. Mi trovo assai più in sintonia con il linguaggio tecnicoscientifico e con l’approccio conoscitivo delle scienze. Comunque....” - gli sorrido, un po’ per farmi perdonare il trasporto passionale alle care rimembranze dei miei studi filosofici, un po’ per ironizzare sulle sue affermazioni antifilosofiche (non so se ha afferrato questo doppio significato del mio sorriso) - “....se ho capito bene, al di là delle elucubrazioni da intellettuale,...” - sorride anche lui, ironicamente - “...tu sostieni che la conoscenza umana non può avere certezze di se stessa, e che quindi, esser certi di qualcosa, è una pia illusione da poveri presuntuosi. E’ così ? Ho capito bene ?” “Tutto sommato il linguaggio filosofico non sembra ti risulti poi così agnostico. Il concetto di fondo l’hai afferrato perfettamente. Proprio questo, in ultima analisi, volevo dire.” 72 “Allora ho capito bene ! Secondo te l’uomo, nell’evoluzione millenaria che lo ha portato praticamente ad elevarsi dallo stato di animale a quell’essere padrone del mondo che è ora, circondato di comfort e proiettato alla conquista degli spazi siderali, ha proceduto a tentoni, per tentativi, cieco e insicuro degli effetti del proprio agire, incerto delle proprie conoscenze sempre più complesse e sofisticate. Il suo inarrestabile progresso sarebbe il frutto di una ricerca e di una conoscenza casuali, o il regalo di chissà quale combinazione fortuita di fattori extra-umani distribuiti nel tempo e nello spazio. L’ingegno, le capacità creative e artistiche, il pensiero razionale, la scienza, la tecnologia, pure e inconcludenti divagazioni, fantasie, scherzi, passatempi senza senso né scopi di una specie zuzzurullona. E’ qualcosa del genere che sostieni ? Ho davvero capito bene ? Non credi ci sia un pizzico, solo un pizzico però, di presunzione ed esagerazione in una simile convinzione ?” “O.K.. Se vogliamo continuare a sfotterci, facciamolo pure. Potrebbe essere divertente. Però il discorso è maledettamente serio, credimi. Prova a prenderlo sul serio, d’accordo ? A ciò che ti dirò ora, ci credo davvero, perciò smettiamola di prenderci per il culo. Va bene ? Allora ascolta. Ciò che hai detto poco fa mi suggerisce subito due argomenti di discussione. Quello sul concetto di ‘animale’ e quello sul concetto di ‘progresso’. Iniziamo con il primo. Allora..... tu, forse senza rendertene conto, hai parlato dell’uomo come di una specie che, nel corso dei millenni, ha saputo ‘elevarsi’ - hai usato proprio questo termine - dalla condizione di essere animale a quella, non meglio definita, di essere padrone del mondo. Cosa significa : che la sua raggiunta capacità di padroneggiare e comunque entro certi limiti - i rapporti con le altre forme viventi, la sua capacità di affermarsi sul pianeta e di colonizzarlo - e non sta scritto da nessuna parte che sarà eterna, nulla può garantire che duri più di un battito di ciglia nell’arco dei tempi evolutivi, tutt’altro - che questo suo momentaneo, quanto fortunato, successo, ottenuto seminando dietro di se chissà quali e quante disgrazie planetarie, sono i segni espliciti di elevazione ad uno status di specie ‘denaturalizzata’, disancorata dalla propria condizione originaria di animalità ? Significa che l’uomo non è più un animale ? E cosa è se non è più un animale ? E chi sarebbe l’artefice di questo suo salto qualitativo che lo porterebbe fuori del regno animale e gli farebbe raggiungere una collocazione esistenziale, una dimensione di vita ‘sui generis’ ? Una forza divina, o cosa altro ?” “Piano..... non correre troppo. Sai bene che anch’io ho una visione materialistica della vita. Non credo che nell’evoluzione della specie umana intervengano fattori divini. E 73 comunque sono indimostrabili, perciò faccio sempre ricorso a spiegazioni naturali, da buon assertore della conoscenza scientifica, nelle mie interpretazioni. Questo poi non significa negare la possibile esistenza di entità sovrannaturali. Semplicemente non ritengo opportuno chiamarle in causa per spiegare fenomeni materiali, che nascondono in loro stessi le ragioni del proprio divenire. Si Tratta di indagarle e scoprirle, magari con molta pazienza, tutto qui. Ma accantonando questo discorso che ci porterebbe assai lontano..... come puoi non ammettere che l’uomo non è più, propriamente, un animale ? I fattori che gli hanno consentito di operare il salto qualitativo, di affermarsi come specie a se stante, superiore ad ogni altra specie animale, si trovavano embrionalmente in lui stesso, al momento della sua comparsa sulla terra. Le sue primordiali predisposizioni a far valere l’arma della razionalità e a produrre cultura, col tempo, espandendosi fino all’inverosimile, si sono rivelati i principali responsabili del suo destino, della sua fuga dall’appiattimento animalesco nel quale inizialmente era impigliato. Quale specie animale ha potuto condividere l’incredibile e affascinante ascesa evolutiva dell’uomo ? Nessuna, caro Enrico. Questa è la prova più lampante che rende inutile l’ostinazione a considerarci ancora, umilmente e ottusamente, degli animali. Noi siamo uomini, punto e basta. Tutte le altre forme viventi sono animali, vegetali, o forme intermedie tra le due.” “Questa è la prova di un bel niente, caro Teodoro. Sei un ottimo ingegnere, e sai far bene il tuo lavoro. Come tutti coloro che si prodigano con serietà nella propria professione. Ma come tutti coloro che si sottomettono in modo acritico ai dettami scientifici della propria professione, più lo fai con convinzione e coscienziosità, più ti lasci confinare in un sapere parcellizzato, che è forse il frutto più aberrante dell’iperspecializzazione scientifica. Voglio dire che, più cerchi di applicare nel tuo lavoro il rigoroso metodo di indagine che la madre scienza ti consiglia, più perdi di vista le connessioni generali del sapere, che un po’ tutti gli scienziati e i professionisti che applicano la scienza non sembrano tenere in grossa considerazione. Per connessioni generali intendo quella capacità, perché no, proprio filosofica, di riflettere sui significati, di estrapolare sintesi, di rischiare spiegazioni sovra e inter-specialistiche....” “Non capisco proprio dove vuoi arrivare”, e me lo dice di nuovo con un sorriso ironico. “E’ presto detto dove voglio arrivare. Tu sostieni che l’uomo è uomo, in quanto è uomo e non è animale. Nulla più di ciò, non so se te ne rendi conto ! Questo è proprio il tipo di verità tautologica di cui ti parlavo poco fa. E’ la verità sull’aria fritta, quella che non 74 cerchiamo né io e, almeno credo, nemmeno tu. Considerare l’uomo come un’entità che non ha apparentamenti di sorta con qualsiasi altra entità, o che non ne ha più almeno da tempo immemorabile ; considerare la civiltà, la cultura umana, come realtà avulse dal contesto naturale, come realtà non contaminate, nel bene e nel male, da elementi di naturalità, è cosa normale, direi quasi ‘naturale’, tanto tra la gente comune, quanto tra gli stessi scienziati e addirittura tra chi si fa strenuo difensore della natura. Sia che la si voglia tenere lontana dalle questioni umane perché non più pertinente al loro sofisticato livello di espressività, sia che la si voglia a tutti i costi difendere dalle scelleratezze di un progresso miope e distruttivo, sempre ad una natura ‘altra’ da noi stessi ci si riferisce. ‘La civiltà ha distrutto la natura’, ‘Le specie animali sono minacciate dall’uomo’, in espressioni come queste, che si sentono assai di frequente nei discorsi della gente, si dà per scontato che la civiltà sia altra cosa dalla natura, che le specie animali siano altra cosa dalla specie umana. A questo punto, per farla breve, ti domando : cos’è questo strano essere che chiamiamo uomo se non è un animale ? Cosa sono la civiltà, la tecnologia, la cultura, il progresso, se non hanno niente a che spartire con la natura ? Cosa sono la razionalità, l’intelligenza, la capacità ideativa e creativa dell’uomo se non sono forme espressive della natura ? O tu ammetti, e lo puoi fare solo fideisticamente, che un’entità divina ha creato il tutto e lo ha poi differenziato a suo piacimento, riservando all’uomo una condizione e un significato peculiari, diversi da ciò che lo circonda, oppure non ti preoccupi, come tu dici di fare, di ricercare spiegazioni del divenire cosmico in entità e fattori extra-materiali, e allora non troverai nient’altro che natura da indagare, studiare, comprendere. Natura nella quale vanno compresi, a pieno titolo, l’uomo, la sua civiltà, la sua cultura, il suo cosiddetto progresso. Altro non esiste, o non ci è dato di capire se esista.” “Ma .....sì.....certo, cerca di capirmi, non ho mai voluto dire che l’uomo non abbia niente a che fare con la natura. L’uomo ha la sua origine nella natura, è il prodotto dell’evoluzione delle specie animali. La teoria darwiniana ha un fondamento che ritengo sia indiscutibile. Semplicemente penso che, a un certo punto, la comparsa dell’uomo abbia stravolto i meccanismi evolutivi. Esso stesso è diventato un fattore essenziale dell’evoluzione del pianeta. E’ divenuto in certa misura padrone del proprio come dell’altrui destino. E in questo sta’ la sua unicità, che lo differenzia dalle altre forme viventi e non lo fa essere più un semplice animale. Questo intendo dire quando dico che l’uomo non è un animale, o non è più un animale.” 75 “Sì, ma la mia domanda non si esaurisce dopo queste apparenti spiegazioni. L’uomo, oggi, cos’è divenuto ? In questa sua grandiosa, come tu la valuti, capacità di padroneggiare il proprio e l’altrui destino, oggi, cos’è l’uomo ? Non è un problema di definizione, che ti pongo, ma di contenuto. Voglio sapere cos’è diventato, perdendo la sua identità naturale, animale. Fortunatamente non sono l’unico a porsi tali domande. Attualmente, non so se tu ne sia al corrente, cultori di nuove scienze sono approdati a spiegazioni assai più rispondenti e coerenti - se me lo consenti - delle tue. Mi riferisco ad etologi e sociobiologi. Molti di costoro usano, per l’uomo, l’appellativo di ‘animale culturale’. Affermano che l’uomo è un animale fra gli animali, solo con la specificità di saper produrre cultura. Quelle caratteristiche - quali l’intelligenza, le capacità raziocinanti e di trasmissione del sapere, la capacità di espandere ed approfondire le conoscenze e di trarne continui benefici concreti - vengono valutate non come segni di una rottura col passato ancestrale e naturale, ma come una peculiarità di specie animale, una specializzazione al pari di tutti gli altri tipi di specializzazioni che ogni altra specie animale può vantare. Se i pesci si sono specializzati a dominare le acque e gli uccelli a dominare il cielo, l’animale-uomo si è specializzato a non specializzarsi troppo in questa o quella funzione, ma nell’unica che può emularle tutte, e cioè nell’uso, biologicamente predeterminato, delle risorse raziocinanti. Tra l’altro - te lo riferisco a titolo di cronaca - da alcuni dei suddetti rappresentanti delle nuove scienze naturalistiche, l’attitudine alla produzione di cultura, non costituirebbe un tratto unico della specie umana, ma comune ad altre specie animali, in particolare ad alcuni primati filogeneticamente prossimi all’uomo. Pertanto essa denoterebbe, non tanto una disposizione di specie qualitativamente originale, quanto invece quantitativamente rilevante. Ossia, tra noi ed alcune altre specie animali, esisterebbe solo una differenza di grado, di quantità, più che di qualità.......mi spiego ?” “Sì....sì...., certo che ti spieghi, anche se non so cosa dicano questi scienziati che tu citi....etologi e ........sociobiologi ? Così si chiamano ?” “Esatto, sociobiologi........inutile che ti spieghi ora perché si definiscano così, con un tale innesto di significati apparentemente stridenti tra loro.....ci vorrebbe troppo tempo per spiegarlo....” “No, ti prego, già mi hai indottrinato abbastanza fino ad ora.......comunque, lasciamo perdere......usa pure il termine ‘animale culturale’, se ti aggrada, io preferisco dare all’uomo l’appellativo che ha sempre avuto, cioè ‘uomo’. Non mi sembra, tutto sommato, che ci sia una grossa differenza di contenuto tra le due definizioni.....e d’altronde.....mi sto 76 domandando cosa centri tale argomento con il problema che hai sollevato all’inizio dell’incertezza del conoscere. Non vi trovo il nesso....” “Bene. Lasciamo perdere il concetto di ‘animale’ o di ‘animale culturale’, forse ti risulterà più chiaro alla fine, dopo che avrò sviscerato il secondo argomento che mi hai suggerito, quello sul concetto di ‘progresso’. La tua faccia mostra un po’ di insofferenza......la comprendo. Ma abbi ancora pazienza per qualche minuto.....” “O.K., vai avanti.....ma cerca di stringere”, mi sollecita con aria bonaria, anche se un tantino annoiata. “Allora.....vado subito al sodo. Il termine ‘progresso’ implica in sé il significato di miglioramento, ossia ha l’immanenza di una trasformazione in positivo, di un’incontrovertibile evoluzione verso il meglio. Facciamo un esempio concreto.....ne userò uno attinente ai tuoi interessi professionali. L’uomo primitivo, in un certo periodo della sua storia, utilizzò le caverne per ripararsi dalle intemperie e da altri pericoli. Sviluppando le proprie capacità intellettive e sfruttando la potenzialità di manipolare oggetti mediante l’uso degli arti superiori, iniziò ad edificare di persona le proprie abitazioni, prima di paglia, di legno, poi di fango, di pietra, poi inventando ed utilizzando leganti artificiali, poi aggiungendo via via altri materiali più efficaci e resistenti e applicando tecniche costruttive sempre più sofisticate e complesse. Ed eccoci ai grattacieli. Facciamo ora una supposizione, di comodo, ovviamente...... solo per arrivare al punto che mi preme. Supponiamo che, tra l’epoca di frequentazione delle caverne e quella nella quale sono comparsi i grattacieli, siano intercorsi 2000 anni, e che in questo arco di tempo non si siano verificati intralci, inconvenienti di sorta capaci di arrestare o modificare il corso dell’evoluzione delle abitudini abitative. Questo processo, che ha condotto l’uomo a spostare, attraverso mille tappe intermedie, la propria dimora dalle grotte ai grattacieli, nel tuo modo di ragionare assume il significato, appunto, di progresso. Non è così ?” “E’ evidente che, per quanto grossolanamente descritto, questo processo rappresenta il progresso. Come credo risulti evidente a qualsiasi persona ragionevole. O forse tu vuoi mettere in discussione che questo sia il progresso ?” Teo accenna con le labbra ad un sorriso nel bel mezzo di un’espressione incredula che disegna tutto il suo volto. “Non ti allarmare.... non dirò niente di sconvolgente. Ecco ..... ora immagina che, passati questi 2000 anni, intervenga un episodio catastrofico, che durante quell’evoluzione bimillenaria non era mai capitato.....che ne so.....un uragano......meglio ancora, un 77 terremoto. Una scossa sismica di una certa potenza, quasi sicuramente farebbe crollare case, palazzi e grattacieli costruiti senza accurati criteri antisismici, provocando un’ecatombe, una strage tra i suoi abitatori. Le grotte e le cavità non artificiali, formatesi in conseguenza di particolari fenomeni in migliaia o milioni di anni, probabilmente non subirebbero danni, e in ogni caso, quantunque ne subissero, risulterebbero di gran lunga meno rilevanti e di scarse o nulle conseguenze per i suoi eventuali abitatori. Il sisma distruggerebbe pure case di paglia, fango e legno, ma risparmierebbe la gran parte dei suoi abitatori. Insomma, voglio dire, il frutto di ciò che tu chiami progresso si rivelerebbe estremamente fragile di fronte ad una imprevista calamità naturale, non altrettanto fragili dimostrerebbero di essere i rimedi abitativi poco progrediti, rimasti vincolati ed adattati alle risorse ambientali di un determinato ecosistema. In definitiva.....” “Ora capisco dove vuoi arrivare....” - i suoi occhi brillano di vittoria - “.... ma ci vuoi arrivare bluffando ! Ora ascolta me. Il tuo esempio è veramente di comodo, come tu stesso ammetti. Ma lo è a tal punto da risultare un imbroglio, che ha per obiettivo quello di far quadrare comunque i conti. Vuoi farmi credere che il progresso non porta con sé sempre un miglioramento, ma alle volte (e spero tu non creda che sia invece una sua costante) fallisce, produce disastrose sconfitte, è fonte di guai inimmaginabili. Insomma, può essere brutto e cattivo. E in ciò le tue idee somigliano molto a quelle professate da tanti movimenti utopistici, ancorate a ingenue, infantili aspirazioni di purezza naturistica ed ecologista.” - Teo di nuovo sorride, anzi quasi ride beffardamente - “A parte il fatto che.....” “No, aspetta Teo, non è come pensi....” “Sì, sì.....è proprio come penso.....ora fai finire me, per favore. Stavo dicendo...... a parte il fatto che il tuo esempio è così grossolano, così irreale, così....., permettimi di dirlo, puerile. Il progresso non si verifica mai in una forma così lineare, così ingenuamente cieca come vorresti far credere....” “Ti avevo avvertito che era di puro comodo per.....” “...Ma a parte ciò, a parte ciò...” - continua imperiosamente a parlare - “....il progresso reale, caro Enrico, si alimenta e si rafforza proprio dai continui, inevitabili errori e parziali fallimenti che incontra nel suo cammino. Ripeto....il progresso non è un processo lineare. Aggiusta il tiro, corregge la propria direzione strada facendo, intoppando di tanto in tanto in esperienze negative. Ma da queste ne esce rafforzato e prosegue sempre più stabilmente verso il futuro. E pure restando al tuo banale esempio, ti guardi bene dal 78 domandare che fine potrebbero aver fatto, nei 2000 anni trascorsi, tutti i fedeli abitatori di caverne e case di paglia. Probabilmente - ammesso e non concesso che sarebbero scampati a certi cataclismi naturali - sai abbastanza bene che non avrebbero potuto scampare a pericoli assai più irrilevanti, per chi abita in confortevoli e moderni aggregati urbani. Una semplice polmonite, una ridicola infezione e tutte le patologie che possono svilupparsi in condizioni di indigenza...... patologie che certamente non preoccupano più coloro che usufruiscono dei vantaggi del progresso. Prova a fare i conti, Enrico, di quanti morti ci sarebbero stati, in 2000 anni, tra i tuoi abitatori di caverne e quanti invece ci sarebbero stati tra le popolazioni che avessero scelto di affidarsi al progresso, e che avessero subìto, dopo 2000 anni, un terremoto, catastrofico quanto vuoi. Se provassi a fare queste, ben più realistiche, considerazioni, i tuoi conti non tornerebbero più, puoi starne certo.” “Sei partito in quarta. Come immaginavo, non ti sei soffermato a riflettere sull’esempio, per quanto banale, che avevo improvvisato per farti piacere, tenuto conto che costruire case è al centro dei tuoi interessi professionali. Con quell’esempio non intendevo portarti a stilare preventivi sulle probabilità di morte insite in certe modalità abitative o in altre. Il mio scopo era tutt’altro. Ma vedo che non l’hai capito.....sicuramente per colpa mia. Cercherò di spiegarmi meglio. Le considerazioni che hai fatto sono, in gran parte, valide. Quello che si chiama ‘progresso’ è servito, senza ombra di dubbio, ad allungare la vita media delle popolazioni e ad elevarne notevolmente l’agiatezza. Anch’io, è evidente, ho scelto di giovarmi del cosiddetto ‘progresso’, almeno in una certa misura e per certi aspetti. E non nutro ideali di francescanesimo, hippismo, o altri ideali similari che la storia ci ha fatto conoscere. Con l’esempio mi ero solo proposto di evidenziare i limiti di esperibilità umani. Ciò che può sembrare e anche risultare vantaggioso in un determinato contesto temporale ed esperenziale, in un contesto più dilatato potrebbe rivelarsi non più così vantaggioso, o addirittura dannoso. L’evoluzione della vita sulla terra ci fornisce un’infinità di esempi che convalidano questa affermazione. Tantissime specie viventi che si erano evolute traendo vantaggio da peculiari adattamenti al proprio ambiente di vita, si sono poi improvvisamente estinte al mutare di certi fattori dello stesso ambiente. E ti parlo di specie che erano sopravvissute per milioni di anni prima di estinguersi. Le centinaia di specie viventi, animali e vegetali, che in questi ultimi decenni, come ben saprai, si vanno estinguendo sulla terra, non avevano mai fatto esperienza, in milioni di anni di evoluzione, della comparsa di un essere così.....come dire ....condizionante come l’essere umano. E questa nuova esperienza l’hanno pagata, e la stanno pagando, con la propria vita. Tutto ciò 79 che, nella loro esperienza, pur millenaria, si era rivelato vantaggioso alla sopravvivenza, in brevissimo tempo, con una dilatazione del contesto esperenziale, si è poi rivelato fatale. Per l’uomo le cose non stanno diversamente. Per quanto dotato di capacità conoscitive e predittive di molto superiori a quelle di tutte le altre specie viventi, le sue possibilità esperenziali restano comunque limitate nel e dal tempo, nel e dallo spazio. Per questo ho tanto insistito sulla sua insuperabile identità animale, sulla sua sostanziale uguaglianza alle altre specie animali. Ciò che noi possiamo conoscere, prevedere, immaginare, ha una valenza limitata, è una piccolissima finestra sulla catena evolutiva della vita dell’universo. Quello che attraverso una prospettiva finita può apparirci come un progresso, cioè un’evoluzione verso il meglio, in una prospettiva più dilatata nel tempo e nello spazio - e non voglio parlare di una prospettiva infinita - può acquisire tutt’altro significato, addirittura l’opposto. Man mano che la nostra stessa esperienza si spinge in avanti, certe cose, certe conoscenze certi significati che ritenevamo assodati, si possono d’improvviso rivelare delle illusioni, peggio ancora, delle vere e proprie minacce alla sopravvivenza. E’ ciò che sta accadendo anche oggi, sotto i nostri occhi. Pensa al buco nell’ozono, alle piogge acide, all’effetto serra, agli armamenti nucleari, all’insicurezza delle centrali atomiche, all’inquinamento dell’aria, dell’acqua, degli alimenti, alla povertà nel mondo, alla sovrappopolazione, ai mille focolai di guerra sparsi in ogni parte del globo, alle sconosciute malattie virali ed epidemiche che di continuo fanno la loro comparsa, ecc.. Solo per parlare di ciò che ci è noto, senza considerare quello che non ci è ancora dato di capire o prevedere. Ebbene, tutto questo fa parte, o ne è in qualche misura la conseguenza, di ciò che comunemente si definisce ‘progresso’. Il progresso che, per ammissione unanime, ci ha portato alle stelle, potrebbe, di colpo, farci ritrovare, come si suole dire, nelle stalle, per non dire di peggio. E’ vero che l’uomo possiede delle qualità che gli consentirebbero forse di apportare le dovute correzioni alle proprie aberrazioni, prima che diventino esiziali. Diciamo che non ho ancora perso la fiducia nelle sue capacità di riformulare e reindirizzare il progresso, magari per freddo calcolo e cinico opportunismo. Dalla conversione ecologica della tecnologia industriale possono ricavarsi lauti profitti, così come si possono ricavare dalla limitazione geografica e dal controllo della conflittualità bellica, più che da una guerra nucleare totale. E si possono ricavare dalla diffusione planetaria di medicinali per le vecchie, quanto per le nuove, malattie. Non so se mi spiego. Questo cinismo, comunque, non mi tranquillizza più di tanto, ed è anzi proprio una delle fonti principali di inquietudine per il futuro dell’umanità, getta lugubri ombre sulla longevità della specie umana. Ecco .... 80 a questo punto.... non so se ti è chiaro il senso dell’esempio banale di cui abbiamo discusso. Non credi sia il caso di riflettere sul significato di ‘progresso’, non credi sia il caso di sottolinearne, quanto meno, la sua valenza contraddittoria invece che starne beatamente a rimirare i suoi presunti splendori ?” “Devo ammettere che la tua è una logica, seppure un poco contorta e pesante, alquanto penetrante. Ora mi è chiara la sua coerenza dall’inizio fino a questo punto del discorso. Finalmente credo di poter ricomporre il mosaico di argomenti che mi hai sottoposto, e di comprenderne appieno il nesso che lo sostiene. In parole povere, tu ritieni che questo essere chiamato uomo, in quanto animale tra le altre specie animali, e perciò stesso in quanto essere limitato nelle proprie capacità conoscitive e veritative, non può, in nessun caso, garantire certezze al proprio esperire. Così se crede di indirizzare i suoi sforzi a fin di bene, potrebbe poi accorgersi, successivamente, di aver fatto solo del male, per se e per gli altri. E magari, perché no, viceversa. In linea di massima è questo che volevi dirmi anche se avresti potuto dirlo assai più sinteticamente - o no ? “ “In linea di massima è proprio questo, e una maggiore sinteticità di esposizione avrebbe probabilmente pregiudicato la cogenza del discorso, l’efficacia dimostrativa dei suoi vari passaggi e collegamenti.” “Che il tuo discorso abbia una certa consequenzialità e linearità, posso ammetterlo senza problemi, ma in quanto ad efficacia dimostrativa penso ci troviamo ancora al punto di partenza, mi dispiace dirtelo. Tutto il tuo discorso, per quanto logico e coerente, non è affatto sufficiente a dimostrare che ogni forma di esperienza conoscitiva umana debba per forza essere incerta. Insomma ...., se pure posso convenire con te che la scienza, nei risultati, possa talvolta aver fallito, possa aver provocato guai, anche grossi, imprevisti e non voluti ....ma la scienza.... il metodo scientifico d’indagine, che in pochi secoli ha trasformato radicalmente il mondo, come può essere messo in discussione ? Come si può dubitare della conoscenza scientifica, delle sue ferree regole dell’induzione, della deduzione, della sperimentazione ? Sembra quasi tu voglia contrapporti, da solitario eroe, da patetico Don Chisciotte, contro la storia degli ultimi 4 - 5 secoli.” “Ancora una volta, Teo, vai troppo per le spicce con i tuoi giudizi. Non ho mai sostenuto un rifiuto in assoluto del metodo scientifico, non ho mai voluto invalidare toutcourt il pensiero scientifico. Critico, più semplicemente, il loro arenamento mitologico, il loro arroccarsi nell’olimpo degli dei, in sostituzione o in compagnia degli antichi oggetti di culto. Il vero pericolo della scienza è di aver sostituito i vecchi miti con il proprio, e di 81 ritenersi a sua volta insostituibile. E in questa critica, permettimi di non sentirmi solo. Credo di essere in compagnia di valenti pensatori. En passant te ne cito due, solo perché mi è caro ogni volta ricordare il debito spirituale che nutro nei loro confronti : Adorno e Horkheimer, due dei maggiori rappresentanti della Scuola di Francoforte. Ma credo tu non li conosca questi, che definiresti, patetici eroi donchisciotteschi, e non è il momento opportuno per esporti il loro pensiero, troppo complesso e ....” “Ti ringrazio vivamente della cortesia.” “Non c’è di che.....ecco......ciò che contesto alla scienza è la sua incapacità di problematizzarsi, di mettersi in discussione, di recepire un autentico momento di incertezza nell’ambito del proprio assetto teorico. Non basta la raccomandazione cartesiana di adottare un procedimento sempre dubitativo per arrivare alla comprensione della verità ; non bastano certi sviluppi della scienza, quali il relativismo storicistico, o il probabilismo, che smussano soltanto il dogmatismo ingenuo di certi assunti originari del pensiero scientifico. Occorre molto più coraggio alla scienza, quello di sapersi radicalmente mettere in discussione come modello conoscitivo, come apparato esperenziale veritativo nella sua interezza. A questo proposito, credo di essere confortato, ancora per mia fortuna, da certi altri recenti sviluppi della scienza stessa. Mi riferisco, ad esempio, a Thomas Kuhn, che ha saputo mettere in luce come la scienza, in realtà, non si sviluppi seguendo un tracciato lineare di progressiva cumulazione e di graduale perfezionamento dei propri metodi e delle proprie conoscenze, ma proceda per improvvisi mutamenti di paradigmi, per successive rivoluzioni che schiudono strade inesplorate, conoscenze e metodi innovativi, capaci di obliterare precedenti indiscussi capisaldi teorici. E questa concezione, secondo me, rende più giustizia tanto della complessità della vita quanto della difficoltà umana ad esplorarne con certezza i fondamenti. E mi viene da pensare ai duri colpi inferti, da eminenti scienziati, ai canoni e ai principi lungamente e unanimemente condivisi da tutta la comunità scientifica internazionale. Così la visione deterministica ed esaustiva della scienza classica - di stampo newtoniano, per intenderci - con i suoi sacri concetti di causalità e reversibilità, ha subìto una seria incrinatura da parte dei contributi di Prigogine e Stengers alla termodinamica evolutiva, quali l’enunciazione dell’esistenza di strutture dissipative dell’energia e di processi autoorganizzativi in condizioni di lontananza dall’equilibrio. E mi vengono in mente i molteplici e multidisciplinari contributi alla teoria della complessità, come quello di Atlan, con il concetto di informazione mancante, di ignoranza dell’informazione. E gli attacchi, via via crescenti, alla scienza riduzionistica, 82 meccanicistica e neo-darwinista da parte dei sostenitori di modelli interpretativi che pongono l’accento sulla capacità autoorganizzativa, autopoietica ed autoreferenziale del vivente. E mi vengono ancora in mente tanti altri autori, come Morin, Bateson, Margulis, Eigen, Gallino, Varela, e poi.....” “Basta......basta ! Ti scongiuro......basta ! Mi hai davvero frastornato con le tue citazioni. Se il tuo obiettivo è farmi sentire un ignorante in materia di idee, concetti, autori, teorie della scienza, be’....ci sei riuscito. Confesso di non saperne un gran che sulla teoria della conoscenza, o sulla storia del pensiero scientifico, o su che altro diavolo può essere tutto ciò di cui hai parlato fino ad ora. D’altronde non mi è stato mai richiesto di saperlo durante il mio corso di laurea in ingegneria, né è necessario che io lo sappia quando progetto strade o palazzi. E poi lascia che te lo dica : il tuo fumoso sfoggio di parole, il tuo armamentario filosofico di nozioni, con i quali ti stai impegnando per impressionarmi, non sono sufficienti a convincermi che io debba essere per forza incerto delle mie esperienze quotidiane. Che cazzo ! Come posso essere incerto del fatto che al giorno segue la notte, che domani sorgerà di nuovo il sole, che le rondini sanno volare e io no, che ho bisogno di nutrirmi per sopravvivere e di andare ogni tanto al cesso per non scoppiare ? E......e un’altra cosa ti volevo domandare....” - con la testa inclinata mi lancia uno sguardo astuto, ed esita così per alcuni istanti - “...mi era balenata in mente pochi minuti fa, poi le tue chiacchiere quasi riuscivano a farmela dimenticare. Tu.....e tutti i tuoi bei discorsi sull’incertezza della conoscenza......tu non sei incerto dei tuoi discorsi, delle tue affermazioni, dei concetti che hai cercato con tanta perspicacia di propinarmi come la verità del secolo ? Non mi sei sembrato affatto titubante nell’esporli. Al contrario, ai mostrato un’eloquenza spedita, imperturbabile, formidabile nel perseguire un tracciato logico e coerente dall’inizio alla fine. Proprio un bel modo di convincermi dell’incertezza del conoscere umano, che è già una contraddizione in sé ! Cosa mi dici, Enrico ?” E ancora una volta sogghigna, ha un’espressione sardonica. Ora appare anche agitato, come se non riuscisse a stare nella pelle. “Tranquillo, Teo. Dico che la tua è un’acuta osservazione, che consente di imprimere una svolta decisiva alla nostra discussione....non sto scherzando. Abbiamo fatto un importante passo avanti. Grazie a te siamo giunti al punto cruciale verso il quale, te lo confesso, avrei voluto giungere fin dall’inizio, ma senza forzare lo spontaneo svolgimento argomentativo, evitando di inserire degli astuti, quanto poco produttivi, by-passes discorsivi. E ci siamo giunti prima di quanto mi aspettassi. Bene ! Il punto è questo.....” - 83 ora invece mi guarda come qualcuno che ha appena fiutato puzza di bruciato - “.....bisogna distinguere l’incertezza come principio teoretico, quale momento aprioristico sussunto nell’atto conoscitivo in generale, dall’incertezza quale concreta esperienza del nostro vivere quotidiano. Quest’ultima, fortunatamente - ma anche sventuratamente, come vedremo - è una situazione marginale, sporadica, in definitiva assai poco frequente, tanto nell’arco di una nostra qualsiasi giornata quanto nell’arco della nostra intera vita. Fortunatamente perché, essendo quella dell’incertezza un’esperienza che può produrre solo un ventaglio di reazioni emotive stressanti e dolorose, quindi pericolose per la fragilità della struttura psichica umana - tipo ansia, angoscia, malumore, abbattimento, sfiducia, amarezza, disperazione ecc. - ci preserviamo dalle inevitabili conseguenze negative per l’integrità della nostra salute, che ne deriverebbero, ove tale esperienza fosse reiterata con assiduità. E sappiamo bene quali sono queste conseguenze : dalle più banali forme di nevrosi, astenia, apatia, depressione, fino a giungere, attraverso una scala di livelli intensivi crescente, alla vera e propria crisi esistenziale, a varie patologie psicosomatiche autolesioniste, alla follia e, come livello estremo, al suicidio. Quando ci imbattiamo nelle situazioni che producono incertezza, invariabilmente reagiamo nel tentativo cosciente e/o incosciente di ripristinare il normale equilibrio psico-emotivo che è stato interrotto e messo alla prova (talvolta assai duramente). I mezzi che in tal senso adottiamo sono, forse in gran maggioranza, mezzi inconsci, irrazionali, sono meccanismi difensivi, nel senso freudiano del termine. Meno frequentemente adottati sono quelli che si avvalgono di uno sforzo raziocinante, che si fondano su una comprensione razionale della situazione, vuoi perché più faticosi e impegnativi, vuoi perché, comunque, non sempre questi riescono a sbrogliare l’impasse e quindi a restituire l’equilibrio interiore momentaneamente perso. Ove i mezzi adottati, sia del primo che del secondo tipo, fallissero nel loro scopo, ecco che si va incontro a quelle conseguenze cui ho appena accennato....” “Allora me ne dai atto che è impossibile rinunciare alla certezza del nostro esperire e conoscere quotidiano ! Allora è normale essere certi di ciò che facciamo, vediamo, comprendiamo durante il giorno !” “Esattamente......è ‘normale’, come tu dici. E aggiungo....è indispensabile alla sopravvivenza, almeno in termini mentali, per non uscire di senno.” “E allora ? Di cosa hai parlato fino ad ora ?” “Se mi lasci continuare a parlare lo capirai. In questo momento, probabilmente, stai opponendo qualche forma di resistenza alla comprensione di quanto cerco di comunicarti. I 84 tuoi meccanismi difensivi cercano di salvarti da una sgradita rivelazione, il tuo inconscio tenta di ostacolare un’inquietante presa di coscienza. E’ questo il punto. Ho detto poc’anzi, non so se l’hai notato, che, da un certo altro punto di vista, è una sventura questa nostra predisposizione ad esperire con certezza durante quasi tutto l’arco della nostra vita. E’ una disgrazia, per quanto inevitabile. E’ un limite.....un limite invalicabile, che ci salva dal decadimento psicofisico, che ci rende più bella e agevole la vita e più gioioso viverla.......ma è pur sempre un limite, un grosso limite che si contrappone alle nostre possibilità conoscitive. Frena la nostra volontà indagativa, distorce la comprensione dei fenomeni, imbriglia la fantasia creativa e lo sforzo veritativo, scoraggia le aspirazioni innovative e lo slancio propositivo, ci costringe al riposo accomodante, ci sottrae al flusso perpetuo e reale della vita e.....e potrei continuare a lungo. Dunque, per rispondere alla tua domanda, è vero che, come tutti i mortali, non posso sottrarmi alla ‘normalità’ del bisogno di certezza esperenziale ; è vero che sono certo - o meglio, ‘mi sento’ certo - delle tesi che ho finora sostenuto in questa discussione. Ma riconoscendo tale certezza come un limite, un limite naturale dell’animale-uomo, mi ritengo in obbligo di denunciare l’immanenza di un’alterità nel conoscere umano, di quell’alterità incolmabile che ci condanna alla ricerca perpetua della verità. Solo tale denuncia lascia aperta una via di fuga verso il possibile, una porta verso l’ignoto. Ci rende disponibili a tentare, osare nuove strade, a superare le apparenze, oltrepassare pregiudizi e barriere mentali, a percorrere con spregiudicatezza la strada impossibile verso l’infinito. Dalla dialettica certezza-incertezza si sprigiona la forza inesauribile della conoscenza, l’irrefrenabile propensione ad andare avanti che, ovviamente, ha il potere di esprimersi quando, di tanto in tanto, riesce a liberarsi dalle secche delle certezze quotidiane, e quando ciò non compromette definitivamente la nostra salute psicofisica. In definitiva, l’incertezza alla quale ho fatto costante riferimento è un assunto teoretico, non è il riconoscimento di un concreto status esperenziale, al quale è impossibile, come ho già detto, potersi adattare impunemente. L’incertezza come momento teoretico intrinseco ed aprioristico del conoscere si rende necessario con la constatazione dell’impossibilità, per la vita, di potersi esplicare in altro modo che come certezza del conoscere e dell’esperire.” “Ho la netta sensazione che tu stia continuando a bluffare. Pur ammettendo che tu possa accettare così a cuor leggero questa sorta di sdoppiamento schizofrenico tra l’essere una mortale creatura certa e il voler essere un’immortale creatura incerta - perché di questo mi pare di aver capito si tratti - voglio farti ancora una domanda, e sono proprio curioso di 85 sapere come te la caverai. Tra le tue possibili, per quanto rare, esperienze concrete di incertezza, prova ad aggiungerne una : se ti imbattessi in qualche sapientone del tuo livello, che riuscisse a dimostrarti l’infondatezza del tuo impianto teorico, o comunque a farti dubitare che sia poi così necessario essere certi dell’incertezza per il progresso della conoscenza, che sia l’incertezza il vero motore della conoscenza......ovvero, in altri termini,....se la tua incertezza astratta facesse concreta esperienza di incertezza di se stessa, cosa succederebbe ? Che fine farebbe la tua filosofia dell’incertezza ?” “Altra acutissima domanda. Sei entrato in perfetta sintonia con i miei ragionamenti. Ebbene.....farebbe la fine che fanno tutte le certezze in simili circostanze : crollerebbe, si annienterebbe. L’assunto teoretico dell’incertezza della conoscenza, che si alimenta dalla consapevolezza della limitante certezza dell’esperire quotidiano, farebbe esperienza concreta del proprio limite, trasformandosi in incertezza dell’incertezza. Ora ti faccio io una domanda : questa concreta esperienza della negazione di sé, non offre una chance, all’incertezza teoretica, di ricandidarsi, ovvero, di riformularsi, ad un superiore livello di radicalizzazione teoretica, appunto come incertezza dell’incertezza ? Quell’incertezza originaria che muore, non ha forse il diritto di tornare in vita come incertezza dell’incertezza ?” Teo mi guarda sbigottito. Poi si riprende. “Ma questo è un circolo vizioso che non finisce mai ! Mi ricorda il cane che tenta di mordersi la coda e gira su se stesso senza riuscirci mai.” “E chi ti dice, Teo, che il nostro appetito di conoscenza non sia poi un tentativo di mordere qualcosa che continuamente ci sfugge ? Qualcuno, di cui non cito il nome - stai pure tranquillo - ha parlato di qualcosa del genere, in altri termini e in modo negativo, coniandolo con la definizione di ‘cattiva infinità’. Sarebbe un cattivo infinito questo nel quale ci troviamo condannati a rincorrere una verità che scappa sempre in avanti, o indietro, che dir si voglia. Ma chi ti dice che la vita non ci riserbi una tale condanna ? Così l’incertezza, mutatasi in incertezza dell’incertezza, alla successiva esperienza negativa di se stessa muterebbe in incertezza dell’.......” “Ma tu mi stai prendendo per il culo.....” - serio e allibito in volto - “....è un’ora e mezza, forse due, che mi stai prendendo per il culo, Enrico !” Non riesco a trattenere una risata forsennata, mentre mi contorco sulla poltroncina di vil pelle. 86 “Ascolta........basta.......facciamola finita. Parliamo del Milan e del gioco a zona. Su questo per il culo non mi ci prendi.” E scoppia a ridere anche lui, mentre questa giornata di fine Settembre fluisce nella morsa di un caldo afoso, di un’estate che ancora persiste, senza tregua. E continuiamo a ridere nel piccolo ufficio in cui lavoro. I rondoni - mi giungono i loro versi striduli dalla finestra aperta - non ne vogliono sapere di tornarsene a casa. 87 CAPITOLO VI INCONTRO COL PASSATO 1 DLIN - DLON.........DLIN -DLON Apro gli occhi. La luce del giorno è diffusa nella camera da letto, ma non invadente o fastidiosa. Il campanello. Hanno suonato alla porta. Che ore sono ? La sveglia segna le 10,15. Nemmeno nei giorni di ferie si può dormire ! Controvoglia, anzi proprio scocciato, esco fuori dalle coperte. “Ma chi diavolo viene a rompere.....” Non ricordo più neanche quando è suonato il campanello di casa l’ultima volta. Ma poi il giorno dei morti....il 2 Novembre.....chi mi può cercare ? Ho parcheggiato male l’auto in strada, stanotte.... ? Non mi pare ! DLIN - DLON........DLIN - DLON Insistono pure ! Vado alla finestra, la spalanco, mi affaccio. Non oso pensare all’aspetto che devo avere in volto. “Forza zio, siamo noi !”, sento gridare da basso una voce di bambino. “Evelina..... !”, mia sorella e i suoi due marmocchi. Imbarazzato passo una mano tra i capelli. “Ciao Enrico......stavi ancora dormendo ? Pensavo ti saresti ricordato.....” “Ciao.....scusa, ora ti apro.” I bambini scoppiano a ridere, credo di avere un aspetto proprio buffo. Una spazzolata rapida ai capelli, una stropicciata agli occhi, indosso la vestaglia e mi affretto verso l’ingresso. Quando schiaccio il pulsante che comanda l’apertura del portoncino d’entrata al piano terra, i bambini si precipitano dentro arrampicandosi di corsa sulla scalinata in peperino. Me li vedo di fronte sorridenti. “Ciao, zio dormiglione !” “Ciao Paolo.......cavolo come sei cresciuto !.....e anche tu Erica !”. Mi chino e li abbraccio tutti e due insieme, li bacio. Che sensazione strana quei due corpicini teneri, freschi e profumati tra le braccia. Ho paura a stringerli, lo faccio con delicatezza e accarezzo la loro nuca. “Hai comprato il computer zio ? Ci avevi detto che lo avresti comprato.....” “Oh....certo Paolo, appena un mese fa.....” 88 “WOWWWW...”, “EVVIVA .....”, gridano insieme. “Un modello nuovo, molto potente, con tanto di CD-ROM, casse stereo e ....” “WOWWWW...”, di nuovo all’unisono. “Però....” - provo una sincera mortificazione nel doverli deludere - “...non ho fatto in tempo a rifornirmi di giochi. Ho appena un dischetto !” “Va benissimo zio....ci abbiamo pensato noi.” Paolo tira fuori dalla tasca del piumone un intero contenitore di floppy-disk, rigirandolo sotto i miei occhi. “Perfetto !”, mi sento rincuorato. “Dov’è zio, nello studio ?”, si affretta a domandarmi Erica. “Piantatela voi due....non fate altro che pensare ai videogiochi !”, li rimprovera alle loro spalle Evelina, che si avvicina sorridente, con addosso un elegante soprabito in pelle di renna. “Enrico.....come stai ?”, i suoi occhi tradiscono una leggera commozione. “Devi perdonarmi, avrei dovuto telefonarti prima .” Ci scambiamo baci sulle guance. “Ma....sai, è ormai da anni che vengo a trovarti il 2 Novembre. E’ diventato per me così irrinunciabile venire a far visita alle tombe di mamma e papà, almeno in questo giorno, che ho dato per scontato che te ne saresti ricordato. D’altronde anche noi non ci vediamo che in questa unica occasione....” “No....scusami tu, Evelina. Mi era passato proprio dalla testa....fortuna che ho preso alcuni giorni di ferie !” Con gesto repentino e furtivo, i piccoli approfittano del nostro scambio di saluti per sgattaiolare in cucina. “Dai Enrico, vai a vestirti. Nel frattempo ti preparo una bella colazione.....latte e caffè, se non sbaglio, vero ?” “Sì, sorellina....ti ringrazio, ma non c’è bisogno che ti disturbi....” “Figurati....ne approfitto per prendermi un caffè anch’io.” “Ma ......a proposito, dov’è Giovanni ? Non è venuto tuo marito ?” “Purtroppo no. Ti manda le sue scuse. Ha dovuto presenziare ad una commemorazione, organizzata dalla società sportiva della quale è socio dirigente. Ma....i bambini ? Dove si sono ficcati ?” Si guarda intorno vagamente allarmata. Già, i bambini.....quelli mi sfasciano tutto ! “Non ti preoccupare, saranno nello studio. Ora vado ad accendere il computer per farli giocare”, prima che mi combinino qualche casino da soli.... 89 La mattinata, o meglio, quello che resta della mattina, si esaurisce tra non poche apprensioni che sono costretto a subire, per lo scompiglio apportato dalle due piccole pesti alla monotona regolarità delle mie giornate e tra gli elementi giustapposti e maniacalmente ordinati del mio guscio casalingo. Passi, quando si intrattengono al computer, sul quale peraltro si sanno districare con disinvoltura (si sa, i bambini oggi sono allevati dalla nascita tra i computers) ; passino pure gli schiamazzi e i loro mille giochi rumorosi che sconvolgono l’ammuffito silenzio delle mie stanze ; ma quando la loro infinita curiosità allunga i tentacoli sull’impianto stereo e poi, soprattutto, tra i sacri testi della ridondante biblioteca (cosa avranno mai da cercare tra i libri alla loro età ?), controllo a stento l’irritazione e la voglia di lasciarmi sfuggire qualche rimprovero, di dimostrare magari un tangibile disappunto. Però quando ci troviamo tutti e quattro insieme intorno al tavolo, a consumare il gustoso pasto preparato per pranzo da Evelina, il bilancio che faccio tra me e me di questa insolita mattinata, non è affatto negativo. Per il momento non nutro alcun desiderio di ritornare alla mia cupa solitudine di tutti i giorni. Lo stridente apporto di queste presenze quasi estranee al contesto abitudinario del mio tempo giornaliero, mi frastorna, è vero, e fa anche di peggio. Ma non posso non rendermi conto che ha aperto di prepotenza un varco luminoso nel grigiore delle mie giornate. Sono contento, in fin dei conti, sono pervaso da un’ebbrezza che mi distoglie dal languore quotidiano cui sono assuefatto. Sembra come se il sangue nelle vene abbia ripreso a circolare dopo una perpetua stagnazione. “Vieni con me al cimitero, dopo pranzo ?”, mi chiede risoluta Evelina mentre appoggia sul tavolo, sotto il mio sguardo concupiscente, un vaporoso e stuzzicante risotto alla pescatora, quasi volesse comprare il mio consenso. “Se vuoi vi accompagno, Evelina. Non ho alcun problema. Però...”- le rivolgo un risolino - “.....sai come la penso. Non è che senta un gran trasporto a far visita ai cimiteri !” “Già ! Sei il solito ateo materialista. Inguaribile miscredente....non cambi mai !” “Che significa ateo materialista, mamma ?”, domanda, con tutta la curiosità tipica di una bambina di nove anni, Erica. “Lo imparerai quando sarai più grande. Te lo insegnerà tuo zio.....puoi contarci !” Divoro già con gli occhi la pietanza, ma sento, con un briciolo di imbarazzo, lo sguardo indagatore dei nipotini addosso. “Buon appetito!”, cerco così di sminuire l’attenzione su di me. Dopo essermi assicurato che i bambini abbiano iniziato a ingurgitare il loro pasto, assaporo anch’io il primo magnifico boccone. 90 “Ma...vedi Evelina, non è soltanto per questo. E’ che per ricordare la mamma e il babbo, non credo sia affatto necessario andare a far visita alla loro tomba. E poi, anche intendessi eventualmente farlo, potrei andare al cimitero in qualsiasi giorno. E’ a 15 minuti di macchina da casa. Non capisco perché dovrei farlo in questa ricorrenza preordinata.....troppa formalità, non ti pare ?” “Anche per forza anticonformista vuoi essere.....è vero, me ne ero dimenticata. Io che invece sono una borghese conformista.....” Il suo sarcasmo mi appare giustificato. Con la mia ingenuità credo di averla un po’ offesa, anche se mi conosce abbastanza bene da non sospettare affatto che possa nutrire intenzioni polemiche nei suoi confronti, in questo frangente. “Scusa.... forse hai frainteso, non mi riferivo al tuo comportamento. Tu abiti in un’altra città e, giustamente, non ti puoi permettere di far visita alle tombe dei nostri genitori ogni volta che ne senti il desiderio. So bene che, venire il 2 Novembre, per te non è una formalità, ne sono sicuro.” “Lascia perdere ! So bene anch’io che non ti riferisci a me....e anche se fosse....” - le sue labbra si aprono in un sorriso canzonatorio - “...sai che dispiacere mi fa, ricevere le critiche da un miscredente come te !” “Mamma....che vuol dire miscredente ?”, la curiosità di Erica è sempre desta. “Oh...lascia perdere anche tu con le domande....sono cose da grandi queste ! Continua a mangiare piuttosto .” Sollevando le sopracciglia e sorridendo, suggerisco ad Erica, che mi scruta con gli occhi come se fossi un marziano, di ascoltare la mamma. “Certo che con le tue idee - che chissà quale diavolo te le ficcò in testa - ne portasti di scompiglio in casa quando eri molto giovane, anzi iniziasti da adolescente, ricordi ? Prima con i capelli lunghi, i ‘beatniks’, i ‘figli dei fiori’, poi con la politica, la contestazione, l’anarchia....” Con la coda dell’occhio vedo Erica che interrompe il pasto e mi guarda fisso. Quante provocazioni alla sua voglia di sapere ! Poi quando la madre si volta verso di lei, si rassegna a tacere e riprende a mangiare. “Mi rendo conto di aver creato scompiglio in casa, e non soltanto in casa, mettendo in discussione i sacri principi sui quali si fondano la famiglia, la convivenza sociale, le istituzioni. Ma conosci un modo meno traumatico per manifestare nuove idee in un contesto sclerotizzato di valori e comportamenti ? C’è un modo meno doloroso di 91 stimolare le menti ad un riesame critico dei propri pensieri, da sempre ciecamente acquisiti, e delle proprie fossilizzate convinzioni ?” - Paolo ed Erica mi guardano attoniti con la bocca aperta, senza curarsi del risotto ; forse si stanno domandando a quale bislacca categoria di uomini appartenga loro zio - “In realtà penso che, ciò che tu definisci col termine ‘scompiglio’, sia soltanto la paura e la pigrizia che tutti hanno, compreso il sottoscritto, di trovarsi costretti, di punto in bianco, a ripensare il proprio modo di essere.” “E caro il mio fratello ! Per quanto tu mi reputi una bigotta tradizionalista, anch’io credo che la nostra generazione sia stata portatrice di idee nuove, coraggiose, se vuoi....giuste, entro certi limiti. La società in cui vivevamo allora senz’altro andava svecchiata. L’ipocrisia sulla quale tanto le sue istituzioni, quanto il comune ‘buon senso’ delle sue generazioni adulte, erano infarciti, doveva essere necessariamente svelata e quindi rifiutata. Ma, santo Dio, c’è modo e modo di far questo ! Il modo che tu e tanti altri sceglieste - la gran parte dei giovani di quell’epoca, per la verità - fu di esagerata irruenza e irriverenza, che si tramutava spesso in gratuita violenza. Povera mamma ! Con quante apprensioni e paure dovette convivere in quegli anni. Tu non te accorgevi, probabilmente. Eri troppo rapito dalle idee di libertà e uguaglianza. Lungi da me il proposito di fartene oggi una colpa, per carità ! Ma quando, per intere giornate e nottate, te ne andavi in giro chissà dove con i tuoi compagni, per riunioni politiche, scorribande da incallito rivoluzionario o per più frivole esperienze, come il mitico rituale dello spinello collettivo o l’uso sconsiderato di chissà quale altra robaccia - non credere, certe cose si sapevano o si intuivano, seppur le nascondevi - ...be’, io rimanevo spesso a casa con la mamma. Ti lascio immaginare quante volte non poté fare a meno di confessarmi le sue angosce e le sue preoccupazioni per ciò che ti sarebbe potuto capitare. Diciamolo francamente....l’altruismo non albergava certo nei tuoi sentimenti, la tua vita volevi viverla senza remore, senza limiti di alcun genere.” China la testa sul piatto e riprende a mangiare il suo risotto, ancora quasi intatto. I bambini hanno finito di mangiare il proprio, rinunciando ad ogni velleitaria curiosità per una discussione che non ha né capo né coda nella semplicità del loro mondo intellettivo. Si stuzzicano l’un l’altro con dispetti, sono già pronti per abbandonare la noiosa postazione di commensali. Anch’io ho terminato di gustare la pietanza preparata da Evelina. Per la verità gli ultimi bocconi non mi è riuscito di gustarli come meritavano. Ho percepito la sottile vena malinconica che ha imboccato l’ultima parte del discorso di mia sorella. Non le rispondo. Già abbiamo affrontato simili discussioni. Non so proprio cosa aggiungere di più 92 convincente a quanto le ho ripetuto infinite volte in passato. E seppure ne avessi, di argomenti da aggiungere, a che cosa servirebbe farlo ? Non credo che la solleverei dal triste ricordo della mamma. E comunque, per Evelina, sono e resterò sempre uno scapestrato egoista, misantropo e amato fratello. Incondizionatamente. Sta’ consumando con lentezza i suoi bocconi, è rimasta solo lei, per ultima, è ovvio. Come tutte le mamme, sempre le ultime a soddisfare i propri bisogni. Ora, poi, con quello sguardo mesto, malamente occultato dagli svogliati gesti con i quali adempie alla nutrizione, mi ricorda proprio il volto della mamma. Ne ha ereditato i tratti estetici, ma soprattutto i moti interiori dell’anima che vi si leggono in tutta trasparenza. La mamma....quella faccia......quella notte d’inverno piovosa che tornai a casa molto tardi. Avrò avuto non più di 18 anni. Quel giorno, dopo cena, mi incontrai con i compagni del gruppo anarchico cui facevo parte, per discutere i dettagli di un’iniziativa di ‘controinformazione’ (come allora chiamavamo la nostra propaganda antagonista al sistema) da intraprendere nelle scuole medie superiori della città. Il piccolo locale che fungeva da sede politica, anche quella sera, come di norma, si trasformò ben presto in una sorta di fumeria. Tanto eravamo presi a scazzarci, come di norma, sulle modalità più opportune di condurre in porto l’iniziativa programmata, che il fumo denso di sigari, sigarette e pipe, poteva pure friggerci gli occhi e farci ansimare come asmatici. Non ce ne accorgevamo. Occorreva andare avanti a oltranza fino all’accordo, che giunse finalmente intorno alla mezzanotte. La nostra mente era così carica - non solo di fumo e chiacchiere, ma anche del rumore infernale prodotto da un vecchio ciclostile a manovella, azionato da un compagno - che accogliemmo tutti con entusiasmo l’idea di uscire all’aperto per imbrattare le mura cittadine con scritte rivoluzionarie. Fu anche un modo di suggellare l’accordo raggiunto. La nottata, peraltro, era ideale. Pioggia, freddo e ora tarda, quindi nessuno a spasso per la città, probabilmente poche volanti della “pula”. Cosa ci poteva essere di meglio per spazzare via la nebbia dal cervello e per scaricarlo del senso di pesantezza accumulata ? Il fascino dell’illegalità e del rischio, per la verità abbastanza relativi, riuscivano sempre a stuzzicare l’entusiasmo di giovani e convinti ribelli, nemici dell’autorità. Ci distribuimmo le “armi” per compiere il “delitto”, bombolette spray di vernice, rigorosamente di colore rosso o nero. Ne avevamo sempre una scorta in sede. Ci dividemmo in piccoli gruppi di due o tre individui ciascuno, accordandoci sulle rispettive aree urbane da colpire e sulle parole chiave mediante le quali veicolare i messaggi. Quindi ci sparpagliammo alla chetichella sotto la pioggia sottile e insistente, quasi tutti con la testa 93 nascosta sotto il cappuccio dell’eskimo, la nostra preferita divisa di battaglia. In questi casi era necessario non farsi notare troppo in giro, per non sollevare sospetti e causare, di conseguenza, un rinforzo della vigilanza notturna. Occorreva giungere a destinazione percorrendo vicoli, piccole stradine scarsamente illuminate e poco frequentate, evitando attraversamenti di piazze e altre zone troppo scoperte. Quindi, giunti nell’area prefissata, colpire in fretta e poi squagliarsela , sempre attraverso i vicoli, cercando di raggiungere, inosservati e nel più breve tempo possibile, le proprie macchine o direttamente le proprie abitazioni. Quella notte sembrava tutto più facile del solito, stante le condizioni di pioggia. Anche i cani avevano rinunciato ad accreditare quei proverbi nei quali sono chiamati in causa come termini di paragone. Eravamo soli, ci sentivamo padroni della città. Fu quell’eccesso di sicurezza, probabilmente, che ci fece abbassare la guardia, costringendomi alla prima esperienza di fuga a perdifiato con la polizia alla calcagna. “RIPRENDIAMOCI LA VITA, AUTOGEST .......” Interruppi a questo punto la frase con lo spray nero, su un bel muro rivestito di un candido, immacolato travertino. Due occhi luminosi mi puntavano di lontano. Inconfondibile la luce azzurrognola roteante sul tettuccio. “LA PULA !”, urlò Francesco, e già aveva imboccato come una saetta il vicolo più vicino, imitato subito da Michele che si inoltrò nell’altro vicolo, che scendeva buio e stretto in direzione opposta. Un lungo momento di panico e stordimento, inchiodato dai fari davanti al muro con la bomboletta in mano. Poi mi rimbalzò in mente quella regola tattica, mille volte fra noi ripetuta, per la quale nelle situazioni di pericolo occorreva separarsi. Sacrosanta. Ma non avevo più possibilità di scelta. I vicoli erano esauriti. Solo la strada larga e ben illuminata di fronte a me. Le mie gambe scattarono come una molla in quell’unica direzione. Dovevo percorrere cinquanta metri o più, fino alla prossima “uscita”, l’altro vicolo della salvezza. Un rombo potente alle mie spalle, l’accelerazione improvvisa impressa al motore dell’auto. Quanto stava accadendo era ormai chiaro anche alla polizia. Quei due occhi sempre più luminosi stavano radiografando ogni centimetro del mio corpo scomposto nella fuga disperata. Riuscii a imboccare il vicolo quando il muso dell’Alfa stava per mordermi il sedere. Gettai via la bomboletta, qui forse non mi inseguiranno, pensai, cercando di farmi coraggio. Lo stridio dei pneumatici sull’asfalto. La frenata. Sgassate e manovre rapide per riportare la vettura in condizioni di proseguire lungo il vicolo. Non mollarono. Ma quelle manovre mi consentirono di guadagnare attimi preziosi per allungare le distanze e raggiungere l’incrocio col vicolo successivo. Ebbi a benedire il centro storico, il suo rione più antico, con la sua fitta trama intercomunicante di vie strette. Una casbah dove quasi 94 sempre puoi riuscire a farla franca. Il pericolo ormai era nelle comunicazioni via radio, con le quali, ben presto, si sarebbero potute far convogliare altre autovetture nella zona per consentirne la perlustrazione. Così avvenne. Solo che, per mia fortuna, riuscii ad inoltrarmi in un quartiere ove i vicoli spesso si connettono tra loro con lunghe scalinate, inaccessibili alle automobili. Con circospezione e batticuore sfuggii alla caccia e raggiunsi, alle 3 o alle 4 circa del mattino la mia abitazione. La pioggia non aveva mai cessato di scendere. I chilometri che percorsi, e quanti poi di corsa, non saprei proprio dirlo. Su una delle scalinate, tra l’altro, ebbi modo di appurare la durezza del peperino, la pietra di origine vulcanica con la quale sono state costruite. Per la fretta, la paura e il bagnato, ruzzolai per una decina di gradini. In ogni parte del corpo riportai escoriazioni, più o meno vistose, ma senza fratture. Vi lascio immaginare in quali condizioni varcai l’uscio di casa. Inzaccherato fradicio, sporco, i vestiti laceri e strappati in più punti, ecchimosi e sangue rappreso sulle articolazioni e al volto. Pensate che la mamma, le mamme di tutto il mondo, non stiano in piedi sveglie ad aspettare il figlio che rientra ad ora mattutina ? Pensate sarei potuto sfuggire al suo sguardo indagatore ? “Enrico.....cosa hai fatto ! ? Perché a quest’ora ?” La banale scusa che le rifilai, come è ovvio, non servì a nulla. Come a nulla sarebbe servita la verità. Tutta la verità era già davanti ai suoi occhi. Non aveva bisogno di credibili e particolareggiati resoconti. Suo figlio era tornato a casa tardi malconcio. Tanto bastava. E non perse tempo in vani rimproveri, che ormai sapeva bene non le avrebbero più restituito un figlio ligio ai dettami comportamentali di una gioventù tranquilla e regolare. Magari mi avesse sommerso di rimproveri e ingiurie, o avesse cercato il sostegno della più concreta autorità paterna ! Sarebbe stato assai più facile, meno problematico, prenderla per il culo, sbeffeggiare le sue ramanzine, e soprattutto sfuggire al rimorso futuro. Invece il suo silenzio, i suoi occhi angosciati e tristi, mentre mi coccolava, mentre puliva e disinfettava con mani tremolanti le ferite, come quando ero bambino, stracciarono il mio morale e si fissarono nella mia mente. Sono riemersi, in immagini fuggiasche, di tanto in tanto, a martoriarmi l’animo. E non credo che potrò più rimuoverli dal profondo della psiche. Quello sguardo afflitto, il suo silenzio, il silenzio del babbo e di Evelina che dormivano nelle loro stanze. O forse non dormivano affatto. Tutto questo congiura ancora, contro la resistenza della mia coscienza tranquilla, e ogni tanto mi appicca dentro fiammate di rimorso. 95 “Perché non mangi qualcos’altro ?” Evelina interrompe il suo silenzio e i miei interiori ritorni tormentosi. “Nel frigo ho visto che ci sono....” “No....basta ! Sono sazio. Ho fatto colazione troppo tardi e non ho molto appetito. Se ho mangiato il risotto lo devo solo alla tua maestria di cuoca.” Le sorrido. Vorrei addolcirla. Lei si alza in piedi. “Bene. Allora sparecchio.” “Oh no, ti prego, oggi sei mia ospite ! Capita così di rado ! Ci penserò più tardi io a caricare la lavastoviglie....” Il mio gesto con la mano per farla rimanere seduta, non la dissuade affatto. Era scontato. Raccoglie rapidamente i piatti. Non sembra ancora essersi rianimata. “O.K.. Allora io nel frattempo preparo il caffè.” I bambini si sono dileguati da un pezzo. Non mi sento troppo tranquillo. “Suppongo avrai imparato abbastanza bene a preparare il caffè con la tua moka. Sono ansiosa di assaggiarlo.” Segni di ripresa, finalmente ! “Cara la mia sorellina ! Credo rimarresti assai soddisfatta se un giorno ti degnassi di assaggiare anche qualche pietanza preparata da me. Non so, tipo....spaghetti alle vongole, bucatini alla matriciana, frittata do cipolle e poi.....” “Lascia perdere, mi accontento del tuo caffè !” Povera Evelina. Riesce sempre a trasmettermi la sua tristezza ogni volta che la rivedo. E a sbattermi in faccia gli occhi della mamma. Quello sguardo da cui non si sfugge. Che non chiama in causa direttamente. Che in tali momenti non si solleva quasi mai oltre dieci centimetri dal pavimento. E che pure lo sento addosso come un vento gelido di tramontana. Che nel momento stesso in cui mi annienta, pure mi rinvigorisce, stranamente ha l’effetto di alimentare il coraggio in me per continuare ad essere ciò che sono sempre stato. Quello sguardo della mamma. In quella mattina che mi svegliai presto, mi vestii e mi preparai molto nervoso, impaurito come un pulcino - come solo lei poteva vedermi - in attesa di essere “giudicato”. La mia prima esperienza, e fortunatamente anche l’ultima, di cittadino imputato per un reato dal quale, allora, per un soggetto a rischio come me, non era facile esentarsi dal compiere. Vilipendio alle istituzioni. Non che rischiassi gran che. Il perdono giudiziale per aver commesso il fatto in età da minorenne. Ma aveva pur sempre un lato terrificante sapere di essere in balia del giudizio, del pregiudizio e delle inclinazioni umorali di un rappresentante fedele delle istituzioni vilipese. Il mio stato d’animo, mentre mi lavavo i denti, facevo colazione, indossavo gli abiti, per mia madre era 96 evidente come la luce del sole. Come poteva non esserlo, nonostante mi sforzassi di nasconderlo con un atteggiamento di altezzosa, quanto puerile, noncuranza ! Alla sua solita maniera, seguì tutti i miei preparativi di lontano, con la coda dell’occhio. Solo poche parole di rimprovero esplicito. “Lo vedi in che guaio ti sei cacciato ?” E nessun altro commento finché varcai la soglia. La sentii dietro di me. Mi voltai col cuore in gola. Il suo sguardo sempre piantato a terra, senza possibilità di trovare riparo e di risultare innocuo. “Ciao, ma.” “Coraggio. Le tue idee ti daranno almeno un po’ di coraggio !” “Enrico....” - Evelina affronta di nuovo i miei occhi - “...che ne diresti se ti risparmiassi di accompagnarmi tra i defunti e ti concedessi il privilegio di occuparti per un paio d’ore dei miei adorati bambini ? Mi solleveresti dalla preoccupazione di correre loro dietro nei viali del cimitero, di modo che potrei prodigarmi con più raccoglimento ad accudire alle tombe di mamma e papà .....in compenso ti offro l’occasione di divagarti un po’.” “Idea eccellente, sorellina. Mi mancava l’esperienza del bambinaio. Purché prometti di non costringermi a venirti a cercare. Potrei condurre al parco i bambini, se sono d’accordo. Che ne dici ?” Una soluzione accettabile per entrambi, per il nostro rapporto di fratello e sorella, seppur posso supporre che lei avrebbe preferito la mia compagnia. Non fosse altro che per il fatto che abbiamo così poche occasioni di stare insieme. Alla fine ha prevalso il suo altruismo di non chiedere troppo al mio egoismo. Ma posso esserle grato soprattutto perché mi ha dato modo di trovarmi a tu per tu, per la prima volta, anche se per brevissimo tempo, con il mondo dei bambini. Un pomeriggio tiepido, il cielo sereno, solo a tratti adombrato da inconsistenti nubi passeggere. Sono circondato da maestosi cedri dell’atlante, dal portamento eretto e dalle ramificazioni estese e spioventi, da aceri riccio ricoperti di meravigliose foglie gialle, da secolari e nodosi lecci con una densa, impenetrabile chioma verde scuro. Sembrano rimasti tali e quali a quando facevano da sentinelle inosservate dei miei giochi infantili, o a quando si rendevano complici silenziosi delle mie trasgressioni e avventure adolescenziali. Ma solo adesso mi rendo conto della loro grandiosa, eppure così discreta, vitalità. E’ forse la prima volta che osservo intensamente, direttamente, da adulto maturo, la fanciullezza di altri e la mia che non c’è più. Paolo ed Erica scappano, si rincorrono, si dileguano, ricompaiono, non ce la faccio a tenerli a bada coi miei richiami così poco autoritari. Ma chi vuole tenerli 97 a bada ! Che facciano pure. Magari potessi essere al posto loro, o io con loro ! Quando riesco a trattenerli vicino per pochi attimi, mi frastornano di domande. Perché quel cigno nel laghetto è tutto nero ? Come è strano quell’uccello, come si chiama ? Come mai quell’albero ha le foglie tutte rosse ? Ti piaceva giocare a pallone quando eri bambino ? Perché non hai bambini ? Perché non sei sposato ? Già, perché non ho bambini ! Benché ci abbia messo un entusiastico impegno per rispondere esaurientemente a tutte le loro domande, a questa domanda non credo di aver dato risposte convincenti. A dir la verità sono rimasto un po’ imbarazzato. Mentre si gustano un gelato fuori stagione, dondolando sulle altalene dell’area attrezzata per i giochi, questa domanda mi rimbalza di continuo in testa. Non valgono a nulla gli sforzi per distrarmi. Come forse succede spesso, l’ingenuità dei bambini è capace di evidenziare alcune nostre crepe interiori o di attizzare la fiamma di fuochi che sembravano spenti. Ho fatto ben poco, fino agli attuali quarant’anni suonati, per abituarmi semplicemente all’idea di una mia nidiata di pargoli. Anzi, proprio nulla. Non ho potuto, non ne ho avuto occasione, non ho voluto. La differenza è minima, quando non si arde dal desiderio, e non l’ho mai misurata fino in fondo. Certo è che, se mi ritrovo con inquietudine a riflettere sulla domanda di un bambino, i conti non tornano. O io ho mentito fino ad oggi a me stesso, o d’improvviso sto intenerendo, se si preferisce, sto rincoglionendo. D’un tratto, in un giorno qualsiasi oltre la metà statistica del mio cammino, pungolato da un banale, effimero stimolo, sento vibrare corde sconosciute. E se fossi attorniato di cuccioli del mio stesso sangue, dai quali farmi sommergere di domande, e da sommergere con affettuose, impegnative, importanti risposte ? E’ bello immaginare che i tentativi della mia vita possano usufruire di chances infinite, possano prolungarsi in una catena di sangue, fino magari giungere ad un sospirato appagamento, pur non avendo il tempo di goderne in prima persona, ma per via mediata di discendenza parentale. E’ bella di per sé già la speranza di un simile accadimento. Ma come la mettiamo se invece di una catena di successi, incrementassi col mio seme una catena di fallimenti ? Se lasciassi in eredità solo angustia e desolazione, incapacità di affermazione, disgusto per la vita ? Ardua sentenza lascio ai vivi e ai posteri che non si lasciano e non si lasceranno sopraffare da eccessivi scrupoli. Giungiamo a casa quando è ormai quasi buio. Le giornate si sono molto accorciate. Evelina ci attende fuori il portone. “Sei già qui ? Vedo con piacere che non ti sei persa.” 98 Saliamo di sopra in studio. I piccoli rioccupano subito le postazione per le guerre stellari. Ci rimane qualche minuto di tempo durante i quali le faccio assaporare un delicato tè al bergamotto. I bambini preferiscono la classica fetta di pane con la nutella spalmata, immancabile persino nella mia dispensa. “Ragazzi, dobbiamo andare se vogliamo essere a casa per ora di cena. Se facciamo tardi papà si preoccupa.” “Zio, la prossima volta ci fai trovare qualche gioco nuovo ?” “Sicuramente, ve lo prometto. Scusate se oggi mi avete trovato sguarnito. Comunque portatevi via il dischetto che ho, la prossima volta.....” “WOWWW !”, all’unisono. “La prossima volta sarà bene che venga tu a farci visita. Sarebbe ora ! Enrico, quando ti decidi a farci visita ? Da noi puoi fermarti quanto desideri e quando desideri. Lo sai, vero ?” “Ma certo, sorellina, lo farò prima o poi. Devo solo trovare il momento opportuno, quando potrò assentarmi per qualche giorno dal lavoro, e quando....” “Sì, ho capito, ci vedremo il prossimo 2 Novembre....Piuttosto, promettimi almeno che la prossima volta mi darai la lieta notizia......hai capito che cosa intendo....insomma, che non ti troverò più solo a vegetare da scapolone.” “Di questo puoi stare veramente tranquilla....” - le offro un sorriso smagliante “....troverò la donna che fa per me. Se ti fa piacere saperlo, ti confesso che ne tengo sott’occhio già una da un po’ di tempo....” “Davvero ?” “Davvero, lo giuro !” “Allora posso proprio dormire tra due guanciali.” E’ il momento dei saluti, quello che ogni volta desidererei volentieri poter evitare. Sono soddisfatto della giornata trascorsa. Sono contento di aver rivisto mia sorella. Soprattutto di aver passato un pomeriggio coi nipotini, esperienza unica che non so se avrò più modo di reiterare. Però comincio a sentire anche un po’ di stress “da compagnia”. Tutto sommato sono anche contento di ritornare al silenzio delle mie stanze, alla routine del mio quotidiano senza sorprese, alle mie passeggiate solitarie nei boschi. Abbraccio di nuovo quei corpicini esili. “E’ bionda o mora la tua futura sposa, zio ?”, mi domanda sottovoce in un orecchio Paolo. 99 “A te come piacciono le donne ?” “More.”, non esita a rispondere. “Allora avrai di che essere fiero di tuo zio, vedrai. Ciao Paolo, ciao Erica.” Mi sollevo e abbraccio mia sorella. Bacio le sue guance, ancora molto giovanili, con l’aiuto forse di qualche crema. “Ciao Evelina.” “Ciao Enrico.” Di nuovo quello sguardo abbassato, da cui non si sfugge, che non sa trovare riparo, che non riesce ad essere innocuo. Lo sguardo della mamma. 100 CAPITOLO VII INCONTRO COL PASSATO 2 LA SPECIE UMANA RACCONTA NELLA TUA MORTE LA SUA FOLLIA OMICIDA A CHI INSEGNASTI AD ABBAIARE TU RACCONTERAI SEMPRE LA VITA “Non credevo di trovarla ancora così leggibile questa epigrafe. Dopo tutti gli anni trascorsi. Anche il legno su cui è incisa.......certo, è molto scolorito e consunto dal sole e dalle intemperie. Ma è anche più bello.....più suggestivo. Non trovi ?” “Hai ragione Stella. Ora questa tomba sembra davvero integrarsi all’ambiente che la ospita. Sembra come se ci fosse sempre stata qui, al pari delle pietre, degli alberi, di tutte le cose che vi si trovano. Hai scelto la parola giusta, ‘suggestiva’, come un vecchio albero, tarlato, piegato dal vento, che mostri in ogni sua parte i segni del tempo trascorso.” Già, proprio Stella ! In carne ed ossa. Non mi sarei mai immaginato di incontrarla ancora. Sapevo che era partita e si era stabilita in altra città. Ma più che la lontananza fisica, l’improbabilità di incontrarla ancora pensavo derivasse dal desiderio di entrambi di fuggire il più lontano possibile mentalmente, sottrarsi dal ricordo, di quel qualcosa di non detto in quel giorno d’agosto. Credevo che una forza di repulsione, uguale e contraria, ci avesse tenuto sempre a distanza, come succede a due poli dello stesso segno. E invece.....eccoci qui, a contatto di gomito, come una volta, ancora una volta insieme tra le grinfie della natura selvaggia, insieme a Cucciolo, al suo fantasma imperituro. E’ successo ieri mattina, una grigia mattina novembrina. Ero uscito dal palazzo dell’Amministrazione per una missione di lavoro, un incontro con funzionari di vari enti pubblici per l’organizzazione di un’iniziativa in comune. Un’iniziativa per la quale non nutro un grosso entusiasmo. Come non lo nutro per gran parte delle funzioni di lavoro che svolgo normalmente. Ma che devo fare ! Mi pagano per questo, cerco di ripetermi. Ho ridottissimi margini di scelta e quasi nessuna possibilità di esprimere potenzialità creative e 101 capacità individuali nei miei compiti. Di ciò sono ampiamente convinto. Ho imparato fin troppo bene come la burocratizzazione e la standardizzazione della prassi di lavoro nell’ente pubblico esiga soltanto adattamento e renda sterile ogni disposizione personalistica. Troppe regole, protocolli, vincoli di ogni genere limitano le attitudini all’azione e le abilità di inventiva. Annoiato come al solito, dunque, attraversavo il traffico cittadino. Ad un certo punto ho svoltato in una stradina chiusa al transito veicolare e l’ho percorsa per una cinquantina di metri. “Enrico !” Ho percepito chiaramente il mio nome gridato in una strana accentuazione esclamativa. Mi sono arrestato e voltato. 4 o 5 persone alle mie spalle che camminavano per i fatti loro. Nessuna, a prima vista, aveva un volto familiare. “Enrico....sono io !” Allora l’ho riconosciuta, con grande sorpresa e un tuffo al cuore. “Stella ! ?” “Esatto.....proprio io ! E’ vero che il mio look è un po’ cambiato, ma.....cavolo ! Sono sempre io !” Un sorriso vero sulle sue labbra, non d’occasione, ha fatto breccia nel mio cuore. Emozionato, incredulo, mi sono avvicinato con andatura impacciata. Lei mi aspettava a braccia aperte. Ci siamo abbracciati e baciati con tenerezza, come se quella forza repulsiva, che ci aveva tenuti lontani l’uno dall’altra per tanto tempo, non fosse mai esistita, o riguardasse due altre persone. In effetti....ora non siamo due altre persone ? Siamo rimasti così per alcuni secondi. Mi sentivo sciogliere come la neve al sole. Il leggero affanno del suo respiro, il suo corpo così cedevole alla mia stretta, tradivano la forte emozione che anche lei stava vivendo. Nessuna preoccupazione è riuscita a costringerci a nasconderla. E Perché mai nasconderla ? Io e lei avevamo già vissuto tanti momenti insieme di spontaneità. Sapevamo quanto era bello viverli con tutto il nostro essere. Non aveva alcun senso tradire il ricordo della nostra esperienza in comune e comportarci diversamente da allora. Così, ieri, abbiamo ritrovato quell’intesa del nostro passato. Anche se, almeno io, ero fuori allenamento in fatto di intimità emotiva con altri esseri. E forse è proprio questo il motivo che mi ha spinto impulsivamente, dopo quei pochi secondi di smarrimento, a dare un taglio alla situazione di passionalità che rischiava di divenire insopportabile. Si è imposto il bisogno di ritornare d’urgenza alla normalità del mio presente, di non farmi 102 travolgere dai fantasmi del passato. Ho preso con delicatezza distanza dal suo corpo e l’ho guardata fissa negli occhi. “Per la miseria ! Ma come ti sei conciata ?”, le ho domandato, cercando con grande sforzo di non balbettare e scrutando i lineamenti del suo volto, i capelli, le labbra, il collo. Anche lei ha subito ripristinato un contegno. Il viso le si è di nuovo illuminato in un sorriso, ma meno impegnativo del precedente, ostentando una dentatura ancora perfetta. “Perché.....non ti piaccio più ?” “Per carità ! Non pensarlo nemmeno. Hai un magnifico aspetto....aggressivo e dolce allo stesso tempo, moderno e .....perché no, anche maturo. Questo taglio corto dei capelli, senza più riccioli, le sopracciglia molto più esili, ogni tratto così ben curato.....ti confesso una cosa : non scorgo più quella genuinità che si prediligeva ai nostri tempi. Ma, a parte questo, permettimi di dirtelo, sei di una bellezza provocante, sei quanto di meglio possano esigere i canoni estetici di questi tempi e....” “Dillo pure, ma non esagerare ! Mi sono soltanto un po’ adattata ai tempi.....tutto qui ! E in quanto alla genuinità....” - sul suo volto si è disegnato un cruccio scherzoso “....cosa vorresti intendere, che per seguire la moda ho perso per strada la mia spontaneità giovanile ?” Le ho sorriso affettuosamente e non ho potuto trattenermi dal carezzarle una guancia. “Oh.....non ti devi affatto preoccupare, l’hai soltanto mascherata ! La cosmesi non può mica cancellare quello che c’è dentro.....ti sprizza fuori da ogni sillaba che pronunci, così come dal tuo sguardo. Non credo te ne potresti liberare facilmente, neanche lo volessi.” Mi ha afferrato la mano, prima che l’allontanassi, stringendola sul suo collo. “Enrico....sono proprio felice di averti incontrato di nuovo.” Poi è stata lei a sforzarsi di raffreddare gli animi, spostando il colloquio su temi meno intrisi di ricordi. “Ma dimmi....” - ha abbassato la mia mano appoggiandosela al ventre e stringendola con tutte e due le sue - “...cosa fai oggi ?.....voglio dire il lavoro, la professione. Lavori ancora presso l’amministrazione pubblica ?” “Sì, purtroppo ! Hai toccato un tasto dolente....” “Perché, purtroppo ? Non va ? Sei insoddisfatto del tipo di lavoro ?” 103 “Ecco, sì, mettiamola come dici tu, senza approfondire troppo. Ci vorrebbe un po’ di tempo per darti un’idea precisa di come me la passo. Per farla breve, credo sia sufficiente, affinché tu comprenda il mio stato d’animo in proposito, dirti qual è l’augurio che faccio a me stesso da diversi anni, la speranza alla quale mi sono ostinatamente aggrappato : non morire da impiegato.” “Addirittura a questo punto !”, ha esclamato meravigliata. “In effetti.....ricordo bene la tua forte personalità, le tue doti creative. Forse risultano stridenti in un ambiente troppo piatto e monotono, come immagino che sia quello di un’amministrazione pubblica. Ma ero convinta che saresti riuscito in qualche modo ad importi, a trovare i giusti canali per esprimerti adeguatamente, magari all’interno stesso di quell’ambiente....” “Non è così. O non è stato così per me, Stella. Non immagini nemmeno fino a che punto quell’ambiente riesca a... ‘comprimerti’, ‘nullificarti’....faccio uso di neologismi, non riesco a trovare parole migliori. Ma lasciamo perdere, ti prego. Voglio sapere di te. Non so quasi nulla....solo che allora, prima di...., ti stavi laureando e che ad un certo punto - non ricordo nemmeno come lo venni a sapere - ti sei trasferita in altra città....” “Sì, mi laureai in sociologia e poco tempo dopo, grazie agli aiuti di alcuni parenti, mi sono trasferita a Milano. Be’.....non riesco ancora a crederci...” - il suo sguardo diventa di colpo radioso - “....ma qui sono riuscita a realizzare i miei sogni, o almeno gran parte di essi. Ho avuto la fortuna di conoscere un gruppo di giovani laureati forniti di potenti aspirazioni, in perfetta sintonia con le mie. In poche parole, abbiamo creato dal nulla un centro di ricerca interdisciplinare, di sociologi, antropologi, statistici, psicologi, e ci siamo offerti sul mercato. Dopo un avvio, ovviamente, stentato, abbiamo incominciato a ricevere le prime commissioni. Da enti pubblici, proprio come il tuo. Da quel momento non si è più cessato di intraprendere di continuo nuove ricerche sociali, anche per conto di associazioni private. Alcune di notevole interesse scientifico....siamo riusciti persino a pubblicare quelle che ritenevamo più significative. Ora il nostro è un centro di ricerca abbastanza quotato. Sono in molti a richiedere le nostre prestazioni....davvero.... Non immagini quanto sono felice. Mi sento realizzata e credo di poter ricevere ancora molte soddisfazioni....anche se il lavoro, forse è superfluo sottolinearlo, è enorme e spesso stressante. Oh....ma scusa, mi sono lasciata prendere la mano...” “Di cosa ti scusi ? Il tuo entusiasmo è folgorante e contagioso. Non posso che ammirarti, per quello che dici e per come lo dici. Sono contento per te, credimi. Piuttosto, 104 dimmi i titoli delle vostre pubblicazioni, le cercherò in libreria. Ti assicuro che avrai in me un degno e attento lettore....” “Di questo non ti devi preoccupare. Avevo già deciso molto tempo fa di inviarti le nostre opere. Ma ti confesso che non ne ho avuto il coraggio.....non sapevo come l’avresti presa, se ti avrebbe fatto piacere.....” “Scherzi ? Come hai potuto avere di questi dubbi ? Pretendo che quanto prima tu mi spedisca quei lavori. Pagandoti il dovuto, se necessario. Ci conto !” Sono restato per lunghi attimi in silenzio a fissarla negli occhi, quasi per carpirle il segreto di quella gioia che non riusciva a contenere. Poi ho avuto il dubbio che potesse esserle sorto il rimorso per aver, in buona fede ma senza alcun ritegno, sbattuto in faccia ad un fallito dichiarato il suo entusiasmo di persona realizzata. Stavo per interrompere il silenzio, ma lei mi ha preceduto. “Enrico....ascolta. Mi è balenata all’improvviso un’idea. Vorrei chiederti un favore. Sai....sono tornata da alcuni giorni per far visita a mia madre, era da tanto che non la vedevo, ma credo anche per tirarmi fuori da una situazione di stressante tensione. Ultimamente sto sviluppando una ricerca molto importante, sulla quale ho riversato molte delle mie energie, ma ho raggiunto un tale livello di compressione psicologica per cui sono stata costretta a concedermi un periodo di riposo, onde evitare spiacevoli conseguenze da overdose di lavoro. Ed eccomi qua. Il favore che vorrei chiederti......mi vergogno un po’.....”, ha abbassato gli occhi a terra mostrando un lieve imbarazzo. “Ti vergogni ? Questo mi meraviglia molto. Se la memoria non mi inganna, ricordo solo rarissime occasioni nelle quali ti sei lasciata prendere dalla vergogna. Hai sempre dimostrato una gran padronanza di te !” “Be’, sono cambiati i tempi e forse anch’io con essi. E’ difficile conservarsi in tutto sempre uguali a se stessi, non credi ? Nell’ambiente in cui vivo oggi non mi capita mai di chiedere favori. Forse sì, qualcuno tra amici, ma di poco conto. Ora, con te, dopo tutti questi anni.....a proposito, quanti anni sono che non ci vediamo......15 ? “Più o meno.” “Comprendi che in tutti questi anni possono essere successe tante cose ! Anche da questa considerazione deriva un po’ la mia vergogna. Comunque eccomi al dunque : hai moglie, o una partner, o marmocchi, o ....che ne so, qualcuno del genere, cui dover rendere conto di ciò che fai o di dove vai ? E perdonami la necessaria indiscrezione” 105 “Assolutamente no. Non ho alcun legame affettivo, stabile o transitorio che sia, con alcuno, né tanto meno, eredi frutto del mio seme. Come li chiamano oggi quelli come me..... ‘single’. Proprio così. Non so se ti farà piacere saperlo. Tu hai rappresentato l’ultimo legame duraturo che mi sono concesso, o che la sorte mi ha concesso di intrattenere.” “Bene......cioè, non so se per te sia un bene o un male......per me lo è senz’altro un bene, per due motivi. Primo perché, dopo il nostro rapporto, anch’io ho deciso irrevocabilmente di non concedermene altri di simile intensità e durata. Ho capito di non essere proprio il tipo che si può adattare ad essi. Sono molto egoista. Mi va di prendere o di conquistare sempre ciò che voglio, senza creare problemi o attese ad alcuno. Nutro pochi altri bisogni oltre quelli carnali. E per questi mi riservo, di tanto in tanto, solo.....qualche ‘sveltina’. Tutt’al più brevi relazioni di alcuni giorni.....e morta lì.....” - (Grande ! Coraggiosa, grande Stella....sei sempre la stessa !) - “....Secondo, perché devo chiederti questo favore.” “Allora ! Quale favore ? Sputa l’osso, non mi far stare sulle spine !” “Non mi fraintendere, Enrico. Non ho bisogno di alcuna.... ‘sveltina’ in questo momento. O.K. ? Ma di ben altro. Sento l’esigenza, coltivata da lungo tempo, di ritrovare....come dire....la mia natura selvaggia.....sai, quella genuinità e semplicità delle quali parlavi poc’anzi, tanto dentro di me quanto nelle cose che mi stanno intorno. Sento una gran nostalgia di quei luoghi incantevoli, dove ci perdevamo insieme, io, te e Cucciolo, dimenticandoci della civiltà. Quelle passeggiate tra gli elementi ancora autentici dell’esistenza, che si conservano uguali a se stessi da millenni, che è sempre più raro trovare negli ambienti umani, soggetti ai ritmi frenetici del cambiamento. Forse ti sembrerò retorica, o romantica, ma....mi capisci, Enrico, vero ? Ti andrebbe di passare una giornata con me in uno di quei luoghi ? Domani.....è l’unico giorno che mi è rimasto, poi dovrò ripartire, che ne dici ?” Cosa credete potessi risponderle ? Ero così felice di quella proposta. Non che nutrissi chissà quali aspettative per l’occasione che mi si offriva di trascorrere insieme ancora un giorno. Ero elettrizzato dalla semplice idea di poter condividere di nuovo con Stella antiche emozioni, che ritenevo definitivamente seppellite nel mio passato. Ed eccoci qua. La scelta del luogo è risultata ovvia per entrambi. Dove, se non nel posto in cui lasciammo il nostro più bel ricordo in comune, cioè Cucciolo ? Sulla sua tomba i nostri sguardi si trattengono a lungo. Sto rincorrendo, come penso stia capitando anche a lei, le immagini di intensa vitalità che legano indissolubilmente il 106 nostro passato a Cucciolo. Quella fossa ricoperta di pietre calcaree, ordinate a comporre un disegno di forma ellittica e sormontate da una tavola incisa a mo’ di lapide, è collocata sotto un esemplare molto vetusto di pero selvatico, dalla chioma estiva rada di misere piccole foglioline, ed ora spoglio, con i rami tozzi e contorti e qualcuno rinsecchito. Un esemplare non certo capace di evocare in sé vigore e generosa prosperità della natura. Ma nel contesto del pianoro assolato ed aspro, battuto perennemente dai venti, in cui si situa, solitario, in mezzo alla scarna compagnia di cardi e cespugli spinosi, riesce ad infondere una pervicace forza di resistenza alle avversità. In effetti, decidemmo di fissare lì l’ultima dimora di Cucciolo, non soltanto perché il luogo è uno dei più selvaggi angoli conservatosi nel nostro territorio all’impetuoso incedere della civiltà - congruo alla sua stessa natura altrettanto selvaggia e niente affatto plasmata dalla compagnia dell’uomo - ma anche perché, forse inconsciamente, intendemmo lanciare un messaggio al mondo intero, la nostra bottiglia di speranze in mezzo all’oceano. La voglia di resistere alla follia distruttiva che il genere umano ci era sempre sembrato portasse iscritto nel proprio codice genetico dai tempi dei tempi. Un piccolo, ultimo omaggio, al nostro compagno di giochi, ma anche alla natura riscoperta, proprio grazie a Cucciolo, dentro come fuori di noi ; alla natura divenuta così aliena all’uomo, così radicalmente “altro”, da poter essere recuperata in una dimensione familiare soltanto mediante un incidente, un incontro fortuito, un’improbabile quanto imprevisto sodalizio con altra specie vivente, come per noi fu quello con Cucciolo. “Forse la morte altrui è uno dei rari eventi della vita che incute rispetto all’uomo. Anche se è la morte di un cane. Non riesco a spiegare altrimenti come abbia fatto a resistere intatta questa tomba. Per quanto solitario, questo posto, sarà comunque frequentato, suppongo. In quindici anni poi.....” “Forse è come tu dici. Mi piacerebbe pensare che così fosse. Ma ho una disposizione pessimistica verso la realtà delle cose, ormai radicata, che mi suggerisce una spiegazione più semplice, meno lusinghiera. Credo sia sufficiente la paura, una superstiziosa paura verso gli oggetti che fanno da tramite con un presunto al di là, a spiegare questo atteggiamento ‘rispettoso’ per una tomba.” “Spero ti sbagli, Enrico. Anche se francamente non ne sono convinta. Ho bisogno di credere in qualcosa di buono. Non posso pensare che ogni cosa, ogni emozione, ogni passione sia contaminata da una qualche forma di interesse inconfessato, nascosto.” “Anch’io spero di sbagliarmi. La speranza è sempre l’ultima a morire. Però....” 107 D’un tratto il suo volto si ravviva, sembra voler scacciare via di prepotenza i segni evidenti della malinconia. Un lieve sorriso si affaccia tra i lineamenti marmorei, fascinosi ma freddi, che un po’ la maturità, un po’ la situazione del momento, le modellano il viso. Solleva lo sguardo verso l’orizzonte, a perdersi in qualcosa di indefinito nella realtà esterna, ma probabilmente di preciso nella sua realtà mentale. “Ti ricordi quante volte siamo giunti su questo pianoro col cuore in gola ? E non facevamo in tempo a riprendere fiato che ogni volta Cucciolo si dileguava lontano, in una corsa pazza a testa bassa, col muso a sfiorare i sassi e l’erba. Soprattutto nelle giornate umide e ventose....” - le abbozzo un altrettanto tenue sorriso di risposta, confermandole con un cenno della testa di aver captato l’immagine suggeritami ; ma non si cura di accertarsene, tanto sembra convinta che io non possa non essere capace di riviverla, e continua a fissare il vuoto - “....il vento, questo vento che quassù non dà mai tregua, trasportava alle sue narici chissà quanti stimoli alla sua innata propensione predatrice. Già.... la predazione. In quella brama di sopraffazione violenta, in quella carica aggressiva, metteva in gioco tutto se stesso, si concedeva alla vita e alla morte senza alcuna riserva. Il connubio col mondo, l’integrazione con la natura, quando sono vissuti senza nascondimenti, nella purezza della spontaneità, coinvolgono tutto l’essere, non consentono risparmi. Questo significa essere selvaggi ! Cucciolo mi insegnò quanto poco riusciamo ad esserlo noi, mi insegnò a desiderare la sincerità e quanto sia stupido aver timore della propria natura animale. E ti ricordi quando uccise quel piccolo cinghiale, sotto gli occhi atterriti della madre ? Che pure non poté fare niente per impedirlo, si dovette preoccupare di portare in salvo il resto della cucciolata. Be’.....forse non ci crederai. Quell’immagine atroce di morte mi continua a perseguitare, mi sbatte sempre in faccia la realtà delle cose nuda e cruda, senza fraintendimenti, senza coperture di comodo. Da allora credo di aver capito quanto la vita sia legata alla morte. L’esistenza, l’esistenza di tutti, la natura di tutti è questa.....prendere o lasciare. E se si decidesse di lasciare, di mollare tutto, in un estremo atto di rinuncia, non faremmo che confermare all’istante proprio quel legame. Siamo costretti in un circolo vizioso dal quale non si può scappare. Oh Cucciolo....che verità incredibile mi hai insegnato !” Mi sento commosso. Soprattutto quando, dal luccichio sui suoi bulbi oculari, percepisco la medesima commozione. Non conosco parole per rincuorarla. Io condivido lei lo sa - questa filosofia della vita. Un materialismo cosmico che avevamo maturato insieme, in anni di esperienza in comune, che una volta abbracciato non può più essere 108 scaricato, se non si è disposti a correre il rischio di ritrovarsi a bivaccare tra i prati dell’illusione e dell’autoinganno. Il tempo, fortunatamente, sembra aver conservato, di entrambi, la volontà di non cedere alle sirene pacificatrici della rinuncia ad essere. Me ne rimango in rispettoso silenzio per alcuni secondi di quell’intima lacerazione che conosco molto bene. Poi decido di farle una proposta : “Il laghetto......al laghetto, poco più avanti, lungo il fiume.....perché non scendiamo giù al fiume e lo raggiungiamo ? Non ti sarai dimenticata del laghetto ! Quante volte ci abbiamo fatto il bagno !” Si volta verso di me abbozzando un mezzo sorriso. Senza vergogna si asciuga una lacrima che le sta per scendere dall’occhio destro. “Ma sì, certo, perché no ! Dai.....che stiamo aspettando ? Ci potremo fermare a mangiare proprio al laghetto....incomincio a sentire un languorino allo stomaco.” “Ottima idea. Carichiamo gli zainetti, in una mezz’ora saremo giù.” L’autunno si mostra nella sua più consueta scenografia. Giornata grigia e ventosa, come lo è stata la precedente. Mentre discendiamo il pendio boscoso, l’aria calda di scirocco ci getta addosso le foglie brunastre dei cerri. Ma il querceto che attraversiamo non è ancora spoglio di tutte le sue fronde ; esse persistono ancora cariche di foglie gialle e verdi, soprattutto nelle stazioni più assolate, ove padroneggia la roverella. Qua e là spiccano macchie di un intenso colore giallo violaceo, che identificano esemplari di acero campestre. Più nudi e tristi appaiono gli alberi che orlano le sponde del fiume, gli ontani, i pioppi, i salici e i tamerici. Stella mi segue a pochi passi di distanza, non ci rivolgiamo parole. E sì che magari ne avremmo di cose da raccontarci, considerato il tempo trascorso da quando cessammo di frequentarci. Ma evidentemente non nutriamo interesse a conoscere gli avvenimenti delle nostre esperienze di vita separate. Quasi non ci fosse mai stata interruzione dall’ultima nostra passeggiata insieme ad oggi. In effetti, durante le escursioni del passato, mentre camminavamo, non avevamo l’abitudine di parlare molto. Il nostro interesse era rivolto quasi esclusivamente agli elementi dell’ambiente, dei quali godevamo in assoluto silenzio. Solo le stravaganze giocose o le corse sfrenate a testa bassa sulla pista di una preda da parte di Cucciolo, ci facevano sorridere e scambiare impressioni divertite. E, naturalmente, quando ci imbattevamo in qualcosa di imprevisto, come la comparsa di un animale non domestico, un serpente, un daino, un gruppo di cinghiali, una volpe, un uccello poco comune, o di fronte ad una fioritura eccezionale, ad una pianta rara, ci prodigavamo concitati nel descrivere le sensazioni provate, i dettagli e le circostanze del caso. Anche ora l’interesse per gli elementi che ci stanno intorno assorbe tutta la nostra 109 attenzione. O quasi tutta. Inutile nascondere a me stesso che lo stare insieme, dopo 15 anni, con Stella, non mi lascia certo indifferente. Sono eccitato, ma non lo lascio ad intendere, di sicuro non mi impegno a palesarle il mio stato d’animo. Vorrei parlarle, ma non so da dove iniziare. E forse è così anche per lei. Cataste di residui legnosi sono ammassate alla base di molti alberi, anche a distanza considerevole dal margine del fiume. Segni evidenti delle sue travolgenti piene nei periodi invernali e primaverili, quando le piogge copiose fanno ingrossare le acque. “Guarda com’è calmo il fiume !” “Sì, è molto calmo. Le piogge sono state scarse nei giorni precedenti. Non è nemmeno molto torbido. Vedi... - le indico con un dito -...dove è poco profonda l’acqua è ancora assai trasparente. Nelle parti più profonde è invece di un verde cupo, più simile ad un aspetto di tipo estivo, direi.” “Peccato solo che non sia caldo come d’estate, altrimenti....” “Ci saremmo già fatti un bel bagno, non credi ?”, concludo la sua frase, riuscendo a carpirle dal volto tenui accenni di spensieratezza. “Ma...Enrico, non è quello laggiù il laghetto.... ?” “Mi fa piacere che ti ricordi ancora del luogo. Sai....io ho continuato a venirci spesso quaggiù. Tu invece...... Un posto così non si può dimenticare, Vero ?” Provo un senso di soddisfazione. “E come potrei dimenticarmene !” Giunti allo slargo del fiume, lei si sofferma alcuni secondi a guardarsi intorno. “E’ cambiato però......qualcosa è cambiato dall’ultima volta che venni qui.” “Sì, è ovvio. Le piene del fiume. Di anno in anno modificano incessantemente i margini. Cancellano un tratto di sponda e ne creano un altro da un’altra parte. Portano via pietrisco, sabbia, arbusti e alberi da una parte e li trascinano in un’altra. I detriti si cumulano e si disfano.” “Già ! Però è sempre una gran bella pozza ! Ci sediamo ? Anzi.....cerchiamo un po’ di legna secca e accendiamo un fuoco. Ho portato un paio di bistecche da cuocere sulla brace. Crude non credo proprio risultino appetitose. Che ne dici ?” “D’accordissimo, diamoci da fare. Io ti farò assaggiare la mia modesta frittata di cipolle.” “Non mi dire che hai imparato a cucinare !” 110 “Solo due o tre tipi di pietanze....lo stretto necessario per sopravvivere da scapolone.” Finalmente sembra che abbiamo ritrovato una certa disinvoltura nel dialogo. Ci stiamo scrollando di dosso le ultime scorze di quell’imbarazzo che è plausibile si manifesti tra due amici, un tempo molto intimi, che si rincontrano dopo molti anni. Chiacchieriamo con brio del più e del meno, tra una battuta scherzosa e l’altra, per circa due ore, intorno ad un crepitante falò, io e lei insieme, lontani dal mondo, lontani dalla civiltà. Quando si dice un posto dimenticato da Dio e dagli uomini. Questo è il posto ! Che fortuna che ce ne sia rimasto qualcuno ! Non una sola traccia, un solo indizio di presenza umana. Il lontanissimo, quasi impercettibile, rombo di un aereo di linea, esalta ancor più il distacco dal mondo civile. Mi sento vuoto, leggero, purificato, allo stesso tempo saturo di irremovibile serenità. “Ricordi quando buttammo in acqua per la prima volta Cucciolo, per fargli prendere confidenza col mezzo liquido ?” “E come se lo ricordo ! Fu una cosa spassosissima. Poveretto ! Aveva una gran paura. Forse commettemmo una barbarie. Indubbiamente però servì a fargli superare l’impulsiva ritrosia. Pian piano ha finito per amarla l’acqua, per apprezzarne tutte le sue qualità. Se adesso fosse qui, sarebbe difficile trattenerlo dal tuffarsi nel fiume, nonostante l’assenza di una calda temperatura estiva.” “Era un nuotatore eccezionale. Coordinava in modo perfetto il movimento delle quattro zampe. E si serviva persino della coda, non riesco ancora a capire come. Si dimostrò capacissimo fin da quella prima volta. Chissà poi perché tante specie animali sono dotate di una tale istintiva attitudine natatoria.” Accendo la pipa, come è mia consuetudine da più di due decenni. Il vento le getta in faccia una nuvola di fumo, che ha l’odore dolciastro di un tabacco di marca Dunhill, uno di quelli che preferisco. “Scusa.....” “Oh no, non ti scusare, anzi....ti ringrazio per la zaffata aromatica che mi lasci respirare. E’ gradevole questo profumo......è sempre lo stesso tabacco che fumavi una volta ?” “No, è da pochi anni che fumo questo. Ma tu.....non fumi più ? Non ti ho visto sigarette in bocca fino ad ora....” 111 “Infatti non fumo più, ho smesso a Milano di fumare. Sai.....lì di fumo ne respiro quanto ne voglio nell’aria, ogni giorno, perciò ho deciso di non peggiorare la situazione dei miei polmoni col fumo delle sigarette. Anche se a volte sento ancora un gran desiderio di farmene una. Ma ho dato un taglio netto al vizio e non ho intenzione di ricascarci. Se cedo una sola volta, so che ricomincerei come una forsennata.” “Hai perfettamente ragione. Io, purtroppo, non sono mai stato un igienista, salvo poi a farmela addosso di paura e a farmi sopraffare dall’ipocondria, quando accuso qualche malessere. Tant’è che non riesco a rinunciare al sollievo psicologico che mi procura il fumo.....il senso di rilassatezza, la capacità di concentrazione nel lavoro....” “Ti capisco.” Passiamo altro tempo a bivaccare intorno al fuoco, che di tanto in tanto rinforziamo con l’abbondante legna trovata nei paraggi. Continuiamo a discorrere con pacatezza, che si trasforma in malinconico abbandono quando, inevitabilmente, riaffiorano i ricordi di Cucciolo. Non abbiamo alcuna voglia di scappare dalla persecuzione di quello spettro del passato che è ricomparso dal momento del nostro incontro. Anzi, è più forte della nostra volontà il desiderio di tirarlo dentro nelle discussioni ad ogni occasione. Siamo coscienti dell’enorme significato che quel dolce essere ha avuto da vivo, e continua ad avere da morto, nella nostra esistenza. Della svolta radicale che ha impresso al nostro modo di concepire il mondo e di affrontarlo. Siamo talmente soggiogati da questa presenza fantasma, che il parlarne è per noi un atto liberatorio di riconoscimento postumo alla sua memoria, che però non riesce a compiersi fino in fondo, non trova sazietà. E così andiamo avanti quasi per l’intero pomeriggio, sdraiati sui ciottoli della sponda del fiume, senza alcuna voglia di interromperci e di alzarci per riprendere l’esplorazione del luogo. E’ per noi troppo importante soffermarci ancora sulle immagini, sui particolari di quel passato che fugge via sempre più sbiadito....ancora un poco, ancora un poco...... Poi la percezione vaga, ma tagliente come la lama di un rasoio, di un pomeriggio che sta morendo nell'incedere spietato del tempo, la malinconia che, cumulandosi di ricordo in ricordo, diviene via via sempre più intollerabile, conducono a inevitabile esaurimento la nostra voglia di parlare, il nostro gioco sado-masochistico di proseguire ad affondare la lama nella piaga ormai lacera e straziante. D’un tratto ci troviamo privi di argomenti. Ammutoliamo. Ci spegniamo insieme con il fuoco che è accanto a noi. Nessuno dei due vi getta più legna, nessuno dei due ne getta entro di noi. E, maledizione ! Anche la pipa ha finito per spegnersi. E gli occhi. Persino gli occhi sento spenti a fissare il lento 112 flusso dell’acqua del fiume, in un punto qualsiasi. Non hanno più voglia di scrutare altrove, di guardare qualcos’altro. Solo non hanno più desiderio di guardare. “Enrico..... - la sua voce è sommessa, una vibrazione leggera, un battito di ali di farfalla - ....consentimi di farmi perdonare una grave colpa commessa nei tuoi confronti....ho un rimorso insopportabile.” Come ridestato da un triste sogno mi volto verso di lei. Non ho ben compreso ciò che mi ha detto, il suo significato. Credo di avere uno sguardo interrogativo. “Consentimi di essere cattiva verso di te, come forse non lo sono mai stata. Me lo consenti ?” Insisto a non capire. Non so nemmeno quale chiarimento chiederle per farsi capire. Taccio e credo di avere in faccia l’espressione ebete come quella di chi ha appena visto un alieno. “Ti prego....rispondi solo si o no. Non è uno scherzo. Ahimè, non è uno scherzo, ma una cosa maledettamente seria !” Un crampo allo stomaco. Un’angoscia improvvisa si insinua nella mia anima, come se il mondo mi stesse cascando addosso. Ho il sentore di una rivelazione terribile, di quelle che non lasciano scampo. E non rispondo, non riesco a biascicare uno straccio di parola. “Bene, Enrico..... - diventa serissima -.....me la prendo tutta io questa responsabilità, è giusto così. Ho deciso, sarò cattiva. Ho troppo bisogno di scrollarmi questo peso di dosso.” - Seguono interminabili attimi di silenzio - “La Grecia.....ti ricordi la Grecia ? La prima mattina della nostra ultima sosta in quell’eden meraviglioso.....quando non venisti in spiaggia ?....Non so se tu intuisti qualcosa. Sicuramente capisti che non ti avevo detto qualcosa, che ti avevo nascosto qualcosa. Di questo ne sono certa.” - (Non me lo dire, ti prego, non lo voglio più sapere !) - “Enrico.....ho scopato con un giovane greco quella mattina. Lo conobbi per caso quella mattina stessa. Mi apparve di fronte mentre mi crogiolavo sdraiata nuda al sole. Con l’aiuto della lingua inglese, in versione molto scolastica ma sufficiente allo scopo, ci presentammo, chiacchierammo per un po’, intanto che aspettavo che tu mi raggiungessi in spiaggia. E sì che, sulle prime, rimasi spaventata e sperai davvero che tu scendessi al più presto. Poi, col trascorrere dei minuti, mi tranquillizzai, compresi che era un giovane non dai propositi pericolosi. Semplicemente, attratto con molta probabilità dalla mia solitaria nudità, volle tentare un approccio, un’avventura erotica. Un proposito, direi, normale nella particolare situazione. Man mano che approfondimmo la conoscenza, quell’inaspettato incontro divenne stimolante. Quando 113 mi propose di passeggiare con lui lungo il bagnasciuga, non seppi rifiutare. Capii di essere molto attratta e non volli far nulla per contrastare la tentazione dalla quale ormai ero posseduta. Dopo aver percorso circa un chilometro, fui io stessa a proporgli di addentrarci nella macchia. Il resto lo puoi immaginare, non chiedermi di raccontarti i particolari. Consumammo in un’ora tutta la carica sessuale che avevamo dentro, avvinghiandoci l’un l’altra sulla sabbia, tra i cespugli di ginepro e di lentisco, come due bestie qualsiasi nel periodo di frega. Non sono mai stata capace di controllare le mie pulsioni istintive , in simili frangenti di così intenso rapimento. Non ho mai nemmeno ritenuto giusto farlo. Tu lo sai, lo sapevi, conoscevi bene questo mio modo di essere e di voler essere. In quell’occasione, poi, il giovane mi sembrò davvero molto attraente, era....” “Prestante, dal fisico atletico, capelli neri corti, carnagione scura.....tipica mascolinità mediterranea.” Completo così il suo racconto, scandendo le parole ad una ad una, raccogliendo non so dove brandelli di coraggio. Lei mi guarda perplessa, sorpresa. “Come lo sai ? !” “Lo vidi coi miei stessi occhi.” “Ci hai visto.....scopare ?”, gli occhi sembrano volerle uscire dalle orbite. “Non ebbi l’ardire di verificare se il vostro incontro sarebbe potuto giungere a un tale esito. Quel giorno scesi in spiaggia e vi scorsi di lontano, ero fuori portata dei vostri sguardi. Cercai di rendermi conto della situazione.....vi spiai, se vogliamo dare la giusta definizione al mio comportamento. Proprio così, vi osservai, nascosto da una duna sabbiosa e da alcuni cespugli. Rimasi per alcuni minuti a scrutarvi, poi decisi di tornare in tenda ad attendere il tuo ritorno, sperando che fossi tu a raccontarmi l’accaduto”. “Oh Enrico, Enrico.... ! Perché non sei uscito fuori, non rivelasti la tua presenza ?” “Se l’avessi fatto cosa sarebbe cambiato ? Forse staremmo ancora insieme ? Forse tu non saresti diventata una ricercatrice ? Forse io non avrei mai scoperto di essere un guardone rincoglionito ?” - Con amaro sarcasmo le rivelo tutta la mia sconsolata rassegnazione. Lei aggrotta le sopracciglia, non per indignazione, ma, ovviamente, per chiedere spiegazione del senso delle mie ultime parole. Ho comunque deciso di andare fino in fondo - “Proprio così, Stella. Un guardone. Non ho ancora finito di raccontarti tutta la mia verità di quel giorno. Vi spiai non soltanto perché fui colto da un naturale senso di gelosia, ma anche perché, per la prima volta in vita mia, provai eccitazione a guardare un atto sessuale. O meglio, in quel caso, desiderai soltanto di vederlo, non ebbi il coraggio, come ho già detto, di arrivare fino in fondo. Ciò fu però sufficiente a farmi acquisire la 114 consapevolezza dei nuovi, ‘strani’ desideri, che da allora in poi non mi hanno più abbandonato. Prevalse sul momento la gelosia e la paura di essere scoperto in una situazione imbarazzante. Fuggii in tenda in preda ad un tumulto di forti e contrastanti emozioni. Fantasticai su un tuo possibile amplesso con quel giovane, mi masturbai e provai un piacere.....come dire, ‘sui generis’, senza precedenti, fino ad allora sconosciuto. Si schiuse la porta del mio mondo di perversione, o di ciò che in tal modo si usa definire. In tutte le occasioni successive, e sono state tante, innumerevoli, ha prevalso, tra mille emozioni, il piacere di guardare fino al momento dell’appagamento. E credo che.....” “Quali occasioni ? ?” Il suo sguardo ora rivela sconcerto e stupore. “Quelle che mi sono creato da solo. Quelle che un guardone si cerca per sfogare le sue particolari inclinazioni. Ovviamente l’oggetto di osservazione, il luogo, le condizioni, sono stati, di volta in volta, sempre diversi e sempre intensamente eccitanti.” Mi fermo a riprendere fiato. Ho coscienza di quali e quanti interrogativi imbarazzanti stiano affollando la sua mente, in conseguenza di queste rivelazioni. Strano è che non provo alcun imbarazzo in me stesso. Come se stessi parlando di qualcun altro. La spietata sincerità che ho ritrovato in Stella probabilmente ha scatenato l’esigenza rimossa di confessarmi, superando la barriera del pudore e della vergogna. D’altronde cosa ho da perdere ? Caso mai, ho da guadagnare qualcosa, qualcosa che credevo di aver perso per sempre. Già sto meglio, sto molto meglio. Seguono alcuni minuti di silenzio. Lo stato confusionale delle nostre menti ha bisogno di una pausa riflessiva per rimettere un po’ d’ordine alle idee. Cerco i suoi occhi. Li trovo fissi nel vuoto. Non mostrano più sbalordimento o smarrimento. Hanno assunto un contegno. Denunciano solo amarezza e tristezza. “Sai Enrico......non ho mai dato peso a quell’ora d’amore col giovane greco. Rappresentò un semplice diversivo sessuale consumato interamente in quell’ora, senza strascichi psicologici di alcun tipo, almeno per quanto mi riguarda. Nulla più di una mera gratificazione di una pulsione improvvisa e momentanea, conclusasi al compiersi stesso dell’orgasmo. Ma non credere che stia dicendo questo per giustificarmi o attenuare le mie responsabilità. Ciò che da anni mi divora dentro con i morsi del senso di colpa non può trovare giustificazioni di sorta. Non è il tormento per averti tradito come partner sessuale, aspetto, questo, tutto sommato irrilevante per la mia morale. Ma quello per aver tradito il nostro reciproco impegno alla sincerità. Questo impegno rappresentava un valore - se lo rappresenti ancora non lo so più con certezza - al quale attribuivo la massima importanza. 115 In questo devi credermi.....ho bisogno che tu mi creda. Era un ideale al quale mi sentivo tenacemente aggrappata, come si può esserlo con tutto l’entusiasmo giovanile, al pari di quanto penso lo fossi anche tu.” - (Ti credo Stella, ti credo !) - “Forse è proprio per questo ci ho pensato sopra molto, sai - che l’ho tradito. Ti sembrerà paradossale, ma è proprio per lasciar sopravvivere quell’ideale che l’ho tradito. Ho stupidamente creduto, quel giorno, che rivelandoti l’accaduto avrei compromesso il nostro rapporto, e che quindi non avrei più avuto modo di conservare quel delicato ma affascinante equilibrio che si sosteneva sul presupposto di un’incondizionata sincerità. Col passare dei giorni capii di aver sbagliato, capii che a compromettere tutto era stata proprio l’elusione dell’impegno preso. Non ebbi però più il coraggio di tornare indietro. Ritenni di aver ormai deteriorato irreparabilmente il nostro rapporto e, di conseguenza, sentii venir meno la fiducia negli ideali perseguiti fino allora con entusiasmo e convinzione. Niente poteva riscattarmi. Solo l’espiazione della colpa, in qualche modo, poteva restituire la fiducia in me stessa. Solo la solitudine, solo.....” “Non credere di essere l’unica ad avere colpe. Anch’io ho commesso il tuo stesso identico errore. Non ti parlai, non ti rivelai ciò che avevo visto. Non cercai in alcun modo di aiutarti a mantenere l’impegno. Impossessato da un ridicolo orgoglio non ti costrinsi con la sincerità alla sincerità, perché ritenni mi fosse assolutamente dovuta prima di restituirla, invece che il contrario. Avrei dovuto rivelarti quanto avevo visto, per invogliarti a rivelare quanto nascondevi. La sincerità tra persone si costruisce non ritardandone mai l’applicazione, in una rincorsa continua, di chi vi partecipa a costruirla, per farsene promotore. Questa, credo, sia la lezione che ho appreso dal fallimento del nostro esperimento. E anch’io ho voluto espiare con la solitudine la mia colpa. Non potevamo continuare a stare insieme. Continuare a vederci significava continuare a sputarci in faccia il nostro fallimento.” “Enrico.....perdonami !”, si accascia con il corpo sulle mie gambe, singhiozza, bagna di lacrime i miei pantaloni, trema come una bambina tra le braccia della mamma. Le accarezzo la nuca. “Non piangere !”, le dico con voce rotta dal pianto. E le mie lacrime si posano sulle sue spalle. “Credo di averti già perdonato prima ancora di riuscire a perdonare me stesso. Per quanto poi ci possa servire il perdono !” Sono affranto, distrutto, commosso, ma non riesco a trattenere la lucida logorrea che mi ha preso, la voglia di esternare tutto ciò che ho dentro. 116 “Anzi....ti devo ringraziare. Devo a te, alla tua sincera voglia di sincerità, se torno ad essere sincero fino in fondo con qualcuno. Davvero Stella ! Guardami.....”, tento di sollevarle la testa per costringere il suo sguardo ad incrociare il mio. Obbligo le mie labbra ad un improbabile sorriso tra la pioggia di lacrime, ma ella non ne vuol sapere niente, non vuol ascoltare niente, nasconde il suo viso tra le mie cosce. “....Guardami Stella.....in fin dei conti abbiamo vinto la nostra battaglia, con molta sofferenza, mutilando la speranza, la fiducia, la vita stessa, ma alla fine abbiamo ricongiunto una catena spezzata....” “E’ la vittoria di Pirro ! Enrico....quanti anni della nostra vita gettati alle ortiche.....” “E’ vero, troppi morti sul campo di battaglia, ma la posta in gioco era grande.....è grande ! Forse è necessario conoscere la vertigine del non essere, dell’annientamento, per tornare ad essere, ad avere fiducia, ad avere speranze. Ora, grazie a te, torno ad avere fiducia che qualcosa nella vita valga la pena di essere vissuta. Tra le bufere che il tempo ci tira addosso, qualcosa persiste, riesce a sopravvivere, e finalmente non più solo nel ricordo, ma nella realtà vera di tutti i giorni. Pensaci, Stella.....abbiamo chiuso un ciclo che ci sembrava essere stato eternamente interrotto. Abbiamo colmato un vuoto insopportabile. Ora forse abbiamo espiato le nostre colpe, ora si apre un nuovo ciclo della nostra vita.....” “Già, abbiamo chiuso un ciclo.....” Mentre le accarezzo i capelli, i suoi singhiozzi si attenuano e poi cessano del tutto. Cessa d’incanto anche la mia voglia di coprirla di parole, di verità. Credo di averla detta tutta la verità, sono esausto e, per la prima volta dopo tanto tempo, appagato. Anche lei sembra esausta, forse appagata. Si lascia trastullare a lungo dal tocco leggero delle mie dita. Il vento caldo che ancora soffia, cancella le ultime tracce di bagnato sui nostri volti. E ci porta piccoli granelli di sabbia, foglie secche di cerro, l’odore selvaggio del limo del fiume. La densa nuvolosità del cielo rende precoce il calare delle ombre serali. I particolari in lontananza già non si distinguono più. Il piumaggio pettorale bianco di un uccello, che vola alto e tranquillo sopra le nostre teste, sfruttando la spinta delle correnti aeree, ridesta la mia attenzione, risveglia i miei impulsi vitali. “Guarda là, Stella !”, le indico quella sagoma in cielo. Si solleva di scatto. Sorride. Finalmente torna a sorridere, di un sorriso ingenuo e fanciullesco. “Che bello !....Cos’è Enrico ?” “Un barbagianni.....questo è il loro momento di darsi alla vita, come lo è per tante altre specie animali.” 117 E’ bello davvero il volo di quell’uccello. E’ bello lo scorrere leggero delle acque, questo paesaggio di rilievi collinari, il fruscio delle fronde degli alberi smosse dal vento, il pietrisco calcareo che ancora spicca ovunque nella scarsità di luce serale, questo momento di abbandono alla deriva della civiltà. Qui insieme a Stella. Alla mia Stella di un tempo che credevo di aver perso e che ho invece felicemente ritrovato. Cosa potrei mai chiedere di più bello alla vita ? Ma è tardi, è ormai troppo tardi. Il buio sta sopraggiungendo, è ora di tornare, è ora di tornare..... “Stella.......si è fatto tardi. Se non ci muoviamo subito rischiamo di non trovare più il sentiero di ritorno, al buio. Non possiamo contare sull’aiuto della luce lunare.....” Lungo il cammino di ritorno non ci scambiamo nemmeno una parola. Una breve sosta sulla tomba di Cucciolo. Ancora si riesce a leggere l’epigrafe. Fissiamo lo sguardo sulla tavola incisa. Percepisco la sua voglia di piangere di nuovo, sicuramente pari alla mia. Ma si trattiene, ed io faccio altrettanto. Non c’è più nemmeno il tempo di piangere. “Ciao Cucciolo......”, un sussurro portato via dal vento. Solo l’avvistamento di una volpe, che fugge a piè sospinto verso un qualche rifugio con una preda ben stretta tra i denti, riesce a strapparci ancora poche parole di commento, ma senza più neanche l’entusiasmo che in altra occasione ci avremmo di certo speso. Poi più nulla, niente più parole, non comunichiamo nemmeno con gli sguardi. L’unico messaggio che congiunge le nostre lunghezze d’onda percettive è, forse, il desiderio reciproco di evitare un sovraccarico emotivo a quel senso di sfinimento psicofisico, dal quale, alla fine di una giornata così carica di stimoli e passioni, credo sia inevitabile per entrambi lasciarsi sopraffare. Più niente durante il percorso in macchina fino in città, fino a sotto casa della madre di Stella. Arresto la corsa, lei apre lo sportello in una sorta di trance abulico, con gesti di estrema lentezza. Scende, apre il portellone del portabagagli, ne estrae il suo zainetto, torna allo sportello anteriore lasciato aperto, si china protendendo il capo verso l’interno dell’abitacolo. I suoi occhi brillano per un riflesso della luce di un lampione. “Ciao Enrico.....spero di rivederti in futuro. Con molta probabilità, durante le festività natalizie o, tutt’al più, durante quelle pasquali, farò ritorno in visita a mia madre, e per concedermi un periodo di riposo, magari più lungo.....ti troverò ? Ti potrò cercare ancora ?” “Mi dovrai assolutamente cercare, se non vuoi che mi offenda...” - riesco a forza a sorriderle - “...sai dove abito, sai dove lavoro, conosci i miei numeri di telefono di casa e di ufficio, sempre gli stessi, e dunque.....non avrai scuse per evitarmi.” 118 “Puoi stare tranquillo. Lungi da me l’intenzione di evitarti, dopo la splendida giornata che abbiamo passato insieme oggi ! Ci sono ancora tante cose che dobbiamo dirci....non credi ? Inoltre, nei prossimi giorni, riceverai le pubblicazioni del mio gruppo di lavoro. Pretenderò le tue impressioni dettagliate, quando ci rivedremo. Ci tengo molto.” “Le avrai senz’altro......a proposito....ti auguro un gran successo professionale, te lo meriti, ne hai le doti....” “Oh....grazie, grazie. Esageri sempre coi complimenti....e comunque sono già felice dei risultati che ho ottenuto, non pretendo di raggiungere chissà quali vette. Tu, piuttosto, promettimi una cosa : promettimi che farai del tutto per....non morire da impiegato. Tu meriti davvero molto di più dalla vita. Se insisti sono sicura che riuscirai ad ottenerlo. Non ti arrendere......me lo prometti ?” “Sai bene che sono pessimista. Non mi faccio illusioni, la realtà nella quale sono rimasto intrappolato è assai difficile da scardinare. Ma puoi star certa che la mia volontà di non piegarmi ad essa, non verrà mai meno. Poi, l’incontro che ho avuto con te, di certo ricaricherà il mio entusiasmo, che ultimamente, lo confesso, si era un po’ affievolito. Sento già di aver ripreso fiducia nella vita. Qualcosa di buono, magari alla lunga e dopo molte sofferenze, riescono a produrlo i nostri sforzi. Oggi ne abbiamo avuto una prova. Puoi star certa......non mollerò.” Alcuni attimi di silenzio, di panico. I nostri sguardi rimangono incollati l’uno all’altro. Non vorrebbero più staccarsi. Lei sorride per non piangere, io faccio altrettanto. Poi..... “Allora.....ciao, Stella.” “Ciao.....Enrico.” “Ciao.” Sbatte lo sportello e rimane fuori in piedi immobile. Rilascio la frizione e parto. Punto in avanti, sempre in avanti...... Addio Stella ! Ora so che non ti vedrò più. Mi hai ridato coraggio, un grande coraggio. Ora, tutto sommato, mi fa un po’ meno paura persino morire da impiegato. 119 CAPITOLO VIII “BLOWING IN THE WIND” Questa mattina ho preso coraggio e glielo detto. Era ormai divenuto da tempo un chiodo fisso. Me ne volevo assolutamente liberare. Non che Francesca costituisca per me un oggetto del desiderio di particolare significato. Tanto meno perseguo finalità, come si suole dire, “serie” e di lungo periodo che in qualche modo possano coinvolgere la sua persona. E’ un oggetto del desiderio nudo e crudo, nel senso letterale del termine, senza altre prerogative, della medesima rilevanza con la quale l’oggetto donna infinite altre volte ha stuzzicato la mia libido. Col passare degli anni si è verificato un progressivo inaridimento dell’aspettativa sentimentale, e soprattutto spirituale, nei confronti dell’altro sesso, che pure avevo intensamente cullato in età adolescenziale e oltre, come credo sia normale per tutti gli esseri mortali in questo periodo della vita. E’ vero, ogni tanto torna a farmi visita quell’angelo del passato, la dolce Mary delle mie passioni giovanili. Ma sono cosciente - come potrei non esserlo - che rappresenta in gran parte solo un residuo immaturo e fantastico della mia storia, un modello immaginario di amore, un idealtipo senza alcuna rispondenza alla realtà che ho di fronte tutti i giorni. E’ fuor di dubbio che la svolta decisiva in questo senso - ovvero nel senso di un progressivo disincantamento delle mie aspirazioni amorose - si è prodotta nella dolorosa risoluzione del rapporto con Stella. Ma a farmi via via arenare nelle sabbie di questo deserto privo di sentimenti, ha contribuito anche l’esperienza della “pochezza”, dell’inconsistenza, della superficialità delle relazioni che ho intrattenuto con tutte le altre donne conosciute. Una dopo l’altra, queste relazioni, hanno sfiancato la fragile disposizione idealistica di gioventù, hanno bruciato anche la più tenue speranza di poter coltivare altri interessi per le donne, oltre quello per la mera gratificazione sessuale. Un pessimismo senza rimedio si è così impadronito della mia anima, se ancora anima c’è. Alla faccia del femminismo, molti potrebbero pensare, il quale sembrerebbe aver restituito alla donna la dignità di “soggetto” al pari dell’uomo, consentendole di svincolarsi dal ruolo di semplice oggetto del desiderio sessuale, nel quale erano state da sempre relegate. Nella realtà dei fatti, nel piccolo della mia esperienza di vita, ho conosciuto pochissime donne che si sono lasciate desiderare per scopi diversi da quelli sessuali. Non penso di essere stato sfortunato. Al contrario, ho l’impressione, direi quasi la convinzione, 120 di potermi ritenere veramente fortunato se solo riuscissi a provare, almeno una volta ancora, avvincenti emozioni sentimentali per l’altro sesso. Mi sono fatto una precisa idea in proposito. Molto spesso le donne, per farsi spazio nella società, o semplicemente per assicurarsi condizioni di vita di agiatezza, sfruttano la propria capacità di attrazione sessuale nei confronti del maschio come arma principale, sicuramente come l’arma più efficace della quale dispongono. D’altronde è scarso l’impegno, in termini psico-fisici, che essa richiede per essere utilizzata. Occorre solo superare certi scrupoli morali, impiegare un po’ d’astuzia per aggirare le trappole maschiliste che potrebbero condannare al pubblico ostracismo (venire additate come puttane), e mettere in campo una discreta dose di ambizione. Questo armamentario comportamentale è adottabile da qualunque donna con minimo dispendio di energie, almeno in confronto a quello richiesto per costruire, affinare e riuscire ad affermare le proprie capacità umane, artistiche, professionali in una società cruentamente competitiva, ancora dominata e controllata dal maschio. Volerlo e saperlo adottare, potrebbe consentire un rapido accesso alle “porte del paradiso”, alla sicurezza e alla protezione, al privilegio e al successo. A me pare che tantissime donne prediligano tuttora, nonostante il femminismo, questa scelta, vuoi per comodità, vuoi per supino adattamento, irrazionale e acritico adeguamento alla norma non detta e non scritta, vuoi spesso anche per cinico, freddo e arrivistico calcolo razionale. Fatto sta che è ormai da un bel pezzo che ho smesso di sognare l’incontro con la compagna della mia vita, che prima di addormentarmi sotto le coperte non riesco ad inventare favolose visioni di amori travolgenti. La disillusione ha lentamente preso il sopravvento, mi ha tarpato le ali del sogno. Ma forse questo è anche il sintomo non rimandabile di una vecchiaia incipiente. Francesca non fa certo eccezione a questa casistica. Ella rappresenta dunque il mio oggetto sessuale del momento. E’ un’attraente donna di 38 anni che, nella sua condizione di divorziata senza prole, incentiva in me lussuriosi, quanto ovvi, desideri e propositi erotici di conquista. Tanto più che penso, o meglio, l’ho pensato fino a stamattina, di non risultarle affatto indifferente. Da quando, su sua richiesta, è stata trasferita nel settore in cui opero, e cioè da circa un anno, occupando il vano contiguo al mio rimasto sgombro, sono capitate tantissime occasioni nelle quali ho captato distintamente segnali, come dire, di “disponibilità”. Quaranta anni di vita mi hanno ben insegnato a comprendere come certi sguardi, certi atteggiamenti, certe prese di contatto malamente mascherate, significhino assai più di quel che vorrebbero apparire ; anche se si è trattato di disponibilità a lasciarsi corteggiare, giammai trasformatasi in esplicita rivelazione del desiderio. E’ quella forma di 121 comunicazione implicita, non verbale, prigioniera di se stessa, ipocrita, con la quale molte persone, soprattutto donne, “manifestano” voglie inconfessabili, richiamando l’altrui attenzione, ma sottraendosi nel medesimo istante alle responsabilità verso le eventuali conseguenze che ne potrebbero scaturire. Proprio l’esatto opposto del modo in cui comunicava con me la piccola Mary, o meglio, di quel modello di comportamento che ho idealizzato. Infatti, non potrei mai dire, in tutta onestà, che quel suo adorabile carattere non fosse anche, o soltanto, il frutto immaginario di una mia sublimazione inconscia. Mi sembra di ricordare, così desidero ricordarlo, il suo sguardo imbarazzato, la sua timidezza, il suo autentico nascondimento di sé, che, invariabilmente, tramutavano subito dopo in completo e incondizionato abbandono ad una libera espressione del desiderio (oh ....mia cara, libera Mary !). Comunque sia, rare volte ho potuto apprezzare in una donna un comportamento del genere o, quanto meno, una qualche forma di rispondenza e consequenzialità dell’agire, dell’essere, al volere e al desiderare intimamente custoditi e, spesso, comunicati solo mediante insopprimibili meccanismi primitivi di segnalazione. Mi viene in mente sempre e soltanto Stella. Certo anche quella “disponibilità” limitata, comunicata ma non espressa in forma esplicita, produce l’effetto di accendere il desiderio del soggetto cui è rivolta. Ma in me ha sempre anche prodotto incertezza, incapacità di decisione, tanto che, nella maggior parte dei casi sperimentati, ho finito per abbandonare ogni proposito. Talvolta, dopo molta ritrosia, ho tentato l’approccio, ottenendo per lo più effetti fallimentari, forse perché tardivo e poco convincente, o anche goffo e di una ridicolezza scoraggiante. D’altronde so abbastanza bene di non possedere le qualità estetiche e comportamentali del “play boy”. Poco male, considerato che non ha mai fatto parte delle mie aspirazioni quella di poterlo diventare, anche se ho sempre apprezzato la più libera e disinibita giocosità nei rapporti tra i sessi. Ormai l’indecisione a farmi avanti, a tentare un’avventura sessuale con Francesca, perdura da mesi e, tenuto conto del fatto che il passare del tempo ha sempre giocato a mio sfavore, mi sono riproposto di darci un taglio. Questa mattina, nonostante un certo malessere generale avvertito appena destato, un senso di spossatezza e debolezza in tutto il corpo - una probabile influenza in arrivo o forse l’accumulo di stanchezza dovuta ad una perdurante insonnia - ho rotto l’indecisione. Vada come vada, mi sono detto, la inviterò ad uscire nel pomeriggio con me, magari per un’escursione all’aperto.....alla faggeta.....perché no ? E’ davvero incantevole il suo austero silenzio invernale e persino idoneo per attuare 122 con discrezione e indisturbatamente i miei scopi. Chissà cosa ne penserà delle passeggiate nei boschi, mi sono chiesto ! Tant’è che non sapevo proprio quale altro intrattenimento offrirle, dato che è da moltissimi anni che ho smesso di frequentare qualsivoglia locale pubblico e, pertanto, ho pensato che, accompagnandola in uno dei tanti ritrovi della città, mi sarei sentito sicuramente a disagio, come un pesce fuor d’acqua, con il rischio di risultare noioso e inconcludente. No, meglio la faggeta, ho optato per questa soluzione, confidando così di poter anche appurare il suo livello di sensibilità per la natura (per la verità non ha mai manifestato peculiari inclinazioni in tal senso). Approfittando di una interferenza tra le rispettive competenze di lavoro, in relazione ad una pratica che sto svolgendo da alcuni giorni, e dell’assiduità con la quale ci incontriamo per discuterne, le ho proposto una pausa per prendere un caffè nello spaccio interno della sede amministrativa. “Sì, ne ho proprio bisogno Enrico, oggi mi sento poco lucida.” A chi lo dici ! Ho pensato dentro di me, riflettendo sullo stato di spossatezza crescente che mi trascinavo addosso dal primo mattino. Era appetitosamente sinuosa in quel tailleur colore arancio spento. I suoi affluenti glutei debordavano provocatoriamente dal piccolo sedile girevole posto davanti al bancone del bar. La gonna strettissima e le gambe accavallate, scoperte e avvolte da eccitanti calze nere trasparenti. Teneva il busto eretto ad evidenziare il suo seno ben modellato, sotto una camicetta bianca col colletto merlettato. Con i gomiti era appoggiata al bancone e mi fissava tranquilla, mentre esponeva i problemi incontrati nella pratica di lavoro che ci riguardava. Si è interrotta per alcuni secondi volgendo lo sguardo sulla tazzina, sorseggiando il caffè. Appena deposta la tazzina, si è di nuovo rivolta verso di me per continuare il discorso. Il suo gesto repentino mi ha colto impreparato......nel senso che non avevo fatto in tempo a sollevare lo sguardo puntato sulle sue gambe, prima che lei volgesse il suo verso di me. Accortasi del fugace abbandono alla sensualità che mi ero concesso ha abbassato le palpebre, fingendo di guardare a terra e di conservare disinvoltura nell’esposizione degli argomenti. Si è dimostrata abile nel non lasciarsi disorientare più di tanto, ha alzato di nuovo gli occhi, ha proseguito imperterrita a parlare, ostentando sicurezza, soprattutto quando si è resa conto dell’imbarazzo che di certo imperversava sul mio volto. Mi sentivo un idiota. Perché avevo lasciato trapelare il mio desiderio, ma soprattutto perché avevo manifestato di vergognarmi del desiderio, e poi di vergognarmi della vergogna stessa. Ma perché poi vergognarsi di palesare i propri desideri ? Perché è 123 così difficile trovarsi, nell’agire, in sintonia con il sentire, con il provare emozioni, con il desiderare ? Ho sempre odiato questa incapacità, comune un po’ a tutti gli uomini, di essere coerenti con noi stessi, di essere conseguenti, nei fatti, ai pensieri e ai desideri. Ho interrotto bruscamente il suo discorso, in un gesto impulsivo di ribellione contro il potere della timidezza e della soggezione, per dimostrare, tanto a me stesso quanto a Francesca, di non aver nulla da nascondere, niente di cui vergognarmi. Non ho nemmeno esitato a soppesare preventivamente le possibili conseguenze di quello che avrei detto. “Suppongo tu sappia di avere delle bellissime gambe, Francesca, ma non posso fare a meno di confermartelo. Sei davvero molto sensuale.....eccitante....” Lei ha mostrato un sorriso di compiacimento, restando però tranquilla, distesa, quasi si aspettasse questa mia sortita. Comunque è risultato subito chiaro quanto fosse abituata a simili edulcorazioni da parte degli uomini. Non mi è parso un motivo sufficiente per demordere dall’intento, anzi. “...E’ difficile, sedendoti accanto, conservare un’assoluta indifferenza....non si può.....non riesco a far finta di niente !” “Ti ringrazio per la gentilezza....solo....mi fai sentire un po’ in imbarazzo...” - In realtà non sembrava affatto imbarazzata, al contrario, ho avuto l’impressione di trovarmi di fronte ad una commediante che finge imbarazzo e incassa, senza neanche mostrarsene eccessivamente lusingata, l’ennesimo complimento - “....ti stavo parlando di quella pratica....ho perso il filo.....dove ero arrivata ?” Non mi sono soffermato a riflettere - e forse qui ho sbagliato - su questo atteggiamento sgusciante, mirato probabilmente a scoraggiare un possibile quanto indesiderato approccio di corteggiamento più spinto. Coltivavo un fermo proposito di andare avanti fino in fondo, una volta per tutte, e l’opera era ormai quasi compiuta. Così, sempre d’impulso - certamente alla solita goffa maniera - le ho rivolto l’invito, impedendole di riprendere il discorso di lavoro. “Francesca....desidero da molto tempo trascorrere un pomeriggio con te.....che ne diresti di accompagnarmi oggi in una passeggiata.....non so.....ad esempio potremmo andare....” Non mi ha lasciato finire. Dal tono della voce ho finalmente compreso che questo era il punto al quale ella non avrebbe voluto arrivare, per risparmiarsi un complicato e gentile diniego. Complicato perché non è facile inventarsi una scusa credibile, così su due piedi, quando si è impreparati ; gentile perché, evidentemente, non intendeva frapporre disturbi emotivi di alcun genere nel rapporto di lavoro. 124 “Oh, Enrico......Ti ringrazio anche per l’invito, ma oggi ....e forse per altri pomeriggi ancora, ho degli impegni con mia sorella.....sai devo recarmi da lei per risolvere delicati problemi di famiglia. Ti assicuro che sarebbe sconveniente se non andassi....” - Ho capito che non era assolutamente il caso di insistere - “ ....Forse potrei convincerla a rinviare l’incontro, ma ti confesso che non nutro molte speranze di riuscirci. E’ così ostinata e rigida mia sorella ! Ascolta.....facciamo in questo modo : mi metterò in contatto con lei ed eventualmente riuscissi a convincerla....be’....ti telefonerò subito dopo pranzo. Ti troverò a casa, no ?” “Certo....d’accordo.” Mi sono sentito amareggiato e ridicolo. Era difficile continuare a guardarla negli occhi. “Bene, allora magari ci sentiamo nel primo pomeriggio.....tornando al discorso di prima, stavo dicendo che.....” L’ho lasciata proseguire a parlare senza più interromperla, annuendo di tanto in tanto, non curandomi nemmeno, tanta poca era la voglia, di capire cosa stava dicendo. Ora mi sto facendo trasportare, solo ancora una volta, dalla mia station wagon. Non provo le solite tentazioni diaboliche di spingere il piede sull’acceleratore. E’ ovvio che non ho certo atteso l’improbabile squillo di telefono a casa. Anche avesse squillato, dopo che sono uscito, non posso e non mi interessa di saperlo. Francesca è già una storia chiusa, prima ancora di essere mai stata aperta. Sono depresso, come raramente mi capita quando sfreccio, frustato dalle note di rock, verso il mio mondo selvaggio. Forse perché - a parte il “bidone” rifilatomi da Francesca - accuso dalla mattina una debolezza fisica che si sta accentuando col passare delle ore e che mi procura ora addirittura un certo affanno. Forse anche perché sto ascoltando con lo stereo, per una precisa, emotiva scelta, non le note furibonde di un rock duro e graffiante - come faccio di solito all’andata delle mie escursioni - ma le melodie struggenti e malinconiche che di solito ascolto al ritorno. In questo momento, ormai giunto nei pressi della vetta del monte Orsola, ammantata dalla sua stupenda faggeta centenaria, le note di “Blowing in the wind” stanno sbriciolando ogni mia resistenza inconscia al dolore. Quanti ricordi sono legati a quelle note ! In un susseguirsi frenetico di immagini e sensazioni mi tornano alla mente alcuni frangenti inebrianti della mia adolescenza : facce mai più riviste, capelli lunghi, camicie a fiori, ideali urlati nelle piazze, chitarre strimpellate tra compagni di fede nelle calde notti d’estate, il fascino della ribellione contro la realtà costituita, le prime minigonne e gli abiti laceri, i viaggi in “autostop”, lo spinello che, di tiro in tiro, passava sulle labbra fameliche 125 di tutto il gruppo, il mito dell’amore libero, le canzoni di protesta e le prime esperienze amorose, l’impegno politico e i volantinaggi davanti ai portoni delle scuole, le riunioni e le assemblee di movimento, le bandiere al vento e i lacrimogeni della polizia e ......via di seguito in un turbinio inarrestabile. (Ma perché vado a rimestare con insistenza nel passato ? Perché ho così voglia di riascoltare Bob Dylan ? Perché....). Per fortuna sono arrivato ! Arresto la macchina, spengo il motore, interrompo gli strazianti richiami di un’epoca sepolta. Quando apro lo sportello e metto i piedi a terra un vento freddo e ululante mi investe e mi fa rabbrividire. Abbottono il pesante giaccone trapuntato e imbottito, sollevo il bavero. Non posso fare a meno di sorridere : nel mio cervello si è formata l’immagine ridicola di Francesca, inserita in questo contesto, col suo tailleur colore arancio e gli altissimi tacchi a spillo. (Riesco a vederla solo così aliena dal mio mondo selvaggio ? Meglio che non sia venuta, avremmo fatto entrambi una figura da stronzi !) Lascio la macchina solitaria nel parcheggio d’accesso, che solitamente d’estate è colmo all’inverosimile. Non a caso non scelgo mai questa meta nel periodo caldo e nei giorni festivi. La confusione prodotta dalle masse di turisti, amanti del picnic all’aria aperta, distrugge l’incantesimo di questo meraviglioso bosco. D’altronde assai raramente cerco compagnia per le mie escursioni. E’ da solo che in simili ambienti riesco a godere degli elementi che ne compongono lo scenario, quando non sono distratto e disturbato da condizionamenti del mondo civile. E di buoni compagni che sappiano non provocare disturbo ne ho conosciuti pochi. Mi incammino lungo il sentiero che si arrampica fino alla sommità. Se non fossi così a terra fisicamente, sarebbe una giornata ideale per godere del fascino del luogo. Il cielo è di una nuvolosità compatta e plumbea. Un forte vento di ponente impedisce la caduta della pioggia. Le improvvise folate di vento, con la loro violenza, piegano le cime alte dei grandiosi faggi ormai completamente spogli, e le foglie secche si sollevano da terra, formando qua e là dei mulinelli. Queste folate emettono un urlo terribile, che non spezza però l’atmosfera silenziosa del luogo, al contrario, la rinforza per contrasto, conferisce ad essa un’austerità misteriosa, a tratti spaventosa. Rimane da sfruttare appena un’ora e mezza di scarsa luce, mentre arranco per il sentiero. I miei passi, incredibilmente stanchi, affondano nel tappeto di foglie che si è formato ovunque. Non un uccello si sente cantare o si scorge in volo. Nessun insetto si vede a terra o sulla corteccia argentea dei grandiosi fusti di faggio. Non avverto la presenza di alcun animale. Uno scenario, questo, del tutto scontato, considerato il luogo e il periodo, sempre tristemente lugubre. Spesse 126 volte, quando mi ritrovo qui, al primo impatto mi sento stringere in una morsa oppressiva, quasi asfissiante, a tal punto che ho l’impulso di scappare. Poi, al posto dell’angustia, subentra invariabilmente un’attrazione fatalistica. Ho come la percezione di dover subire una condanna, dalla quale non posso né voglio sfuggire, sento il bisogno di espiare una sorta di punizione, piovuta addosso per un’inspiegabile ragione, di concedermi ad essa senza tentennamenti. E’ un desiderio perverso di consegnare l’anima al dolore, invece che di proiettarla alla ricerca della gioia e della felicità, come normalmente accade. Ma cosa è normale, cosa è perverso ? Ogni volta mi domando. Quella dimensione terrificante è mia, alberga da sempre dentro di me, inutile nasconderla. E’ normale eludere e perverso appropriarsi di ciò che esiste in noi ? In ogni caso, non voglio sfuggire a quel contatto malefico, ora più che mai sto scivolando inarrestabilmente verso di esso, fino in fondo. Continuo a salire, i passi sempre più lenti, la gambe sempre più pesanti. Il forte vento aiuta a spingere aria nei miei polmoni. Immensi ammassi di roccia lavica costeggiano il sentiero e compongono un aspro, duro paesaggio, su fino alla vetta estrema. Il colore grigio scuro della roccia, interrotto a tratti dal verde del muschio e del lichene, gli anfratti, le asperità, le cavità più o meno profonde, le erosioni prodotte dagli agenti atmosferici sulla pietra in infinite e spettacolari forme, si apparentano, senza soluzione di continuità, con la cupa atmosfera del bosco. Quante volte mi sono arrampicato su quelle rocce, scrutandone i più reconditi nascondigli alla ricerca di tracce animali ! La tentazione di ripetermi è forte, ma è altrettanto forte la debolezza che provo, da scoraggiarmi e costringermi alla rinuncia. Ora avverto anche un dolore al petto. Mi fermo a riprendere fiato - sarà l’aria che inspiro a grosse boccate.....un’aria così fredda....in città era tutt’altra cosa. Pochi secondi, solo pochi secondi, che attenuano ma non fanno cessare completamente l’affanno e il dolore al petto, e riprendo a camminare. (Voglio arrivare....devo arrivare alla vetta !) La pesantezza nelle gambe sta diventando insostenibile, le trascino per la volontà quasi disperata di arrivare, è come se trascinassi dei pesanti macigni attaccati alle caviglie. I rami alti degli alberi sbattono l’uno contro l’altro, crepitano, i più secchi si spezzano, cadono sul manto fogliare producendo tonfi ovattati. Il cielo è sempre più scuro, la visibilità si è ridotta sensibilmente. Gli enormi spazi aperti, vuoti, privi di arbusti e di sottobosco, formano declivi, ondulazioni e avvallamenti del terreno a perdita d’occhio, dove solo i maestosi tronchi di faggio si ergono, con le loro sagome spettrali. Pochi ma ben visibili giganteschi fusti sono distesi a terra, con le radici divelte, rivolte al cielo, che hanno lasciato grosse buche nel terreno, là dove prima, per centinaia d’anni, alloggiavano 127 saldamente. Poi anche qualche fusto funereamente troncato a metà, con la parte ancora eretta tempestata di mensole fungine lignee. Sembra incredibile, ma anche su questi vetusti giganti si abbatte impietosa, prima o poi, la fine. Forse un timore reverenziale ha, per il momento, frenato la brama umana di impossessarsene per scopi speculativi. La pregevolezza del legno di faggio è notoria. Eppure, non so per quanto ancora, ma questi colossi inerti sono qui a lasciarsi consumare lentamente dalla pioggia, dal vento, dai morsi dei parassiti. Non ho la forza nemmeno di abbandonarmi alla commozione che, di solito, mi prende dinanzi ad una così vistosa dimostrazione di caducità. Una terribile folata di vento mi getta addosso foglie, polvere e altre particelle di humus. Chiudo gli occhi per proteggerli ed espongo la nuca al potente flusso d’aria. Il dolore al petto è persistente, adesso è divenuto acuto. Vi appoggio il palmo della mano destra, mentre con le labbra spalancate tento di catturare quell’ossigeno di cui ormai percepisco un’eclatante insufficienza. Sento delle vampe di calore al volto e cado in balia del panico (non ce la faccio....debbo fermarmi ! Cos’è questo dolore ?). Mi accascio a terra sedendo accanto ad un fusto di faggio, sul quale appoggio a peso morto prima la schiena, poi la testa. Il dolore al torace è potente, quasi irresistibile, aggrotto le sopracciglia, la bocca sempre aperta per pompare, ma invano, ossigeno, in una smorfia di spavento. Il vento continua a fischiarmi nelle orecchie, ma il sibilo mi giunge attenuato, quasi fosse lontano, quasi fosse quello di un leggero alito. Dei flash, delle immagini......delle voci....... “Enrico.....passami la palla !”. Il sole è accecante, cocente, in una giornata d’estate che non vuol finire mai... “...giochiamo con le cerbottane...dai, facciamo la guerra....noi tre contro.....” Che bello ! Che magnifica, travolgente sensazione di deja vu ! Corro con i compagni nei vicoli del quartiere e sento di essere invincibile. “Ascolta che tuoni !” Una pioggia impetuosa si abbatte sul mio piccolo mondo, i lampi squarciano il cielo, i vetri della finestra vibrano al seguito delle scariche assordanti, e io rido, rido tranquillo insieme a mia sorella al di qua di quei vetri, dietro un riparo indistruttibile. “Guarda quante lucciole....inseguiamole !”, mille lumicini intermittenti ondeggiano frenetici tra le siepi del giardino, in quella tiepida, incantevole notte delle notti. E anche la paura....che bello lasciarsi afferrare da quella paura, e piangere, perché so già chi senza ombra di dubbio saprà scacciarla via... “..mamma....guarda come sanguino dal ginocchio...”, “...non ti preoccupare caro, non è niente, ora ti medico la ferita e passa tutto...” “Mamma.....dove sei ?” 128 Ora non odo più rumori, non odo più voci, non avverto più alcun dolore, né fisico, né mentale. Sono in un’estasi senza fine e senza tempo. E non ho più paura, non ho più alcun motivo di aver paura (ora so che cosa voglio....so che cosa ho rincorso per tanto tempo....so cosa sto cercando !). Davanti a me ci sono prati coperti di fiori, quanti fiori ! Uccelli che volano, animali che saltano, serpenti che strisciano, alberi enormi, foglie che vibrano, fiumi che scorrono....i monti....il cielo..... “...mi...vorrete...con voi.... ?...mi sentite.....come uno di voi .... ?” Nessuno risponde. Tutto è silenzio. Ma io sorrido, ho voglia di sorridere. “Mamma.....dove sei ?....Stammi vicina....” Solo il vento riesco a percepire, una carezza interminabile tra i capelli, le sue note melodiose che sussurrano : “Abbi coraggio, la verità soffia con me....abbracciala !” Ancora uno sforzo, tendo le braccia, e il vento mi porta via con sé. 129