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RASSEGNA STAMPA
mercoledì 28 ottobre 2015
L’ARCI SUI MEDIA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ESTERI
INTERNI
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
DIRITTI CIVILI E LAICITA’
SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
CULTURA E SPETTACOLO
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Io Donna (iodonna.it) del 28/10/15
Solidarietà dimenticata
FUORI VERBALE E' durata evidentemente poco l’emozione per la morte
di Aylan, il bambino siriano ritrovato sulla spiaggia di Bodrum dopo il
naufragio
di Fiorenza Sarzanini
E’ durata evidentemente poco l’emozione per la morte di Aylan, il bambino siriano ritrovato
sulla spiaggia di Bodrum dopo il naufragio del barcone che doveva portarlo in salvo
insieme con la sua famiglia. Perché neanche un mese è trascorso da quella tragedia e la
solidarietà promessa ai migranti che fuggono dalla guerra appare già dimenticata.
Gli impegni presi dai leader degli Stati occidentali ad accogliere migliaia di persone
sembrano già annullati. Anche in Italia. Gli hotspot che l’Europa ci ha imposto di aprire
come centri di smistamento dove identificare e fotosegnalare
gli stranieri rischiano di trasformarsi in vere e proprie strutture di detenzione. E questo
nonostante i trattati internazionali prevedano esplicitamente la libertà di movimento per chi
richiede asilo.
Un pericolo già denunciato più volte dalle associazioni di difesa dei diritti umani e dall’Arci
che chiama alla mobilitazione proprio per evitare «il ricorso a metodi poco o per niente
rispettosi dei diritti delle persone, in cambio della riallocazione di qualche migliaio di eritrei
e di un po’ di soldi».
Il problema è sin troppo evidente. La procedura stabilita in sede europea prevede infatti
che «non potranno uscire dagli hotspot le persone che non si lasceranno identificare e
questo vuol dire obbligarli a fidarsi delle procedure e dei tempi di trasferimento nonostante
ad oggi ci siano persone in attesa da più di un anno» nonostante l’iter per la concessione
dello status di rifugiati debba durare al massimo tre mesi.
http://www.iodonna.it/attualita/appuntamenti-ed-eventi/2015/10/28/solidarietadimenticata/?refresh_ce-cp
Da Repubblica.it (Bologna) del 28/10/15
Bologna, ha inizio il maxiprocesso Aemilia:
alla sbarra la 'ndrangheta al Nord
Oltre 200 imputati per le infiltrazioni post-terremoto, padiglione blindato
in Fiera. Comuni e associazioni si costituiscono parte civile
di GIUSEPPE BALDESSARRO
Nella Fiera super blindata muove i primi passi il maxiprocesso Aemilia sulla 'ndrangheta
nel Nord Italia: oltre 200 imputati coinvolti per decine di reati. E' un avvenimento senza
precedenti per la regione Emilia-Romagna, per i numeri e per le dimensioni dell'inchiesta:
stanno costituendosi parti civili Comuni, province, associazioni che si occupano di legalità.
In Emila la cosca ed i suoi alleati avevano messo le mani su tutto a iniziare dagli appalti
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per la ricostruzione post terremoto, cercato di condizionare elezioni amministrative in
diversi Comuni per pilotare le istituzioni come fossero state burattini.
A Bologna un processo del genere non si era mai visto. Lo si capisce dalla frenesia di
ufficiali e dirigenti delle forze di polizia che impartiscono ordini perentori a sottoposti che si
muovono con discrezione, ma in maniera costante lungo ogni possibile varco o accesso
alla zona del bunker.
Dentro l’aula da 500 posti, siedono i mammasantissima della cosca Grande Aracri di
Cutro. Ci sono i loro picciotti e i prestanome, i professionisti e i politici che con loro hanno
fatto affari o trovato accordo. Alla sbarra c’è il “sistema” della ‘ndrangheta che nel giro di
dieci anni si è presa parte dell’Emilia Romagna. Ci sono boss e reggipanza che hanno
trasformato parte della provincia di Modena, Reggio Emilia e Parma in una succursale di
quella di Crotone. Stesso metodo e stesse tecniche utilizzata in uno qualsiasi dei
mandamenti della punta dello stivale.
La Direzione Distrettuale Antimafia di Bologna ipotizza reati per 189 diversi capi
d’imputazione da sottoporre al vaglio del Gup Francesca Zavaglia. Si va dall’associazione
a delinquere di stampo mafioso (416 bis), alle estorsioni, dalle minacce all’usura,
dall’intestazione fittizia dei beni al falso in bilancio, dalla turbativa d’asta alla corruzione
elettorale, per andare poi a scandagliare tutta una serie di reati fine di diversa natura.
Quello disegnato dai magistrati non è più la semplice infiltrazione di un clan di ‘ndrangheta
al nord, ma il suo radicamento. “Aemilia” non è solo il processo ad una cosca, ma al
sistema della ‘ndrangheta calato in una regione che fino a pochi anni fa credeva di avere
gli anticorpi per resistere a qualsiasi infiltrazione. Non è così e il processo iniziato
stamattina lo dimostra.
I primi ad arrivare sono stati il Presidente dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini e
l’assessore alla Legalità Massimo Mezzetti. Poco dopo le 8 hanno raggiunto l’ingresso
riservato alle Parti Civili dove il governatore si è accreditato assieme ai legali della
Regione. Poi via via, uno dopo l’altro, dall’accesso principale della Fiera sono arrivati tutti
gli altri. Enza Rando di Libera con i referenti regionali e locali dell’associazione, il
presidente regionale dell’Arci, Federico Amico il segretario della Cgil Vincenzo Colla, la
presidente nazionale degli autotrasportatori di Fita Cna, Cinzia Franchini e i rappresentanti
di Province e Comuni. E’ lungo l’elenco di enti e associazioni che non hanno voluto
perdere l’occasione di lanciare un segnale chiaro, per dire che in l’Emila Romagna la
‘ndrangheta non troverà una società “disponibile” a “tacere o anche solo a sottovalutare il
fenomeno”.Oltre i cordoni di polizia e carabinieri, nel padiglione 19, dove è allestita l’aula
speciale del maxi processo “Aemilia”
219 imputati stanno sfilando davanti al giudice per l’udienza preliminare. Molti sono arrivati
accompagnati dai rispettivi difensori, 9 di loro sono rinchiusi nelle carceri speciali di
massima sicurezza e per questo parteciperanno al processo collegati in video conferenza
da mezza Italia, altri 35 sono stati accompagnati dal carcere della Dozza con un pullman e
due cellulari scortati dalle auto della polizia penitenziaria.
http://bologna.repubblica.it/cronaca/2015/10/28/news/aemilia_il_maxiprocesso_ha_inizio126050514/
Da Radio Città del capo del 28/10/15
Aemilia. Domani al via il maxi processo in
fiera
Bologna, 27 ott. – Si apre domani mattina nell’aula speciale allestita nel padiglione 19
della Fiera di Bologna il processo Aemilia contro la ‘ndrangheta emiliana. Un processo
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maxi nei numeri: 219 gli imputati, un centinaio le persone offese, una trentina le udienze
fissate fino a dicembre, a partire da quella preliminare di domani. Si terrà in camera di
consiglio, alla presenza delle sole parti, a porte chiuse a stampa e pubblico. A
rappresentare l’accusa saranno i pm Marco Mescolini ed Enrico Cieri.
Le misure di sicurezza saranno straordinarie, commisurate all’evento. L’area sarà
controllata da telecamere e agenti e circondata da due cordoni di controllo, uno agli
ingressi generali della fiera, l’altro, con metal detector, prima dell’accesso al padiglione 19.
Fuori i praticanti degli studi legali, mentre gli avvocati dovranno presentarsi con la nomina
in mano. Fuori anche i giornalisti, che potranno accreditarsi sul posto per accedere a una
sala stampa in piazza della Costituzione.
“Nell’autonomia di ognuno e delle parti abbiamo convintamente deciso di finanziare uno
spazio anche se mi rendo conto che è un’anomalia – cioè che la Regione finanzi – ma per
me era assolutamente necessario farlo. Perché non potevamo permetterci che un
processo su un tema così importante e che per noi diventa una delle questioni cruciali dei
prossimi anni di governo di queste terre si tenesse altrove”, ha detto oggi il presidente
dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini.
Domani, durante l’udienza preliminare, all’esterno ci sarà un presidio della Cgil di Reggio
Emilia, di Libera e altre associazioni impegnate nella lotta alle mafie.
L’Ordine dei giornalisti e l’Associazione della stampa dell’Emilia-Romagna si sono costituiti
parte civile “a difesa dei colleghi Sabrina Pignedoli e Gabriele Franzini, vittime di pesanti
intimidazioni di stampo mafioso durante lo svolgimento delle proprie mansioni
professionali”, spiegano in una nota Ordine e Aser in riferimento ai casi dei giornalisti che,
secondo le indagini, hanno subito pressioni da parte di membri dei clan. Si costituiranno
parte civile anche Cgil, Cisl e Uil dell’Emilia-Romagna, insieme con “altre associazioni ed
espressioni della società civile”, per “ribadire con fermezza e determinazione la volontà di
sconfiggere le mafie”. Stessa strada percorrerà l’Arci, annuncia il presidente regionale
Federico Amico e spiega: “La presenza attiva anche in ambito processuale, nell’interesse
non solo dei soci e delle vittime, ma dell’intera cittadinanza non potrà che rafforzare
l’azione di Arci sul territorio e l’efficacia delle sue iniziative di contrasto al dominio
criminale”.
Per 9 imputati oggi sottoposti al regime restrittivo del 41 bis, fra i quali Nicolino Grande
Aracri a capo della cosca omonima, è stato deciso che parteciperanno all’udienza a
distanza, in videoconferenza.
L’inchiesta della direzione distrettuale antimafia aveva portato a gennaio a 117 misure di
custodia cautelare e contesta a 54 persone l’associazione a delinquere di tipo mafioso. Gli
inqurenti hanno individuato in Emilia-Romagna, in particolare nella provincia di Reggio
Emilia, un’attività criminale legata alla cosca Grande Aracri di Cutro, in provincia di
Crotone.
http://www.radiocittadelcapo.it/archives/aemilia-domani-al-via-il-maxi-processo-in-fiera166668/
del 28/10/15, pag. 13
I ribelli dell’underground
Note sparse. Esce «Codec_015», il sesto album dei Drunken Butterfly:
«Il nostro paese è in coma vegetativo. Non c'è alcuna volontà di
crescere»
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Finite le utopie restano appunti zeppi di giustificazioni e treni persi, e la musica sembra
adeguarsi. Nessuna spina nel fianco che ci imponga uno sguardo critico alla nostra
quotidianità. Come un anticorpo al lassismo, Codec_015 (Black fading), il sesto album dei
Drunken Butterfly, è un disco che ci colloca, innanzitutto, di fronte a bivi esistenziali. È un
lavoro viscerale e forte, capace di esprimere la rabbia poetica dell’underground e la
disillusione, ma senza scivolare in un compiaciuto, quanto servile, nichilismo. Registrato e
mixato da Cristiano Santini dei Disciplinatha, e masterizzato da Giovanni Ferliga degli
Aucan, si rivela una commistione fra chitarra, basso, sinth e una potente batteria che
mette le radici nell’industrial degli anni ‘80.
Il produttore, Cristiano Santini, è abituato a stare contro e ora, a Bologna, gestisce il
Morphing Studio (dove i DB hanno registrato) nello Zona Roveri Music Factory, un
capannone adibito una metà a sala prove, studio di registrazione scuola di musica e l’altra
a un club Arci per i concerti: «Il materiale che ho ascoltato quando ci siamo conosciuti era
molto attinente al mio background. Ogni tanto capita quel progetto a cui ti senti affine e a
cui puoi dare quel valore aggiunto che nasce dal lavorare su qualcosa che ti interessa. Già
da diversi anni la scena underground italiana è estremamente di maniera, devi avere quel
tipo di sound, quel taglio di capelli e i jeans con il risvoltino. I DB hanno un progetto, un
sound diverso. Il disco suona molto americano, estremamente aggressivo sulle batterie e
sull’elettronica, mentre mixavo pensavo ai Nine Inch Nails».
La band, con Fabrizio Baioni alla batteria, Giorgio Baioni basso e sinth, e Lorenzo
Castiglioni voce e chitarra, ripercorre alcuni temi del nostro passato, come la Genova del
G8, il potere e la corruzione, Pasolini, quasi a mappare le influenze nel malessere odierno.
Dice Lorenzo: «Il nostro paese è in coma vegetativo. La trasformazione avvenuta
nell’ultimo decennio è drammatica, non c’è la volontà di progredire, di crescere. Contano
l’immagine e il denaro, e ci lamentiamo se i ragazzini si sparano le pose su Facebook,
convinti di essere in televisione». In uno scenario di talent e indolente pop italiano, i DB
optano per scelte radicali, con una netta rottura col commerciale. «Maria De Filippi ha
provocato più danni alla società di quanti ne abbiano fatti alcuni movimenti politici in
passato. La musica deve rispecchiare i tempi che attraversa, essere provocatoria, far
riflettere, scollarsi dall’omologazione. Le canzoni nascono in sala prove, con la musica
intrecciata ai contenuti, dev’essere moderna e dal forte impatto emotivo, e se tutto questo
significa precludersi passaggi radio e contratti discografici con le major, pazienza».
Seppure con 6 dischi alle spalle e tanti chilometri di tour, ancora vengono definiti ’giovani
emergenti’: «È un termine improprio senza senso, abbiamo tutti superato da un pezzo i
trenta e Codec_015 è il nostro sesto album in studio. Purtroppo in questo ambito tutto
deve essere catalogato. Se firmi con una major sei mainstream, se incidi per un’etichetta
indipendente sei giovane ed emergente. Piuttosto cerchiamo legami con persone che
vogliono condividere un percorso di crescita artistica, dalla produzione dei dischi alla parte
grafica, dall’allestimento dei live alle scelte per il merchandising. I DB sono
fondamentalmente un progetto autarchico. Il passaggio alla Black Fading di Cristiano è da
intendersi proprio in questo senso, la nascita di una nuova collaborazione con uno studio
professionale ma soprattutto tra persone che si stimano, che hanno lo stesso approccio
nei confronti della musica e, più in generale, della vita».
Da Rassegna Sindacale del 27/10/15
Nardò: il 28/10 nuova tappa Carovana
antimafie
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La Carovana Antimafie, copromossa fin dal 1994, da Arci, Avviso Pubblico, Libera e Cgil,
Cisl e Uil, divenuta internazionale negli ultimi anni, è in Puglia nei giorni 26, 27 e 28
ottobre. La tappa della provincia di Lecce si terrà mercoledì 28 ottobre a Nardò, nell’area
mercatale (zona 167), a partire dalle ore 9.30. Per il 2015 la Carovana ha scelto il tema
delle periferie “intese nella loro larga accezione, come i luoghi dove maggiore è
l’insorgenza e il dispiegarsi di fenomeni di marginalità, sfruttamento, abbandono,
criminalità, illegalità”. A Nardò toccherà i temi dell’immigrazione, dello sfruttamento, del
caporalato, della schiavitù e dei morti sul lavoro. Il Presidio Libera “Renata Fonte” in
collaborazione con Libera Lecce, Cgil, Cisl e Uil, in rete con associazioni locali e con le
scuole del territorio intendono organizzare la tappa neretina con testimonianze, momenti di
memoria, proposte e intermezzi musicali.
http://www.rassegna.it/articoli/nardo-il-2810-nuova-tappa-carovana-antimafie
Da Stato Quotidiano del 27/10/15
A cura del Comitato Promotore della Carovana Antimafia
Focus ”La carovana antimafie a Monte
Sant’Angelo”
Tutte le attività - realizzate presso l’Auditorium Beato Bronislao
Markievicz del Santuario di San Michele Arcangelo, presso il Centro
Congressi “Le Clarisse”
Foggia. ”L’Arci, LIBERA, AVVISO PUBBLICO, CGIL, CISL e UIL – membri del Comitato
promotore della Carovana Antimafie – ringraziano tutta la cittadinanza di Monte
Sant’Angelo, gli studenti, gli insegnanti, i dirigenti scolastici, il provveditore agli studi di
Foggia, le autorità istituzionali ed i rappresentanti delle forze dell’ordine intervenuti per la
perfetta riuscita della manifestazione realizzata nel centro garganico nell’ambito della
tappa di Capitanata della Carovana Antimafie, che dal 1994 – attraversando l’Italia – porta
solidarietà a coloro che in prima fila operano per la Legalità democratica, la giustizia e la
crescita sociale nel proprio territorio, sensibilizzando le persone per tenere alta l’attenzione
sul fenomeno mafioso e promuovendo impegno sociale e progetti concreti.
Una bella manifestazione che si è concretizzata nella serie di iniziative svoltesi tutte nella
mattinata di lunedì 26 Ottobre in diversi luoghi di Monte Sant’Angelo, con cui abbiamo
fortemente voluto coinvolgere i più giovani quali veri interpreti dello sviluppo della nostra
terra. Ed è stato soprattutto il loro entusiasmo, la loro voglia di partecipare e di dire NO
all’illegalità ed alla mafia, il più importante obiettivo di questa edizione della carovana che
aveva come tema centrale le periferie, intese come luoghi in cui maggiormente insorgono
fenomeni di marginalità, sfruttamento, abbandono e criminalità.
Tutte le attività – realizzate presso l’Auditorium Beato Bronislao Markievicz del Santuario
di San Michele Arcangelo, presso il Centro Congressi “Le Clarisse”, in Piazza della
Beneficienza e nei plessi scolastici di Monte – hanno visto come principali protagonisti le
scolaresche montanare. E non possiamo che dirci fieri (ribadendo la nostra più viva
gratitudine nei confronti dei dirigenti scolastici per la fattiva e proficua collaborazione) di
essere riusciti a coinvolgere i nostri ragazzi in questa festa della Legalità dove abbiamo
potuto dimostrare che è possibile e che esiste un mondo senza le mafie”.
http://www.statoquotidiano.it/27/10/2015/26-ottobre-2015-la-carovana-antimafie-a-montesantangelo/395093/
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Da Bari Today del 28/10/15
A Carbonara la tappa della Carovana
Antimafie, "Dalle periferie riscatto e lotta per
la legalità"
Questa mattina la tappa barese dell'iniziativa promossa da Arci, con
Avviso Pubblico e Libera. Intanto il parroco di 'Santa Maria del Fonte',
chiesa che ha ospitato la manifestazione, smentisce le voci su presunte
minacce ricevute in relazione all'organizzazione della festa patronale
Grazia Rizzi
Studenti e semplici cittadini, giovani e adulti insieme, per parlare di legalità e antimafia
sociale. Dopo le tappe di Monte Sant’Angelo e Trani, il ‘tour’ pugliese della Carovana
internazionale Antimafie è approdato questa mattina a Bari. Ad ospitare l’iniziativa
promossa da Arci in collaborazione con Avviso Pubblico e Libera e l’adesione di Cgil, Cisl
e Uil, i locali della parrocchia ‘Santa Maria del Fonte’ di Carbonara, dove ragazzi delle
scuole del quartiere e residenti si sono ritrovati per discutere e confrontarsi.
“Periferie al centro”, il tema scelto quest’anno per la manifestazione. “Periferie come luoghi
del disagio, ma soprattutto come luoghi del riscatto, in cui esistono forze e volontà capaci
di creare risposte positive”, spiega Alessandro Cobianchi, coordinatore nazionale della
Carovana Antimafie e referente pugliese di Libera. “Rispetto a quello che accade –
prosegue Cobianchi - noi dobbiamo provare anche a raccontare quello che funziona.
Questo non vuol dire nascondere sotto il tappeto episodi di cronaca e delitti. Però la
presenza delle mafie è data molte volte dal silenzio,e allora c’è bisogno di far rumore sulle
cose positive che accadono”. E soprattutto di “mettere in rete” le realtà del territorio:
parrocchie, istituzioni, associazioni per “riprendersi quegli spazi che qualcun altro ha
voluto occupare”.
Ma proprio nel giorno in cui a Carbonara arriva la Carovana Antimafie, nel quartiere non si
fa che parlare delle presunte minacce ricevute dal parroco di ‘Santa Maria del Fonte’, don
Mimmo Chiarantoni, carovana antimafie carbonara (4)-2in occasione della festa patronale
in onore di San Michele Arcangelo, conclusasi proprio ieri. Minacce che sarebbero
scaturite dal rifiuto del parroco di far passare la processione davanti ad alcune abitazioni di
“potenti” del quartiere. Una notizia rimbalzata sui social network e diffusa da alcuni media
locali, ma che questa mattina il sacerdote ha voluto smentire: “E’ assolutamente falso. Il
caso si è creato da una notizia falsa, che poi non ha fatto altro che rovinare l'immagine di
questo quartiere, e l’immagine di una festa che invece è andata abbastanza bene”.
Polemiche e dissensi sull’organizzazione della festa non sono mancati, ammette don
Mimmo, ma “come accade in qualsiasi altro paese”.“Certamente – aggiunge il sacerdote –
ci sono stati i soliti motivi di dissenso che avvengono in tutte le organizzazioni di feste
patronali. Sono utili anche le voci contrarie, perché ci aiutano a essere più attenti, ma
almeno per le feste religiose che fanno capo a questa parrocchia non c'è questo legame
tra la malavita e la religiosità”. "Come chiesa - aggiunge poi don Mimmo riferendosi
all'organizzazione della festa - stiamo scegliendo la via sobria, cercando di interessarci
solo dell'aspetto religioso e culturale, e lasciando al paese l'organizzazione della parte
civile". "Cerchiamo di dare dei segni di sobrietà e di attenzione alla storia, anche
attraverso la festa. Come questo percorso sulla legalità - conclude riferendosi alla tappa
della Carovana Antimafie - abbiamo legato la festa di San Michele con l'educazione alla
legalità".
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http://www.baritoday.it/cronaca/carovana-antimafie-carbonara-minacce-don-mimmochiarantoni-festa-san-michele.html
Da PugliaLive del 27/10/15
Nardò (Lecce) - Fa tappa la Carovana
Internazionale Antimafie
MERCOLEDÌ 28 OTTOBRE ORE 9.30
Fa tappa a Nardò (Le) la Carovana Internazionale Antimafie
copromossa da Arci, Avviso Pubblico, Libera e Cgil, Cisl e Uil
La Carovana Antimafie, copromossa fin dal 1994, da Arci, Avviso Pubblico, Libera e Cgil,
Cisl e Uil, divenuta internazionale negli ultimi anni, è in Puglia nei giorni 26, 27 e 28
ottobre. La tappa della provincia di Lecce si terrà mercoledì 28 ottobre a Nardò, nell’area
mercatale (zona 167), a partire dalle ore 9.30.
Per il 2015 la Carovana ha scelto il tema delle periferie “intese nella loro larga accezione,
come i luoghi dove maggiore è l’insorgenza e il dispiegarsi di fenomeni di marginalità,
sfruttamento, abbandono, criminalità, illegalità”.
A Nardò toccherà i temi dell’immigrazione, dello sfruttamento, del caporalato, della
schiavitù e dei morti sul lavoro.
Il Presidio Libera “Renata Fonte” in collaborazione con Libera Lecce, Cgil, Cisl e Uil, in
rete con associazioni locali e con le scuole del territorio intendono organizzare la tappa
neretina con testimonianze, momenti di memoria, proposte e intermezzi musicali.
http://puglialive.net/home/news_det.php?nid=95701
Da GreenPlanner.it del 27/10/15
A Milano la Mediterranea 17 Young Artists
Biennale Di Maria Tomaseo
Fino al 22 novembre 2015, la Fabbrica del Vapore (via Procaccini 4), ospita Mediterranea
17 Young Artists Biennale, evento internazionale multidisciplinare, curato da Andrea
Bruciati, promosso da Comune di Milano e Bjcem, in collaborazione con Arci e con il
Patrocinio della Fondazione Cariplo. La mostra fa parte di Expo in città, il palinsesto di
iniziative che accompagna la vita culturale di Milano durante il semestre dell’Esposizione
Universale. In uno dei luoghi più rappresentativi della creatività milanese contemporanea,
300 creativi under 35, provenienti da tutta l’area del Mediterraneo, si incontrano per
presentare i loro lavori, realizzati rispettando il tema di questa edizione della Mediterranea
17 Young Artists Biennale: No Food’s Land. I protagonisti di questo evento giungono alla
Fabbrica del Vapore dopo aver superato la selezione di una commissione di ciascun
paese membro della rete Bjcem, che comprende organizzazioni della società civile,
autorità locali e nazionali di Bosnia ed Erzegovina, Croazia, Cipro, Egitto, Francia, Grecia,
Italia, Libano, Malta, Montenegro, Palestina, Portogallo, Repubblica di San Marino, Serbia,
Slovenia, Spagna, Turchia e Austria, Kosovo, Israele e Regno Unito come membri esterni.
I progetti abbracciano una moltitudine di forme di espressione, come le arti visive e le arti
applicate (Architettura, Industrial Design, Web Design, Moda, Creazione digitale), la
narrazione, lo spettacolo (Teatro, Danza, Performance Metropolitane), la musica, il cinema
e la gastronomia. “Ospitando questa edizione della Biennale dei giovani artisti la Fabbrica
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del vapore conferma la propria vocazione di luogo aperto all’espressione della creatività,
artistica, soprattutto giovanile, e lo fa con un tema in forte connessione con il tema di Expo
2015” ha dichiarato l’assessore alla Cultura Filippo Del Corno “Un’iniziativa che rientra
pienamente nello spirito di ExpoinCittà, il palinsesto che ha messo Milano sotto i riflettori
come modello di capacità innovativa per la capacità di far coesistere diversi linguaggi
artistici, stimolando la vocazione internazionale del pensiero creativo”. La curatela dà vita
al percorso espositivo organizzando il materiale pervenuto dall’intero network di Bjcem,
mettendo in evidenza quei lavori che ha ritenuto più rappresentativi e ponendo l’accento
sul carattere interdisciplinare di una piattaforma unica a livello europeo. “La sfida” afferma
Andrea Bruciati “è quella di creare un ambiente vivo, costruendo un percorso ricco di
suggestioni e aperto a una interculturalità che connota Bjcem sin dai suoi esordi”. Il
concept di Mediterranea XVII, No Food’s Land ruota attorno al passo Questo mostro che
ci divora i sensi, tratto dall’Amleto di Shakespeare. “Mi piaceva creare un’analogia” ricorda
Andrea Bruciati “fra processo digestivo e percorso creativo secondo il celebre passo del
Bardo che per me diventa una sorta di metafora del processo conoscitivo dell’artista e la
trasformazione incessante e quasi pantagruelica che questi attua della realtà”. La pratica
artistica può essere accostata all’assimilazione, ovvero all’assorbimento corporeo del cibo
quando si trasforma in nutrimento. Infatti, anche l’artista passa dall’idea astratta alla sua
realizzazione concreta e reale, effettuando un cambiamento di grado, energetico, vitale.
Lo stesso allestimento, pensato in collaborazione con lo Studio Rotella di Milano, segue
un percorso sinusoidale, quasi ci si trovasse all’interno di un organismo che tutto divora e
trasforma, nel quale, i vari elementi dissonanti possano combinare fluidamente come una
sorta di puzzle. All’interno della Mediterranea 17 Young Artists Biennale saranno inoltre
presentati i risultati di cinque progetti speciali. Il primo è A Natural Oasis Summer School,
Provoc’Arte 1991 working hypotesis for an archive, dedicated to Roberto Daolio, progetto
transnazionale sulle arti visive, promosso dalla Repubblica di San Marino, iniziato lo
scorso anno nel Castello di Montegiardino del piccolo Stato. Curato da Alessandro
Castiglioni e Simone Frangi, in collaborazione con Viafarini e Little Constellation, ha avuto
come obiettivo quello di creare un percorso di viaggio, studio, formazione e ricerca per 15
giovani artisti selezionati provenienti da: Cipro, Islanda, Lussemburgo, Malta, San Marino,
Italia, Grecia, Gran Bretagna, che dopo San Marino, Milano e Gibilterra – UK si conclude
con una esposizione e un workshop a Viafarini DOCVA all’interno della Fabbrica del
Vapore. Il secondo, Motel Trogir. Alice Doesn’t Live Here Anymore, dedicato alla
riflessione artistica sull’omonimo edificio modernista, costruito nel 1965 e progettato da
uno degli architetti più importanti della Jugoslavia socialista – Ivan Vitic. I risultati del
progetto, ideato dalle curatrici Natasa Bodrozic e Ivana Mestrov, verranno presentati a
Milano, dagli artisti provenienti da Croazia, Slovenia, Serbia e Regno Unito. Il terzo,
Ecoismi 2015, curato da Ylbert Durishti, organizzato e promosso dal Comune di Città di
Cassano D’Adda, è un progetto di arte pubblica giunto alla quarta edizione, in cui lo spazio
aperto è abitato in modo creativo: un’esperienza di arte contemporanea che vuole
collegarsi, attraverso la sua natura pubblica e ambientale, ai processi e alle trasformazioni
che riguardano il territorio, l’ambiente e la condizione attuale, per attivare una riflessione
sulle dinamiche ecologiche e sostenibili.
Il quarto, Sulcislab, curato da Olga Bachschmidt, promosso dall’assessorato alla cultura
del Comune di Cagliari, è pensato per promuovere la creatività dei giovani designer della
Sardegna in collaborazione con le risorse dell’artigianato artistico e tradizionale del
territorio del Sulcis. Il quinto, La Ville Ouverte, curato da Marco Trulli, è un programma
euromediterraneo di azioni di arte pubblica promosso da Arci, all’interno del network di
BJCEM. Attraverso workshop, residenze e mostre, La Ville Ouverte indaga il ruolo dell’arte
e degli artisti nello spazio e nell’immaginario pubblico. Nata nel 1985, la Mediterranea 17
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Young Artists Biennale si svolge ogni due anni in una città diversa del Mediterraneo e
nelle sue sedici precedenti edizioni ha coinvolto nel complesso più di 10.000 giovani artisti
e oltre 70.000 visitatori. La Bjcem è una rete internazionale, il cui Segretariato ha sede a
Torino presso il Cortile del Maglio, con più di 70 membri e partner provenienti da Europa,
Medio Oriente e Africa che, con il loro sostegno, rendono possibile l’evento stesso
garantendo la partecipazione degli artisti dai territori da essi rappresentati.
Continua a leggere su Green Planner Magazine: A Milano la Mediterranea 17 Young
Artists Biennale http://magazine.greenplanner.it/2015/10/27/a-milano-la-mediterranea-17young-artists-biennale/
Da il Tirreno (Montecatini Terme) del 27/10/15
La Miniera di Publio riapre con il rancio
PESCIA. Si aprirà domenica 8 novembre con il rancio d'insieme la stagione autunnale
della Miniera di Publio, con un programma fitto di eventi. Il rancio d'insieme è il pranzo
sociale organizzato al circolo Arci di Vellano in collaborazione con il gruppo Gaev. Sabato
21 novembre a partire dalle 19,30 al pub la Pieve a Castelvecchio, la “Veglia Nostalgica”:
serata di prosa, poesia, buona musica e cucina locale, in collaborazione con il gruppo “Io
amo la Valleriana”. Dal 4 al 7 dicembre il museo sarà presente a Roma, all' Ergiff Hotel,
alla mostra convegno internazionale di mineralogia. Giovedì 31 dicembre “San Silvestro
insieme”, cenone di fine anno organizzato in collaborazione con il circolo Arci, il gruppo
Gaev e il gruppo Facebook “Io amo la Valleriana”. Domenica 31 gennaio il museo sarà
presente a Lucca, alla mostra scambio di minerali e fossili al dopolavoro ferroviario.
Sabato 20 e domenica 21 febbraio a Cecina, alla borsa europea alla palestra comunale.
Domenica 13 marzo escursione mineralogica all’Isola d'Elba. Domenica 10 aprile a Nalles
(Bolzano), alla mostra mineralogica internazionale. Il Museo è aperto tutti i giorni dal
lunedì al sabato dalle ore 9,30 alle ore 12,30 e dalle 15 alle 17,30. La domenica è
necessaria una prenotazione,
per gruppi non inferiori a 10 persone e almeno 15 giorni prima. Durante le vacanze
natalizie resterà sempre aperto (giorno di Natale e 1° dell'anno esclusi). Tutti i venerdì
pomeriggio sarà aperto il laboratorio per prove chimico/fisiche sui minerali che i ricercatori
vorranno portare.
http://iltirreno.gelocal.it/montecatini/cronaca/2015/10/27/news/la-miniera-di-publio-riaprecon-il-rancio-1.12341411
Da La Nuova Ferrara del 28/10/15
La storia e il presente in cinque incontri
ARGENTA. «Nessuna volontà di indottrinare». È la precisazione che ha tenuto a fare
Giulia Cillani, assessore alla cultura e politiche giovanili del Comune di Argenta, quando
sabato pomeriggio, al centro Mercato, si è dato il via ad un ciclo di incontri dal titolo “La
storia e il presente: da piazza Fontana a Federico Aldrovandi”. L’iniziativa (erano presenti
una trentina di persone più alcuni alunni), è nata fra gli insegnanti della scuola media di
Argenta ed ha ottenuto il patrocinio dell’amministrazione comunale, di Anpi e dell’Arci.
Scopo è quello di affrontare in successione argomenti come le stragi degli anni settanta, il
lungo sessantotto, il G8 di Genova e infine la vicenda di Federico Aldrovandi. “Fare
giustizia è che tutti sappiano la verità” è il titolo dato al primo appuntamento e che ha
riguardato la vicenda di Giuseppe Pinelli.
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A parlarne c’era la figlia, Claudia Pinelli. Prossimo appuntamento il 7 novembre ore 18 con
“Disegnare le stragi. Una graphic novel per piazza della Loggia”. Relazioneranno Matteo
Fenoglio e Francesco Barilli. Il 9 novembre ore 10 Franca Menneas, Bologna, 1977:
Ordine pubblico e movimento studentesco. Il 20 novembre ore 10 Haidi Giuliani, “Il G8 di
Genova”. Infine il 27 novembre ore 18, Patrizia Moretti, “La vicenda di Federico
Aldrovandi”.
Info: Centro Culturale Mercato, Piazza Marconi,1 Argenta; numero verde 800 111 760.
(g.c.)
http://lanuovaferrara.gelocal.it/ferrara/cronaca/2015/10/27/news/la-storia-e-il-presente-incinque-incontri-1.12343193
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INTERESSE ASSOCIAZIONE
Del 28/10/2015, pag. 14
CRESCITA EUROPA OPPORTUNITÀ
Innovazione sociale formato digitale
Le tecnologie mobilitano le comunità, condividono le risorse e
distribuiscono il potere. Nesta racconta un fenomeno in espansione
C’è il contatore che monitora le radiazioni in tutto il mondo, il sito che raccoglie i dati sulla
spesa dei governi e il fablab che costruisce prodotti con la stampa in 3D. Il filo sottile che
intreccia queste storie si chiama innovazione sociale digitale (Dsi) che, secondo l’Unione
europea, può contribuire ad affrontare grandi sfide come ripensare i servizi pubblici - a
costi più bassi - reinventare le comunità e i modi in cui le persone collaborano tra loro,
rivedere il business con modalità che rispondano maggiormente ai reali bisogni umani,
come la crisi economica ha ben evidenziato. Tanto che la Ue sta investendo importanti
risorse: più di 50 milioni di dollari nel programma Collective Awareness Platforms for
Sustainability and Social Innovation e addirittura 200 milioni con il bando Fast Track to
Innovation (che scade il 1 dicembre) all’interno del programma Horizon 2020.
Secondo Nesta, dopo la prima ondata di innovazione digitale con il computing, i dati e il
world wide web, ora è il momento dell’innovazione digitale sociale che può contribuire a
trovare nuovi modi di organizzare la democrazia, i consumi, la finanza e ogni aspetto della
vita pubblica. Le tecnologie digitali sono particolarmente adatte a contribuire all’azione
civica: mobilitano ampie comunità, condividono le risorse e ridistribuiscono il potere.
Le innovazioni principali della Dsi si esprimono in settori identificati da Nesta, che sono:
nuovi modi di fare, l’open democracy, l’economia collaborativa, i network consapevoli
improntati alla sostenibilità, l’open access e, infine, capitali, acceleratori e incubatori.
L’organizzazione non profit li racconta passo passo in «Growthing a Digital social
Innovation Ecosystem in Europe», voluto dalla Commissione Ue, come strumento per
identificare le politiche più idonee a scalare la Dsi e renderla di impatto. Basta guardare la
mappa europea (http://digitalsocial.eu) - su cui sono localizzati 1.044 esempi di Dsi - per
comprendere quanto il fenomeno sia vasta e puntiforme.
Della nuova economia collaborativa fanno parte tutte quelle piattaforme che condividono
beni, servizi, conoscenza e competenze. Include anche cripto-valute, nuove forme di
crowdfunding, piattaforme di scambio e condivisione basate sulla reputazione e sulla
fiducia. E qui oltre alla stessa Nesta, vengono citate P2P Foundation, OuiShare, Peerby.
I nuovi modi di fare comprendono tutto il movimento dei makers and do-it-yourself, free
Cad/Cam software, il design open source. Esemplificativi Safecast per il monitoraggio
delle radiazioni, i fablab (il primo fondato dal Mit nel 2002), Smart Citizen Kit. Nel modello
di open democracy la tecnologia digitale abilita la partecipazione collettiva, ingaggiando i
cittadini in processi decisionali e mobilitandoli. Tra le case history Open Ministry, Liquid
Feedback, OpenSpending.
I network consapevoli sono sostenuti da cittadini e comunità impegnati, attraverso
piattaforme di collaborazione, per risolvere temi ambientali, promuovere cambiamenti
verso la sostenibilità, mobilitare la cittadinanza per rispondere alle emergenze delle
diverse comunità. Nesta cita le città di Vienna e Santander, network personali come Tyze,
e piattaforme di sharing economy come Peerby che favorisce il prestito di beni tra vicini. E
ancora Crisis Net, sviluppata dalla non profit tech company Ushahidi, che raccoglie e
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organizza i dati sulle crisi da fonti diverse, come social media, sensori, dati in real time.
Secondo Nesta, l’open access -inteso anche come accesso libero ai contenuti, open
standard, diritti digitali ecc - può dare più potere ai cittadini e aumentare la loro
partecipazione. Tra i casi da tenere sott’occhio Open Data Challenge and Open Cities,
Communia e Github. Infine il vasto mondo di incubatori e acceleratori.
Le esperienze sono raggruppate secondo quattro trend tecnologici: open knowledge (412
casi), ovvero la co-produzione di nuove conoscenze basate su contenuti, fonti e accessi
aperti, liberi. Ne fanno parte per esempio il network Communia o Flok open network (269
casi) consiste in sensori wireless, le reti di comunità come Guifi.net e network centrati sulla
tutela della privacy come il noto Tor.
open data (258) ovvero modi innovativi di estrarre, usare, analizzare e interpretare i dati
liberati delle persone e dell’ambiente come fa l’Helsinki Regione Infoshare o l’Open Data
Challenge. open hardware (105), cioè nuovi modi di usare l’hardware stesso, l’open
source e l’Internet of Things. L’aggiornamento della open data crowd map è stata appena
rifinanziato dalla Ue e sarà condotta assieme da Nesta, Arduino e Waag Society. «Dopo la
mappatura delle esperienze vogliamo ora creare un hub di innovazione che faciliti i contatti
tra le pratiche, i policy maker e i fondi, gli incubatori» spiega Francesca Bria, coordinatrice
del progetto Dsi a Nesta. La nuova piattaforma sarà costruita nel 2016. «Vogliamo
contribuire a mettere in luce - continua Bria - le potenzialità reali di questo settore
trasversale e quindi a innovare l’approccio della pubblica amministrazione. Per esempio,
se si progettano e si impostano le smart city dall’alto, l’impatto è ben diverso rispetto a un
approccio di reale innovazione sociale». Per anni queste argomentazioni sono rimaste
chiuse nelle stanze degli addetti ai lavoro. Ora anche l’Europa ci crede.
Del 28/10/2015, pag. 14
ANALISI CONVERGENZA DIGITALE
I passi avanti del non profit
L’impresa sociale si fa piattaforma e organizza le risorse e le reti
Impresa Sociale e digitale. Nonostante manchi ancora la consapevolezza di un
significativo investimento in termini economici e di competenze del non profit, (il 40% delle
Onp non fa uso di Ict, secondo la Fondazione Accenture), è visibile il trend di
sperimentazioni e progetti che stanno facendo “le prove di un matrimonio” la cui data in
Italia sembra essere quanto mai vicina. L'accelerazione della convergenza fra sociale e
digitale è l'effetto del dilatarsi del perimetro di azione delle imprese sociali che, in uscita
dalla prima fase di resilienza, stanno infrastrutturando nuovi percorsi di attività non più solo
nei tradizionali servizi socio-assistenziali, ma anche in nuove forme di economia
collaborativa e comunitaria.
L'impresa sociale, che supera la storica funzione redistributiva e si fa piattaforma ed
“orchestratrice di reti e di risorse”, diventa perciò terreno fertile per una convergenza con il
digitale; una convergenza dalle potenzialità ancora non esplorate, ma capace di
trasformare tanto il business model delle imprese sociali, quanto le modalità di fruizione
dei servizi rivolti sia ai cittadini che ai soggetti vulnerabili. Se a ciò aggiungiamo la spinta di
un crescente numero di consumatori che orientano il loro risparmio verso prodotti e servizi
ad alto valore sociale, come i 2,7 milioni di italiani (Censis) che fanno acquisti tramite
Gruppi di Acquisto Solidale (Gas), si può intuire la potenzialità della tecnologia nel fare da
detonatore a nuovi paradigmi di produzione di valore economico e sociale.
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Mentre i numeri del potenziale dell'innovazione tecnologica sono osservabili nelle 4.700
start up innovative, altrettanto non si può dire per l'innovazione sociale che conta nello
stesso Registro solo 38 start up innovative a vocazione sociale (di cui solo 4 cooperative).
L'irruzione della dimensione economica e produttiva nel non profit (il 33% dell'intero Terzo
settore è market oriented) e la disponibilità a basso costo di tecnologie, spesso ormai in
forma di commodity, stanno reingegnerizzando la risposta a bisogni sociali e favorendo
così la nascita di imprese sociali basate su nuovi e diversi modelli produzione, erogazione
e impatto.
Un esempio viene da Hackability, un progetto nato nei locali del Fablab di Torino e
realizzato da due consorzi di cooperative sociali, Kairòs e Mestieri, con contributo di
Fondazione Crt. La sperimentazione nasce con l'intento di provare a rispondere alla
richiesta di presìdi, oggetti d'uso quotidiano, progettati o adattati in base alle esigenze
delle persone con disabilità, dove queste ultime non sono meramente utenti ma diventano
designer e hacker. Il risultato di quest'azione congiunta fra artigiani digitali, designer,
informatici e utenti sta generando risposte personalizzare a basso costo come “Manipola”,
la prima di una serie di manopole customizzate con comandi in rilievo per permettere ai
non vedenti di usare elettrodomestici (costo ogni singola manopola è di circa 10 euro)
oppure “Mando”, telecomando per supportare le persone con disabilità nella vita
quotidiana; i prodotti analoghi in commercio costano intorno ai 2 mila euro, mentre lo
stesso in formato open source ne costa 120 e può governare tutti gli elettrodomestici.
La seconda frontiera di trasformazione riguarda le modalità di erogazione dei servizi
sociali e di fruizione da parte dei beneficiari. È il caso dei Social Book della cooperativa
sociale Archilabò, un progetto editoriale in formato multimediale, co-creato da insegnanti,
studenti ed esperti e pensato per migliorare l'apprendimento attraverso un metodo
innovativo. I Social Book sono testi ad alta leggibilità, adatti anche a studenti con Dsa e
oltre a far risparmiare le famiglie sono integrativi o sostitutivi dei tradizionali libri di testo.
L'ultima direttrice è quella dell'impatto e della scalabilità. Se è vero che l'impresa sociale
del futuro ha come mercato principale la domanda pagante (è di circa 30 miliardi la spesa
out-of-pocket delle famiglie), allora l'uso di piattaforme digitali diventa essenziale tanto per
aggregare la domanda, quanto l'offerta di servizi sociali. È il caso Familydea, piattaforma
aperta che mette in rete i servizi offerti dalla cooperazione sociale con la domanda delle
famiglie italiane. Accedendo al sito le famiglie di 11 città (fra cui Milano, Bologna e
Padova) possono scegliere il servizio ricercato rispetto a sei categorie: anziani, cura e
salute, infanzia e adolescenza; gestione casa; scuola e istruzione, servizi vari (che tra gli
altri include: servizi fiscali, abitativi, organizzazione eventi e feste). La possibilità di
aggregare l'offerta rende scalabile la dimensione “comunitaria” dei servizi erogati dalle
cooperative sociali generando un impatto altrimenti impensabile.
Sono percorsi ibridi dove socialità e tecnologia rigenerano nuove forme di artigianato,
nutrono nuove forme di condivisione e alimentano nuovi modelli di scalabilità. Insomma un
bella prospettiva su cui vale la pena rischiare.
Del 28/10/2015, pag. 15
Welfare in piattaforma
Ecommerce per sostenere le reti locali, hardware e software per
potenziare le relazioni, servizi collaborativi di coesione
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I disruptor dell'innovazione digitale possono dormire sonni tranquilli. Dietro un apparente
immobilismo il welfare italiano sta cambiando. Al suo interno, e non da oggi, sono attivi
profondi processi di trasformazione che gli innovatori delle Ict e del making possono
accelerare. A patto di individuare e cavalcare i driver giusti, spesso se non proprio
nascosti poco considerati nel loro potenziale di cambiamento. Dietro l'efficientismo della
spending review e dell'outsourcing, dietro le polemiche sui “livelli essenziali” e i diritti
acquisiti, dietro la pianificazione territoriale dei “sistemi integrati”, il welfare - soprattutto
quello in forma di servizi - chiede essenzialmente tre cose: una maggiore
personalizzazione delle prestazioni, un orientamento esplicito alla partnership tra pubblico
e privato e una natura più marcatamente produttiva.
A prima vista questi macro trend sembrano minare i pilastri del classico welfare state, che
non produce ma redistribuisce le risorse raccolte attraverso la tassazione, che vede la
pubblica amministrazione come monopolista della governance e dell'esecuzione delle
prestazioni e che garantisce l'accesso ai benefici della protezione sociale in senso
universalistico. In realtà l'innovazione sociale, anche per via digitale, è una modalità
attraverso cui l'impianto della protezione sociale può essere ridisegnato alla base ma non
stravolto, operando quella riforma che per via normativa è stata realizzata solo
parzialmente.
Un welfare produttivo può trovare nelle piattaforme di ecommerce uno strumento per
allungare le reti di distribuzione e vendita di prodotti-servizi che incorporano nel loro valore
di scambio una quota di risorse da reinvestire per il cofinanziamento di servizi di welfare,
rispetto ai quali il settore pubblico taglia i finanziamenti e i beneficiari non sono in grado di
pagare direttamente le prestazioni. È il caso dei marchi Panecotto e Cangiari promossi da
imprese sociali lucane e calabresi con l'intento di rendere sostenibile il proprio welfare
locale attraverso la vendita di prodotti agro-alimentari locali e di moda critica.
Il carattere pubblico della protezione sociale può essere presidiato non solo attraverso la
rappresentanza dei corpi intermedi, ma rilanciando il mutualismo per aggregare una
domanda di beni di welfare riconducibile a una pluralità di bisogni. È questa la proposta di
Itas Assicurazioni per un progetto di community che coinvolge gli oltre 770mila soci
assicurati e le loro comunità di appartenenza.
Allo stesso modo l'accessibilità ai servizi può essere garantita non tanto grazie a un
welfare low cost basato sul contenimento dei costi del personale - che inevitabilmente si
riflette, in negativo, sulla qualità dei servizi - ma piuttosto investendo su tecnologie
hardware e software che potenziano la qualità degli interventi, anche sul versante
relazionale; come dimostrano le strutture sanitarie ed assistenziali mobili che alcune ong,
come Emergency, hanno portato nel nostro Paese attraverso un percorso di “retrofit
innovation”. Possono inoltre giocare un ruolo rilevante le iniziative che abilitano azioni di
scambio non mercantile e non monetario di beni di welfare. Servizi collaborativi che
attraverso micro prestazioni sociali, assistenziali, educative incorporano un bene rifugio
molto ricercato: la coesione sociale, come dimostrano le social street sempre più diffuse a
livello nazionale, costruite attraverso social network digitali che facilitano i processi di
riconoscimento reciproco e il raggiungimento di una quota minima fiduciaria in grado di
alimentare processi di co-produzione in maniera non estemporanea.
Cosa manca quindi al welfare dell'innovazione sociale per andare a regime, “togliendo il
tappo” a processi di trasformazione già in atto? Due elementi in particolare: da un lato una
community per i citati innovatori capace di agire trasversalmente alle organizzazioni e
concentrata sulla creazione di filiere di servizi. Dall'altro un ecosistema di investitori che
apporti risorse attendendo come ritorno un impatto sociale positivo e rendicontabile. È il
caso di Fondazione Cariplo, che ha recentemente lanciato un bando per premiare progetti
di “welfare di comunità” che dovrebbe fare da apripista per nuove politiche dove la
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protezione sociale si combina con lo sviluppo locale. Ed è il caso di soggetti bancari
specializzati in campo sociale, come Banca Prossima, che sta sperimentando Tris - titolo
di riduzione di spesa pubblica - un'obbligazione che finanzia iniziative a impatto
ambientale e sociale (il test è la raccolta differenziata gestita da imprese sociali di
inserimento lavorativo a Scampia) e che si ripaga con i risparmi ottenuti sul budget
pubblico. Un dinamismo notevole che si appresta ad affrontare l'ultima grande sfida:
aggregare non solo la domanda ma anche l'offerta di welfare in un ambito caratterizzato
da una frammentazione molto accentuata. Una soluzione lungo la “sottile linea rossa” tra
sharing e on demand economy e dove la mission sociale consiste nell'abbassare le
asimmetrie informative rispetto all'utente e nel garantire più qualità e dignità del lavoro in
quella che ormai viene definita “white economy”.
Del 28/10/2015, pag. 15
Il cuore tech delle benefit corporation
Da Kickstarter a Etsy, da Nativa a D-Orbit, si fa business con il sociale
«L’area del pianeta a più alta densità di B-corp è la Silicon Valley». Eric Ezechieli, cofondatore di Nativa, è appena tornato da Portland, dove si sono incontrarti i vertici mondiali
delle benefit corporation. E racconta questa nuova generazione di imprenditori che vuole
portare la sostenibilità, il sociale nel cuore dell’azienda. «Ora anche BlaBlaCar (la
piattaforma di viaggi condivisi ndr.) è diventata B-Corp. E anche in Italia c’è un interesse
crescente» dice Ezechieli, mentre disegna il profilo di questi imprenditori ibridi, a cavallo
tra non profit e for profit. Molti appartengono alla generazione dei Millennials, con una forte
propensione alle tecnologie, intese sia come prodotti che come approccio.
Indipendentemente dall’età, è però una generazione «che ritiene maturi i tempi per
cambiare il mondo a partire da chi può avere più impatto, ovvero le corporation», aggiunge
il co-fondatore della prima B-Corp italiana. A livello mondiale, la prima azienda a
trasformarsi in B-Corp, nel 2011, è stata Patagonia, guidata da Yvon Chouinard che si è
posto il problema del futuro dell’azienda dopo di lui. Oggi le B-Corp nel mondo sono quasi
1.500. Il modello di business è tradizionale, hanno un fatturato, fanno utili, si quotano in
Borsa. Ma il business è generato mantenendo alti standard ambientali e sociali. L’ottica
non è quella della corporate social responsability, ma quella di rivoluzionare il business
stesso dell’azienda, rendendola sostenibile.
Nella lista delle B-Corp tech c’è Kickstarter, la piattaforma di crowdfunding, dove per
esempio il dipendente pagato meno guadagna più del 20% del minimo retributivo;
Hootsuite, aggregatore da 10 milioni di utenti che vuole che i social media abbiano un
impatto positivo sulla società; la società di ecommerce Etsy che, tra l’altro, sostiene le
micro-aziende che vendono beni fatti a mano e ha il 20% del management proveniente da
fasce vulnerabili di popolazione.
In Italia sono B-Corp, tra le altre, la D-Orbit, vuole «arrestare l’aumento sistematico della
concentrazione di oggetti che ruotano incontrollati nello spazio - si legge nella
presentazione dell’azienda -, la promozione di un futuro sostenibile e redditizio per
l'industria spaziale, e un ambiente pulito e sicuro per le missioni spaziali»; Habitech,
consorzio di 180 aziende legate al comparto green building del Trentino; Equilibrium,
startup innovativa di Como che produce materiali per costruzioni green; e ancora
Mondora, che progetta software «dal volto umano».
Le B-Corp usano la tecnologia non solo come strumento per generare profitto. Ma per
migliorare la vita delle persone, per delegare alle tecnologie i compiti di base, liberando
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così il tempo che i lavoratori possono dedicare a skill più intelligenti, per migliorare le
organizzazioni, per impegnarsi verso le community di riferimento, a cominciare da quella
dei clienti-utenti. Non solo, veicolano le tecnologie al non profit. Come nel caso di Croqqer,
piattaforma di vendita (al 60%) o scambio (al 40%) di competenze a chilometro zero. Dopo
l’esperienza olandese, da qualche settimana Croqqer è partito a Milano, Roma, L’Aquila e
in altre città hanno fatto richiesta. «C’è il forte interesse di realtà consolidate del sociale,
come le banche del tempo e le reti dei Gas (gruppi di acquisto solidale), che in questa
piattaforma possono trovare uno strumento di efficienza e di efficacia» spiega Ezechieli,
che è anche partner per l’Italia di B-Lab, la non profit che certifica le B-Corp a seguito di un
percorso gratuito di impact assessment da parte delle società stesse.
Dal punto di vista giuridico le B-Corp sono riconosciute in diversi stati americani. In Italia è
stato depositato al Senato un disegno di legge, di cui Nativa è promotrice. Se venisse
approvato, l’Italia sarebbe il primo paese al mondo fuori dagli Stati Uniti ad avere una
specifica forma giuridica d’impresa che identifica le B-Corp.
Del 28/10/2015, pag. 15
IMPRESE STRATEGIE PIATTAFORME
Oltre la Csr, le aziende vincenti con la
sostenibilità
Profit e innovazione sociale convergono con la leva della
trasformazione digitale
Le fondazioni d’impresa e le funzioni di corporate social responsibility stanno evolvendo
verso un modello che le vede parte integranti e coerenti con la strategia dell'impresa
stessa, e, in particolare, con la strategia di sostenibilità. In questo approccio innovativo,
così come Accenture, società di consulenza globale, aiuta i propri clienti a cogliere tutte le
opportunità offerte dalla digital transformation per sviluppare business efficienti e
sostenibili, specularmente la Fondazione Italiana Accenture, nel contesto della digital
transformation, promuove l'innovazione sociale come modello competitivo per il mondo
non profit facendo leva sui cambiamenti di paradigma abilitati dalle nuove tecnologie. Noi
per primi, infatti, ricorriamo al digitale attraverso la nostra piattaforma www.ideaTRE60.it
che rappresenta un punto di incontro tra chi ha progetti di innovazione sociale -terzo
settore, ma anche giovani, gruppi spontanei, ricercatori e università- e chi è interessato a
mettere in gioco risorse realizzative quali finanza, competenze, reti e infrastrutture aziende e fondazioni d'impresa-.
L'innovazione digitale svolge un ruolo abilitante che permette di mettere in rete i bisogni
sociali con le soluzioni per soddisfarli. Essa diventa il volano per la generazione,
ottimizzazione, promozione e attuazione di progetti di innovazione sociale che altrimenti
non avrebbero potuto accedere a risorse e competenze specifiche.
L'altro elemento innovativo delle fondazione d'impresa e delle Csr è costituito dalla forte
esigenza di misurazione dell'impatto sociale che dà concretezza al loro operato. Ad
esempio, Accenture ha all'attivo un programma globale di Corporate Citizenship
denominato Skills to Succeed che ha l'ob iettivo di offrire a oltre 3 milioni di persone in
tutto il mondo le competenze necessarie a ottenere un lavoro o avviare un'attività entro il
2020. E anche la Fondazione adotta strategie e obiettivi misurabili in termini di scalabilità,
replicabilità , formazione e occupabilità. Tutte le call for ideas che vengono abilitate
attraverso la piattaforma www.ideaTRE60.it si basano su valore sociale e sostenibilità
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economica. I due parametri chiave sono quindi la scalabilità e la replicabilità dei modelli
proposti, che devono essere parte integrante dei business plan. Un terzo elemento di
misurazione è la capacità di costituire una community dinamica, qualificata e attiva, grazie
al digitale. Il nostro modello, quindi, consiste nella capacità abilitare attività
economicamente sostenibili e ad alta innovazione sociale, in grado di generare posti di
lavoro e crescita sostenibile per le collettività. Inoltre, nel nostro operato di fondazione,
applichiamo modelli di innovazione sociale attraverso la creazione di network anche
digitali, con altri soggetti , fondazioni, Csr di altre imprese, Ong che insieme a noi
diventano moltiplicatori di erogazione di risorse finanziarie, competenze e formazione, al
servizio del not for profit. Le Fondazioni d'impresa e le Csr sono destinate a essere
germogli di un processo più ampio, che sta portando la responsabilità sociale dall'essere
una delle funzioni di supporto al business all'essere una componente organica delle
strategie di sviluppo d'impresa, con un approccio pervasivo in tutti le attività del business
stesso, dagli acquisti ai canali distributivi, dalla ricerca e sviluppo ai modelli produttivi della
circular economy, dalla gestione delle risorse umane al rapporto multi-stakeholder. I
campioni della prossima fase di sviluppo economico e sociale saranno tra quelli che
meglio e prima sapranno interpretare questa nuova convergenza tra profit e innovazione
sociale facendo leva sulla trasformazione digitale.
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ESTERI
del 28/10/15, pag. 1/6
Il degrado polacco
Rita di Leo
Prima di commentare le elezioni pensiamo a quanto ne sarebbe rimasta male la nostra
Rosa Luxemburg, che era polacca e consapevole delle peculiarità del paese.
Dopo che nel 1793 Austria, Germania e Russia se l’erano spartita, la Polonia è risorta nel
1918 come stato-nazione per volontà di Wilson e d’allora le sue vicende interne hanno
avuto un’influenza ben oltre le sue frontiere. Da allora i polacchi hanno sempre goduto di
un trattamento speciale, a destra e a sinistra. Persino paradossalmente nei 12 anni nazisti.
Quando i suoi territori (e i suoi abitanti) furono scelti come sedi sicure dei campi di
sterminio dei 3 milioni e mezzo di ebrei polacchi e degli altri ebrei europei.
Nella Polonia «regalata» da Churchill a Stalin, nella Polonia subalterna all’Urss, il modello
sovietico fu realizzato con varianti di riguardo. Per esempio la riforma agraria non si
trasformò in collettivizzazione e i contadini nei loro villaggi continuarono ad avere chiese e
parroci e in città vescovi e cardinali con legami ufficiali con il Vaticano. Per esempio
l’industrializzazione non fu accellerata e anzi i sindacati sperimentarono ‘consigli di
fabbrica’ e innovazioni più o meno ufficialmente «sostenuti» dai segretari del partito
comunista dell’epoca, da Gomulka, da Gierek che fu costretto a fare i conti anche con
significative rivolte operaie. Invece di stampo sovietico fu il controllo sugli intellettuali con
conseguenze che durano sino ad oggi.
La rivoluzione di Solidarnosc nel 1981 fu ascritta all’operaio Walensa ma dietro di lui vi
erano grandi intellettuali ebrei e grandi preti e cardinali, generosissimamente finanziati dal
papa polacco e dal presidente degli Stati uniti. Se capitavi a Varsavia in quel periodo
rimanevi stupito e impressionato dalle disponibilità dell’amico intellettuale.
Dopo la fine dell’Urss il paese divenne la scommessa da vincere nella costruzione
accelleratissima dell’economia di mercato. La shock therapy dell’economista Balcerowiz fu
la reazione, fredda e fondamentalista, alla pianificazione di Mosca. Ha certo cambiato la
società urbana ma l’altra? L’altra ha spazzato via sia gli sciamani del neo liberismo e sia le
briciole di un’alternativa di sinistra, tradizionalmente sotto schiaffo nel paese.
Nel nuovo Parlamento siederanno uomini e donne che a noi italiani appaiono la rinascita,
nel 2015, dei vincitori democristiani del nostro 18 aprile 1948. La stessa cultura, gli stessi
nemici, Russia e Germania, lo stesso alleato, gli Stati uniti ai quali chiedono una Nato più
presente, cui danno basi e prigioni per covert action.
La vittoria alle elezioni ha un’importanza che va definita in ogni suo aspetto. Intanto è la
prova che quasi mezzo secolo di gestione sovietica del paese ha lasciato solo odio per
averla subita, inoltre è la prova che quasi un quarto di secolo di gestione capitalistica ha
creato una reazione di rigetto per avervi creduto.
Infine vi è il rapporto con l’Unione Europea di cui si è rifiutata la moneta ma si sono pretesi
i benefici connessi al farne parte. Che cosa chiederà il nuovo governo? Non basterà più
come nel passato solo un trattamento di riguardo di carattere economico. Vorrà un ruolo
decisionale su questioni come i migranti, la cogente questione ucraina e più in generale la
collocazione europea sulla scena internazionale, e in primis porterà ancora più linfa alla
linea filoamericana di Bruxelles. Potrà farlo usando la carta dell’alleanza ad Est del
«gruppo di Visegrad», i quattro Paesi (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia)
che si sono alleati principalmente in funzione antiMosca e che contano 64 milioni di
abitanti.
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Da qualsiasi punto di osservazione geopolitica si scelga, la Polonia che esce dalle elezioni
è un colpo politico e culturale alle illusioni che ci portiamo dietro dal 1989. Illusioni che è
arrivato il momento di mettere in questione.
P.S. Oltre Rosa Luxemburg, vanno ricordati i grandi sociologi Thomas e Zananiecki per la
ricerca su Il contadino polacco in Europa e in America, i due fratelli narratori Singer, il
regista Roman Polaski e ancora altri.
del 28/10/15, pag. 6
Verso la repubblica catalana
Spagna. La risoluzione che impegna il «Parlament» a leggi
indipendentiste. Rajoy: «Mai». Sul partito di Mas si sta scatenando una
«biblica» tempesta giudiziaria
Luca Tancredi Barone
BARCELLONA
Benvenuti al giorno uno della prima legislatura indipendentista catalana. Lunedì, ultimo
giorno disponibile secondo la legge, si è riunito per la prima seduta il parlamento catalano
uscito dalle elezioni del 27 settembre. Un parlamento che vede una maggioranza
indipendentista formata da Junts pel Sí (coalizione di partiti e «società civile» a favore
dell’indipendenza), che propone l’uscente presidente Artur Mas, del partito di centrodestra
Convèrgencia democràtica de Catalunya, come nuovo capo dell’esecutivo catalano, con
62 seggi su 135; e dalla Cup, il partito di estrema sinistra, movimentista, anticapitalista e
femminista, che con i suoi 10 seggi ha in mano le chiavi per l’elezione del Govern. Gli altri
63 deputati sono ripartiti, per ordine di importanza, fra Ciutadans, il partito di destra
centralista e sempre più in auge, socialisti, Catalunya sí que es pot (coalizione di
Podemos, Izquierda unida e altri, che non si schierano sul fronte indipendentista) e, ultimi,
popolari. Senza la Cup, i 63 voti dell’opposizione ad Artur Mas e alleati possono bloccare
qualsiasi elezione.
La Cup ha promesso che mai e poi mai eleggerà Mas, mentre questi non ha intenzione di
mollare la poltrona per nessuna ragione al mondo. A decidere i tempi e i modi delle
trattative però è proprio la Cup, che saggiamente ha lasciato la questione del nome
all’ultimo momento, per discutere di tutti gli altri temi che stanno loro a cuore:
l’indipendenza da Madrid, certo, ma anche i temi dell’emergenza sociale di cui si sono fatti
portavoce. E Mas è costretto ad abbozzare, in attesa che si sciolga il nodo sul suo nome.
Il tutto mentre sul partito di Mas si sta scatenando una tempesta giudiziaria di proporzioni
bibliche: in carcere il tesoriere, il suo predecessore e la storica famiglia Pujol, di cui Mas è
erede politico, sotto inchiesta. I «morsi» del 3% del valore degli appalti pubblici, che già
dieci anni fa denunciava Pasqual Maragall, ultimo presidente catalano socialista, sono al
centro delle indagini giudiziarie che hanno subìto un probabilmente non casuale impulso
proprio nei giorni convulsi per la scelta del nuovo presidente. Mas parla di «caccia grossa»
verso di lui da parte dello stato spagnolo, ed è indubbio che la tempistica è quanto meno
sospetta. Tuttavia, da indiscrezioni della stampa (sempre informata con il dovuto anticipo
per ciascuno dei «blitz» polizieschi di questi giorni), gli indizi sui «contributi» al partito degli
impresari sempre in corrispondenza della vincita di gare d’appalto chiave sono sempre più
pesanti. E tutto questo non fa che portare acqua al mulino di chi Mas non lo vuole seduto
nel palazzo della Generalitat catalana. D’altra parte, Junts pel Sí è il partito di
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maggioranza relativa (cosa che in Catalogna così come nel resto della Spagna è
politicamente molto rilevante), ma con meno del 40% dei voti.
Intanto lunedì si è concretato l’accordo già raggiunto la settimana scorsa: a presiedere la
camera catalana è la numero due di Junts pel Sí, Carme Forcadell, filologa catalana, ex
militante di Esquerra Republicana (il partito di centrosinistra alleato di Mas in Junts pel Sí)
ed ex presidente dell’associazione pro indipendentista Assemblea nacional catalana
(Anc), una delle associazioni che hanno organizzato le oceaniche manifestazioni
indipendentiste degli ultimi anni. Che ha già suscitato reazioni isteriche e stracciamenti di
vesti nella stampa di Madrid per la conclusione del suo discorso di insediamento: «Viva la
democrazia, viva il popolo sovrano, viva la repubblica catalana». Oltre ai 72 voti
indipendentisti, ne ha ricevuti altri 5 da Catalunya sí que es pot (che dispone di 11 seggi)
come gesto «di fiducia». Il primo gol portato a casa dalla Cup è che il Parlament voterà
una risoluzione presentata ieri che lo impegna a iniziare entro trenta giorni il processo
verso la repubblica catalana con l’approvazione di leggi ad hoc e ignorando le istituzioni
spagnole. Il governo di Rajoy ha già promesso guerra senza quartiere.
Le convulse negoziazioni hanno raggiunto vertici notevoli di surrealismo. Uno dei temi più
spinosi è stata la distribuzione dei seggi in aula. Alla fine ha vinto temporaneamente
l’opzione che rompe lo schema destra/sinistra. Nella parte sinistra dell’emiciclo siederanno
i deputati di Junts pel sí e della Cup. Nella parte destra tutti gli altri. Anche la presidenza,
formata da sette membri compresa la presidente e fondamentale per mandare le leggi in
aula, è stata un rompicapo. Alla fine, dopo la rinuncia della Cup per essere il partito più
piccolo, per mantenere la maggioranza indipendentista Junts pel sí ne ottiene 4, gli altri tre
all’opposizione. Per l’elezione del capo dell’esecutivo c’è tempo fino a gennaio, dopo di
che si dovranno convocare nuove elezioni. Molto probabile che le trattive si trascinino fino
a capire cosa succederà a Madrid dopo le elezioni del 20 dicembre.
del 28/10/15, pag. 6
Voto a dicembre, Podemos centrista
Spagna. Rincorsa alla classe media. Mentre Ciudadanos vince in tv e
Psoe e Iu si radicalizzano
Massimo Serafini, Marina Turi
Da molte settimane i principali opinionisti politici sono concordi nell’affermare che l’esito
delle elezioni politiche spagnole del prossimo 20 dicembre sarà determinato dagli elettori
genericamente collocati al centro dello schieramento politico. Si tratta della famosa classe
media, un’area che raramente ha animato cambiamenti sociali e politici profondi, proprio
quelli di cui avrebbe bisogno la Spagna di oggi, dopo quattro disastrosi anni di governo
Rajoy. I dati degli ultimi sondaggi sembrano confermare questa tendenza.
È uno dei momenti più critici per Podemos e, più in generale, per quelle forze che
continuano ad ispirarsi al grande movimento che invase piazze e strade di tutta la Spagna,
chiedendo un paese completamente rinnovato nel suo modello sociale e di sviluppo e
soprattutto in grado di estendere a tutta l’Europa quel rinnovamento. E’ del tutto evidente,
infatti, che il peso crescente di questa area di elettori, sull’esito del voto, indica che quel
vento di cambiamento, che a febbraio aveva sospinto Podemos fino al 28%, oggi soffia
con meno intensità.
La crisi del partito di Pablo Iglesias ha le sue origini strutturali in questa attenuazione della
conflittualità sociale e nella difficoltà a rilanciarla. Proprio ora che in Spagna torna la fame,
torna una società dove precarietà e povertà sono così diffuse che il numero delle persone
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che non ha le risorse economiche sufficienti anche solo per nutrirsi adeguatamente è
cresciuto. Un paese che con le misure di austerity e i tagli voluti dal governo neoliberista
forse ha riportato alcuni indicatori economici a valori accettabili, ma certo non ha sanato il
rapporto deficit/Pil. Un paese dove il 10% della popolazione accumula il 55,6% della
ricchezza patrimoniale, generando un divario sempre più difficile da colmare.
L’impressione che si ricava dalle scelte di queste ultime settimane del gruppo dirigente di
Podemos è che si cerchi di rispondere al progressivo calo di consensi ridimensionando la
portata delle proprie proposte programmatiche.
Tra un Psoe che recupera l’intenzione di eliminare la religione dalle scuole, propone
l’istruzione obbligatoria fino ai 18 anni e promuove un accordo per limitare i compiti a casa
da svolgere fuori dall’orario scolastico e Ciudadanos che concentra le sue proposte sulla
eliminazione del contratti a tempo determinato per l’introduzione del contratto a tutele
crescenti, possibilista rispetto al reddito minimo solo per i lavoratori che non raggiungono
un livello sufficiente di entrate mensili, pensando ad una Iva più alta sui consumi di base.
Podemos concentra la sua attenzione su una riforma elettorale che elimini l’attuale
sistema basato sulle circoscrizioni, che favorisce il sistema maggioritario, propone un
accordo che blindi per costituzione l’indipendenza del potere giudiziario e chiede di
equiparare i diritti alla casa, all’educazione e alla sanità ai diritti civili difesi dalla
costituzione.
La speranza è catturare il voto degli elettori di centro, senza perdere l’elettorato più
radicalizzato. Questa scelta fino ad ora non ha pagato. Da un lato si registra una piccola
ripresa di Izquierda Unida e dall’altra il cosiddetto elettorato di centro preferisce dare
fiducia a Ciudadanos, il partito nato appositamente per ringiovanire e dare un volto
presentabile alla destra e per continuare a scaricare sugli spagnoli le scelte liberiste
imposte dalla Troica. Questo inseguimento dell’elettorato moderato lo si è percepito nella
chiusura al confronto, con le forze che hanno animato la coalizione di Ahora en Comun, in
particolare Izquierda Unida, ma anche nella vera e propria ossessione del gruppo dirigente
di Podemos di diffondere una immagine di sé meno bolivariana ed estremista, capace di
rassicuranti proposte di buon senso. Il confronto televisivo fra il leader di Podemos e
quello di Ciudadanos, ha forse segnato l’apice di questa svolta centrista del partito di
Iglesias.
Rivera, leader di Ciudadanos, ottimo neo liberale, quasi una versione spagnola di Renzi,
ha vinto il confronto, attirando sul suo progetto Iglesias, che è sembrato un buon
socialdemocratico. Per recuperare consensi Podemos ha bisogno di ricreare nella società
spagnola fiducia nel cambiamento, convincere l’elettorato che le grandi utopie del
movimento del 15M possono vincere. Può in poche parole riconquistare consensi se,
almeno in parte, saprà ricreare, in questi due mesi che mancano al voto, il clima sociale e
lo spirito degli indignati, quando era diffusa l’idea che il cambiamento andava conquistato
con le proprie mani, non delegandolo ad altri, tantomeno ad un leader carismatico. Ancora
due mesi per far capire agli spagnoli che Podemos continua a voler assaltare il cielo.
Non è molto tempo è vero, ma è altrettanto vero che l’evidente attenuazione della
conflittualità sociale non è legata alla soluzione dei problemi che portò milioni di spagnoli a
indignarsi. Disoccupazione, riduzione drastica delle prestazioni fondamentali dello stato
sociale e attacco alle libertà e ai diritti, compreso quello di manifestare liberamente il
proprio dissenso, sono tutti lì e quindi ancora presenti come ragioni per una nuova ondata
di indignazione. Promuoverla diventerà determinante per il risultato elettorale di Podemos
e delle forze che aspirano a farla finita con questa gestione della crisi.
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del 28/10/15, pag. 7
Armi, l’export frena e Tel Aviv trema
Industrie belliche. Le vendite sono scese da 7,5 miliardi di dollari del
2012, a 6,5 miliardi nel 2013 e a 5,5 miliardi del 2014. Quest'anno non si
andrà oltre i 4,4 miliardi di dollari. Israele comunque resta tra i primi 10
Paesi esportatori di armi
Michele Giorgio
GERUSALEMME
Le ricadute della nuova Intifada palestinese non preoccupano gli economisti israeliani.
Hotel e tour operator non registrano, per ora, un numero significativo di prenotazioni
annullate o altri problemi per il turismo a causa della “situazione instabile”. L’economia
israeliana però deve fare i conti con il crollo di un altro settore decisivo per il Pil nazionale:
la vendita di armi. Nei giorni scorsi i capi delle quattro principali industrie di produzioni
militari — Michael Federmann e Bezhalel Machlis di Elbit, Rafi Maor e Joseph Weiss delle
Israel Aerospace Industries (IAI), l’ex generale Yitzhak Gat e Yedidia Yaari della Rafael e il
generale Udi Adam e Avi Felder delle Israel Military Industries (IMI) – hanno inviato una
lettera al premier Netanyahu per chiedere un incontro urgente sui cambiamenti intervenuti
nel mercato delle armi dove Israele, malgrado le sue ridotte dimensioni, da molti anni
gioca un ruolo da gigante.
Nella lettera, pubblicata in parte dal giornale economico Globes, si sottolinea che
«L’industria della difesa in Israele è nel bel mezzo di una grave crisi: le esportazioni militari
sono scese da 7,5 miliardi di dollari del 2012, a 6,5 miliardi nel 2013 e a 5,5 miliardi del
2014. Quest’anno ci aspettiamo le esportazioni di totale 4,4 miliardi di dollari». Un dato
che se confermato segnerà il punto più basso per le esportazioni di armi israeliane da
dieci anni a questa parte. I capi delle principali industrie militari – tre di esse sono statali –
si lamentano anche perchè il bilancio della difesa per il 2016, a loro dire troppo magro, che
non lascia prevedere una crescita della domanda da parte del governo israeliano. Il
problema principale resta il crollo delle esportazioni nonostante i nuovi acquisti fatti in
particolare dall’India, Paese che più di altri compra armi israeliane. «C’è un rallentamento
economico e molti governi riducono le spese per la difesa», spiega Itamar Graff, vice
direttore del Sibat per gli affari internazionali del ministero della difesa, «molti Paesi
comprano meno armi, altri chiedono chela produzione e sviluppo delle armi avvengano
all’interno dei loro confini».
Non è servita ad invertire la tendenza neppure l’offensiva “Margine Protettivo” del 2014
contro Gaza, durante la quale Israele ha messo in mostra non poche delle sue
“produzioni” belliche più sofisticate. E non basta il successo globale che riscuotono i droni
“Made in Israel”. Eppure in Medio Oriente si comprano ogni anno armi per decine di
miliardi di dollari. I regnanti sauditi e di altre petromonarchie fanno felici le industrie militari
degli Stati Uniti, della Francia e di altri Paesi europei richiedendo aerei, carri armati,
blindati, mezzi navali, bombe e armi leggere per i loro arsenali. Questi mercati però sono
inaccessibili (ma non del tutto) per le industrie belliche israeliane, per la mancanza di
trattati e relazioni ufficiali con le monarchie del Golfo. Dietro le quinte le cose sono diverse.
28est1 sostituisce missile spike israele AP_473097031834
Fino a poco tempo fa delle esportazioni di armi israeliane riferivano solo i giornali locali e i
media internazionali specializzati. Poi su ordine di un tribunale israeliano, il governo
Netanyahu pubblicò un paio d’anni fa una lista, peraltro parziale, di Paesi acquirenti tra i
quali Spagna, Stati Uniti, in Kenya, Corea del Sud, Regno Unito, Cile, Messico, Colombia.
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Spicca il costante aumento delle esportazioni di armi verso l’Africa (Ciad, Botswana,
Ruanda, Camerun, Uganda) cresciuto del 40% dal 2013 al 2014. I principali acquirenti
restano però i Paesi dell’Asia e del Pacifico: $ 3 miliardi nel 2014. Tra le richieste di alto
profilo c’è la vendita all’India di missili, in particolare gli Spike, usati in abbondanza contro
Gaza l’anno scorso. In ogni caso, nonostante il calo netto che si registrerà a fine anno,
Israele era e resta uno dei primi 10 esportatori di armi.
Le armi in dotazione del suo Esercito nel frattempo continuano a dimostrarsi letali nei
confronti dei palestinesi. Ieri sera nei pressi delle colonie di Etzion, tra Betlemme ed
Hebron, nella Cisgiordania occupata, un soldato, con una raffica del suo mitra, ha ucciso
sul colpo due palestinesi che qualche attimo prima avevano accoltellato e ferito non
gravemente un altro militare. A Hebron nei pressi di Bab Zawiye, almeno 13 palestinesi
sono stati feriti durante il raduno di protesta per la mancata restituzione alle famiglie dei
corpi di 11 giovani uccisi dai militari durante o subito dopo attacchi tentati o compiuti
contro israeliani. Ieri in un ospedale di Gerusalemme è deceduto Richard Leikin, 76 anni,
un israeliano ferito due settimane fa in un attentato palestinese contro un autobus nella
colonia Armon HaNetsiv in cui morirono due passeggeri.
del 28/10/15, pag. 7
Il Pentagono: mandare truppe di terra in
Medio Oriente
Siria/Iraq. La sicurezza Usa consiglia ad Obama di mandare unità
speciali sui fronti siriano e iracheno, per rispondere al ruolo russo.
Anche l'Iran manderà altri generali per garantirsi il dopoguerra
Chiara Cruciati
La Russia preme sul fronte mediorientale, tanto da poter stravolgere la politica finora
seguita dal presidente Usa Obama, “nessuno stivale sul terreno”. A fare pressioni sulla
Casa Bianca è il Pentagono: secondo quanto riportato ieri dal Washington Post, consiglieri
della sicurezza hanno suggerito di spostare truppe di terra in Siria e Iraq.
La proposta, dicono fonti anonime, riguarda il dispiegamento di forze speciali in territorio
siriano e consiglieri militari sulle linee del fronte iracheno. Anche se dovrebbe trattarsi di
numeri limitati, una simile iniziativa richiederebbe l’autorizzazione formale di Obama, il
presidente che ha ritirato le truppe dall’Iraq e promesso di non inviarne altre. Ad un anno
dalla fine del suo mandato, il presidente è sotto pressione: sempre più numerosi i
consiglieri che puntano sui marines a terra, anche se lontani dai combattimenti.
Secondo il Washington Post, è possibile che le forze speciali vengano mandate per
coordinarsi con i combattenti alleati sul terreno (siriani moderati e kurdi siriani delle Ypg) e
per ricevere informazioni di intelligence, ormai assenti dopo la scomparsa dell’Esercito
Libero. Nel mirino ci sarebbero la siriana Raqqa e l’irachena Ramadi, roccaforti Isis che,
se riprese, indebolirebbero non poco il califfato.
Operazioni militari o no, la proposta è indicativa della fretta che pervade l’establishment
statunitense alle prese con la prepotenza militare e diplomatica russa. Un ruolo, quello di
Mosca, che se preoccupa gli Stati uniti e i loro stretti alleati, fa muovere anche l’Iran:
Teheran, che dalla Russia ha ricevuto sostegno e che con Putin condivide il supporto al
presidente siriano Assad, starebbe inviando altri consiglieri militari nel paese. L’Iran
intende rafforzare la propria presenza, finora gestita dalle Guardie Rivoluzionarie e da
150mila miliziani sciiti, per segnare punti importanti sul campo di battaglia. Abbastanza
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importanti da sedersi al futuro tavolo del negoziato e partecipare attivamente alla
definizione di condizioni finali che tutelino l’asse sciita.
Di negoziati torna a parlare il segretario di Stato Usa Kerry che sta organizzando per
venerdì a Vienna un nuovo incontro sulla guerra civile siriana e il futuro del presidente
Assad. Secondo il Dipartimento di Stato, vi prenderanno parte una decina di paesi arabi e
europei. Non è ancora confermata la presenza dell’Iran.
del 28/10/15, pag. 16
Il piano di Obama: soldati in Siria e Iraq
La Casa Bianca cambia strategia, più raid e incursioni. Obiettivi: Raqqa
e Ramadi, le roccaforti dell’Isis
WASHINGTON La Casa Bianca cambia ancora. Con la concorrenza russa nella regione e
il duello con i cinesi, Barack Obama deve reagire e rilancia l’iniziativa contro l’Isis con le
forze americane di fatto in prima linea. Il segretario alla Difesa Ashton Carter,
intervenendo al Congresso, ha indicato la strategia delle «tre R». Raqqa, in Siria; Ramadi,
in Iraq; raid aerei e di unità scelte. Una mossa che verrà deliberata ufficialmente entro
qualche giorno.
Dopo lunghe discussioni, è stato deciso di accantonare per ora la creazione di una zona di
sicurezza. In alternativa ci sarà un maggiore numero di incursioni, i bombardamenti
saranno più pesanti e sarà aumentato il numero di velivoli. Caccia che agiranno dalle basi
del Golfo, dalla Turchia e probabilmente anche dall’alleato di ferro, la Giordania. Nel mirino
degli strikes , oltre ai reparti dello Stato Islamico, i quadri e i capi del movimento, insieme
alla strutture petrolifere, così vitali per il budget del Califfo. Missioni che comportano
problemi non solo sul piano militare: più si spara e più c’è il pericolo di coinvolgere vittime
innocenti.
L’altro aspetto è quello delle Special Forces. Il presidente Usa è sempre contrario ad un
ruolo combattente, però dovrà cedere qualcosa ai militari che, pur contrari a infilarsi in
nuove avventure, chiedono dispositivi adeguati. Gli Stati Uniti invieranno piccole unità in
Siria per sostenere l’alleanza composta dai curdi Ypg e da circa 5 mila insorti siriani. Lo
schieramento che ha ricevuto circa 50 tonnellate di armi paracadutate da cargo
statunitensi. Con questa «lancia» Washington punterà sulla roccaforte dell’Isis a Raqqa.
Oggi gli insorti sono ad alcune decine di miglia, ma la cittadina è ben difesa da mujaheddin
molto addestrati. Inoltre gli osservatori dubitano della tenuta del patto tra curdi e arabi. A
questo si aggiunge l’ostilità della Turchia. Due giorni fa Ankara ha aperto il fuoco sui curdi
che hanno attraversato verso ovest l’Eufrate, limite geografico e linea rossa tracciata da
Erdogan.
In Iraq, invece, gli americani intendono inserire i loro uomini a livello di brigata, al fianco
dell’esercito locale. Soldati che dovranno aiutare i governativi a riprendere Ramadi. Un
ruolo di supporto, coordinamento che si somma al compito di guidare da terra i raid della
coalizione. È evidente che in questo modo saranno molto vicini alla zona degli scontri.
Facile che possano essere coinvolti in un fronte dove i jihadisti sono altamente mobili e
tendono a colpire il nemico con ondate di veicoli-bomba guidati dai kamikaze. Che piaccia
o meno, sono i famosi «scarponi sul terreno». Con tutto quello che ne consegue.
Un timore di perdite che contagia anche il baldanzoso Putin, molto attento a coprire le sue.
Ieri è stata confermata la morte di un tecnico dell’aviazione, Vadim Kostenko, in servizio
nella base siriana di Latakia. Le fonti ufficiali hanno parlato di «suicidio per motivi
sentimentali», versione respinta in modo netto dalla famiglia: non ci crediamo. Sullo
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sfondo le mosse diplomatiche, con contatti e colloqui, compreso l’invito all’Iran a
partecipare alle discussioni in corso. È la prima volta.
Guido Olimpi
Del 28/10/2015, pag. 14
“Is,truppe in prima linea” l’ultima battaglia di
Obama il guerriero riluttante
VITTORIO ZUCCONI
LO SCENARIO
WASHINGTON
ENTRATO alla Casa Bianca nel segno della pace, Barack Obama si prepara a uscirne nel
segno delle guerre. Si rovesciano sulla sua massiccia scrivania di quercia nello Studio
Ovale scavata dal legno di una nave da battaglia inglese, nuovi focolari di crisi e di scontri,
senza che quelli ereditati si chiudano, dalla Cina all’Iraq, dall’Afghanistan all’Ucraina.
Gli Stati Uniti non sono in guerra con nessuno, eppure sono invischiati in più fronti di
guerre dette “a bassa intensità” soltanto da chi non vi combatte e vi muore di quante
abbiano vissuto dalla fine del Secondo Conflitto. La maledizione della “superpotenza”,
responsabile di tutti i problemi ma senza avere tutto le soluzioni, si ripresenta.
Si scalda, per ora a fuoco lento, il contrasto sempre più evidente con la Cina nelle acque
del Mar Meridionale, dove il cacciatorpediniere USS Lassen ha incrociato a 22 miglia
nautiche di distanza una delle isole artificiali che Pechino sta attrezzando nell’arcipelago
conteso delle Spratly, come base aeronavale. Un passaggio che ha scatenato la furiosa
reazione verbale del governo di Pechino. «Se gli Usa pensano di evitare l’accelerazione
del riarmo cinese provocandoci, avranno esattamente il contrario di quello che vogliono »
hanno tuonato.
Provocazioni e controprovocazioni in quelle acque punteggiate da isolotti naturali e
artificiali contesi da quattro nazioni asiatiche e pattugliate dalle unità della flotta Usa sono
eventi regolari nella partita a scacchi fra la vecchia e la nuova superpotenza, ma la
missione del lanciamissili Lassen si spiega soltanto con il desiderio degli alti comandi
americani, dunque di Obama, di mostrarlo per quello che è accusato di non essere: un
duro. Nell’appannarsi dei sogni di “Grande Pacificatore”, espressi con quel Nobel
incautamente prematuro e con il discorso del Cairo diretto al mondo musulmano, il
Presidente combatte contro la propria natura accomodante di moderato e di mediatore per
ascoltare il richiamo della forza. Il Pentagono, i suoi generali e i suoi strateghi, lo stanno
persuadendo a inviare unità speciali, reparti combattenti al fronte in Iraq, per partecipare
direttamente alla riconquista delle città inghiottite dallo stato islamico, dall’Is, come
Ramadi, di fronte alla desolante e confermata inettitudine dell’inetto esercito fantoccio di
Bagdad. Altri reparti americani saranno trasportati in Siria, per unirsi ai ribelli “buoni” e
battersi contro quel regime di Assad che le forze spedite da Putin stanno invece cercando
di puntellare, al ritmo di 285 bombardamenti aerei al giorno. «Non saranno stivali sul
terreno — hanno detto al Washington Post le fonti che hanno fatto sapere ai giornali quello
che dovevano far sapere — ma sneaker , unità leggere e mobili». Quante? «Un numero
relativamente piccolo», risponde il Pentagono, dove quell’avverbio, «relativamente »,
significa tutto e il contrario di tutto. Dopo la decisione di violare la solenne promessa
elettorale del disimpegno totale dall’Afghanistan entro il 2014, ormai la guerra più lunga
nella storia della repubblica nordamericana, lasciando “in Country”, come dice lo slang
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militare, nel Paese, 9.800 soldati per tutto il 2016, la scelta, spinta dal segretario di Stato
Kerry e dal segretario alla Difesa Ashton Carter, di muovere i reparti speciali in Siria e in
Iraq sulla linea del fuoco e di abbandonare la finzione dei “consiglieri e istruttori” è il
tradimento finale che Obama compie contro se stesso.
Ma anche lui, come tanti dei suoi predecessori, sta riscoprendo la verità di una celebre
osservazione di John F. Kennedy sul mondo «che appare molto diverso quando è visto da
fuori e quando è visto dall’interno delle finestre dello Studio Ovale». La sciagurata
strategia dei “cambi di regime” e della “democrazia da esportare”, costruita sul ca- stello di
menzogne ora tardivamente riconosciute anche dal fedele scudiero di George W. Bush,
Tony Blair, si è sgretolata ovunque, lasciando Obama nella posizione impossibile di
perdere comunque. Perde se lascia il campo al ritorno del Taliban in Afghanistan e al
trionfo dell’orrore in Siria. Perde se rimane, con forze sufficienti per far dire che ha tradito
le promesse, ma non per controllare nazioni incontrollabili.
Ora troppo falco per le colombe e troppo colomba per i falchi, il Presidente nella solitudine
del proprio tramonto deve anche rintuzzare l’impressione di essere stato aggirato dalla
“mossa del cavallo” di Putin, spregiudicato protagonista di un intervento militare che
pretende di convincere Assad ad andarsene e indire libere elezioni, ma soltanto dopo
avere consolidato la presa della sua dittatura sulla Siria, una sfacciata contraddizione
logica e politica. Ma a differenza di Putin, signore del Parlamento russo addomesticato e di
un’opinione pubblica controllata dalla prepotenza dell’informazione di stato, Obama deve
combattere i suoi molti piccoli Vietnam con le mani legate da un Congresso ostile, da un
partito Democratico minoritario che già si è diviso sulla decisione di mandare truppe Usa in
prima linea. E da una signora, Hillary Clinton che freme d’ansia, perché vorrebbe portare
in campagna elettorali successi in quella politica estere che lei stessa, come Segretaria di
Stato, ha tanto contribuito a costruire.
Mai come ora, neppure nei mesi della battaglia per la Riforma della Sanità, che almeno
godeva di sostegno popolare ne sondaggi, Obama è solo e proprio in quell’ultimo anno
della presidenza, quando gli inquilini uscenti agiscono pensando ossessivamente alla loro
eredità storica, al ricordo che lasceranno nella memoria futura della nazione. Si batte,
dietro le finestre dello Studio Ovale, per contenere i danni, per far correre il cronometro
senza aggravare il punteggio della partita fra l’America e il Resto del Mondo, in attesa di
quel giorno del gennaio 2017 quando arriverà per lui la liberazione.
Gli Stati Uniti sono invischiati in vari conflitti detti “a bassa intensità” Il Pentagono lo vuole
convincere a inviare unità speciali al fronte in Siria e Iraq.
del 28/10/15, pag. 7
Il patto con il diavolo al Qaeda si ritorce
contro la coalizione a guida saudita
Yemen. I qaedisti controllano due province a sud e imperversano nella
città di Aden. Il governo tenta di negoziare, ma fallisce. Questo il
risultato dell'aggressione militare saudita al paese
Chiara Cruciati
Il governo ufficiale yemenita si ostina a non voler negoziare con il movimento ribelle
Houthi, ma negozia con un attore ben più pericoloso del conflitto: al Qaeda. Negozia ma
non ottiene nulla, perché dopo aver approfittato dei miliziani qaedisti ora non li tiene a
bada. È l’ennesimo catastrofico risultato della politica della coalizione anti-sciita guidata
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dall’Arabia saudita: il braccio più potente della rete islamista, al Qaeda nella Penisola
Arabica (Aqap), è una delle nuove autorità militari e amministrative nel sud dello Yemen.
Il fronte anti-Houthi si ritrova vittima della propria stessa strategia. Seppure la coalizione
abbia negato un coordinamento diretto, i miliziani di al Qaeda hanno sostenuto l’avanzata
via terra delle truppe fedeli al presidente Hadi nella città costiera di Aden: a luglio, mentre
l’esercito governativo riprendeva la città, bandiere nere sventolavano tra le strade liberate
dalla presenza Houthi.
Da Aden al Qaeda non se n’è mai andata: i suoi miliziani sono rimasti allargandosi in
alcuni quartieri, fino ad arrivare a esporre proprie bandiere su edifici pubblici e stazioni di
polizia. Una presenza che preoccupa Riyadh e che si aggiunge alla crescita del
movimento secessionista meridionale, altra forza anti-Houthi che ora chiede la propria
ricompensa. Preoccupa tanto da aver spinto il governo ufficiale yemenita a negoziare con
Aqap per chiederne il ritiro da Aden e l’abbandono delle armi.
I mediatori, membri di tribù locali, hanno tentato di convincere al Qaeda a ritirarsi anche da
altre aree nelle province vicine, come al-Houta, capitale della provincia di Lahj, e da
Zinjibar, capitale di quella di Abyan (recentemente strappata al controllo Houthi). Niente da
fare, al Qaeda non intende piegarsi alle richieste governative e sfida apertamente la
coalizione: secondo funzionari anonimi, i qaedisti hanno risposto di voler rimanere e
partecipare alla gestione della città, perché hanno preso parte alla sua liberazione.
Al no consegnato ai mediatori fanno da contraltare dimostrazioni di forza per le strade di
Aden: gruppi di uomini armati e a volto coperto – scrive il reporter Sami Aboudi sulla
Reuters – dettano legge e attaccano supermercati per costringere le cassiere a coprirsi il
volto, i campus universitari per non fa studiare insieme ragazzi e ragazze. «Dicono di
volere il rispetto della Shari’a – dicono i residenti alla stampa – Normale che accada: qua
non c’è governo, non c’è Stato».
Pochi giorni fa sospetti miliziani qaedisti sono entrati nella principale prigione di Aden,
ucciso quattro guardie e liberato un prigioniero. Nel mirino ci sono gli ex alleati, le forze
fedeli al governo Hadi: tre settimane fa, kamikaze si sono fatti saltare in aria di fronte al
quartier generale del governo in città e lunedì un attentatore suicida ha ucciso due soldati
ad un checkpoint fuori città. Al Qaeda presenta un conto di sangue a Riyadh che ne ha
sfruttato la forza militare pensando di non dover pagare. Per ora gli Stati uniti restano a
guardare, forse per l’imbarazzo: un alleato stretto come l’Arabia saudita ha messo in
pericolo anni di guerra a distanza, la guerra dei droni, contro al Qaeda, di cui Washington
a sempre fatto bella mostra.
Dalla loro i qaedisti non hanno solo una rete globale, ma denaro e sostegno tribale: nella
storica provincia orientale di Hadramaut, hanno dato vita negli ultimi mesi ad una vera e
propria amministrazione parallela, creando consigli di villaggio insieme alle tribù locali.
Forniscono protezione contro lo spauracchio Houthi, in cambio ottengono fedeltà. Un
modello nuovo, simile a quello instaurato a Raqqa, “capitale” siriana del califfato, dallo
Stato Islamico. Il controllo del principale porto della provincia, Mukalla, gli garantisce il
denaro necessario: la vendita del greggio là immagazzinato al mercato nero avrebbe
permesso ai qaedisti di incassare sei milioni di dollari.
del 28/10/15, pag. 16
Nave Usa nelle isole contese Washington
lancia la sfida Volano i titoli militari cinesi
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Alla Borsa di Shanghai le aziende della Difesa su del 10%
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
PECHINO La missione affidata dal Pentagono al cacciatorpediniere USS Lassen era
chiara: mostrare la bandiera di fronte alle isole artificiali costruite dal genio militare cinese
nell’arcipelago delle Spratly. «In nome della libertà di navigazione», ha detto un portavoce
a Washington. La nave Lassen ha varcato il perimetro delle 12 miglia nautiche dagli atolli
di Subi e Mischief, che fino a pochi mesi fa erano poco più che barriere coralline e scogli
spesso sommersi dalla marea e con lavori rapidi e imponenti sono stati ampliati e rinforzati
con colate di cemento; dotati di impianti radar, fari, moli e strisce asfaltate lunghe tre
chilometri utilizzabili come piste per cacciabombardieri. In base alla legge internazionale il
perimetro delle 12 miglia (22 km) rappresenta il limite delle acque territoriali: e secondo
Pechino quel tratto di Mar cinese meridionale è ora «zona sovrana».
Pechino ha subito protestato, definendo l’incursione «una provocazione e una minaccia
irresponsabile» e convocando l’ambasciatore americano al ministero degli Esteri. I militari
cinesi sostengono di aver seguito l’azione e tallonato il caccia della US Navy con una loro
unità, il Kunming . Una reazione comunque moderata, per ora.
L’operazione compiuta ieri mattina nel Mar cinese meridionale era stata autorizzata dalla
Casa Bianca, che non può non aver valutato la circostanza che in questi giorni è riunito il
Plenum del Comitato centrale del Partito comunista. Un messaggio diretto al presidente Xi
Jinping, dunque. Gli Stati Uniti non assisteranno passivamente all’espansionismo cinese in
un tratto di oceano lungo il quale transitano ogni anno mercantili con carichi del valore di 5
mila miliardi di dollari, un terzo del commercio mondiale. Le Spratly, chiamate Nansha in
mandarino, sono un arcipelago di circa 700 isolotti, scogli, atolli corallini che
complessivamente non superano i cinque chilometri quadrati, sparsi in una zona di oceano
vasta circa 420 mila chilometri quadrati. Le Spratly sono rivendicate anche da Filippine,
Vietnam, Malesia, Brunei, Taiwan. Pechino reclama la sovranità del 90 per cento di quel
mare sotto il quale si pensa possano trovarsi giacimenti di gas e petrolio. I cinesi
affermano di avere «diritti storici» anche sulle isole Paracel, che si trovano più a nord.
È dal 2012 che Pechino ha cominciato a colonizzare alcuni atolli, mentre su altri c’è attività
da parte dei filippini e dei vietnamiti. I lavori sono stati accelerati nel 2014 e quest’anno
foto satellitari hanno rivelato che alle Spratly-Nansha i cinesi hanno già costruito sette
isole artificiali per 800 ettari. Una grande muraglia sul mare.
La contesa ha certamente un valore economico, viste le risorse naturali e il traffico
commerciale, ma racchiude anche la nuova strategia di potenza di Xi Jinping. La
costruzione di avamposti a più di mille miglia dalla costa continentale permette di
proiettare la forza aeronavale della Cina e di contrastare la schiacciante superiorità
americana per quanto riguarda le portaerei: la US Navy ne potrebbe schierare almeno una
decina, mentre la flotta della Repubblica popolare ne ha una sola, di incerta capacità
operativa. Tre isole artificiali dotate di campi d’aviazione possono cambiare gli equilibri.
L’azione della USS Lassen ha avuto un effetto collaterale inatteso: in Borsa a Shanghai
ieri titoli delle principali industrie militari cinesi hanno fatto un balzo del 10 per cento. Il
mercato azionario fiuta tempi di confronto. E i politologi ricordano la Trappola di Tucidide:
secondo lo storico greco l’ascesa di Atene nel V secolo avanti Cristo spaventò Sparta e
rese la guerra inevitabile. Ora la Cina è la potenza emergente. Xi Jinping ha assicurato
che Pechino e Washington sono troppo legate da interessi economici per cadere nella
trappola. Ma un incidente è sempre possibile. Il colonnello cinese Liu Mingfu, teorico
militare, ha detto al New Yok Times : «Solo gli ingenui pensano che una guerra non ci
sarà mai» .
Guido Santevecchi
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Del 28/10/2015, pag. 14
Nave militare tra le isole contese la sfida
dell’America alla Cina
La Us Navy nell’arcipelago delle Spratly,Pechino minaccia: “Si rischia
un conflitto”. La replica: sono acque internazionali,torneremo
GIAMPAOLO VISETTI
Barack Obama sfida Xi Jinping e il Pacifico conferma di essersi trasformato nella nuova
arena per lo scontro tra le due super-potenze del secolo. Un cacciatorpediniere della
marina Usa ha navigato ieri fra le isole del Mar cinese meridionale, che Pechino rivendica
come proprie e che sono contese da altri cinque Paesi del Sudest asiatico. Minacciosa la
reazione della Cina, che ha parlato di «illegale provocazione» e di «show politico», che
«non intimoriscono una nazione che non ha più paura di combattere una guerra contro gli
Usa nella regione ». A settant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale torna così a
esplodere in Oriente una tensione mai così alta della fine della Guerra Fredda. Il portavoce
del dipartimento di Stato Usa, John Kirby, ha risposto a Pechino che «non è necessario
consultare nessuno quando si esercita il diritto di libera navigazione in acque
internazionali» e che «una delle ragioni per le quali un Paese ha una Marina militare è
quella di essere nelle condizioni di influenzare e difendere la navigazione». Dopo vani
tentativi diplomatici di bloccare l’azione americana, il ministro degli Esteri cinese, Jiang
Jiechi, ha intimato alla Casa Bianca «di pensarci bene prima di agire ancora ciecamente»
e di «non creare problemi dal nulla». Gelida la replica del Pentagono. «Questa missione –
ha detto il portavoce – sarà solo la prima di altre azioni di pattugliamento, che avverranno
su base regolare e che non saranno dirette solo contro la Cina». Il cacciatorpediniere da
guerra “USS Lassen” è arrivato ieri mattina a 12 miglia nautiche dalle isole artificiali Subi e
Mischief, due atolli appena affioranti nell’arcipelago delle Spratly, contese tra Cina,
Vietnam, Filippine, Brunei e Taiwan. Sugli isolotti, costruiti dalla Cina nell’ultimo anno
ammassando sabbia, cemento e piloni d’acciaio, Pechino ha realizzato piste d’atterraggio,
caserme, strade e perfino due fari che dovrebbero «rendere più sicura la navigazione».
Ignorando gli avvertimenti cinesi, per tre ore la nave americana ha sfidato la rivendicata
sovranità della Cina sulla ribattezzata «Grande Muraglia di sabbia» pattugliando la
barriera corallina, protetta dall’alto da due aerei da ricognizione. Nessuna reazione militare
da parte cinese, anche se tra le oltre 750 isolette degli arcipelaghi da settimane sono
segnalate una ventina di navi da guerra dell’esercito popolare. Lo scontro Cina-Usa,
replica di quello che nel Mar cinese orientale oppone Pechino a Tokyo per il controllo delle
isole Diaoyu-Senkaku, prende a pretesto una diversa interpretazione del diritto di
navigazione. Secondo Washington i vincoli delle acque territoriali non si applicano a
strutture marine artificiali. Per Pechino sì e ciò spiega la difesa delle 12 miglia dalle basi
costruite a oltre mille chilometri dalla costa cinese. A nessuno ovviamente interessano i
banchi di sabbia dispersi nel Pacifico. La posta in palio, oltre al primato dell’influenza
globale, è ben più alta. In questo braccio d’oceano si trovano bassi fondali ricchi di materie
prime, oltre che tra le ultime acque pescose del pianeta. Qui transitano però prima di tutto
merci che valgono 5 mila miliardi di dollari all’anno. Chi domina il Mar cinese meridionale
può evitare lunghi, rischiosi e costosi tragitti oceanici, assicurandosi il monopolio del
commercio per i prossimi decenni. Cina e Asia sono sia la prima fabbrica che il primo
mercato del mondo: impadronirsi della più importante arteria internazionale dei consumi
significa decidere per tutti sia i prodotti che i prezzi. Per gli Stati Uniti riaffacciarsi
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militarmente nel Pacifico serve a rallentare l’espansione cinese, disturbare l’asse PechinoMosca e rassicurare gli alleati, dal Giappone all’Australia e dall’India al Vietnam. La Cina è
decisa invece a scongiurare la sua prima grande crisi economica e a diventare la potenza
egemone dell’Asia, sostituendo l’influenza Usa anche in Europa. L’incidente di ieri non è
del resto il primo. A metà maggio il Pentagono aveva inviato a sorvolare le Spratly un jet
da guerra P-8° con a bordo una troupe televisiva della Cnn . In settembre, mentre Xi
Jinping atterrava a Washington per la sua prima visita ufficiale negli Usa, cinque navi da
guerra cinesi sono transitate al largo dell’Alaska, in acque statunitensi. Obama teme che
dal mare Xi passi presto al cielo, allargando sopra il Pacifico anche il proprio spazio aereo,
ricostruendo l’antica linea di difesa imperiale attraverso una serie di Zone di identificazione
aerea (Adiz). Per adesso siamo alle prove di guerra: ma passare alle armi ormai è solo
una questione di quelle che Pechino definisce «quotidiane opportunità strategiche».
La posta in palio è alta: i fondali sono ricchi di materie prime. E chi controlla quelle rotte si
assicura il monopolio del commercio per i prossimi anni
del 28/10/15, pag. 9
CUBA · Onu approva risoluzione contro
embargo
L’Assemblea Generale dell'Onu ha approvato a New York per il ventiquattresimo anno
consecutivo, e a maggioranza schiacciante, una risoluzione che chiede la revoca
dell’embargo degli Stati Uniti contro Cuba, in vigore dal 1962. La risoluzione è stata
approvata con 191 voti a favore e due soli contrari, Usa e Israele. Ma - come sottlineato
dalla quasi totalità dei media internazionali - dopo il disgelo degli ultimi mesi tra
Washington e L’Avana la fine del blocco da parte americana non è mai stata così vicina.
La risoluzione contro il bloque ha ormai una sua storia propria: Cuba ha presentato per la
prima volta il testo nel 1991. Gli Usa agirono perché non venisse preso in considerazione,
in attesa di quello che veniva considerato un imminente crollo del socialismo cubano.
L’Avana ha ripresentato il testo l’anno dopo e l’assemblea delle nazioni unite l’ha
approvato con 59 sì, tre contrari e 71 astenuti. Nel frattempo dall’Avana giunge la notizia
delle dimissioni dello storico ministro dell’Interno cubano Abelardo Colome Ibarra, figura
simbolo della rivoluzione cubana che ha accompagnato i fratelli Castro quando hanno
rovesciato il dittatore Fulgencio Batista nel 1959. Le dimissioni sono giunte per motivi di
salute. Lo ha annunciato ieri sera il governo di Cuba. Un comunicato letto alla televisione
di Stato, afferma che il presidente Raul Castro ha accettato le dimissioni del rivoluzionario,
soldato e ufficiale dell'intelligence conosciuto con il soprannome di «Furry». «Dei miei 76
anni di vita, ne ho dedicato 60 alla rivoluzione e finché sarò vivo resterò un soldato in
servizio e un militante del Partito comunista che mi ha educato - afferma Colome in una
dichiarazione del 21 ottobre diffusa solo ieri sera -, ma ultimamente ho la sensazione che
la mia salute non sia la stessa e mi sento in dovere di presentare le mie dimissioni formali
dall'alta politica, dallo Stato, dal Governo e dalle postazioni militari».
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Del 28/10/2015, pag. 21
Terrorismo. A Cagliari giudizio immediato per 11 affiliati della rete: “I
soldi per finanziare l’attentato furono raccolti nel nostro paese e poi fatti
arrivare in Pakistan sui voli partiti da Fiumicino”
“Strage di Peshawar organizzata a Olbia”
Alla sbarra la cellula di Al Qaeda in Italia
PAOLO BERIZZI
Al Qaeda Italia va alla sbarra. Con le sue bombe, i kalashnikov, le esecuzioni talebane, i
corpi mutilati «in nome di Allah». E un fiume di denaro sporco di sangue. Drenato dalle
collette delle comunità musulmane del nostro Paese (e della Norvegia) e trasportato
(anche) in aereo da Roma a Islamabad dai sodali “italiani” di Osama Bin Laden: una
cellula jihadista attiva — dal 2005 al 2015 — tra la Capitale, Olbia e Bergamo. Una cellula
«strutturata» e «bene organizzata» che progettava di colpire anche in Italia.
Per capire il peso e l’urgenza del decreto di giudizio immediato con cui il gip Ermengarda
Ferrarese manda a processo 11 presunti terroristi (sono quelli finiti in manette, 19
complessivamente gli indagati) della rete qaedista sgominata a aprile dalla procura di
Cagliari, bisogna leggere con attenzione il provvedimento.
A partire dal capo di imputazione più grave: strage. Ce n’è una, in particolare, incisa nella
storia degli attentati che insanguinano da anni Pakistan e Afghanistan: 28 ottobre 2009. A
poche ore dall’arrivo a Islamabad del segretario di Stato americano, Hillary Clinton,
un’autobomba esplode nel mercato Meena Bazar, a Peshawar, falciando oltre 100
persone e ferendone 200.
Eccoli, stando alle accuse di Danilo Tronci — il pm che coordina l’inchiesta sfociata in
quello che si può definire, di fatto, il primo processo istruito contro Al Qaeda dalla
magistratura italiana — cinque dei responsabili di quella strage. Si chiamano Ridi Yahya
Khan, Siyar Khan, Sultan Khan, Imitias Khan e Sher Khan, quest’ultimo latitante. Tutti
pachistani tranne Ridi, afgano. Stesso cognome, stesso carcere di Rossano calabro.
Riassume il gip: «Assieme ad altri soggetti, non ancora identificati, hanno fatto deflagrare
un potente ordigno nel mercato cittadino Meena Bazar…» . Dov’è stata organizzata la
strage? «In Italia, segnatamente a Olbia» . È nella città gallurese che viveva e operava
Imitias Khan. Quel 28 ottobre, però, Khan è a Peshawar. «La terra tremava
dall’esplosione! — nel mercato si apre un cratere —. Gli ho detto “ringraziate che siete
salvi”» , confida al telefono un suo complice. Tirando il filo che tiene insieme oltre 4mila
conversazioni — telefoniche e ambientali — e seguendo gli spostamenti degli jihadisti in
stretto contatto con il capo di Al Qaeda Osama Bin Laden, la procura cagliaritana mette in
cornice un quadro accusatorio di fronte al quale il gip, adesso, decide di procedere con
giudizio immediato. La prima udienza è fissata per il 17 dicembre davanti alla Corte
d’Assise di Sassari. Gli imputati, tra i quali spicca l’ex imam di Bergamo, Muhammad Hafiz
Zulkifal, ritenuto il capo dell’organizzazione, dovranno rispondere di una sfilza di reati:
strage, attentato, omicidio, oltreché, ovviamente, costituzione di associazione terroristica e
finanziamento della stessa.
Gli obiettivi? «Infrastrutture, esponenti di istituzioni pubbliche e fedeli di altre religioni ».
Tra 2009 e 2011, in Pakistan e Afghanistan, il tritolo e i mitra dei qaedisti hanno colpito
mercati, scuole, linee elettriche, auto della polizia. I soldi per finanziare il terrore la cellula li
raccoglieva attraverso una fitta rete di collette «presso le comunità pakistano-afgane della
Sardegna, del Lazio, delle Marche, della Lombardia. Ufficialmente — annota il gip —
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rivolte a scopi umanitari, ma in realtà destinate al finanziamento dell’attività terroristica ».
«Per favore manda 50 milioni», è uno degli sms inviati nel 2011 all’imam Zulkifal. Subito
dopo vengono elencate le “commissioni eseguite”: «spedito tre persone all’inferno », «fatto
saltare una scuola in Bannu», «militari ammazzati ». Ma come arrivavano in Pakistan i
soldi raccolti tra le moschee e i bazar italiani? Con l’”hawala”, il sistema informale di
trasferimento di valori utilizzato da 1,5 miliardi di musulmani nel mondo. È “informale” il
viaggio aereo che tre imputati (Zubar Alì, Muhammad Siddique e Hazraf Jamal) fanno da
Roma-Fiumicino a Islamabad il 25 settembre 2011 per trasportare 50mila euro. Altri
55mila euro li porta in volo — stessa tratta, due anni prima — Ahmad Zahir. Soldi. Come
quelli che Ridi Khan riesce a tirare su tra le comunità islamiche norvegesi. Come quelli che
servivano a confezionare «documenti falsi per i clandestini», alcuni in odore di affiliazione,
fatti entrare in Italia e diretti in Francia e Inghilterra. Poi c’è il milione di euro che la Digos
trova in una casa a Roma.
Roma è anche uno degli obiettivi della cellula. Il 19 settembre 2010 un tale “Umar Khan”
parla a Zulkifal di un attentato da compiere nella Capitale. Gli dice: «Ci sono tanti soldi sul
loro Papa. Stiamo facendo una grande jihad contro di lui». Zurkifal, difeso dall’avvocato
Omar Hegazi, in un’intervista a Repubblica si è difeso così: «Sono un predicatore radicale,
non un terrorista». Ora dovrà convincere i giudici.
Del 28/10/2015, pag. 10
Erdogan, offensiva finale dall’ex mentore ai
giornali
L’ultimo atto della lunga battaglia tra Recep Tayyp Erdogan e il predicatore islamico
Fethullah Gulen, leader del ricchissimo movimento Hizmet (o Cemaat, la comunità) è
andato in scena ieri ad Ankara quando la polizia ha fatto irruzione nel quartier generale
della Holding Koza Ipek. Durante le operazioni, gli agenti hanno anche disperso con i
lacrimogeni un gruppo di manifestanti che protestavano contro il governo, accusato di
censurare i media non allineati.
Il giorno prima un tribunale aveva decretato l’amministrazione controllata del gruppo legato
a Gülen, al quale fanno capo due quotidiani, Bugun e Milliet nonchè due canali televisivi,
Bugun tv e Kanalurk. Tutti media che, da alcuni anni a questa parte, hanno adottato una
linea critica nei confronti del governo. Da quando Gulen, un tempo alleato-chiave di
Erdogan, è entrato in rotta di collisione con il presidente, diventando il suo principale
nemico. Un’evoluzione inevitabile una volta iniziato lo scontro. A quel punto, infatti, proprio
il potere e la ricchezza del movimento che ne avevano fatto un alleato prezioso per
Erdogan lo hanno reso improvvisamente un avversario molto pericoloso.
Da allora le numerose e molto redditizie attività della confraternita che fa capo al
predicatore ultrasettantenne (scuole, tv, giornali ma anche istituti finanziari come la Bank
Asya) sono nel mirino della magistratura e della polizia turca. Accusato (non senza
fondamento) di gestire un potere parallelo a quello statale e di avere infiltrato molti dei suoi
tra giudici e uomini della pubblica sicurezza, Gulen può contare su decine di migliaia di
attivisti del suo movimento e, secondo alcune stime, addirittura su 4-5 milioni di
simpatizzanti. Dalla Pennsylvania, dove vive da molti anni prima che si consumasse la
rottura con il presidente della Turchia, il leader di Hizmet continua la sua battaglia,
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scommettendo, probabilmente, sul fatto che il suo movimento possa sopravvivere alla
bufera e perfino all’era di Erdogan.
L’intervento della polizia “nella sede della Koza Ipek Holding, tuttavia, non è stata l’unica
notizia a suscitare polemiche ieri in Turchia. A pochi giorni dalle elezioni, Ersin Ongel,
membro in quota all’Hdp (il partito filo-curdo) della direzione della tv pubblica Trt, ha
accusato Erdogan e i suoi di monopolizzare lo spazio dedicato dalla rete alla politica.
Secondo i dati che Ongel ha reso pubblici tramite il suo account twitter, negli ultimi 25
giorni il partito di maggioranza, l’Akp, ha avuto a disposizione 30 ore e il presidente
Erdogan è apparso sul canale per ben 29 ore. Il principale partito di opposizione, il Chp,
sempre secondo gli stessi dati, ha invece potuto utilizzare soltanto 5 ore, il partito
nazionalista un’ora e 10 minuti mentre l’Hdp ha ottenuto uno spazio complessivo di
appena 18 minuti. Questa non è la prima volta che la tv pubblica finisce sotto i riflettori con
l’accusa di aver favorito Erdogan e l’Akp. Il Comitato Elettorale Supremo aveva, infatti, già
sospeso 7 programmi dell’emittente per non mancanza di imparzialità nell’assegnare gli
spazi televisivi ai candidati durante la campagna elettorale per le presidenziali del 2014.
A questo bisogna aggiungere l’oscuramento dei social network che si è registrato più volte
in Turchia negli ultimi anni. Anche dopo l’attentato di Ankara, facebook e twitter sono stati
rallentati fino a renderne quasi impossibile il funzionamento. A settembre, inoltre, il
principale quotidiano turco, Hurriyet è stato assaltato due volte e un suo editorialista,
Ahmet Hakan, è stato aggredito. In entrambi i casi, i protagonisti provenivano da ambienti
vicini all’Akp, per quanto il partito di maggioranza abbia poi condannato in particolare
l’attacco al giornalista. E mentre Can Dundar, direttore del giornale laico Cumhuriyet, deve
difendersi in un processo nel quale l’accusa ha chiesto lui l’ergastolo, è di ieri la notizia
che lo scrittore Edip Yuksel, è stato condannato a 3 anni e 6 mesi per aver insultato il
fondatore della Repubblica turca, Mustafa Kemal Ataturk e il presidente Erdogan.
Del 28/10/2015, pag. 11
Il braccio violento della legge non piace a
Tarantino
Il 22 novembre 2014, Tamir Rice, ragazzino di colore di appena 12 anni, stava giocando in
un parco di Cleveland con una pistola finta”. A raccontare, di nuovo, questa storia è
Quentin Tarantino ma non per illustrare la trama del suo prossimo film. Sabato scorso il
regista è volato dalla California a New York per aderire al corteo RiseUpOctober, a Times
Square, organizzato da quaranta familiari di persone che sono morte durante controlli di
polizia; la marcia ha avuto lo scopo di chiedere con urgenza una riforma del sistema della
giustizia penale e delle forze dell’ordine. Dal palco il papà delle Iene si è soffermato a
lungo sulla storia di Rice: “Con una chiamata al 911 qualcuno segnala alla polizia che un
ragazzino spaventa i passanti con un’arma ‘probabilmente’ giocattolo.
Gli agenti arrivano, si avvicinano e, nel giro di due secondi, sparano ferendolo a morte. Poi
hanno colpito e ammanettato sua sorella e l’hanno messa nella macchina della polizia.
Senza permettere alla madre di avvicinarsi per abbracciare suo figlio senza vita, che
giaceva morto in strada”. C’è un video che mostra l’autore di Pulp Fiction e Kill Bill gridare
insieme agli altri manifestanti i nomi di Justin Smith, Michael Brown, Freddie Gray, Antonio
Guzmán López, e quelli di tutte le altre vittime degli agenti statunitensi.
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Una presa di posizione che ha suscitato l’immediata reazione della Patrolmen’s
Benevolent Association, il più grande sindacato di polizia del Paese, che per bocca del
presidente Patrick Lynch, ha attaccato il regista e chiesto ai newyorchesi di disertare le
sale cinematografiche il prossimo 25 dicembre. “Non sorprende che chi nella vita glorifica
crimine e violenza sia poi uno che odia i poliziotti – ha detto Lynch – è venuto il momento
di boicottare The Hateful Eight il film che Tarantino sta lanciando in questi giorni”.
L’ultimo lavoro del regista con un cast stellare – un western che uscirà in Italia a febbraio
2016 –andrà invece sugli schermi americani proprio il giorno di Natale. Il premio Oscar
52enne, durante la protesta, mostrando una fotografia di Justin Smith, ucciso in Oklahoma
nel 1999 mentre era in custodia della polizia, dopo aver sputato su alcuni agenti, aveva
detto: “Quando vedo degli assassini non posso far finta di nulla, devo chiamare un
omicidio, omicidio, e devo chiamare assassini degli assassini: è una cosa sulla quale non
si può mediare – aveva spiegato ai giornalisti – e se proprio si deve farlo, allora questi
poliziotti assassini dovrebbero finire in carcere o almeno essere incriminati”. Un giudizio
netto arrivato quattro giorni dopo che un poliziotto del Dipartimento di Polizia di New York,
Randolph Holder, è stato colpito a morte mentre stava inseguendo un ladro di bicicletta.
Una coincidenza che ha gettato benzina sul fuoco.
“Gli agenti che Tarantino definisce ‘assassini’ – ha replicato Lynch – non vivono in una
delle sue depravazioni di fantasia sul grande schermo, ma rischiano e talvolta sacrificano
la lor vita per proteggere la comunità dal crimine, quello vero”.
Sul quotidiano New York Post Tarantino ha voluto replicare ancora specificando che non
ritiene la violenza finta responsabile di morti veri, aggiungendo che “l’omicidio dell’agente
Randolph Holder è stata una tragedia “che per uno sfortunato tempismo” si è verificata
mentre si svolgeva il sit-in contro i metodi violenti della polizia. L’immagine perfetta della
contraddizione di un Paese in cui solo nel corso del 2015 – secondo una stima fatta dal
quotidiano britannico Guardian – sono stati uccisi dalla polizia 546 neri, 221 bianchi e 264
ispanoamericani, mentre nel campo delle forze dell’ordine resta ucciso nell’adempimento
del suo dovere un agente ogni 60 ore. Intanto contro Tarantino anche un volto di Fox
News, Bill O’Reilly, – il commentatore televisivo schierato con i conservatori, – che ha
avvertito il regista: “Con questa protesta ha rovinato la sua carriera”.
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INTERNI
del 28/10/15, pag. 1
Il segreto di Alfano
Andrea Colombo
Alfano, Alfano, Alfano. A guardarlo in superficie, con quel sorrisone che si porta appresso
sempre uguale, sia che presenzi a un battesimo oppure a un funerale, e con quei risultati
al Viminale che per carità di patria è meglio tacerne, non gli daresti un soldo. E invece
quello ti piazza un pallone in rete dopo l’altro nemmeno fosse Maradona, tanto da destare
il dubbio che l’apparenza inconsistente sia solo un’astuta maschera per camuffare
l’identità di un super Angelino. Alle spalle ha una pattuglia in stato di avanzata
decomposizione, i parlamentari che aveva rubato a Forza Italia lo mollano al ritmo di uno
al giorno, nel Paese reale quelli che se gli dici «Ncd» non sgranano gli occhi attoniti e
perplessi sono un mazzetto ma lui, contando solo sulle sue personali forze, impazza su
ogni fronte.
Un giorno paralizza le unioni civili, un altro impone il tetto di tremila euro sul contante alla
faccia di tutti quelli, e sono legione, che ritengono la trovata una mano santa per evasori e
datori di nerissimo lavoro.
Poi arriva la sentenza del Consiglio di Stato sui matrimoni gay ed eccolo di nuovo sugli
scudi. Vagli a dar torto se, come ha fatto ieri, passa la giornata a complimentarsi con se
stesso e a godersi soddisfatto le sperticate lodi che gli piovono addosso dalla parte più
evoluta del cattolicesimo italiano: la Binetti, tanto per fare un nome a caso. Di questo
passo non si può neppure escludere che Angelino riesca da solo a imporre quel
cambiamento dell’Italicum che tutte le opposizioni coalizzate non sono riuscite nemmeno a
sfiorare. La classe non è acqua.
E’ un mistero persino per l’insuperata bizzarria della politica italiana, l’onnipotenza di un
leader che a rigor di logica e di senso comune andrebbe definito di cartone. A meno che a
farne la fortuna non sia appunto l’inconsistenza, la materia politicamente flaccida di cui è
costituito. La funzione utile del capro espiatorio è universalmente nota, in politica anche
più che altrove. Qualche volta, però, torna comodo anche un vincitore di cartapesta, alla
cui presunta forza addossare le responsabilità delle scelte che conviene non confessare
apertamente. Meglio ancora se il trionfatore di paglia è un alleato come Angelino il
Mattatore, tanto debole da non poter impensierire neppure alla lontanissima, da non
costituire minaccia di sorta, e al quale, anzi, regalare qualche trofeo per rinforzarne la
traballante sorte costituisce in prospettiva un vantaggio secco.
A Matteo Renzi, tanto per dirne una, l’idea di innalzare il tetto del contante piaceva senza
bisogno di interpellare il ministro degli Interni. Il ragazzo è pragmatico, non perde tempo
prezioso a interrogarsi sul colore del lavoro. Quando il medesimo scarseggia, è da
sciocchi disquisire sulle tonalità di bianco o nero. Se per distribuire qualche posticino
sottopagato in più c’è chi necessita di qualche comoda via d’evasione, bisogna
accontentarlo. Ma si sa che tra gli elettori di centrosinistra qualche retrogrado che
potrebbe risentirsi ancora c’è: meglio trovare qualcun altro alle cui irresistibili pressioni
attribuire la responsabilità del cedimento.
E qualora, in un domani, il comandante in capo dovesse scoprire che la legge elettorale,
pur se cucita a sua misura, rischia invece di avvantaggiare altri, perché non avvalersi
ancora dei servigi di Angelino, permettendogli di agguantare un ennesimo successo? Il
ministro degli Interni, a guardarlo bene, pare fatto apposta per interpretare la parte. In
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fondo non è così che aveva scelto di usarlo anche Silvio Berlusconi, quando lo aveva
nominato Delfino da operetta?
Del 28/10/2015, pag. 6
Obiettivo dei referendari “Un solo voto per il
no pure alla legge Boschi”
GOFFREDO DE MARCHIS
IL RETROSCENA
ROMA .
È già partita la campagna referendaria contro l’Italicum e a Palazzo Chigi si studiano le
contromisure. Accanto ai ricorsi, i comitati hanno pronti i quesiti per chiamare alle urne gli
italiani sulla legge elettorale. E insieme, secondo l’intenzione dei promotori, anche sulla
buonascuola e sul Jobs Act. Un modo per allargare il campo di gioco coinvolgere
associazioni e sindacati, avere quindi molte più possibilità di arrivare alla metà di 500 mila
adesioni. Un’inziativa che punta a indebolire il governo fuori dalle aule parlamentari e che
si salderà alla battaglia per il no al referendum confermativo per la riforma costituzionale.
La raccolta di firme si terrà tra aprile e settembre del prossimo anno, diventerà l’occasione
per combattere il potere di Renzi consolidando un fronte che va dalla sinistra al Movimento
5stelle. Domani ci sarà una prima presentazione dei quesiti.
Matteo Renzi tiene sotto controllo questi movimenti. E fa varie ipotesi per fermare l’onda
referendaria. Da tempo il premier è convinto che la consultazione sulla riforma
costituzionale si trasfortmerà in una legittimazione piena della sua stagione e in una
sconfitta sonora per gli oppositori. La data più probabile per quel referendum è ottobre
2016. E se i quesiti contro l’-Italicum dovessero marciare l’ideale sarebbe accorpare i due
referendum, in modo da avere più possibilità di vittoria. Ma è un’ipotesi realizzabile solo
cambiando la legge o varando un decreto ad hoc. Infatti il voto sull’-Italicum avverrà solo
nella primavera del 2017,alla fine di una lunga serie di procedure.
L’altra idea è far slittare il referendum confermativo al 2017 in modo da celebrarlo insieme
con quelli proposti dal Comitato guidato da Felice Besostri. Una strada che prevede il
rinvio dell’approvazione definitiva della legge Boschi e che contrasterebbe con la fretta
dimostrata fin qui dal governo, con la sua volontà di chiudere le riforme nel minor tempo
possibile. Ma è la terza ipotesi quella che paradossalmente appare la più fattibile, con
alcuni precedenti nella prima repubblica: far slittare il referendum al 2018 trasformando il
2017 in un anno elettorale, ovvero portando il Paese alle urne per le politiche nella
primavera del 2017 con l’Italicum ormai in vigore e con la riforma costituzionale validata
dal referendum confermativo di ottobre 2016. Il progetto è lì, sul tavolo del premier, una
possibilità da non scartare a priori.
Insomma, gli oppositori delle riforme renziane, oltre ai passaggi tecnici (la Corte
costituzionale e la raccolta di firme) devono guardarsi dalle mosse politiche dell’esecutivo
e della maggioranza. Secondo i sostenitori del del segretario Pd, il comitato ha creato un
meccanismo di autodistruzione. «L’iniziativa dei ricorsi e del referendum sbattono una
contro l’altra — dice il costituzionalista Stefano Ceccanti —. Non capisco perché
alimentino la confusione, finiranno per non farsi comprendere nemmeno dai cittadini ». Ma
è evidente che la campagna referendaria della prossima estate verrà usata come
campagna anche per il no alla riforma costituzionale. E allo stesso tempo s’intreccierà al
voto amministrativo nelle grandi città. Per questo una scissione di singoli parlamentari del
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Pd continuerà nei prossimi mesi, perché sta arrivando il momento delle scelte e diventa
impossibile continuare a fare la battaglia nel Pd, almeno a giudicare dalle parole di chi ha
già un piede fuori. Sullo sfondo resta la decisione su alcune modifiche all’Italicum, su
iniziativa dello stesso governo. Decisione che non arriverà a breve, ma intorno alla quale
cominciano i movimenti delle forze politiche. Alla Camera è già stata depositata una
proposta di legge a firma Pino Pisicchio per introdurre la soglia di validazione del
ballottaggio. Se non vanno a votare il 50 per cento più uno degli aventi diritto, salta il
premio di maggioranza e i seggi vengono assegnati con il proporzionale sulla base dei
risultati del primo turno. È una proposta di legge che farebbe venire meno il concetto di
stabilità ma che corregge uno degli elementi di possibile intervento della Consulta.
del 28/10/15, pag. 5
Polizia «in armi» contro il nemico invisibile
Marco Bascetta
L’Italia è sulla soglia di una sanguinosa Intifada? Dobbiamo attenderci una ondata di
violenti scontri di piazza in tutto il paese? A giudicare dalle posizioni espresse
dall’Associazione nazionale funzionari di polizia (Anfp) e dalla sua segretaria Lorena La
Spina in occasione della presentazione, a palazzo Chigi, di un libro (Dieci anni di ordine
pubblico, ricerca a cura di A. Forgione, R. Massucci, N.Ferrigni), si direbbe proprio di sì. In
uno degli autunni più tiepidi della recente storia italiana, l’Anfp vede addensarsi le nubi
della guerriglia urbana, ma, come nei titoli dei film «poliziotteschi» di una volta, «la polizia
è disarmata», denunciano, o meglio non armata a sufficienza per fronteggiare le nuove
insidie del nemico. Questa volta, infatti, non è di organico e turni che si parla, quanto
proprio di armi. Cosa desiderano, dunque, i nostri funzionari di polizia? Sul piano difensivo
uniformi e protezioni più adeguate, scudi leggeri e resistenti. Su quello legislativo norme
più severe contro chi «abusa del diritto di manifestare» (Daspo, etc.). Su quello offensivo,
proiettili di gomma, fucili marcatori (armi che sparano sfere ripiene di vernice per
«marcare» i manifestanti violenti ai fini del riconoscimento), manganelli Tonfa, nonché una
task force specializzata nello stanare, non si sa con quali metodi, i «guerriglieri» intrufolati
nella massa dei manifestanti.
I proiettili di gomma, è noto, possono provocare danni assai gravi, così come i manganelli
con anima di ferro. Quanto ai fucili marcatori, sappiamo, come si è visto il primo maggio a
Milano, che i cosiddetti black bloc sono soliti disfarsi degli indumenti indossati durante gli
scontri. Cosicché la «marcatura» servirà più a fabbricare la vittima di turno, scelta a caso
tra i manifestanti, che a non a individuare il responsabile di qualcosa: macchiato, dunque
reo e non viceversa. Ma quel che è più grave è che questa logica di escalation degli
armamenti (che può comprendere lacrimogeni sempre più tossici) rischierà di alimentarsi
da entrambe le parti. Così come la sanzione spropositata di reati lievi spingerà a
commetterne di sempre più gravi. Che l’ordine pubblico significhi anche e soprattutto
trattativa, rinuncia alle zone rosse e alle città proibite, a sgomberi violenti privi di
mediazione politica, garanzia di non essere esposti all’arbitrio di uomini in divisa, è
completamente estraneo all’orizzonte di questa logica belligerante (non priva di toni
vittimistici) che, non a caso, difende strenuamente l’anonimato di chi la pratica, rifiutando il
codice identificativo per gli agenti impiegati in operazioni di ordine pubblico.
A motivo di questa pretesa di riarmo si insiste sulla presenza (volutamente esagerata) di
«professionisti della violenza». Ma si tratta, il più delle volte, di «incappucciati»
occasionali, animati più che da uno status professionale da quei contesti di
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contrapposizione e di scontro che una saggia gestione dell’ordine pubblico dovrebbe
saper ridurre al minimo.
I dati di questa presunta Intifada italiana, constano di 9490 manifestazioni nel 2014. 24 al
giorno quelle che comporterebbero questioni di ordine pubblico e cioè dispiegamento di
forze di polizia. Se si pensa che vi rientrano episodi come i ripetuti presidi davanti al Miur
di viale Trastevere a Roma, così come i malati di Sla davanti al Ministero delle finanze, le
trasferte provocatorie di Matteo Salvini o i comizi politici della più varia natura, non
sembrano davvero, per un paese democratico di 50 milioni di abitanti, cifre da destare
allarme o da suggerire escalation militari. Basterebbe una cultura democratica un poco più
evoluta di quella che circola dalle parti dell’Anfp.
del 28/10/15, pag. 10
Marino, il ritiro delle dimissioni per andare
alla battaglia in aula
«Non posso essere cacciato con ignominia». Il Pd pensa di sfilarsi in
blocco
ROMA Alle otto del mattino su uno dei gruppi che sui social sostengono Ignazio Marino il
post era inequivocabile: «Dimissioni ritirate»; alle otto della sera è un’agenzia a scrivere
che «al più tardi domani (oggi, ndr ) Marino le ritirerà». È una guerra di nervi quella che il
sindaco dimissionario e il Pd stanno combattendo da giorni: ma è ormai evidente che il
primo cittadino di Roma — ghiacciato dal silenzio di Matteo Renzi alle sue continue
richieste di ottenere «l’onore delle armi», perché «non posso essere cacciato con
ignominia», ha più volte detto ai suoi collaboratori — sia sull’orlo del colpo di scena. La
giunta convocata alle undici di questa mattina sembra essere l’appuntamento ideale:
pedonalizzazione integrale dei Fori Imperiali — provvedimento che ha creato non poche
polemiche in città — e, appunto, il ritiro delle dimissioni. Per dirla in poche parole: il ritorno
del marziano.
Secondo la voce che si è diffusa ieri si tratterebbe di una sorta di «ritiro tecnico» delle
dimissioni firmate il 12 ottobre: quindi non per continuare fino al 2018 — o «fino al 2023»
come ha più volte annunciato Marino anche di fronte alle platee pd — ma intanto per
presentarsi in aula Giulio Cesare, sia pure senza la certezza (anzi, forse il contrario) di
avere con sé una maggioranza in grado di sostenerlo. «Lui ha intenzione di portare in Aula
la discussione, perché è incomprensibile che un sindaco venga deposto attraverso
interviste e comunicati stampa», dice su Radio2 l’amico Guido Filippi.
La strategia del chirurgo, adesso, affonda nella carne del Pd: parlare in Aula, davanti alla
città, e raccontare quanto fatto per sottolineare che la vicenda degli scontrini per la quale
s’era dimesso è chiusa, e che l’eventuale scelta di farlo cadere è da ritenersi
esclusivamente politica. Cioè, detto senza metafore: una precisa volontà del Partito
democratico che pure lo ha eletto. Evidente, quindi, che la mossa di Marino metterebbe il
Pd di fronte a uno scenario non semplice da affrontare: perché, certo, il partito è convinto
del fatto che la vicenda scontrini (la storia dei rimborsi per le cene ancora al vaglio della
Procura) sia solamente «l’ultimo di una serie infinita di errori», che «si è rotto — per dirla
con il segretario Renzi — il rapporto di fiducia con la città», ma al tempo stesso è
altrettanto evidente che, dopo il ritiro delle dimissioni, si tratterà di contrastare il
«racconto» che lo stesso Marino farà dell’accaduto. Certo il sindaco, anche nel raduno di
sostenitori di domenica scorsa in Campidoglio, non ha «attaccato» il partito: ha detto di
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esserne un nativo, lo ha ringraziato. Ma è possibile forse che, in caso di sfiducia o di
dimissioni in blocco dei consiglieri, passi all’attacco ad esempio ricordando le difficoltà
incontrate nella fase iniziale del mandato, quando negli scranni del Pd c’erano esponenti
politici poi finiti nei guai per l’inchiesta Mafia Capitale. Di certo, quindi, per liberarsi di
Marino al Pd non rimarrebbero molte strade, tecnicamente parlando.
La prima ipotesi, meno probabile, è la sfiducia: strada difficile da prendere perché in
qualche modo il Pd si ritroverebbe a percorrerla in compagnia delle opposizioni, del
centrodestra, e dell’ex sindaco Gianni Alemanno. Per essere chiari: l’ipotesi sfiducia non
piace ai 19 consiglieri dem. I mal di pancia, tra quegli scranni, non sono pochi: alcuni
accusano Orfini di aver avuto una linea ondivaga con Marino, prima difeso e poi
abbandonato. Alla fine, comunque, «faranno ciò che il partito chiede», garantiscono al
Nazareno. Probabilmente si dimetteranno in blocco: ieri era questa — al netto delle
incognite dei numeri, sono 19 ma di dimissioni ne servono 25 — la strada più accreditata
per contrastare il ritorno del marziano in Campidoglio. E se pure il Pd riuscisse a farlo
cadere cosa accadrebbe dopo? Se Marino dovesse davvero decidere di partecipare alle
primarie, cosa accadrebbe? Il senatore Stefano Esposito, evidentemente, s’è portato
avanti con il lavoro: «Il partito proponga un candidato unico». Una guerra che va avanti da
giorni, e che sembra destinata a proseguire.
Alessandro Capponi
Del 28/10/2015, pag. 12
La conta di Marino per strappare il bis “Renzi
mi incontri”
Consultati gli assessori prima di ritirare le dimissioni Idea di un blitz in
aeroporto per parlare con il premier
GIOVANNA VITALE
È davvero stretto e impervio, il sentiero sul quale il sindaco Ignazio Marino ha scelto di
incamminarsi. Lui lo sa. Ma, nonostante le difficoltà, ha ormai deciso: «Andrò fino in
fondo». Senza lasciare nulla di intentato. Il che significa sondare assessori e consiglieri
per capire su quali numeri può ancora contare, saggiare l’umore delle truppe, verificare le
basi di una resistenza a oltranza che vorrebbe dire mettersi per sempre fuori dal Pd.
Un danno collaterale a questo punto inevitabile. Secondo il sindaco addebitabile per intero
a Renzi e a Orfini, che hanno chiuso tutti i canali e ogni possibilità di confronto. Per cui se
già oggi, o al più tardi venerdì, Marino dovesse infine risolversi a revocare le dimissioni, la
colpa sarà loro e loro soltanto. E pazienza se poi ogni speranza di risarcimento andrà a
farsi benedire: «Mi hanno fatto sapere che i contatti potranno riprendere il 2 novembre,
dopo l’addio definitivo, ma io come faccio a fidarmi?». Una vigilia densa di colloqui e
telefonate. Anche con alcuni parlamentari (tra cui Bersani) ed esponenti del governo
(Graziano Delrio, che però nega), per cercare conforto e sponde. «Se decidessi di restare,
tu che faresti? », è la domanda a bruciapelo che diversi assessori si sono sentiti rivolgere
in queste ore. Sempre uguale la risposta: «Non posso, non ci sono le condizioni». Rifiuti
che avrebbero quasi azzerato il pallottoliere di Marino: allo stato, solo tre componenti della
giunta gli rimarrebbero fedeli (Cattoi, Caudo ed Estella Marino), gli altri già trafficano con
gli scatoloni. Come pure i consiglieri comunali: se lui dovesse tornare indietro, 38 su 48
firmerebbero la mozione di sfiducia, in 30 si dimetterebbero all’istante. Un’opzione,
quest’ultima, di gran lunga la preferita del Pd.
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Ma l’inquilino del Campidoglio è un osso duro. A lui, adesso, interessano due cose sole:
parlare con il segretario-premier e andare in aula per spiegare alla città quello che ha fatto,
che resta da fare, i motivi della crisi. Vuole l’onore delle armi, Marino, ed è pronto a
prenderselo. Al punto da vagheggiare una trasferta, domani notte in aeroporto, dove Renzi
atterrerà al ritorno dalla missione in America Latina. Attrezzandosi anche per il confronto in
assemblea. Ieri il primo cittadino ha incontrato nel suo studio la presidente Valeria Baglio
per sapere se avesse già convocato l’aula («No») e che cosa intendesse fare («Rispetto
alla richiesta presentata dalle opposizioni ho 20 giorni di tempo»). Quindi, senza
preannunciarle nulla, l’ha congedata. Restituendo la sensazione di non aver affatto
abbandonato l’idea di chiedere lui personalmente una riunione di consiglio per andare allo
show-down. Un’istanza che, se depositata dal sindaco, non potrebbe essere portata
troppo per lunghe. E verrebbe soddisfatta entro il week-end.
Un’altra arma in mano al Marino resistente. Il quale, nel frattempo, sembra averci preso
gusto a tenere tutti sulla corda. «La mia è una giunta che lavora e che guarda avanti», ha
scandito ieri inaugurando un viadotto alla periferia di Roma. «Questa città ha patito
corruzione e criminalità, noi abbiamo mostrato discontinuità. Domani apriremo due nuovi
cantieri. Roma deve andare avanti». Più un grido di battaglia, che un’abdicazione.
L’ennesima sfida al Nazareno e soprattutto a Matteo Orfini, ormai considerato il suo
peggior nemico: «Un traditore». Dichiarazioni che alzano la tensione. Renzi è molto
irritato, gli era stato assicurato che al rientro in Italia il “caso Roma” sarebbe stato risolto. E
invece... Il presidente del partito è in fibrillazione, al telefono con il vicesegretario Guerini
ha garantito che «Ignazio non ritirerà le dimissioni, vedrai». Una promessa che però
rischia di infrangersi, e non sarebbe la prima volta, contro l’ostinazione di Marino. Ma ai
piani alti del Pd la linea è tracciata, e da quella non si deflette. Il premier non avrà alcun
contatto, né telefonico né di persona, con l’inquilino del Campidoglio: «La partita è chiusa,
si stanno solo discutendo le modalità». Tradotto significa che se il primo cittadino vuole lo
scontro, troverà solo porte chiuse e dimissioni in blocco. Un thriller a base di inseguimenti,
colpi di scena ed emozioni. Proprio come Spectre , l’ultimo capitolo della saga di James
Bond, proiettato a Roma in prima assoluta: il film con cui ieri sera Marino ha concluso il
suo quintultimo giorno da sindaco. O forse la vigilia del suo ritorno.
Del 28/10/2015, pag. 7
Casaleggio svolta: sì alla società civile nelle
liste M5S
Stile Podemos - Il fondatore del Movimento scende a Roma e annuncia
il cambio: “Dobbiamo vincere, cerchiamo i voti”
di Luca De Carolis
Roma val bene una svolta. Un cambio di pelle e di prospettiva: da Movimento solo per
attivisti doc, a un M5s spalancato a donne e uomini di associazioni e movimenti civici. Da
inglobare in lista, come benzina preziosa per prendersi il Campidoglio. Convinto che quella
per Roma sia la partita delle partite, e che “perderla sarebbe imperdonabile”, il cofondatore dei Cinque Stelle Gianroberto Casaleggio si presenta tra la sorpresa generale
alla Camera, con il cappellino d’ordinanza. E con il Direttorio e le parlamentari romane
Roberta Lombardi e Paola Taverna mette nero su bianco la sterzata: nella lista per il
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Campidoglio si lascerà largo spazio a esponenti di movimenti civici, associazioni
ambientaliste, comitati di quartiere. Gente radicata sul territorio, che sappia parlare anche
chi non è già nel mondo a 5Stelle. Capace di portare in dote voti freschi e puliti. È questa
la terza via di Casaleggio, che da settimane ascolta parlamentari di peso sussurrargli che
per le Comunali bisogna aprire alla società civile organizzata, per non soccombere alle
coalizioni dei partiti. E a cui diversi eletti chiedevano di irrobustire il M5s capitolino in vista
del voto. Il guru e Beppe Grillo non hanno mai preso in considerazione l’idea di candidare
come sindaco un big (Alessandro Di Battista, Paola Taverna o Roberta Lombardi),
stracciando la regola per cui un eletto deve completare il proprio mandato.
“Ma senza un nome forte e correndo da soli rischiamo di perdere il treno della vita”,
obiettavano i parlamentari. E allora, ecco una soluzione mediana: benedetta, raccontano,
dal responsabile degli Enti locali Luigi Di Maio. Si metteranno in lista cittadini reduci da
esperienze civiche, a patto che non abbiano militato in altri partiti e che non siano
macchiati da condanne penali.
candidato sindaco per il Campidoglio. Ci saranno i quattro consiglieri comunali, con in
prima fila Marcello De Vito (già candidato come primo cittadino) e Virginia Raggi. Ma il
M5s ospiterà anche tanti esterni. Alternative da non sottovalutare per la poltrona numero
uno. C’è chi sospetta che in lista possano infilarsi intellettuali o artisti di nome. Dal M5s
negano con forza: “Non ricorreremo a quel tipo di figure”. Anche se qualche parlamentare
ieri ha notato sul blog di Grillo un video con un intervento dell’archeologo Salvatore Settis.
Ma la chiave rimane quella, i candidati civici. Comunque vada, torneranno utili in
primavera. Certo, le incognite rimangono. Raccontano che Casaleggio abbia sollecitato un
più intenso training per i consiglieri attuali, per preparargli meglio per la tv. E rimane la
consegna di schierare in prima fila nella campagna la triade Di Battista-Taverna-Lombardi.
Logico chiedersi: il modello Roma verrà esportato in altre città? Probabile. “In molti
Comuni non si riesce a costruire una lista equilibrata, e a Milano lo sanno” ragiona un
parlamentare. Soprattutto, diversi eletti premono perché il M5s si allei con liste civiche
esterne. Sarebbe un cambiamento epocale, per i 5Stelle che non hanno mai stretto
accordi. Una svolta alla Podemos, che a Madrid vinse con l’esponente di una lista civica.
Casaleggio per ora mantiene il no ad apparentamenti. Più facile che accetti patti di
desistenza, già praticati per le Comunali in Sicilia, a Gela ed Enna, anche se il M5s ha
sempre negato. Cosa rimane? Il Casaleggio che, uscendo dallo studio di Di Maio dove ha
incontrato i parlamentari, dice: “Un allargamento del Direttorio? È possibile”.
Se ne parla da un anno, come compensazione per i senatori che non hanno
rappresentanti nella cinquina. Alcuni non hanno gradito l’ennesimo passaggio del guru
solo alla Camera (“Pare che Casaleggio abbia già abolito il Senato…”). Il co-fondatore
sussurra anche di Italicum: “Va cambiato, e le modifiche devono essere coerenti con le
osservazioni fatte dalla Consulta”. Secondo il M5s andrebbero aboliti premio di
maggioranza e candidature multiple e bisognerebbe ripristinare in pieno le preferenze.
Intanto però bussano alla porta le Comunali. Con un M5s più civico. E più pragmatico.
del 29/10/15, pag. 30
Il consenso di opinione dopo il crollo dei
partiti
Giuseppe De Rita
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Nelle quintalate di pagine dedicate alla manovra economica del governo non riesce ad
emergere una precisa sintesi di merito, visto che essa è considerata, a turno, di destra o di
sinistra; orientata ai poveri o corriva verso i ricchi; centrata sul deficit-spending o ancorata
ad uno spasmo di spending review ; di scossa innovativa o di tentazioni pre-elettorali. Non
c’è ancora una condensazione politica sui contenuti ed è difficile che essa possa uscire
dalla loro accentuata diversità.
Tale condensazione potrebbe allora sorgere non dal contenuto programmatico della
manovra, ma dal modo in cui essa è stata comunicata, in modo che rivela la
determinazione politica a costruirsi un solido consenso d’opinione. In effetti, sono quasi
due anni che il governo, consapevole e generoso attore del rilancio del nostro sviluppo, si
è reso conto che esso è fenomeno di collettive intenzioni, e che per farle esprimere
occorre un’onda di consenso.
Nei fatti non poteva (o non voleva?) far conto sul «consenso organizzato», quello garantito
dalle diverse sedi di rappresentanza, di interessi come di comportamenti collettivi, e di
fatto messo fuori giuoco dalla debolezza crescente della rappresentanza e dalla voglia di
disintermediazione espressa dalla politica negli ultimi due anni.
All’antica primazia del consenso organizzato si è allora per mesi sostituita una ricerca di
«consenso di fatto», sottolineando a più riprese esigenze, prospettive e sfide dei primi
accenni di ripresa, nella speranza che i cittadini si sentissero attratti dalla possibilità di
riprendere un’antica strada di agiatezza. Un tale tentativo non si è però adeguatamente
coagulato in mobilitazione collettiva: un po’ perché la ripresa è stata a lungo troppo tenue
per un adeguato coinvolgimento; un po’ perché è rischioso stimolare attese ed annunci,
naturaliter destinati nel tempo a perdere di incisività; e specialmente, perché il corpo
sociale ha di fatto preferito le proprie pigrizie, i propri scetticismi, le proprie incertezze (ha
preferito, ad esempio, buttarsi sul risparmio piuttosto che tornare a consumare o a
investire).
Se all’inizio del terzo anno di governo non si può contare né sul consenso organizzato né
sul consenso di fatto, resta una sola strada: amplificare il «consenso d’opinione», magari
creando una bolla d’opinione almeno di durata biennale. E questo sembra esser stato
l’orientamento politico dell’autunno. Bastano, per averne conferma, due banali
constatazioni. Da un lato la ampiezza polimorfica delle centinaia di differenti
provvedimenti, tenuti insieme solo dal filo rosso della volontà di coinvolgere quanta più
gente possibile, in una competizione «corpo a corpo» con la società, nella speranza di
darle scosse di movimento.
E questa provocazione al corpo a corpo è confermata da una seconda constatazione, che
riguarda la strategia di comunicazione che si è quasi genialmente scelto: i provvedimenti
non sono stati divulgati con un noioso comunicato del Consiglio dei ministri, come si usava
per tradizione; e neppure con una scintillante conferenza stampa corredata da slide
esplicative; ma con qualche decina di tweet, via regia dalla personale sollecitazione al
consenso. Ancora un corpo a corpo.
Sarà interessante vedere quale esito avrà una tale strategia; ed ancora più interessante
sarà vedere se essa riuscirà ad assorbire o superare il ruolo della comunicazione di
massa, per ora non eliminabile fattore di opinione e consenso.
I suoi protagonisti potrebbero infatti difendere il loro ruolo di interpretazione sociopolitica,
rinunciando ad una marginalizzazione in un ruolo di delegati alla cronaca e alle schede
esplicative della manovra; e resistendo non è facile immaginarli vittime anche loro del
vento di disintermediazione alimentato dalla politica degli ultimi anni.
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Del 28/10/2015, pag. 19
Il sondaggio.
La spinta innovativa di Bergoglio ha creato un divario con le istituzioni
religiose che non è mai stato così ampio in nessun pontificato
Ma il Papa più amato non porta consensi a
una Chiesa sotto assedio
ILVO DIAMANTI
IL Sinodo, che si è appena concluso, ha confermato i cambiamenti in atto nella Chiesa.
Sui temi etici e sociali. È stato, peraltro, scosso dalle rivelazioni, poi smentite, circa un
presunto tumore al cervello, da cui sarebbe afflitto il Pontefice. Segnali che confermano
come la spinta innovativa, impressa da papa Francesco, abbia prodotto tensioni che
trascendono il campo religioso. Papa Francesco e la Chiesa, infatti, si rivolgono a pubblici,
in parte, diversi. Per dimensione. E orientamento. Difficile incontrare un divario altrettanto
ampio, nei precedenti pontificati. Dai primi anni Duemila, nessun Papa è stato altrettanto
apprezzato. Almeno, in Italia. Dove ha sede il Vaticano. Karol Wojtyla, papa Giovanni
Paolo II, era, a sua volta, molto popolare. Secondo un sondaggio condotto da Demos nel
2003, più di 3 italiani su 4 esprimevano fiducia nei suoi confronti. All’epoca, fra gli italiani,
anche la Chiesa disponeva di un consenso elevato. Superiore al 60%. Nel decennio
successivo, tuttavia, il clima d’opinione si raffredda. In particolare, dopo il 2005, anno di
elezione di Joseph Ratzinger, Benedetto XVI. Allora la fiducia nel Papa e, insieme, nella
Chiesa declina. Si allinea, intorno al 50%. Joseph Ratzinger, d’altronde, è troppo
intellettuale e — all’apparenza — distaccato, per suscitare passione. Benedetto XVI, per
scelta consapevole, intraprende un cammino diverso. Deve confrontarsi con nuove sfide.
Fra tutte: la secolarizzazione “consumista” e le migrazioni, che allargano il campo
religioso. Attraverso l’ingresso di comunità che praticano altre fedi. Fra tutte: l’Islam. Così,
la Chiesa di Ratzinger si dedica a marcare i confini: religiosi ed etici. Coltiva quello che, il
suo maestro, Romano Guardini, definì «il distintivo cristiano». Ciò che “distingue” e
differenzia i cristiani — e, in particolare, i cattolici — dagli altri “fedeli”. Il messaggio di
Benedetto XVI, dunque, si orienta principalmente al mondo cattolico. Per rafforzarne la
coesione e le convinzioni. Anche così si spiega la riduzione dei consensi. Verso il Papa e,
al contempo, verso la Chiesa. Visto che il Papa agisce, consapevolmente, anzitutto, “nella”
Chiesa. E parla, principalmente, al mondo cattolico. La fiducia nei suoi confronti, di
conseguenza, si “concentra” e si de-limita. Fino alle sue dimissioni, che ne umanizzano e
valorizzano l’identità. Così il suo credito, presso gli italiani, nel febbraio 2013, risale oltre il
53%. Mentre nei confronti della Chiesa si ferma al 44%. D’altronde, allora, oltre il 70%
degli italiani si diceva d’accordo con la scelta di Ratzinger. Ritenuta una reazione, di fronte
a una Chiesa (romana) lacerata da lotte interne e scossa dagli scandali. Gli succede Jorge
Mario Bergoglio, papa Francesco. E ottiene, subito, la fiducia di una larghissima
maggioranza di italiani. Più di 8 su 10. Oltre il doppio rispetto alla Chiesa, che, nei primi
mesi del suo pontificato, vede scendere la propria credibilità intorno al 40% dei consensi.
Da ciò l’impressione che la fiducia nel Papa dipenda, in parte, da una condotta alternativa
rispetto alla curia vaticana. Non per nulla l’ha definita e (stigmatizzata) come «l’ultima
corte d’Europa ». Nei due anni successivi, comunque, il consenso verso Bergoglio si è, in
qualche misura, riverberato sulla Chiesa. Che ha visto crescere la propria credibilità, fino a
superare il 50%. Come nella prima fase del pontificato di Benedetto XVI. Attualmente la
fiducia nella Chiesa si aggira intorno al 47%. In altri termini: quasi 40 punti meno di papa
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Bergoglio, apprezzato da oltre l’80% degli italiani. Il distacco fra i due soggetti, il Papa e la
Chiesa, in effetti, non è mai stato così ampio. Neppure all’epoca di papa Wojtyla. Le
ragioni di questa differenza sono evidenti se si valutano gli orientamenti in base alla
pratica religiosa. Papa Francesco, infatti, è guardato con fiducia dalla quasi totalità dei
praticanti più assidui e saltuari.
Ma anche da una larga maggioranza ( 57%) di coloro che non vanno a messa. La fiducia
verso la Chiesa, invece, è molto elevata, fra i praticanti assidui, ma crolla fra i saltuari e
scompare insieme alla pratica. Per un confronto, il consenso verso papa Ratzinger, nel
2009 (Demos per Repubblica), superava il 60%, fra i praticanti e i saltuari, ma scendeva
alla metà, fra i non praticanti.
In altri termini, papa Francesco unifica il sentimento degli italiani, al di là della fede e della
pratica religiosa. La Chiesa, invece, lo divide. Non solo per ragioni di fede. Anche perché
non sempre riesce a offrire un’immagine credibile. A causa di alcuni comportamenti che
papa Francesco non ha esitato a denunciare. Anche per questo il sostegno a Francesco
risulta così alto. E trasversale. Anche dal punto di vista politico. Il Papa, infatti, piace a
sinistra ma anche a destra. Agli elettori del PD ma anche, e ancor più, a quelli di FI. Piace
alla base del M5S, un po’ meno ai leghisti. Che non ne apprezzano la pietà verso i
profughi. Tuttavia, anche tra loro il gradimento per Francesco supera l’80%.
Questi dati, peraltro, suggeriscono il motivo, forse principale, di ri-sentimento verso il
Papa, all’interno di alcune componenti della Chiesa-istituzione. Al di là delle logiche
difensive di alcuni soggetti privilegiati, c’è una questione sostanziale. Questo Papa: è
troppo popolare — per alcuni un po’ populista. Troppo proiettato — e amato — all’esterno.
Troppo aperto. Mentre la Chiesa, in questi tempi, si sente minacciata dalla
secolarizzazione. Dalla cultura del consumo. Vede il proprio spazio conteso da altre
religioni. Questo Papa: piace troppo a troppi, per essere accettato senza problemi da una
Chiesa- fortezza. Assediata dal mondo. Unifica il sentimento degli italiani al di là della fede
e della pratica religiosa e ha un sostegno trasversale
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
Del 28/10/2015, pag. 2
Migranti, sì della Ue alla flessibilità sul deficit
Via libera alla manovra
Le spese per la crisi saranno scontate dai bilanci L’Italia vuole 3,3
miliardi, scontro con il Nord Europa
ALBERTO D’ARGENIO
Era il segnale in codice che tutti aspettavano, Jean-Claude Juncker lo aveva promesso a
Matteo Renzi e al Cancelliere austriaco Werner Faymann come prova del suo impegno
politico sui rifugiati. Le parole che il presidente della Commissione ha pronunciato di fronte
al Parlamento europeo sulla possibilità di concedere flessibilità aggiuntiva sui conti per
compensare i governi delle spese sostenute nella gestione dell’emergenza migranti, per
l’Italia possono valere dagli 1,6 ai 3,3 miliardi. Ma la partita per arrivare a questo risultato è
stata complessa e ancora oggi tutt’altro che chiusa. Se fino alla scorsa settimana
Bruxelles sul bonus sui migranti si nascondeva dietro la formula «sarà valutata Paese per
Paese», ieri a Strasburgo Juncker è andato oltre assicurando che la Commissione
«applicherà la flessibilità per i rifugiati perché siamo in una situazione eccezionale». Un
piccolo passo avanti lessicale decisivo nella battaglia aperta dai governi di Italia e Austria,
peraltro fino a pochi giorni fa pessimisti sulla possibilità di vittoria. Ora invece c’è la
certezza che la clausola sarà applicata.
Renzi, in viaggio in Sud America, da Bogotà non ha commentato direttamente l’apertura di
Juncker, limitandosi a ricordare che «noi italiani ogni giorno facciamo uscire le navi per
salvare migliaia di persone, forse perderemo voti ma così salviamo l’idea di Italia». Come
dire, a questo punto è chiaro che se Bruxelles allarga le maglie del risanamento in favore
di chi si impegna a tamponare la crisi migranti, l’Italia è in prima fila per beneficiare dello
sconto sul deficit.
Una certezza arrivata solo nelle ultime 48 ore, ma ora si combatte sulla quantità dello
sconto. Il governo nella Legge di Stabilità per i migranti chiedeva 3,3 miliardi di flessibilità
per il 2016, pari allo 0,2% di deficit aggiuntivo. La manovra, sulla quale Bruxelles si
esprimerà a metà novembre, porta il deficit dal 2,6% del 2015 al 2,2%, con uno sconto di
13 miliardi sul risanamento visto che lo scorso anno l’Italia aveva concordato con l’Europa
un disavanzo 2016 all’1,4%. Lo sconto dello 0,4%, deficit all’1,8, è già stato formalmente
concesso la scorsa primavera. Poi Renzi e Padoan hanno chiesto ulteriore flessibilità per
le riforme (0,1%) e per gli investimenti (0,3%). Nei contatti informali tra Roma e Bruxelles è
arrivato il via libera all’operazione, che concede a Roma 13 miliardi di deficit con i quali
finanziare la manovra e in particolare il taglio delle tasse sulla casa.
Una promozione, che sarà formalizzata a metà del prossimo mese, all’inizio tutt’altro che
scontata. Basti pensare che venerdì scorso - rigorosamente dietro le quinte - si è andati a
un passo dallo scontro frontale tra Europa e Italia. I governi di centrodestra hanno reagito
duramente all’intenzione del commissario agli Affari economici, il socialista francese Pierre
Moscovici, di mettere in mora il Portogallo, dove il popolare Pedro Passo Coehlo è uscito
azzoppato dalle elezioni del 4 ottobre e non ha ancora inviato la Legge di stabilità a
Bruxelles. La reazione dei leader e dei commissari di centrodestra all’intenzione di
Moscovici, potenzialmente letale per Coelho e in grado di spalancare le porte di Lisbona
alla sinistra, è stata talmente veemente che come ritorsione gli uffici di Juncker avevano
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preparato due lettere di bocciatura delle manovre di Italia e Francia. Un drammatico giro di
telefonate nella notte tra Bruxelles, Roma e Parigi ha evitato il peggio, con lo stesso
Juncker che ha bloccato l’escalation invitando tutti a darsi una calmata.
Quindi, sempre tramite canali riservati, i messaggi distensivi sul via libera alla finanziaria
italiana ma con il chiaro avvertimento che Portogallo e Spagna, dove Rajoy il 20 dicembre
si gioca la Moncloa, devono essere lasciati in pace.
Poi, appunto, l’apertura sui migranti, anche in questo caso dettata da ragioni politiche: in
Austria la Grande Coalizione tra cristianodemocratici e socialisti vacilla, con il Paese che
potrebbe sbandare verso la destra estrema dell’Fpö. Anche in questo caso Berlino - dove
la Merkel non vuole una sterzata estremista di Vienna che potrebbe aprire la strada a una
radicalizzazione in Germania - e i popolari all’interno della Commissione di Juncker sono
andati in soccorso di Vienna, spingendo Bruxelles ad aprire alla flessibilità sui migranti.
Risultato ottenuto? Sì, ma non ancora del tutto. Mentre a Roma già si brindava al
successo, in effetti la clausola ci sarà, da Bruxelles hanno mandato un messaggio criptato
a Palazzo Chigi e al Tesoro: per definire l’impatto della flessibilità sui migranti si
calcoleranno le spese sostenute dall’aprile 2015, non dal 2014. In pratica se il governo
calcolava per il 2016 un incremento di 3,3 miliardi nei costi per gestire i flussi migratori
rispetto agli anni scorsi, ora il delta per il calcolo si restringe e parte da un periodo già di
emergenza. Con il risultato che per l’Italia, ma non per i paesi del Nord investiti dai flussi
solo da pochi mesi, il bonus potrebbe ridursi a poche centinaia di milioni di euro. I
negoziati dunque proseguono e inizia ad affacciarsi una soluzione più vantaggiosa:
Bruxelles potrebbe riconoscere a Roma tutta la flessibilità sui rifugiati, ma limare dello
0,1% quella sugli investimenti. Il deficit potrebbe così salire dal 2,2 al 2,3%, 1,6 miliardi
con i quali Renzi potrebbe anticipare parte del taglio Ires o il piano di edilizia scolastica. I
prossimi giorni saranno cruciali ma intanto l’Italia può considerare la sua manovra
espansiva promossa, risultato impensabile ai tempi del rigore selvaggio.
del 28/10/15, pag. 3
Il fallimento del piano europeo
ROMA Il piano era chiaro: 40 mila migranti da trasferire in due anni. Eritrei e siriani via
dall’Italia per essere ospitati negli Stati dell’Unione Europea che avevano accettato
l’agenda messa a punto dal presidente della Commissione europea Jean-Claude Junker.
Un mese dopo la sigla dell’accordo siglato per «alleggerire» la situazione anche in Grecia
e Ungheria dopo le migliaia di arrivi dei mesi scorsi, il progetto si rivela quello che in molti
temevano: un flop. Per raggiungere il risultato bisognava infatti far partire 80 stranieri al
giorno. E invece in un mese soltanto 90 hanno lasciato il nostro Paese: 40 sono andati in
Svezia, 50 in Finlandia.
I «nulla osta» sono solo 525
Gli altri rimangono in attesa e a scorrere la lista delle disponibilità rischiano di dover
aspettare per mesi, forse per sempre. Perché sono appena 525 le richieste accolte, ma
nessuna con effetto immediato. Si materializzano dunque i timori del ministro dell’Interno
Angelino Alfano che aveva più volte ribadito la linea del governo: «Apriremo i cinque
“hotspot” imposti dalla Ue per effettuare l’identificazione e il fotosegnalamento dei migranti
soltanto quando andrà a regime la redistribuzione». E infatti al momento funziona in via
sperimentale soltanto Lampedusa, sul resto la partita è aperta. E certamente —
soprattutto dopo il chiarimento proveniente proprio da Juncker — il governo farà pesare il
proprio impegno nell’accoglienza per ottenere da Bruxelles la maggiore flessibilità
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possibile nella tenuta dei conti pubblici. Anche tenendo conto che solo per quest’anno i
costi hanno superato il miliardo di euro.
Dieci in Germania venti in Francia
Il sistema «Dublinet» è una sorta di cervellone dove vengono inserite le schede di tutti gli
stranieri «registrati» e le indicazioni sulle possibili destinazioni. Tutti gli Stati membri sono
collegati e gli uffici competenti accedono in tempo reale. In Italia è gestito dal Dipartimento
Immigrazione del Viminale diretto dal prefetto Mario Morcone. I richiedenti asilo non
possono esprimere preferenza sul Paese dove andare, ma durante il vertice a Bruxelles si
era stabilito di tenere conto di eventuali motivi per privilegiare una meta piuttosto che
un’altra: presenza di familiari, conoscenza della lingua. Evidentemente anche questo non
è stato però sufficiente per convincere i vari governi a concedere il via libera.
La Germania — nonostante la cancelliera Angela Merkel avesse addirittura dichiarato
pubblicamente di voler accogliere tutti — ha dato disponibilità per dieci posti. Va un po’
meglio con la Spagna: 50 persone. Appena 20 per la Francia. La Svezia ne può prendere
100, la Finlandia ne accetterà 200. Sul resto, buio totale. Tra i Paesi che avevano
mostrato apertura, sia pur timida, c’erano Olanda e Portogallo. E invece nulla, al momento
hanno comunicato che non possono prendere nessuno.
Tutto fermo sugli «hotspot»
A questo punto bisogna attrezzarsi. Secondo i dati aggiornati al 25 ottobre sono giunti nel
nostro Paese 139.770 persone, tra loro 37.495 eritrei e 7.194 siriani. In tutto sono dunque
44.689 gli stranieri tra i quali si sarebbe dovuto scegliere chi far andare altrove. Rispetto
allo scorso anno c’è stata una sensibile diminuzione degli sbarchi, pari al 9 per cento, visto
che nel 2014 furono 170.100. Molti di loro sono tuttora presenti e distribuiti nelle strutture
governative e in quelle temporanee reperite dalle prefetture nelle Regioni utilizzando
anche alberghi, residence, campeggi.
L’Italia finora ha speso un miliardo e 100 milioni di euro, dall’Europa è previsto che arrivino
appena 310 milioni di euro. Una cifra irrisoria, soprattutto tenendo conto che altri soldi
dovranno essere stanziati per l’apertura degli altri «hotspot» a Pozzallo, Porto Empedocle,
Trapani. Per ora si è deciso però di fermare tutto. Visti i primi risultati, il governo ha deciso
di bloccare l’apertura dei centri di smistamento. Del resto tutti i tentativi, anche recenti, di
varare un piano comunque con gli altri Stati sono falliti miseramente e i numeri contenuti
nel cervellone «Dublinet» ne sono la prova più evidente. «Forse perderemo consenso e
voti, ma salvando quelle vite salviamo l’idea di Italia», dichiara Matteo Renzi. Il governo
dunque conterà sulle proprie forze, ma con la pretesa di ottenere da Bruxelles un margine
più ampio sui conti.
Fiorenza Sarzanini
Da Avvenire del 28/10/15, pag. 9
La Svizzera respinge i rifugiati eritrei
Alessandro Beltrami
Si possono chiudere le frontiere in tanti modi, e non solo alzando muri di filo spinato. La
Svizzera, ad esempio, usa mezzi più raffinati ma non meno "efficaci". Lo stanno
sperimentando in prima persona i profughi eritrei. La Confederazione Elvetica è una delle
mete principali da chi fugge dal regime di Asmara, da quando nel 2005 una corte
amministrativa ha riconosciuto la diserzione come motivo valido per il riconoscimento
quasi automatico dello status di rifugiato. Dall'anno scorso, però, le cose si sono fatte più
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complicate Nel 2014 su settemila domande di asilo ne sono state respinte oltre 1.400. Ma
quest'anno i flussi sono aumentati. Nel terzo trimestre 2015 sono stati 5.127 gli eritrei che
hanno chiesto asilo in Svizzera, con un incremento di 1.889 domande (+56%) rispetto al
precedente trimestre. E la stretta si è fatta ancora maggiore: nel solo mese di settembre i
"no" sono stati 772, e la decisione è arrivata non entro i venticinque giorni della procedura
standard ma nel giro di una decina «Sono respinti perché la Svizzera non vuole più
accettare gli immigrati», spiega don Mosè Zerai, il sacerdote eritreo che con la sua
Agenzia Habeshia da tempo è punto di riferimento per chi dal Como d'Africa cerca di
arrivare in Europa. Don Mosè è anche cappellano degli eritrei in Svizzera. «Bema stringe
le maglie ciclicamente, anche per scoraggiare il flusso in arrivo». ln tanti arrivano qui
perché hanno già famigliari residenti. Le autorità elvetiche non entrano nemmeno nel
merito delle domande, ma sbrigano la pratica appellandosi in modo ferreo al regolamento
di Dublino, per il quale la gestione de.i profughi è dello Stato di prima accoglienza Che per
gli eritrei è di norma l'ltalia. «Ma queste persone non hanno mai inoltrato la domanda di
asilo in Italia» prosegue don Zerai. «Non hanno lasciato le' impronte digitali e spesso
nemmeno una foto segnaletica. Ma essendo arrivati via mare presume che siano entrati in
Europa dall'Italia La Svizzera rispedisce la pratica a Roma, dove però l'ufficio Dublino non
riesce a rispondere in tempo utile alle domande che gli arrivano da ogni parte. Il tempo
scade. Per Bema è silenzio assenso e rimanda i profughi in Italia». «La Svizzera commenta Cristopher Hein, segretario generale del Ceptro italiano rifugiati (Cir) -non è un
Paese membro dell'Ue e non fa parte del piano di ricollocamento, perciò continua ad
applicare le norme del regolamento di Dublino». Per contro in Italia, «Specie da quando ci
sono gli hotspot - spiega Hein -, a cui sono demandate le procedure nei porti di sbarco,
accade che chi si trovava già nel Paese deve rivolgersi alle Questure, che però non hanno
personale sufficiente, rallentando l'iter per accedere al piano di ricollocamento». Gli eritrei
bloccati in Svizzera ricevono un foglio di uscita e devono lasciare il Paese entro pochi
giorni. Se non lo fanno arriva l'allontanamento coatto. «Lo scorso mese ci sono arrivate
decine di segnalazioni di persone prelevate dalla polizia senza avviso dall'oggi al domani e
portate via non si sa dove. Passano due o tre settimane senza che arrivino notizie e
questo genera allarme e angoscia in moltissime famiglie. Sono trattenuti in centri di
espulsione, in sostanziale isolamento. La legge prevede che abbiano diritto a una
telefonata per avvertire i famigliari, ma questa in molti casi non viene concessa. Queste
persone, già ampiamente traumatizzate nel loro percorso dall'Eritrea all'Europa, sono
sottoposte a stress tali che registriamo casi di suicidio». Chi si ritrova entro i confini italiani
ha davanti a sé diverse possibilità. Chi ha legami familiari tenta di ritornare in Svizzera,
altri cercano fortuna altrove, soprattutto in Germania «C'è un grosso discrimine tra chi è
arrivato prima o dopo il 1aprile2015», spiega don Zerai. «Dopo quella data è possibile
usufruire dei ricollocamenti, canale legale per essere trasferito in Nord Europa. È una delle
soluzioni su cui cerchiamo di fare maggiore informazione . .llr1a chi è arrivato prima e tutti
i "dublinati" degli scorsi restano nel limbo. Abbandonati a se stessi, spesso si ritrovano in
Italia a ingrossare i numeri di chi vive in palazzi fatiscenti e baraccopoli».
Da Huffington Post del 28/10/15
Slovenia travolta dai migranti chiede aiuto
militare all'Europa. L'Austria alza un muro alla
frontiera
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Ottantaquattromila arrivi negli ultimi 10 giorni. Ottomila solo tra la sera di lunedì e la
mattina di martedì scorso. Un peso insostenibile per la Slovenia, uno Stato di 2 milioni di
abitanti, che sta valutando l’idea di invocare la –mai utilizzata – clausola di solidarietà dei
trattati Ue per richiedere formalmente l’aiuto militare europeo.
È la clausola 222 del Trattato sul funzionamento dell’Ue (Tfue), meglio nota come
“clausola di solidarietà” che prevede che l'Ue e gli stati membri agiscano congiuntamente,
mobilitando tutti gli strumenti di cui dispongono, qualora uno stato membro sia oggetto di
un attacco terroristico o sia vittima di una calamità naturale o provocata dall'uomo.
"La situazione è molto grave, mi aspetto un piano d'azione concreto altrimenti sarà l'inizio
della fine dell'Unione europea come tale" aveva detto il premier sloveno Miro Cerar al
minivertice sui Balcani dei giorni scorsi. Finora l’Europa ha deciso che la Germania e altri
10 Paesi europei rinforzeranno con 400 poliziotti l’apparato di ordine pubblico della
Slovenia.
Più di mezzo milione di migranti hanno cercato da inizio anno di passare attraverso il
cosiddetto corridoio dei Balcani che dalla Grecia porta in Germania. Aumenta la tensione
fra i paesi attraversati, con Slovenia e Croazia ai ferri corti. Il Governo di Lubiana accusa i
croati di indirizzare verso i confini sloveni “in modo organizzato” e pianificato un flusso
incontrollato di migranti. Accuse respinte seccamente da Zagabria che rinfaccia agli
sloveni di aver rifiutato la sua proposta di trasportare i migranti direttamente in treno alla
frontiera con l’Austria.
Proprio dalla Slovenia sta entrando in Austria un numero sempre crescente di persone. Il
Governo di Vienna, per bocca del ministro dell’Interno Johanna Mikl-Leitner, annuncia che
sarà costruita una barriera alla frontiera per controllare meglio il flusso dei migranti.
Proprio quello che Jean-Claude Juncker e i vertici europei temevano: l’effetto Orban, una
progressiva chiusura delle frontiere che metterebbe a repentaglio l’esistenza del patto di
Schengen e che porterebbe a una sempre minore solidarietà interna all’Europa.
La 'Rotta balcanica'
Una lunga strada che per la maggior parte dei rifugiati parte dalla Siria, ma anche
dall'Iraq e dall'Afghanistan, per arrivare nel cuore dell'Unione europea, principalmente in
Germania, Austria ma anche più a nord sino in Svezia. Transitando dai Balcani. E' quella
che ha preso nome di 'Rotta balcanica', che per i migranti rappresenta la salvezza e per i
Paesi Ue un complicato problema politico.
I PAESI COINVOLTI. La rotta verso l'Europa comincia in Turchia, primo paese
confinante con la Siria e alle porte della Grecia, stato membro Ue e di Schengen. Da qui i
migranti attraversano l'Egeo verso le isole greche più vicine, in particolare Lesbo, Chio,
Samo, Kos e Rodi, da dove raggiungono Atene e si dirigono verso la Macedonia. Un
numero molto ridotto ha provato il passaggio dalla Istanbul verso la Bulgaria, fuori da
Schengen e con le frontiere chiuse. Dalla Macedonia la strada prosegue per la Serbia.
Fino a prima della costruzione dei muri alle frontiere con Serbia e Croazia, i rifugiati
passavano per l'Ungheria. Ora dalla Serbia i migranti passano per Croazia, in Ue ma fuori
Schengen, e Slovenia, dentro Schengen, per passare il confine con l'Austria e poi della
Germania.
I NUMERI. Non c'è una cifra univoca dell'esodo in corso verso l'Europa, a causa dei
problemi di registrazione dei migranti. Gli ultimi numeri di Frontex parlano di 710mila arrivi
complessivi da inizio anno, mentre l'Oim di 681mila. Di questi 540mila via Grecia, quindi in
marcia per la rotta dei Balcani.
La Turchia, che ospita oltre 2 milioni di profughi, ha segnalato che dopo i
bombardamenti russi in Siria si aspetta un nuovo flusso di arrivi da 50mila a 80mila
rifugiati. Nell'ultima settimana sono stati 48mila i nuovi arrivi record in Grecia. In Croazia,
invece, da metà settembre sono transitati 224mila migranti, mentre da sabato scorso in
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Slovenia ne sono passati 56.500 di cui l'Austria ne ha accolti 31mila. La Germania, meta
favorita dei rifugiati, si aspetta di accogliere sino a 1 milione di profughi per il 2015.
http://www.huffingtonpost.it/2015/10/28/slovenia-migranti-austria-alzamuro_n_8405244.html?1446020166&utm_hp_ref=italy
Del 28/10/2015, pag. 46
Pensavamo che con il 1989 fosse caduta l’idea di Cortina di ferro Ecco
perché invece la storia si ripete
La maledizione del Muro che perseguita
l’Europa
ANGELO BOLAFFI
La grande speranza si è rivelata una fugace illusione: avevamo creduto che la caduta del
Muro di Berlino se non proprio la “fine della storia” avesse, almeno in Europa, segnato la
fine dell’età dei muri e dei reticolati di filo spinato. E invece sta accadendo esattamente il
contrario. Incapaci di trovare una risposta razionale e solidale alla migrazione di
popolazioni che fuggono dalle guerre del Medio Oriente e attraversando i Balcani cercano
salvezza nel Vecchio Continente, i governanti dei paesi dell’Est Europa pensano di poter
risolvere il problema ricostruendo quella che per più di mezzo secolo
era stata causa delle loro sofferenze: una nuova cortina di ferro. Già ma chi è l’autore di
questa metafora geopolitica che ha segnato un capitolo fondamentale della storia del
secondo dopoguerra in Europa?
È convinzione diffusa che il primo a parlare di cortina di ferro (iron courtain) sia stato
Winston Churchill nel discorso tenuto il 5 marzo del 1946 al Westminstern College di
Fulton (Missouri) per mettere in guardia l’Occidente e l’opinione pubblica mondiale su
quanto stava accadendo nei paesi dell’Europa orientale “liberati” dall’Armata Rossa: «Da
Stettino nel Baltico a Trieste nell’Adriatico una cortina di ferro è scesa attraverso il
continente. Dietro quella linea si trovano tutte le capitali dei vecchi Stati dell’Europa
centrale e orientale. Varsavia, Berlino, Praga, Budapest, Belgrado, Bucarest e Sofia».
In realtà il vecchio statista inglese, artefice dell’alleanza antinazista tra i paesi
anglosassoni e l’Unione Sovietica di Stalin, si guardò bene — sarebbe stato davvero molto
imbarazzante — dal citare la fonte da cui aveva tratto quella formulazione. E soprattutto
evitò di fare il nome di chi prima di lui aveva parlato di una cortina di ferro. Era stato il
ministro della propaganda nazista Joseph Goebbels che il 26 febbraio del 1945 sulla
rivista nazista Das Reich aveva scritto: «Se il popolo tedesco depone le armi, i sovietici, in
base agli accordi presi da Roosevelt, Churchill e Stalin, occuperanno tutta l’Europa
orientale e sud-orientale assieme a gran parte del Reich. Una cortina di ferro scenderà su
questo enorme territorio controllato dell’Unione Sovietica, dietro la quale inizierebbe un
massacro di massa col prevedibile plauso della stampa ebraica di Londra e New York».
Ma in realtà neppure Goebbels è il vero autore di questa espressione. Infatti sempre nella
stessa rivista Das Reich qualche settimana prima che apparisse l’articolo di Goebbels era
uscita firmata “cl Lissabon” una analisi delle conseguenze delle conferenze di Mosca
(ottobre del 1944) e di Jalta (inizio di febbraio del 1945). In questo articolo compare per la
prima volta quella espressione: «Una cortina di ferro di fatti compiuti dai bolscevichi è
scesa su tutta l’Europa sud-orientale nonostante il pellegrinaggio di Churchill a Mosca
dinnanzi alla scelta di Roosevelt (…) essa discende inesorabile sull’Europa (...). Il
Dipartimento di Stato e il Foreign Office fanno a gara per inventare un qualche
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marchingegno diplomatico al fine di dare nei loro paesi l’impressione che anche le potenze
occidentali in qualche modo collaborino a manovrare la cortina di ferro prima che dietro di
essa scompaia tutta l’Europa».
Ma chi c’era dietro la sigla “cl Lissabon”? Già nel lontano 1964 lo storico Karl Heinz-Minuth
in un saggio apparso sulla rivista Geschichte in Wissenschaft und Unterricht aveva cercato
ma senza successo di venire a capo del mistero. Oggi grazie alle ricerche di Georg Meyer,
uno storico di questioni militari, conosciamo il nome dell’autore. Si tratta di Max Walter
Clauss: nato nel 1901 (morì nel 1988), aveva studiato ad Heidelberg presso Alfred Weber
e Robert Curtius. Protagonista della vita mondana e dei salotti della Germania di Weimar,
Carl Schmitt lo riceveva a casa sua a colazione, aveva rapporti tra gli altri con Carl Jacob
Burkhardt (in una lettera del 1971 lo definisce «un uomo, come lei, così politicamente
dotato, una personalità ricca di esperienza, del tatto necessario e di savoir vivre »), con
Thomas Mann e T.S. Eliot. Quest’ultimo dopo una visita a Londra di Clauss ne parla come
mon cher ami et confrère . Traduttore di Monsieur Test di Valéry (una recente edizione
Suhrkamp prende ancora a riferimento questa traduzione), legato alla cerchia politicoculturale cui faceva parte anche Hoffmansthal, Clauss in qualità di redattore della
Europäische Revue sostenne la necessità di «rendere cosciente l’unità spirituale
dell’Europa». Partecipò alle riunioni di gruppi cattolico-reazionari a Barcellona, Cracovia e
anche a Milano dove pur essendo stato invitato Mussolini decise di non farsi vedere.
Divenuto un fervente sostenitore del regime hitleriano Clauss evitò gli anni della guerra e
del primissimo dopoguerra lavorando come giornalista nel Portogallo di Salazar del cui
regime fece una calda apologia in un saggio apparso in una rivista tedesca.
All’inizio degli anni ’50 fece ritorno diventando un collaboratore del ministro dell’economia
Erhard in una Germania nella quale gli ex nazisti continuavano a occupare decisivi posti di
potere. Il suo saggio più importante apparve nel 1952 col titolo Il cammino verso Jalta.
Responsabilità di Roosevelt . In esso oltre a sostenere che Roosevelt «avrebbe sulla
coscienza la responsabilità della guerra» — un «servizio alla vendetta ebraica mondiale»
— Clauss continua a difendere la sua tesi reazionaria tipica della Kulturkritik secondo la
quale l’Europa avrebbe dovuto contrapporsi sia al bolscevismo che al materialismo
americano: «poiché allora il mondo senza di noi sarebbe il mondo ideale per bolscevismo
e americanismo, un mondo culturalmente desolato senza storia, barbarico e livellatore, un
mondo senza il volto europeo. A questo vero declino dell’Occidente nel XX secolo si
contrappone la realtà combattiva dell’Europa». Insomma un manifesto dell’europeismo
reazionario che purtroppo ancora oggi continua a circolare presentandosi talvolta come
protesta contro “l’imperialismo americano”.
Per fortuna l’idea d’Europa che ha vinto è un’altra: è l’idea che lega i valori europei e il
futuro politico del Vecchio Continente alle grandi tradizioni occidentali dell’illuminismo,
della rivoluzione americana e francese. E al suo cuore c’è una Germania lontanissima da
quella sognata da Clauss. Una nazione che ha appreso a proprie spese che pensare di
“vagabondare” tra Occidente e Oriente è una fatale illusione dalle conseguenze
catastrofiche. Una Germania, insomma, per dirla col titolo di una magistrale opera dello
storico tedesco Heinrich Winkler, che ha percorso «il suo cammino verso Occidente».
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DIRITTI CIVILI E LAICITA’
Del 28/10/2015, pag. 10
Nozze gay annullate bufera sul giudice: tweet
prima della sentenza
Il mondo Lgbt: consigliere di Stato schierato Provvedimento a rischio.
Alfano: avevamo ragione noi
CATERINA PASOLINI
È polemica dopo che il Consiglio di stato ha bocciato la trascrizione delle nozze gay
celebrate all’estero, con la motivazione che in Italia sono validi solo i matrimoni tra
persone di sesso diverso. Sotto accusa non solo la decisione, presa collegialmente da
cinque giudici del massimo tribunale amministrativo, ma in particolare il magistrato
estensore del testo. Le organizzazioni Lgbt che hanno già deciso di ricorrere alla Corte
europea dei diritti dell’uomo puntano il dito contro Carlo Deodato: «Più volte si è espresso
in passato pubblicamente contro il riconoscimento delle coppie omosessuali, aderendo a
posizioni catto-integraliste e di riviste ultraconservatrici».
Sul suo profilo twitter Deodato nel tempo ha in effetti ritwittato cinguettii delle Sentinelle in
piedi: «La nuova #resistenza si chiama difesa della #famiglia», oppure «Io volevo un papà
e una mamma non due mamme», firmato una figlia di trasgender». «Frasi che fanno per lo
meno dubitare della sua obiettività» protestano le associazioni Lgbt, mentre reazioni
arrivano anche dal mondo politico: Sergio Lo Giudice, senatore del Pd e attivista per i diritti
degli omosessuali, ex presidente Arcigay, commenta con una punta di ironia: «Estensore
sentenza Trascrizoni matrimoni all’estero è fan delle sentinelle. L’uomo giusto al posto
giusto». Ma andiamo con ordine. Lo scorso marzo il Tar del Lazio decreta che le
trascrizioni possono essere annullate solo dai tribunali civili e non dai prefetti.
Sconfessando in questo modo la circolare diffusa dal ministro dell’Interno Alfano che, ora
invece canta vittoria: «Dopo proteste anche violente e ricorsi, il Consiglio di stato mi dà
ragione: i matrimoni tra persone dello stesso sesso non sono previsti dalla legge italiana,
le trascrizioni fatte dai sindaci sono illegittime e la vigilanza è di competenza dei prefetti».
Come quello di Roma, Pecoraro, che commenta secco: «Era ovvio». Bocciati quindi i primi
cittadini di Roma, Milano, Napoli, che avevano trascritto matrimoni tra coppie omosessuali,
e quello di Bologna che aveva dato il via libera alla registrazione. Dando una speranza alle
coppie omosessuali di avere prima o poi gli stessi diritti degli etero.
A dare il via alle polemiche sul magistrato, l’avvocatura per i diritti Lgbti- rete Linford, la
prima in mattinata a segnalare i tweet di Deodato. «Non voglio entrare nel merito della
posizione del giudice, a me interessa il contenuto della sentenza, che non ritengo
condivisibile sotto l’aspetto giuridico e in diritto. Per questo porteremo la questione davanti
alla Corte europea per i diritti dell’uomo» ha detto la presidente Maria Grazia Sangalli.
Del 28/10/2015, pag. 1-29
L’IGNAVIA
GIANLUIGI PELLEGRINO
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È SOLO apparentemente un paradosso. Ma la sentenza mette in mora la politica sui diritti
civili.
PERSINO una decisione ispirata da una chiara matrice conservatrice, ha dato atto che
sono le Corti europee «ad imporre allo Stato di assicurare una tutela giuridica delle unioni
omosessuali ». Come ancora il Consiglio di Stato ha dovuto ricordare «la violazione da
parte dello Stato italiano dell’art. 8 della Carta dei diritti dell’Uomo, nella misura in cui (il
nostro Paese) non assicura alcuna protezione giuridica alle unione omossessuali».
Se quindi anche una sentenza, come quella dell’altroieri, scritta senza alcun favore per i
movimenti omossessuali, deve dar conto dello straordinario ritardo di cui si sta
macchiando il nostro sistema sul fronte di basilari diritti civili, allora diventa ineludibile
l’obbligo repubblicano del Parlamento di esaminare e definitivamente varare il noto testo di
legge che è in questi giorni al suo esame.
Non c’è davvero più spazio per meline e rinvii, tanto più se strumentalmente motivati
addirittura sulla negazione di diritti che devono riguardare tutte le unioni, anche quelle tra
uomo e donna, come l’adottare il figlio del proprio compagno o della propria compagna di
vita. È il capitolo dell’ormai nota stepchild adoption che solo in Italia si vorrebbe impedire
con la davvero goffa motivazione che ciò potrebbe in qualche modo incentivare la pratica,
che invece resterebbe pacificamente vietata, dei cosiddetti uteri in affitto. È come dire che
impediamo la costruzione di automobili e i progressi meccanici perché altrimenti si
incentiva la violazione dei limiti di velocità e del codice della strada.
Si tratta all’evidenza di pretesti che qualsivoglia governo responsabile, vi è più se a
dichiarata guida riformista, deve respingere senza infingimenti, lasciando stare l’ipocrita
scappatoia dei voti segreti o di coscienza. Se si è giunti a ipotizzare questioni di fiducia su
controverse riforme elettorali e costituzionali, risulta doverosa una analoga determinazione
su un fronte che sta alla base della convivenza civile. Quando anche le sentenze che
aderiscono alle ipotesi interpretative più conservative, devono necessariamente rimarcare
l’oggettivo ritardo del nostro ordinamento.
Del resto anche a diritto vigente esistono pure conclusioni in gran parte diverse da quelle
del giudice amministrativo, avendo anche di recente il giudice ordinario (Corte d’Appello di
Napoli) ritenuto doverosa la trascrizione di un matrimonio omosessuale celebrato da
cittadini francesi trasferitisi in Italia. Ma altro non è che la ulteriore conferma dell’urgenza
che impone alla politica e al legislatore di non tardare un giorno ancora. Non possiamo
essere la maglia nera d’Europa, il ridotto medievale di un oltranzismo conservatore che
giunge a negare elementari diritti civili; né una sorta di lotteria d’Arlecchino, dove questioni
così basilari, risultano affidate al bussolotto della diversa opzione culturale dei giudici che
occasionalmente ti trovi di fronte. A volte il legislatore è debordante. Ma altre, quando
tace, si macchia di inaccettabile ignavia.
del 28/10/15, pag. 2
Libera “Vita familiare”, diritto senza legge
Sentenze. Dalla Cassazione alla Corte di Strasburgo: l'eterna messa in
mora del parlamento italiano sui diritti delle coppie omosessuali
La legge ancora non c’è, di sentenze invece ce ne sono anche troppe. La Cassazione tre
anni fa, la Corte di giustizia europea quest’anno hanno raccomandato al parlamento
italiano di riconoscere il diritto delle coppie omosessuali al matrimonio. Recentemente (a
settembre) l’ha fatto anche il parlamento europeo, in una raccomandazione indirizzata
all’Italia e agli altri otto paesi che ancora non riconoscono «le unioni di fatto registrate e il
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matrimonio» alle coppie dello stesso sesso. Come noi solo Grecia, Cipro, Lituania,
Lettonia, Polonia, Slovacchia, Bulgaria e Romania.
All’origine, nel nostro paese, una sentenza della Corte costituzionale dell’aprile 2010
(relatore il giudice Criscuolo, oggi presidente della Corte) in cui si chiudeva la porta
all’equiparazione: «Le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee al
matrimonio», ma già allora si chiedeva al parlamento di intervenire per garantire a tutti «il
diritto di vivere liberamente una condizione di coppia ottenendone il riconoscimento
giuridico con i connessi diritti e doveri».
Tre anni (e nessuna legge) dopo, una storica sentenza della prima sezione civile della
Cassazione (presidente Maria Gabriella Luccioli) stabilì che anche in Italia deve
considerarsi superata «la concezione secondo la quale la diversità di sesso dei nubendi è
presupposto indispensabile della stessa esistenza del matrimonio». Era, di nuovo, un
problema di leggi mancanti. La Cassazione si trovò così a dover respingere il ricorso di
una coppia omosessuale di Latina, che aveva chiesto senza ottenerla la trascrizione delle
nozze celebrate in Olanda. Un respingimento obbligato non più dall’inesistenza o invalidità
delle nozze, ma dai limiti dell’ordinamento italiano. Perché, scrisse nel 2013 la
Cassazione, le coppie omosessuali hanno diritto «a una vita familiare» e a «un trattamento
omogeneo a quello assicurato dalla legge alla coppia coniugata».
Ma il legislatore è rimasto inerte, e così è arrivato adesso — sul piano del diritto
amministrativo — il Consiglio di stato. Nel frattempo la stessa sezione della Cassazione, a
febbraio di quest’anno, aveva sentenziato che perdurando la latitanza del parlamento
«l’operazione della omogeneizzazione dei diritti e dei doveri» delle coppie omosessuali
con quelle etero, «può essere svolta dal giudice comune che è tenuto a un’interpretazione
delle norme non soltanto costituzionalmente, ma anche convenzionalmente orientata». In
linea cioè con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, presidiata dalla Corte europea
dei diritti umani. Che infatti a luglio di quest’anno si è espressa chiaramente, condannando
l’Italia per la violazione dei diritti degli omosessuali e imponendo anche un risarcimento in
favore delle tre coppie ricorrenti. Ancora una volta, inutilmente.
del 28/10/15, pag. 3
Alfano: abbiamo vinto
Coro di proteste arcobaleno
Luca Fazio
MILANO
Siccome non capita spesso, le “vittorie” se le rivendicano con una certa foga. E una volta
tanto il capetto supremo dei centristi, Angelino Alfano, che per gli smemorati è anche un
importante ministro del governo Renzi, ha trascorso la giornata di ieri a farsi i complimenti
da solo. Supportato dai suoi compagni di crociata, tra cui non poteva mancare la deputata
Paola Binetti che ha accolto come un dono del signore il pronunciamento dei giudici del
Consiglio di Stato che si sono espressi in favore dell’annullamento delle trascrizioni dei
matrimoni celebrati all’estero tra persone dello stesso sesso: “Il ministro Alfano ancora una
volta intasca un successo politico e personale clamoroso nell’esercizio del suo mandato”.
Eccolo, che gongola nei Tg della sera: “Le nozze gay in Italia non esistono, avevo detto
che chi si sposa all’estero, essendo dello stesso sesso, non può trascrivere il matrimonio
in Italia. Sono stato accusato, c’è stata una pioggia di ricorsi… ma abbiamo vinto! Adesso
il Consiglio di Stato mi dà ragione su tutta la linea: i matrimoni tra persone dello stesso
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sesso non sono previsti dalla legge italiana, pertanto le trascrizioni fatte dai sindaci sono
illegittime e la vigilanza è di competenza dei prefetti. Molto bene”.
Il messaggio politico è chiaro. Come dice Giorgia Meloni (FdI), “questa sentenza è una
lezione per tutti quei sindaci di sinistra, da Roma a Milano fino a Napoli, che si ritengono al
di sopra della legge e credono di poter firmare atti illegali”. Ma sono molti di più i comuni
che si sono dotati di un registro delle unioni civili, a cominciare da Empoli che si è portato
avanti già negli anni Novanta (Genova, Ferrara, Firenze, Udine, Rimini, Cagliari, Ravenna,
Bari, Palermo e altri ancora). Le reazioni “contro” non si sono fatte attendere e chiamano
in causa la politica (e il governo prima di tutto).
“Adesso tocca al parlamento riparare ad un torto e ad un danno rispondendo alla scelta di
sindaci coraggiosi che hanno prodotto una decisione storica per il paese — dichiara il
capogruppo di Sel Arturo Scotto — e la strada è segnata: l’Italia deve andare in Europa e
in Europa ci sono i matrimoni egualitari e diritti civili moderni per le persone”. L’Arcigay
sembra quasi prendere di slancio una sentenza che potrebbe anche accelerare un
processo che è già nella storia. “Nelle motivazioni — spiega il presidente Flavio Romani —
si percepisce una resistenza culturale, e poi giuridica, a considerare le coppie di gay e di
lesbiche al pari di tutte le altre. La sentenza ha un retrogusto pilatesco, perché tenta di
deresponsabilizzarsi rispetto a un tema cruciale. Nel contempo però i giudici non
dimenticano di sottolineare che è la politica ad essere la grande latitante e a non
peremettere al nostro paese il passo avanti che renderebbe insindacabile il
riconoscimento delle coppie formate da persone dello stesso sesso”. La Rete Lenford, che
con i suoi avvocati ha assistito le coppie gay che si sono sposate all’estero, ha deciso di
impugnare la sentenza del Consiglio di Stato presso la Corte europea per i diritti umani di
Strasburgo: “Basta guardare il suo profilo twitter per rendersi conto delle posizioni
conservatrici del giudice Diodato”.
Per Franco Grillini, presidente di Gaynet, “l’euforia della destra italiana, la peggiore e più
bacchettona d’Europa è del tutto ingiustificata”. Anche lui punta il dito contro il giudice
estensore della sentenza, “è un simpatizzante di Cl e nel suo profilo pubblicizza link e si
schiera con le iniziative delle Sentinelle in piedi” (l’associazione ultra cattolica che
manifesta nelle piazze su posizioni reazionarie e oscurantiste, ndr). Per tutti è chiaro che
la battaglia per i diritti non sia di competenza di questo o quel tribunale. Lo dicono in coro
diversi rappresentanti di Sel. Ma a questo punto è meglio sentirlo dire da un esponente del
Pd, il partito da cui dipenderà l’esito di questa elementare battaglia per l’eguaglianza.
“Dietro l’euforia che ha accolto questo verdetto — dice Micaela Campana, resposabile
Diritti del Pd — ci sono le vite delle persone che meritano rispetto e l’impegno da parte
dello Stato di colmare un vuoto legislativo che ci rende ultimi in Europa. Un dato non
degno di un paese fondatore dell’Unione europea”.
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SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
Del 28/10/2015, pag. 23
A lezione di scacchi “Giocare con torri e re
aiuta in matematica”
Il ministero si mobilita per introdurre la disciplina a scuola Esperimento
in 350 medie. Con una piattaforma online
CORRADO ZUNINO
Gli scacchi aprono la mente e consolidano il carattere, consentono di prevedere un
risultato in un tempo definito e insegnano a riconoscere la sconfitta. Poi, va detto, i ragazzi
che li praticano migliorano il rendimento (del 17 per cento, dicono gli studi), soprattutto in
matematica. Dopo lunga fatica e molte esperienze comparate — l’Armenia che nel 2011
ha trasformato lo sport olimpico in materia curriculare, l’Unione europea con una
dichiarazione a favore degli scacchi a scuola quasi unanimemente votata, la Spagna che
l’ha fatta sua di recente — il nostro ministero dell’Istruzione ha preso atto che una
letteratura consolidata considera gli scacchi zucchero per la mente dei ragazzi. Lo dicono
anche otto ricerche italiane. Su questa scorta, il Miur ha deciso di promuovere un progetto
pubblico- privato per far entrare gradualmente nelle aule la virtuosa disciplina.
La “circolare scacchi” è stata inviata ieri dalla direzione generale degli studenti alle
periferie del ministero, le direzioni provinciali: a breve sarà girata alle scuole. L’atto
ministeriale introduce, ed è la prima volta, un percorso omogeneo per far crescere gli
scacchi e gli scacchisti in aula. Fino a ieri le esperienze erano state singole: il liceo
scientifico sportivo Carlo Jucci di Rieti ha introdotto la materia “scacchi”, per esempio,
nell’orario settimanale. Il nuovo progetto stima 350 scuole medie coinvolte in questo anno
scolastico — bisogna trovare i docenti adatti e gli studenti intenzionati — , ma nell’arco di
due stagioni «il nostro esperimento diventerà un riferimento in tutto il mondo». Ne è
convinto Carlo Stellati, Ceo di Premium Chess, la società di giochi online che a giugno ha
presentato l’idea insieme alla Federazione scacchistica italiana.
Il progetto “Scacchi a scuola” prevede che ogni studente minorenne possa collegarsi —
previa autorizzazione dell’istituto di riferimento e dei genitori — a una piattaforma online e
iniziare a sfidare compagni di banco o sconosciuti coetanei lontani. L’accesso è gratuito, ci
si potrà sfidare la mattina in classe — se nel Progetto formativo della singola scuola è
previsto — o il pomeriggio da casa. I docenti che daranno la loro disponibilità potranno
diventare formatori o più semplicemente certificare il grado di crescita dei ragazzi
scacchisti. Avranno crediti formativi per questo. Solo in una seconda fase i minorenni più
appassionati e capaci potranno essere presi in consegna dai formatori professionisti della
Federazione. «La ragione del fallimento dei precedenti tentativi», spiegano alla Fis, «sta
tutta nell’impossibilità di seguire masse di studenti». Nel 2014 la Federazione ha formato
700 nuovi allenatori, insufficienti per i numeri della scuola italiana. «Abbiamo pensato,
allora, di aprire subito il gioco a tutti gli alunni e costruire un percorso più selettivo e
impegnativo in un secondo tempo». Chi dimostrerà passione otterrà l’allenatore
specializzato. A partire dalla stagione 2016-2017 saranno coinvolte le scuole elementari e
successivamente le superiori. «Gli scacchi, è provato, aiutano gli studenti medi, molto più
di quelli già bravi».
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del 28/10/15, pag. 23
La parità digitale che non migliora i voti
Tablet e lavagne interattive da Nord a Sud. Ma uno studio mostra che la
tecnologia non riduce le differenze
C’era una volta il digital divide . Scuole del Nord dove entravano computer e libri digitali e
aule del Sud ferme a lavagna e gessetto. Le statistiche che misurano la tecnologia nella
scuola a chili di ferro contavano nel 2001 un computer ogni 25 alunni nelle Regioni del
Centro-Nord; uno ogni 33 al Sud. Oggi gli indicatori si sono livellati, non c’è differenza tra
Piemonte e Campania, Puglia e Lombardia: circa dieci computer ogni cento ragazzi,
un’aula su due con connessione Wi-Fi (ma in Sardegna arrivano al 70%), tre su dieci con
la Lim, la lavagna interattiva multimediale (con una forbice che va dal 24% della Liguria al
77% della Sardegna).
Investimenti massicci
In mezzo, ci sono stati investimenti massicci: fondi ministeriali, ma soprattutto contributi
europei per il Mezzogiorno che hanno avuto un impatto sul fronte delle dotazioni: 440
milioni di euro in sette anni (2007-2014) per l’acquisto di tecnologie didattiche. Obiettivo
dichiarato (e che rientra nella strategia EU2020 e nella Digital Agenda): l’incremento
dell’efficacia didattica e dell’apprendimento degli studenti, insieme all’acquisizione di
competenze fondamentali nella vita e nel lavoro.
Le conseguenze
Però l’aver infarcito le classi di Lim, Wi-Fi e tablet non ha avuto effetti positivi sul
rendimento. Lo dice un’indagine commissionata dall’Unità di valutazione degli investimenti
pubblici della Presidenza del Consiglio dei ministri (coordinata dalla società Studiare
Sviluppo Srl), che mette per la prima volta in collegamento l’introduzione dei media digitali
nelle scuole con gli esiti dei test Invalsi. Gli effetti positivi sono modesti al Nord, dove i
punteggi migliorano dello 0,4% in Italiano e dell’1,5% in Matematica, rispetto alla media
nazionale; negativi al Sud: tra -0,5 e -1% nelle Regioni dell’«Obiettivo Convergenza»
(Campania, Puglia, Calabria, Sicilia), dove «i massicci finanziamenti hanno reso poco
selettivo l’accesso alle tecnologie, facendole arrivare anche laddove il contesto non era
pronto o particolarmente motivante», scrivono i ricercatori Marco Gui (Università di MilanoBicocca) e Simone Giusti (associazione l’Altra Città). Un dato che conferma le conclusioni
dell’Ocse che sostiene che i quindicenni che usano moderatamente i computer a scuola
tendono ad avere un miglior apprendimento dei coetanei che lo usano poco o nulla, ma
quelli che lo utilizzano in modo massiccio peggiorano nella lettura, in Matematica e nelle
Scienze.
Anche i ricercatori italiani arrivano alla conclusione che c’è un tetto nell’uso delle
tecnologie oltre il quale i risultati calano fino a raggiungere il livello di chi non le utilizza.
Questo non vuol dire che si debba smettere di investire in dotazioni informatiche,
avvertono i ricercatori. Anche perché l’uso in classe di pc o altri device mobili garantisce
meno abbandoni, meno assenze, più studenti che si immatricolano.
Il confronto europeo
L’Italia è agli ultimi posti quanto a numero di studenti per pc e per numero di alunni
con laptop connesso (il 94,7% delle scuole del Mezzogiorno dichiara di non avere tablet,
dato in linea con il resto del Paese); in media europea per presenza di Lim; nel 40% delle
scuole il registro elettronico (dove segnare assenze, voti, lezioni) non è arrivato; in un
istituto su quattro non è contemplato l’uso di Internet per la didattica. Secondo European
Schoolnet , poi, abbiamo la percentuale più elevata di studenti che frequentano una scuola
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senza banda larga: 25% (contro una media europea del 5%). E tablet e Lim senza banda
larga sono spesso ciechi e muti.
Avanti, dunque, ma con altri obiettivi: «La motivazione principale non può più essere
l’aumento delle prestazioni degli studenti in Italiano e Matematica, ma la diffusione e
perequazione di un uso critico della Rete», sostiene Marco Gui. Agli studenti va insegnato
lo sforzo del confronto e il senso critico per valutare i contenuti. E il «parco tecnologico»
delle scuole non dovrà più essere calato dall’alto, senza coinvolgere i prof e senza
insegnar loro un uso efficiente degli strumenti.
«La mancanza di competenze interne alle scuole ha causato problemi organizzativi», dice
la ricerca, che cita casi di istituti che hanno ricevuto contemporaneamente Lim per tutte le
aule dell’istituto; furti dei pc usati per accedere alle lavagne interattive; un’ampiezza di
banda per collegarsi alla rete pari, quando va bene, a quella di casa; pochi laboratori e
magari dotati di vecchi desktop dismessi dalle aziende.
Ieri il Miur ha presentato il Piano nazionale scuola digitale. Un miliardo di euro, fino al
2020, per avere edifici tutti cablati e connessi a Internet (entro il 2016), registro elettronico
per ogni classe, ambienti scolastici digitalizzati, formazione ad hoc per studenti, prof e
segreterie.
Antonella De Gregorio
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CULTURA E SPETTACOLO
del 28/10/15, pag. 25
2016, Mantova capitale
Rinascimentale e maccheronica celebrata da Dante, patria di Virgilio e
del Festivaletteratura Sarà la prossima città della cultura
Paolo Di Stefano
Mantova capitale. Oggi Virgilio sarebbe contento di ripetere: «Mantua me genuit» , mi
generò Mantova. Nel XX dell’Inferno, Dante celebra la città virgiliana mettendo in bocca al
suo maestro una lunga digressione in cui si dice che Mantova fu costruita sulle «ossa
morte» della maga e indovina tebana Manto, da cui il toponimo. Proprio lì la vergine si era
fermata dopo aver girovagato a lungo. È un modo per permette postumamente alla sua
guida di correggere un errore dell’Eneide, dove Mantova si vorrebbe fondata in epoca
etrusca dal figlio della stessa Manto. Ma è anche un modo per liberare la città dalla
presenza di sortilegi e influssi magici che la leggenda le aveva insistentemente assegnato.
Fatto sta che nessun influsso magico è stato necessario per convincere il ministro
Franceschini ad assegnare lo scettro del 2016 a Mantova. Finalista con Aquileia, Como,
Ercolano, Parma, Pisa, Pistoia, Spoleto, Taranto e Terni. Ottima scelta per una città che
già capitale, in qualche modo, lo è da diciannove anni, vantando il maggiore e più precoce
festival di letteratura italiano (ma ormai internazionale). Diciannove più uno fa venti l’anno
prossimo. E non è escluso che questa ricorrenza del numero tondo abbia favorito la scelta
della città lombarda.
Dunque, viva Virgilio. E viva la stagione illuminata dei Gonzaga, cui si deve quella
suggestione straordinaria di corti e cortili e piazze e vicoli e palazzi e chiese e borghi e
mura e porte che resiste ancora oggi pressoché intatta, al punto da far allibire (non solo
all’alba) i maggiori scrittori del mondo che agli inizi di settembre arrivano per parlare dei
propri libri al pubblico pagante, per ammirare tanta bellezza rinascimentale e per mangiare
i tortelli di zucca e la sbrisolona in piazza Sordello e dintorni. Già, vi nacque pure Sordello
da Goito, da quelle parti, il più celebre dei trovatori italiani in lingua provenzale, anche lui
personaggio amato da Dante, che non può che collocarlo nel Purgatorio, dove lo incontra
appartato e altero. Non proprio un tipo raccomandabile, Sordello, colpevole di aver rapito a
Verona una gran dama, Cunizza da Romano, per condurla con sé, nonostante fosse
sposata, nella Marca Trevigiana, prima di mettersi in fuga in solitudine verso la Provenza e
finire i suoi anni a Napoli.
Quando Sordello, rintanato «solo soletto» in un angolo purgatoriale, sente risuonare il
nome della sua città, Mantova, corre ad abbracciare il conterraneo Virgilio, diventando il
simbolo dell’amor di patria. E allora, partendo da quell’abbraccio fraterno, Dante scatena
la più violenta invettiva contro l’Italia che si sia mai scritta: «Ahi serva Italia, di dolore
ostello, / nave senza nocchiere in gran tempesta, / non donna di province, ma bordello…».
A ulteriore onore della città «impaludata» dal Mincio, bisognerebbe ricordare almeno
Teofilo Folengo, detto Martin Cocai, altro illustre mantovano doc, nato nel 1491 e
inventore di quella follia verbal-visionaria che è la poesia maccheronica, l’altro versante
della letteratura illustre, quello ludico-giocoso. Folengo si divertiva, scrivendo il suo Baldus
mezzo latino e mezzo dialettale, proprio negli anni in cui Giulio Romano arrancava
affrescando Palazzo del te di allegorie di vizi e virtù e dipingendo Madonne e Natività
pressato dai suoi committenti.
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In futuro sarebbero passati da quelle parti Montesquieu, Casanova, Stendhal, Dickens a
molti altri che sentirono un’aria di festival imminente. Mantova non era ancora Capitale
italiana della cultura ma sapevano che presto…
Del 28/10/2015, pag. 32
Il poeta. Pier Paolo Pasolini il vangelo eretico
di un artista totale
VALERIO MAGRELLI
Malgrado la sua venerabile età, quello della cultura italiana è un cielo giovane, in cui molte
stelle fisse sono apparse da poco. Nel teatro, nella poesia o nel romanzo, ma anche nella
critica e ovviamente nel cinema, non pochi autori sono assurti alla gloria appena pochi
anni fa. Quello di Pasolini tuttavia, è un caso a parte: in mezzo a tanti astri, la sua figura
spicca come una costellazione vera e propria. Nessuno ha ottenuto risultati così notevoli in
discipline altrettanto disparate. Nessuno ha tentato, è ed riu
scito, a imporsi come poeta e romanziere, critico e drammaturgo, regista,opinionista,
maître à penser. Anche la sua morte, atroce ed emblematica, lo ha proiettato sulla volta
celeste del mito. Accadde quarant’anni fa, il 2 novembre del 1975: fu trovato ucciso
all’Idroscalo di Ostia, il corpo martoriato, e tanti misteri non chiariti sugli autori materiali e
sui mandanti. Ma con quella tragedia è andato incontro anche a ciò che i greci
chiamavano “apoteosi”, ovvero a una sorta di deificazione: l’assunzione al Cielo di un
mortale. Come Ercole o Pegaso, forse, nel firmamento culturale d’oggi, Pasolini è l’unica
figura degna di tale consacrazione.
Ciò che colpisce di più è la sua portentosa duttilità. Solo un uomo dal genio
rinascimentale, per certi aspetti addirittura leonardesco, poteva passare dalla solitudine
del filologo e dello scrittore, a quell’autentico suk in cui consiste una ripresa
cinematografica, lasciando il bianco silenzio della pagina per il forsennato caos di una
troupe. Questo per dare un’idea, sia pure sommaria, delle inverosimili capacità
metamorfiche del nostro autore. D’altronde la sua formazione riflette bene tale bulimia. Già
in terza liceo Pasolini viene promosso con una media tanto alta da fargli saltare un anno.
Iscrittosi appena diciassettenne alla facoltà di Lettere dell’Università di Bologna, eccolo
avventarsi su materie disparate come la filologia romanza o la storia dell’arte, il cui
insegnamento era affidato a un maestro quale Roberto Longhi. Superfluo ricordare, a
questo punto, i suoi primi dipinti, peraltro sostenuti da un altro grande storico dell’arte,
Francesco Arcangeli. Certo, una simile fame di sapere, una simile urgenza conoscitiva
acquistano un significato drammatico e premonitore alla luce della sua morte precoce,
quasi che l’enfant prodige avesse avuto bisogno di bruciare le tappe per realizzare in
tempo tutti i suoi progetti. Si spiegano così, per certi versi, la foga con cui lo studente ( che
nel frattempo viene promosso capitano di calcio della facoltà di Lettere) divora la poesia di
Montale e di Ungaretti, nonché le traduzioni di Quasimodo, mentre si imbatte in Freud e
Marx, che rimarranno fra i punti fermi del suo pensiero: “eretico”, “corsaro”, in certi casi
indubbiamente contraddittorio. Dopo Bologna, poi, è la volta di Casarsa, in provincia di
Pordenone, città natale dell’adorata madre. Qui avranno luogo due esperienze
fondamentali: da un lato la scoperta della poesia dialettale, attraverso l’adozione della
lingua friulana, dall’altro la realizzazione di un’omosessualità edenica, troppo presto
trasformata in cacciata dal paradiso terrestre sotto forma di denuncia per corruzione di
minorenni e atti osceni in luogo pubblico, espulsione dal partito comunista e revoca
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dell’incarico di docente. Senza più mezzi di sostentamento, e con la madre costretta a fare
la donna delle pulizie, Pasolini si trasferisce a Roma, dove ben presto troverà, fra tante
amicizie, quelle di Alberto Moravia e Bernardo Bertolucci. Poco dopo, la folgorante
affermazione nel mondo letterario, giornalistico e cinematografico.
L’elenco delle sue opere è impressionante. In poesia si va dalle prove dialettali di La
meglio gioventù (poi riscritto come La nuova gioventù) alle “romane” Ceneri di Gramsci,
passando per La religione del mio tempo e Transumanar e organizzar . Nel romanzo,
Ragazzi di vita e Una vita violenta , oltre al magmatico e incompiuto Petrolio . E mentre nel
teatro spiccano testi quali Affabulazione o Bestia da stile, tra i suoi film campeggiano
capolavori come Accattone, Il Vangelo secondo Matteo , la trilogia della vita ( Il
Decameron , I racconti di Canterbury , Il fiore delle Mille e una notte ) e il brutale,
visionario Salò o le 120 giornate di Sodoma . Grandi film, per un uomo la cui versatilità
emerge bene dal rapporto con Federico Fellini. Il regista, che aveva fondato con Rizzoli
una casa cinematografica, nel 1961 fu in trattative per produrre Accattone . Viste le prove
iniziali, però, si tirò indietro. Oltre alle pellicole di finzione, altrettanto ricca fu inoltre la sua
produzione di documentari, che spaziano dall’Emilia di Comizi d’amore all’Uganda di
Appunti per una Orestiade africana, nel coraggioso e ingenuo tentativo di rinvenire il mito
greco alle radici di culture preindustriali. Occorre tuttavia illustrare ancora un passaggio di
estremo interesse. A un certo punto, infatti, lo stesso uomo che, nella sua disperata
nostalgia del passato agreste in cui viveva la provincia italiana, predicava il ritorno alle
radici e il rifiuto della società capitalista, si trasformò in un viaggiatore indefesso, in un
etnografo innamorato delle origini, pronto a cogliere ora “l’odore dell’India”, ora l’intatto
fascino dell’antica architettura yemenita.
Proviamo dunque a tirare le somme. Abbiamo parlato di “costellazione Pasolini”, ad ogni
modo, qualunque sia la similitudine che vogliamo adottare, ovunque vadano le nostre
preferenze, una cosa è evidente: con l’autore di un film e opere teatrali, versi e romanzi,
editoriali sull’omologazione e recensioni come quella su Mandel’stam quale caposcuola
delle poesia russa, siamo di fronte a un talento così multiforme da meritare l’impiego del
plurale. Se è vero tutto quanto detto finora, allora non dovremmo più dire: “Pasolini fu”, ma
più semplicemente: “Pasolini furono”.
Del 28/10/2015, pag. 33
Il corsaro. Un terzo occhio sul teorema del
potere
GIOVANNI DE LUNA
L’Italia di oggi nacque con il boom economico, la grande trasformazione che ne riplasmò
sentimenti, mode, abitudini, comportamenti politici, scelte di vita. Pier Paolo Pasolini ne fu
protagonista e testimone e il suo lavoro si propone allo storico come una fonte
indispensabile per avvicinarsi al senso profondo di quegli anni. Ma Pasolini ha anche egli
stesso uno sguardo da storico, interessato al mutamento,alle brusche impennate della
grande storia che rompono la crosta dell’immobilismo,
spezzano equilibri plurisecolari. Così, quando riflette sulla società italiana, lo fa con
consapevolezza di chi si misura con una questione — quella della continuità/ rottura tra il
fascismo e l’Italia repubblicana — che è tipicamente storiografica. Schierandosi
decisamente per la “continuità”, il suo riferimento è a una Democrazia Cristiana che «sotto
lo schermo di una democrazia formale e di un antifascismo verbale, ha perpetuato la
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stessa politica del fascismo», dando vita a un «regime poliziesco parlamentare ». Il blocco
sociale su cui si fondava il consenso democristiano era lo stesso del fascismo
mussoliniano: la piccola borghesia e i contadini uniti al grande capitale. Identico era anche
il cemento ideologico fondato sul cattolicesimo e su valori quali la moralità, l’obbedienza,
la disciplina, l’ordine, la patria, la famiglia.
La tesi della “continuità” era in gran parte condivisa dagli storici di allora. A marcarne
l’originalità fu piuttosto il film su Salò o le 120 giornate di Sodoma , del 1975. In quel caso
davvero si spinse in territori che la stessa storiografia ufficiale aveva fino ad allora
complessivamente ignorato, restituendo al fascismo la sua essenza biopolitica,
attribuendogli un Potere in cui si incarnava il Male assoluto. In quella Salò, il Potere
consumava la sua ultima, parossistica orgia e lasciava affiorare, senza più mediazioni ed
orpelli istituzionali, la volontà di impadronirsi — attraverso il sesso — dei corpi dei propri
sudditi; una volontà di dominio che era la diretta conseguenza di quella “politicizzazione
della vita” attraverso la quale, come avrebbe sottolineato Agamben, nelle esperienze del
totalitarismo novecentesco il corpo dell’individuo diventava la posta in gioco delle strategie
politiche, la politica si trasformava in biopolitica: la nuda vita, l’esistenza biologica degli
individui, fino ad allora confinata in una terra di nessuno, veniva inserita nel circuito della
statualità, con la vita e la morte che non erano più concetti scientifici ma politici, occasione
per l’esercizio di un potere che si saziava umiliando e profanando i corpi delle vittime.
Ma Pasolini “storico” fu originale anche per altri aspetti. Fu tra i pochi, infatti, ad accorgersi
di una “rottura” ben più profonda, avvenuta nell’inconsapevolezza di molti. «La matrice che
genera tutti gli italiani è ormai la stessa — scriveva, nel 1974 — Non c’è più dunque
differenza apprezzabile… tra un qualsiasi cittadino italiano fascista e un qualsiasi cittadino
italiano antifascista. Essi sono culturalmente, psicologicamente, e quel che più
impressiona, fisicamente, interscambiabili... I giovani neofascisti che con le loro bombe
hanno insanguinato l’Italia, non sono più fascisti... Se per un caso impossibile essi
ripristinassero a suon di bombe il fascismo, non accetterebbero mai di ritornare ad una
Italia scomoda e rustica, l’Italia senza televisione e senza benessere, l’Italia senza
motociclette e giubbotti di cuoio, l’Italia con le donne chiuse in casa e semivelate. Essi
sono pervasi come tutti gli altri dagli effetti del nuovo potere che li rende simili tra loro e
profondamente diversi rispetto ai loro predecessori». Con le piazze arroventate da uno
scontro ideologico ancora tutto novecentesco, queste considerazioni suscitarono un
inevitabile scalpore. Pasolini argomentava il suo pessimismo segnalando due “rivoluzioni”,
quella delle infrastrutture e quella del sistema di informazione, avvenute proprio negli anni
del boom. Le distanze tra centro e periferia si erano notevolmente ridotte grazie alle nuove
reti viarie e alla motorizzazione; ma era stata soprattutto la televisione a determinare in
modo costrittivo e violento una forzata omologazione nazionale. Il nuovo Potere,
nonostante le sue parvenze di tolleranza, di edonismo perfettamente autosufficiente, di
modernità, nascondeva un volto feroce e repressivo. «Nessun centralismo fascista è
riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo
proponeva un modello reazionario e monumentale che però restava lettera morta. Le varie
culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili ad
uniformasi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava a ottenere la loro adesione a
parole... Ora, invece, l’adesione ai modelli imposti dal centro è totale e incondizionata ».
Certo, erano giudizi eccessivi, disperati quasi. Pure oggi, alla luce di tutto quello che è
successo dagli anni Ottanta, il pessimismo pasoliniano assume i tratti di una lucida
profezia.
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Del 28/10/2015, pag. 23
L’intervista possibile di Davide Toffolo al
“signor Pasolini”, trovato in una chat
Tutti sanno qualcosa di Pier Paolo Pasolini, anche quelli che non hanno mai visto uno dei
suoi film o letto i suoi libri. È rimasto sullo sfondo, in questi 40 anni, presenza ingombrante
in un Paese incapace di rimuoverlo o di emularlo. Davide Toffolo è un fumettista bravo,
uno dei migliori in Italia, anche se il suo ultimo libro (Graphic Novel is Dead) non era
riuscito. Tredici anni fa, quando era davvero un autore underground più noto come
cantante del gruppo dei Tre Allegri Ragazzi Morti, ha pubblicato il suo capolavoro. L’anno
è il 2002, la casa editrice la Biblioteca dell’Immagine, piccola ma con autori importanti, di
Pordenone, lassù, in quel Friuli dove era cresciuto Pasolini e nel 1965 nato Toffolo. Un
piccolo libro, un po’ verticale, strano. Anche per il contenuto: c’è Toffolo che conosce in
una chat un certo signor Pasolini, che pare davvero Pier Paolo, e soprattutto che parla
come lui. Si incontrano, registrano interviste, dopo l’ultimo incontro le visioni poetiche
hanno il sopravvento, la morte del poeta diventa una sequenza di scene senza sfondo, in
un bianco assoluto, con Toffolo armato di mannaia che taglia gli arti di Pasolini, su sua
richiesta. “È la predestinazione”, dice PPP, i figli devono essere puniti se i loro padri hanno
peccato. Nessuno è innocente della morte di Pasolini, nessuno può considerarla estranea
alla sua esperienza di cittadino e di uomo. Però il Pasolini di Toffolo, che torna ora per
Rizzoli Lizard (nuova edizione dopo quella di qualche anno fa per Coconino), non è
dedicato al polemista, all’autore di Scritti Corsari all’inchiesta ossessiva di Petrolio. Toffolo
cerca di capire il poeta, che passa dal romanzo al cinema perché lì era a più stretto
contatto con la vita, senza la mediazione della parola. Per questo al suo “sig. Pasolini”,
avatar dell’originale, attribuisce parole che Pasolini ha davvero pronunciato o scritto. Il
lettore non può sciogliere del tutto l’ambiguità: il Pasolini di Toffolo è un fantasma? O è un
costrutto narrativo quasi mostruoso, un personaggio di immaginazione che si appropria di
pensieri e frasi di un altro, il Pasolini originale? Tutti noi lettori dell’opera di Pasolini, noi
contaminati dalle sue idee, non possiamo dire di conoscere il vero PPP, al massimo
possiamo procedere per approssimazioni nel tentativo di costruircene uno nostro,
personale. Sempre disturbante. Lui è morto, i suoi libri, i suoi articoli, i suoi film sono
invecchiati – non sempre bene – ma quello sguardo inquieto sulla realtà italiana,
quell’approccio onesto all’arte resistono, senza tempo, necessari e senza eredi.
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ECONOMIA E LAVORO
Del 28/10/2015, pag. 18
Trenta milioni di disoccupati grazie alla crisi e
alle “riforme” del lavoro
Il rapporto sull’occupazione dell’Ilo racconta un’altra storia rispetto a
quella di Renzi
di Salvatore Cannavò
Più precarizzazione, aumento della disoccupazione, riforme dannose. La narrazione che
fa l’Oil, l’Organizzazione internazionale del lavoro, su diritti e impiego è ben diversa da
quella di Matteo Renzi. L’occasione di ascoltarla è stata offerta dalla Fondazione Di
Vittorio, il centro studi della Cgil, dove Ryamond Torres, dell’Oil, ha presentato il rapporto
“World Employment and Social Outlook 2015 – Come cambia il lavoro”, un’analisi
esauriente a livello mondiale.
Il lavoro cambia, non c’è dubbio, lo si evince da tutte le analisi empiriche della situazione.
Cambia in relazione alle novità tecnologiche, cambia, soprattutto, per effetto della crisi
che, scoppiata nel 2008, non accenna a finire. E nel contesto della crisi si è determinato il
primo fenomeno di portata globale: i disoccupati tra il 2008 e il 2014 sono cresciuti di 30
milioni arrivando ormai alla cifra di 201 milioni su scala mondiale.
Il problema è raddoppiato dai processi di precarizzazione. “I contratti a zero ore o i
contratti di un giorno sono sempre più una regola”, spiega Torres e i numeri dicono che, a
livello mondiale, il lavoro atipico raggiunge il 46% del totale mentre quello “standard
regolare” solo il 26,4. Nei paesi avanzati, ovviamente, il lavoro regolare è ancora la
maggioranza (73,1%) ma la tendenza alla riduzione è netta.
È bene guardare il fenomeno nella sua interezza, ha sottolineato Torres, perché tra “le
crisi delle risposte alla crisi dell’occupazione” c’è proprio il fatto di voler trovare soluzioni
nazionali a un problema globale. Gli stati sono soli e anche la Ue agisce delegando i propri
Stati membri i quali applicano ricette copia-incolla senza effetti significativi.
Un secondo errore è “l’ossessione delle riforme del mercato del lavoro” che ha contagiato
lo stesso Renzi a partire dalla fine del 2014. Complice la crisi, i paesi in difficoltà hanno
pensato bene, magari con i “suggerimenti” accorati della Bce per quanto riguarda l’Europa,
di applicare riforme delle politiche del lavoro che hanno comportato una decrescita del
livello complessivo di protezione. È stato così soprattutto in Spagna, Italia, Grecia,
Ungheria, Portogallo ma anche in Francia. I risultati però non si sono visti.
Le tendenze segnalate dall’Oil dicono che nel 2019 mancheranno alla prova dei fatti 80
milioni di posti di lavoro mentre la disoccupazione di lunga durata aumenta soprattutto nei
paesi più avanzati. In Italia ha raggiunto il 50% dei disoccupati complessivi. Le risposte
vengono programmate su periodi pluriennali quando invece l’emergenza è qui e ora.
del 28/10/15, pag. 5
Il fantasma del “piano per il Sud”
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Crisi. Rapporto sull’economia del Mezzogiorno: aumenta la povertà,
crollano i redditi. Renzi vede il piccolo segno più del Pil, ma non il boom
delle diseguaglianze. Sindacati e industriali si chiedono: dov'è finito il
"master plan" per il Sud promesso dal premier in agosto? Nella legge di
stabilità non c'è traccia
Roberto Ciccarelli
Il rapporto Svimez 2015 sull’economia del Mezzogiorno, anticipato questa estate da una
serie di dati che hanno scatenato polemiche, mostra la contraddizione di un’economia alle
prese con la «stagnazione secolare». Da un lato, c’è una crescita debole; dall’altro lato, si
moltiplicano le diseguaglianze. Il Prodotto Interno Lordo (Pil) aumenta dopo sette anni di
un risicato +0,1% (0,7% nel 2016, 1,3% a livello nazionale), ma il reddito sprofonda: il 62%
della popolazione attiva guadagna al massimo il 40% del reddito medio, una persona su 3
è a rischio di povertà (al centro-Nord è 1 su 10). Il dramma è in Sicilia dove quattro
persone su 10 vivono sul baratro della povertà assoluta. Solo nel 2014 la povertà assoluta
ha smesso di crescere nel Centro-Nord ed è leggermente diminuita nel Mezzogiorno,
sostiene lo Svimez, «verosimilmente per l’erogazione del bonus di 80 euro mensili»
sostiene lo Svimez.
Nel secondo trimestre 2015 c’è stato un aumento degli occupati meridionali di 120 mila
unità (+2,1%) contro i 60 mila nel Centro-Nord. Questo aumento è dovuto al lavoro
povero, precario, intermittente. La crescita c’è e riproduce la povertà tra chi lavora. «Non
basta avere un lavoro per uscire dal rischio povertà» si legge nel rapporto Svimez. Questa
frase è esemplare e il suo senso vale per quello che stiamo vivendo in tutto il paese,
grazie alla crescita occupazionale drogata dagli incentivi alle imprese nel Jobs Act e dal
boom dei voucher — i «lavoratori a scontrini». Le diseguaglianze di reddito prodotte nella
società del lavoro povero amplificano lo storico divario tra Nord e Sud: se al Centro-Nord
oltre il 50% delle persone guadagna dall’’80% al 100% del reddito medio regionale, al Sud
questa proporzione riguarda solo una persona su cinque. Di tutto questo il premier Renzi,
ieri in Colombia, ha colto solo l’effetto di superfice: il segno «più», un apostrofo rosa a
corredo delle sue slide. “E’ tornato il segno più anche al Sud, seppur ancora con qualche
problema» ha detto.
Quest’ultima espressione (“qualche problema”) in realtà nasconde la realtà materiale delle
famiglie con minori o dei giovani con e senza figli, i soggetti più vulnerabili. Nel baratro ci
sono anche i giovani, vittime di uno speciale record negativo. Secondo il rapporto annuale
della fondazione Bertelsmann, reso noto ieri, l’Italia è al 25esimo posto sui 28 paesi
europei per «giustizia sociale». Una valutazione fatta in base al boom della
disoccupazione giovanile che è più che raddoppiata dall’inizio della crisi nel 2008,
passando dal 21,2% al 42,7%. Questa situazione viene analizzata dallo Svimez a partire
dai giovani meridionali. I tassi di disoccupazione degli under 34 sono raddoppiati: tra il
2008 e il 2014 hanno perso il lavoro oltre 1 milione 900 mila persone, di questi il 31,9%
sono del sud.
Il tasso di disoccupazione è arrivato al 43% a livello nazionale e al 56% nel Mezzogiorno. I
diplomati che lavorano sono solo il 24,7%, i laureati sono il 31,9%. «Cifre che non hanno
paragoni in Europa», commenta lo Svimez che mostra quanto il Belpaese abbia fatto
peggio addirittura della Grecia, fatte le dovute proporzioni. La crisi del 2008 «lascia in
eredità al Sud un vero e proprio tracollo occupazionale» con 576 mila posti persi. In tutto il
paese, negli ultimi sette anni, ne sono spariti 811 mila. Se poi consideriamo i «Neet», le
persone che non studiano né lavorano sono aumentati dal 2008 di circa 712 mila unità,
per un totale di quasi 3 milioni 512 mila. Di questi sembra che quasi 2 milioni siano donne
(55,6%) e quasi 2 vivano al Sud.
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L’occupazione femminile è crollata di 71 mila unità in maniera «eccezionale» commenta lo
Svimez sulla base dei dati Istat. A Nord si registra, invece, un aumento di questa
occupazione, dovuto solo alle cittadine straniere (+358 mila). Lo Svimez sollecita il
governo Renzi, che aveva promesso un «master plan» per il Sud di cui ci sono poche
tracce nella legge di stabilità, a prorogare per il 2016 l’esonero dal pagamento dei
contributi Inps a carico del datore di lavoro previsto dal Jobs Act.
Si è consolidata una sensazione generale: il governo si è completamente dimenticato del
sud nella legge di stabilità. Lo sostiene Alessandro Laterza, vicepresidente di
Confindustria: «Mi auguro che negli sviluppi della legge di stabilità ci sia qualcosa che ci
sia qualcosa di vero oltre alle dichiarazioni di agosto». Per Susanna Camusso, segretaria
generale Cgil: «Il governo non sta facendo nulla per il Sud. Nella legge di stabilità non ci
sono idee né costruzione di fiscalità di vantaggio, né investimenti, o la capacità di
rifinanziare significativamente i fondi Coesione». Il Movimento 5 Stelle ripropone la
proposta di legge sul «reddito di cittadinanza», che in realtà è un «reddito minimo»
considerato una leva economica e civile per contrastare la povertà diffusa.
Alla base di queste considerazione c’è l’obiezione di fondo alla politica renziana e l’ha
espressa ieri Massimo D’Alema in un’intervista al Mattino: «Non si comprende la priorità
del taglio sulle tasse alla prima casa, abolire l’Imu non avrà effetti sui consumi, mentre i
tagli alla spesa si concentrano sugli investimenti pubblici e la sanità». Il «master plan» per
il Sud. Questo fantasma.
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