Le minoranze linguistiche: una storia attraverso i termini

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Le minoranze linguistiche: una storia attraverso i termini
Fabiana Fusco
Le minoranze linguistiche: una storia attraverso i termini
1. Introduzione
Il titolo del convegno, che non ha mancato di offrirci seri spunti di riflessione
affiancati a preziose testimonianze di dati di fatto, ha posto subito in
discussione e in una sorta di delicato equilibrio le categorie dell’identità e
dell’alterità nelle lingue e delle lingue. Si tratta di riflettere, in casi come questo,
sul valore di certe etichette che dipendono da un unico condizionamento che
non è linguistico ma extralinguistico, specie se applicate ad un tema di
pressante attualità come quello relativo ai criteri che presiedono
all’assegnazione dello status di lingua minori-taria; criteri che come ben
sappiamo appaiono non solo di natura provvisoria e relativistica, ma anche
soggetti per l’appunto a influssi estranei alla lingua.
Il presente saggio è espressione di due filoni di ricerca coltivati all’interno
delle varie attività promosse dal Centro Internazionale sul Plurilinguismo
1
dell’Università di Udine : da un lato l’analisi delle categorie e termini tecnici
del pluri-linguismo e delle lingue in contatto e dall’altro il rapporto tra lingue di
ampia comunicazione vs lingue minoritarie.
Il primo tema di rilevante interesse, promosso da Vincenzo Orioles e
Raffaella Bombi, nasce dall’esigenza di una delimitazione, quanto meno
rigorosa, di taluni usi e scelte terminologiche che non trascuri tuttavia la
2
complessità insita nello studio sullo statuto dei vari tecnicismi. Ripercorrere il
1
Sorto in base alla Legge n. 19 del 1991 sulle aree di confine e ufficialmente attivato dal 1 gennaio
1993, il Centro è l’unica struttura del genere esistente in Italia; è un’istituzione imparziale di natura
strettamente scientifica che occupa un posto a sé anche nel panorama internazionale. Il sito del Centro
da cui trarre le informazioni sulle attività in corso è www.uniud.it/cip/.
2
È in questa cornice che si iscrivono i lavori di un gruppo di ricerca di cui fa parte anche la sede di
Udine che, attorno al progetto “Lessici specialistici e metalinguaggi: applicazioni in rete” (coordinato
da D. Poli e ammesso a cofinanziamento ministeriale per il biennio 2003-2005), si interroga
sull’universo concettuale e metalinguistico delle scienze del linguaggio. La ricerca, avviata nel 1995,
prosegue aggregando un numero crescente di studiosi che si sono via via riconosciuti nei progetti di
rilevanza nazionale “Thesaurus e dizionario critico del metalinguaggio della linguistica dall’antichità
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quadro genetico che ha condotto alla creazione ovvero all’opzione di un termine
rispetto ad un altro è una operazione che implica un’analisi articolata e
dettagliata del suo ‘divenire’, dei risvolti teorici, culturali e ideologici che
possono averne via via alterato la fisio-nomia e la valenza riducendolo talvolta a
mero involucro di istanze di volta in volta diverse e confuse. A tal proposito
Hagège (1989: 293-294) attribuisce alla vischiosità e all’opacità del
metalinguaggio la questione dell’isolamento delle scienze linguistiche:
Sembra che la linguistica sia stata vittima degli oltranzismi che, tesi ad accumulare
inutili raffinamenti, hanno talora deviato il suo cammino progressivo. L’ossessione
della scientificità l’ha indotta a rivestirsi di un falso rigore, di cui non esiste un
modello da nessuna parte, nemmeno nelle scienze più rigorose. La fascinazione dei
formalismi ha finito per imprigionarla nel carcere di un discorso tecnico, che a fatica
possiamo immaginare abbia per oggetto l’uomo che parla. Perché non solo lo storico
e il sociale ne sono esclusi, ma l’umano vi compare come un’astrazione immutabile,
e le parole non dicono nulla.
Insomma tanto la proliferazione di termini tecnici riconducibile a scuole e
approcci distinti quanto la sovrapposizione di termini diversi che celano invece
una sostanziale identità di opinioni sono fatti particolarmente insidiosi quando
ci si deve servire di un metalinguaggio per parlare del linguaggio stesso.
In merito all’altra linea tematica, il Centro, a partire da un analitico
censimento delle varietà linguistiche definite come lingue minoritarie, si
propone da un lato di predisporre degli studi sulla loro tipologia, sulla tutela
giuridica e sulle politiche linguistiche che le riguardano, e dall’altro di
affiancare operativamente il legislatore e le istituzioni, in quanto sede di analisi
scientifica di tutte le situazioni linguistiche meritevoli di protezione e di fattiva
valorizzazione, giovandosi anche dell’apporto scientifico di collaboratori
esperti di sociologia e antropologia culturale.
Muovendo da una tesi condivisa, applicabile a tutti gli ambiti della ricerca,
quello dell’interrelazione fra pratiche scientifiche diverse, è facile affermare che
è proprio dal dialogo con altri settori disciplinari che l’elaborazione teorica e
linguistica, che soggiace alla definizione di determinati concetti – ad esempio
quello di minoranza – si predispone meglio alle generalizzazioni. In un’ottica
basata non sul ripiegamento, ma sulla circolazione orizzontale delle idee, delle
culture e delle lingue, diventa urgente un nuovo approccio all’alterità vs
identità. Alla presupposizione di identità ben definite, conviene sostituire un
all’epoca contemporanea” (ispiratrice C. Vallini) e “Dizionario generale plurilingue del lessico
metalinguistico” (ammesso a cofinanziamento da parte del Murst nel biennio 1999-2001 e diretto da
V. Orioles).
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modello fondato su appartenenze socioculturali più sfumate e complesse, le cui
componenti dialogano e interagiscono fra di loro. Non a caso Remotti (1999:
60) spiega che
Occorre (questa è la scommessa) uscire dalla logica dell’identità, perché anche in
una prospettiva teorica – non soltanto, dunque, sul piano storico e sociale –
l’identità “da sola” rischia di essere troppo selettiva e riduttiva: si colgono certi
fenomeni, se ne perdono molti altri, altrettanto interessanti e decisivi. Soprattutto,
ciò che si perde è l’apertura all’alterità, anzi il bisogno di alterità, che, spesso in
modo molto dialettico, si intreccia quasi inestricabilmente con l’esigenza di identità.
Al rifiuto del monolinguismo di matrice ottocentesca si oppone finalmente
l’istanza di una comunicazione che faccia leva sulle competenze/identità ‘multiple’ di partenza dei soggetti, in quanto fonti di arricchimento e non di disturbo.
Per raggiungere tali finalità occorre sgombrare il campo da una serie di
pregiudizi.
Che nella società contemporanea vi sia sempre meno una correlazione
univoca tra lingua ed nazione è un fatto ormai appurato, ma è altrettanto vero
che parte del mondo politico ed intellettuale continua a vedere in tale
identificazione uno dei simboli più efficaci per differenziarsi dall’esterno e per
creare un senso di appartenenza che legittimi la richiesta di forme di autonomia
a livello regionale o nazionale. La lingua, come ribadisce Heilmann (1988: 2930), pur occupando un posto importante nell’identità etnica, da sola non basta a
costruirla: “l’identità etnica rimane un fenomeno complesso che deve essere
analizzato e descritto come un fascio di tratti orientati sia linguisticamente sia
non linguisticamente”. Ma ciò schiude una serie di problemi metodologici ed
epistemologici: identità, appartenenza, nazione, ethnos si dimostrano infatti
nozioni sempre più problematiche, e assai abusate, con uno spessore di
3
significati troppo spesso implicati in presupposti ideologici. Oramai uscite dai
rispettivi steccati disciplinari, esse ricorrono volentieri nel linguaggio
quotidiano, ma sono spesso adoperate in modo improprio e superficiale,
4
alimentando ulteriori ambiguità e strumentalizzazioni (cf. Fabietti 1998).
3
Cf. Baggioni (1997: 58) che afferma „c’est sur les termes ethnies et nation que la littérature, dans
les sciences humaines concernées, révèle des désaccords profonds, non de dénomination, car ce ne
serait là qu’un aspect superficiel, mais de conception, l’emploi de l’un ou l’autre terme, et la
signification qu’on lui donne, mettant en jeu tout le cadre théorique de référence”.
4
Il pericolo è intravvisto da Benoist (1996: 15) quando riconosce che „un’idea fissa attraversa il
nostro tempo saturo di comunicazione: è l’idea del ripiegamento di ciascuno sul suo territorio, su
quello che costituisce la sua differenza e, quindi, la sua propria identità separata”.
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Uno dei miti persistenti del nazionalismo, che affiora ancora qua e là, è la
sovrapposizione della nazionalità con la lingua che in tal modo costituisce il
collante sociale degli stati. È tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento
che in Europa comincia a diffondersi e ad assumere contorni sempre più definiti
il concetto di nazionalità. Le nuove sensibilità culturali che si fanno strada
fanno comprendere che l’identificazione nello stato, allora dominante, è la
negazione del principio di libertà che si sta via via formando. Ben presto l’idea
di nazione, sia nel senso di comunità fondata sulla razza e sulla lingua di
matrice germanica sia di comunità spirituale dei francesi, si tramuta nello
spunto più rivoluzionario e innovatore dell’Europa ottocentesca. Quando la
nazione riesce a compiersi territorialmente e istituzionalmente, a diventare cioè
Stato-nazione, il problema linguistico assume una precisa connotazione
geografica, e in pratica il vecchio motto della cuius regio, eius religio, che
aveva dominato all’epoca della Riforma, inducendo a far combaciare la
confessione religiosa e il territorio, viene riformulato in un’altra corrispondenza
biunivoca: cuius regio, eius lingua che si tras-formerà nel criterio di valutazione
delle comunità linguistiche per larga parte del XIX secolo; da quel momento, lo
Stato-nazione, proprio in nome dell’unità, cerca nell’identità e nella lingua
comune, fonte di coesione e di solidarietà, uno stru-mento per la legittimazione
politica e soprattutto per discriminare il ‘noi’ dagli ‘altri’. L’osservazione degli
avvenimenti storici che costituiscono l’antefatto delle realtà linguistiche
contemporanee conferma in realtà che non c’è alcun rapporto privilegiato tra
lingua e comunità di parlanti/nazione, perché le opzioni linguistiche, quando
non siano provocate da coercizioni esterne, dipendono da una serie complessa e
variabile di fattori in cui la storia individuale e il contesto situazionale hanno un
ruolo decisivo. Gusmani (1998: 68), a tal proposito, ribadisce che
La storia ci dimostra come l’evoluzione delle lingue non si svolga affatto secondo
direttrici predeterminate, ma conosca un succedersi imprevedibile di convergenze e
differenziazioni, di espansioni e scomparse, senza che tutto ciò sia in un rapporto
necessario con le vicende dei rispettivi utenti
e aggiunge
È evidente che la complessità sociolinguistica, che balza agli occhi ogniqualvolta
riusciamo ad andar oltre l’artificiosa uniformità degli idiomi standardizzati, mal si
concilia (o meglio: non si concilia affatto) con perentorie identificazioni etniche.
Tuttavia non sconcerta ancora sentir narrare da Baumann (2003: 3), il suo
disagio nel riconoscersi in un’identità; in quanto nato in Polonia, ma privato
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della cittadinanza polacca, è ora cittadino britannico, ma pur sempre un
immigrato, un profugo, un alieno
Secondo l’antica usanza dell’Università Carlo di Praga, durante la cerimonia di
conferimento delle lauree honoris causa viene suonato l’inno nazionale del paese di
appartenenza del “neolaureato”. Quando toccò a me ricevere quest’onore, mi
chiesero di scegliere tra l’inno britannico e l’inno polacco…Beh, non trovai facile
dare una risposta.
La soluzione fu la scelta dell’inno europeo, cioè una scelta
al tempo stesso “inclusiva” ed “esclusiva”…Alludeva a un’entità che includeva i
due punti di riferimento alternativi della mia identità, ma contemporaneamente
annullava, come meno rilevanti o irrilevanti, le differenze tra di essi e perciò anche
una possibile “scissione di identità”. Rimuoveva la questione di un’identità definita
in termini di nazionalità, quel tipo di identità che mi era stata resa inaccessibile.
5
L’identità è dunque un costrutto in continua trasformazione e rinegoziazione;
qualsiasi sua definizione o interpretazione, in particolare nel caso di fenomeni
di migrazione, immigrazione e, in generale, di differenziazione linguistica, resta
complessa. Sintetizza così Deumert (2004: 355):
In other words, ethnic identity, although it is not created ex nihilo but is based on an
experience of cultural and historical communality, is not a primordial or immutable
category of human identity but a matter of interpretation and social construction
drawing on perceived communalities and assumed traditions.
In tema di lingue minoritarie, in quanto identità, per alcuni ‘separate’, o alterità,
non ho la presunzione di proporre fatti e aspetti innovativi, semmai di discutere
la possibilità di esplorare principi plausibili e generalizzabili di individuazione
e descrizione per questa particolare tipologia di idiomi. Il consolidamento di un
nuovo ambito di ricerca dedicato allo status delle lingue ha conosciuto in anni
5
Heller (2005: 1584) focalizza l’attenzione sul fatto che „Identity is understood as a set of
practices and representations regarding social categories which are produced and reproduced in social
interaction in everyday life. Since interacticon is at the heart of process, language becomes important
as a window to the actual ways in which we construct relations of social differences”, tessendo un filo
tematico con quell’“act of identity” accreditato dai membri dell’in-group e dell’out-group e
brillantemente invocato da Lepage/Tabouret-Keller 1985; Fabietti (1998: 14) precisa che “l’identità
etnica e l’etnicità, cioè il sentimento di appartenere a un gruppo etnico o etnia, sono (…) definizioni
del sé e/o dell’altro collettivi che hanno quasi sempre le proprie radici in rapporti di forza tra gruppi
coagulati attorno ad interessi specifici”.
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recenti un notevole sviluppo alla luce di avvenimenti sociopolitici e culturali
che hanno determinato lo sgretolamento di unità politiche sovranazionali, la
necessità di nuovi ‘confini’, la formazione o la rinascita di nuove identità.
Fissare la posi-zione di un idioma al di là della sua appartenenza genetica e del
suo profilo strutturale costituisce un momento di riflessione importante,
necessariamente sostenuto da un approccio scientifico rigoroso anche al fine di
stemperare la visione populistica di una problematica così delicata: in tale
direzione va considerata l’articolata rassegna di Berruto (1995: 201ss.), cui si
deve una “chiara trattazione dell’organizzazione e della diversificazione sociale
dei repertori linguistici”. Tra i riflessi metalinguistici riconducibili a questo
nuovo campo disciplinare meritano attenzione le designazioni dei tipi
idiomatici, con particolare riguardo agli appellativi che esplicitino il grado di
riconoscimento e l’apparato di tutela di cui essi godono. L’apparato concettuale
cui si ricorreva fino a qualche decennio fa appare ora esiguo per quantità e
insufficiente per carenze di focalizzazione; si avverte infatti l’esigenza di
tecnicismi chiari e coerenti, che non lascino sospesi interrogativi e che siano
6
pronti ad accogliere nuovi punti di vista. Prima di passare in rassegna, a scopo
indicativo, una serie omogenea di espres-sioni che concorrono a formare il
sistema terminologico correlato con la nozione di ‘minoranza linguistica’ sarà
necessario delineare brevemente la cornice storico-culturale all’interno della
quale si colloca il fenomeno.
2. Le minoranze linguistiche: cenni di storia
Nella letteratura corrente le minoranze linguistiche sono definite come delle
“comunità più o meno numerose di parlanti la cui lingua materna differisce da
quella sancita come ‘lingua ufficiale’ dallo Stato di cui essi posseggono la
cittadinanza” (Beccaria 2004, s.v., la sintesi è di T. Telmon); si tratta in realtà di
una ‘minoranza’ dotata altresì di specifiche caratteristiche culturali, distinte
dalla ‘maggioranza’ invece “rappresentata da quanti, all’interno dell’insiemenazione, non condividono quei caratteri peculiari, riconoscendosi invece in
quelli che vengono considerati comuni all’intera nazione” (Toso 1996: 18-19).
Nel caso italiano, ad esempio, la ‘maggioranza’ “corrisponde a quell’entità
alquanto anodina che è la lingua italiana ‘standard’”, laddove alla ‘minoranza’
“fa riscontro in linea di massima quella serie di culture e di idiomi la cui
emarginazione coincide storicamente con il sorgere e lo svilupparsi dell’idea di
6
Analoghe preoccupazioni sono emerse in riferimento alle denominazioni in uso per alludere agli
“immigrati” in arrivo in Europa, cf. Holtzer 1997 e per l’Italia Faloppa (2004: 126-128).
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‘nazione’ e con il fatto che alcune di tali nazioni (in genere le più grandi o le
più protette dai grandi imperi del secolo scorso e dell’inizio del Novecento)
siano riuscite ad assumere un impianto statuale” (Telmon 1994: 924-925). La
nozione, e il termine, di minoranza, ormai diffusa anche ad altri aspetti della
società contemporanea (si parla comunemente di minoranze religiose, politiche,
sessuali, ecc.), allude dunque perfettamente alla condizione che caratterizza da
un punto di vista storico, culturale e anche giuridico quelle comunità
‘emarginate’, evocate da Telmon, che sono tali rispetto alla maggioranza nel
quadro di un rapporto numerico che tuttavia non si può automaticamente
7
convertire su un piano culturale e politico.
Per molto tempo si è guardato alle minoranze con sussiego per tutta una serie
di pregiudizi a cui non si è sottratta neanche la linguistica ufficiale del secolo
scorso. In verità il presupposto dell’omogeneità linguistica continua ad operare
a lungo anche alla luce di nuovi correnti di pensiero, alle quali non era estranea
da un lato la concezione di una langue monolitica desunta dalla vulgata
saussuriana e dall’altro il modello astratto della competenza linguistica
chomskiana. Fino alla seconda metà degli anni Cinquanta, con l’avvio di una
serie di approcci teorici e metodologici innovativi di ispirazione
sociolinguistica e ecolinguistica,
l’attenzione alla varietà della lingua è stato soltanto un ramo marginale del grande
tronco della linguistica, che, com’è noto, si è sviluppato soprattutto in direzione
astrattizzante, ‘strutturalistica’ e sistemistica, logico-matematizzante, poco o nulla
volto all’analisi della lingua calata nella società e alla considerazione delle funzioni
e degli usi della lingua. (Berruto 1980: 15)
Ancor prima che in Italia, in Francia, coerentemente con i fatti storico-sociali di
lungo periodo di quel paese, dove l’integrazione nazionale si è perseguita fin
dal XVIII secolo attraverso un eslcusivismo linguistico incoraggiato da
personaggi come l’Abbé Grégoire o Barère de Vieuzac, un grande linguista
come Meillet (1928: 178) sentenzia
Par rapport au français, le breton est un outil si grossier, si peu utile qu’aucun
Breton sensé ne peut songer à l’employer de préférence. Autant dire que la lampe
électrique opprime la chandelle ou le bâton de résine; autant se plaindre de ce que la
moissonneuse fait du tort à la faucille.
7
Bonamore (2004: 22) segnala che “La circostanza che ‘maggioranza’ e ‘minoranza’ assurgano,
nei regimi democratici, a requisito privilegiato per l’esercizio del potere politico sta a significare che
tanto l’uno quanto l’altro termine rivestono semplice peso statistico”; sul valore e sulle reciprocità dei
concetti di minoranza e maggioranza rinvio a Pizzorusso 1993.
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e aggiunge a proposito delle lingue regionali: “Elles ne concurrencent pas
réellement les grandes langues. Elles n’en sont que des parentes pauvres qui
8
n’ont pas réussi” (p. 185).
Superato il pregiudizio monolingue, molto ancora restava da fare, visto che
l’allestimento di una struttura di protezione nei confronti delle entità minoritarie
si è sempre presentato come una delicata questione giuridica e politica. Tuttavia
a partire dalla seconda meté del XX secolo, si intercettano le prime avvisaglie di
un movimento, seguite e incalzate da avvenimenti di ampia risonanza come il
crollo del muro di Berlino e il successivo ridelinearsi degli assetti geopolitici
europei, di rivendicazione di diritti e di libertà, determinazioni prima
impossibili o addirittura impensate con il fine di promuovere la diversità
9
culturale e il plurilinguismo. Si preparano insomma le condizioni favorevoli in
vista di una valorizzazione delle identità linguistiche più deboli, di quelle
10
parlate a lungo lasciate nell’ombra, ignorate dalle istituzioni , addirittura
“rimosse dalla consapevolezza metalinguistica degli stessi locutori che solo
negli ultimi tempi hanno preso coscienza della loro identità culturale” (Orioles
2003c: 31), e il cui comun denominatore è quello di rappresentare delle alterità
11
linguistiche.
Guardando qua e là in Europa, ci si rende subito conto, come afferma Orioles
(2003c: 33), che
La risposta istituzionale all’esigenza di dare spazio all’alterità linguistica e culturale
è stata differenziata nei diversi paesi in rapporto sia al diverso peso delle varietà
minoritarie sia alla forza e alla coesione delle rispettive lingue standard che
8
Tale linea di condotta è stata sostenuta, con più o meno enfasi, da tutti i sistemi politici che si
sono susseguiti in Francia, come dimostra la particolareggiata sintesi di Madonia 2005.
9
“Non ci si stupirà di questo; anzi, i movimenti di rivendicazione dei diritti linguistici sono venuti
buoni ultimi rispetto a tutte le altre rivendicazioni in senso egualitario, benché l’articolo 2 della
Dichiarazione dei diritti dell’uomo preveda espressamente la lingua, al secondo posto, tra i vari
elementi che non devono essere motivo di discriminazione” (Cardona 1984: 35-36).
10
Il documento più importante per la difesa delle collettività minoritarie adottato dal Consiglio
d’Europa nel 1992 è la Carta europea delle lingue regionali o minoritarie (cf. Mangion 2000); in
ambito europeo la Carta è il seguito di una serie di rilevanti risoluzioni che prendono di volta in volta
il cognome dei rispettivi relatori: Arfè (1981), Kuijpers (1987) e Killilea (1994). Per un’approfondita
rassegna dei vari provvedimenti presi a livello internazionale ed europeo rinvio a Orioles (2003c:
10ss.) e Pizzorusso 2001.
11
Piergigli (2001: 152-153) fa giustamente notare che “In mancanza di riconoscimento, la
minoranza linguistica si colloca, per così dire, ad uno stadio pregiuridico, di mero fatto, che non le
consente di beneficiare di misure di protezione dissimili da quelle, generali e generiche, fruibili da
qualunque cittadino o individuo, indipendentemente da qualsivoglia appartenenza minoritaria. […] In
linea di principio, il rifiuto del riconoscimento […] è suscettibile di concretarsi in un atteggiamento di
indifferenza nei confronti delle sorti delle situazioni minoritarie ovvero spingersi a manifestazioni
repressive”.
Le minoranze linguistiche
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incarnano la tradizione nazionale: le misure di protezione si dispongono in un
continuum che va da riconoscimenti estesi e organici (come in Spagna a favore della
comunità catalana) a concessioni parziali e limitate fino a imbarazzanti silenzi
(penso alla Grecia).
Anche in Italia, dopo anni di rimozione del problema (cf. Orioles 2003c: 15 e
Toso in stampa), il Parlamento ha approntato un quadro normativo, la L.N. 15
dicembre 1999, n. 482, “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche
storiche”, magari discutibile, e in alcuni punti farraginoso, ma quanto meno di
meritevole di aver sbloccato un atteggiamento di attivismo disordinato che da
anni si trascinava, cioè da quando, dopo un iter di quindici anni (cf. Carrozza
1986) la proposta di legge n. 612 approvata nel novembre 1991 dalla Camera
dei Deputati decade per la mancata approvazione da parte del Senato a causa
della fine anticipata della legislatura (Savoia 2001: 9ss.). Attraverso la 482/99
sono riconosciuti dodici idiomi minoritari che rispondono al requisito di essere
collegati a un territorio e di essere di antico insediamento; essi sono denominati
minoranze linguistiche storiche. I vari gruppi figurano nel corpo dell’art. 2
laddove si affiancano alle minoranze di espressione francese, tedesca e slovena,
i nuclei ‘alloglotti’ sparsi nel paese (parlanti di lingua albanese, catalana,
occitana, francoprovenzale, greca e croata) e le varietà dotate di spiccata
autonomia come sardo, ladino e friulano.
A oltre cinque anni dalla sua approvazione il provvedimento pone di fatto
una serie di nodi irrisolti, impossibili da discutere esaustivamente in questa
12
sede , ma che emergeranno parzialmente di volta in volta nella discussione
sull’ado-zione di un’espressione o dell’altra.
3. Le minoranze linguistiche: i termini
Da un’attenta lettura dei vari provvedimenti legislativi adottati in materia di
tutela della minoranze linguistiche emerge con chiarezza che anche il diritto
linguistico esplicito non è sempre volto a concedere elementi di parità fra gli
idiomi in contatto: anzi, talora genera una gerarchizzazione sociale e politica
13
delle lingue , anche attraverso un continuum di denominazioni, che, come ben
12
Rinvio alle puntuali argomentazioni rintracciabili in Orioles 2003a e 2003c, Dal Negro 2000,
Savoia 2001 e Toso in stampa.
13
“Alla condizione di lingua minoritaria non ci si può sottrarre con un atto di volontà; l’insieme
delle condizioni oggettive, delle pressioni economiche e ideologiche che oggi vige nel mondo e che
non è verosimilmente destinato a mutare nel prossimo futuro disegna una struttura rigida in cui i posti
sono assegnati quasi una volta per tutte; soprattutto questo appare con sempre maggiore nettezza: le
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sappiamo, prendono l’avvio da “lingua nazionale”, con tutte le dichiarazioni di
status e funzioni, fino ad includere le “lingue minoritarie”. Per le prime
designazioni traggo le definizioni da Dell’Aquila/Iannaccaro (2004: 104) che
enunciano
LINGUA NAZIONALE. È la denominazione più classica, di diretta discendenza dai
principi sette-ottocenteschi: la lingua nazionale è la lingua della nazione costitutiva
dello stato; le lingue definite come nazionali sono quelle a cui viene attribuito
maggior valore simbolico dalle istituzioni (Francia, Grecia, Spagna).
14
LINGUA UFFICIALE. Una tale denominazione punta molto di più sul valore
pragmatico e comunicativo della lingua, essendo al contempo molto meno marcata
simbolicamente; in situazioni in cui coesistano nella legislazione “lingue ufficiali”
accanto a “lingue nazionali”, le prime sono appunto quelle a cui viene
intenzionalmente attribuito un valore precipuo di lingua veicolare di comunicazione,
prescindendo dai valori simbolici e identificativi. Inutile aggiungere che una lingua
può essere contemporaneamente “nazionale” e “ufficiale” (Irlanda, Lussemburgo,
Svizzera prima del 1996). Se in uno stesso territorio sono presenti più lingue
ufficiali, alcuni sistemi giuridici le definiscono “lingue coufficiali”.
Per alludere alle seconde è invece interessante osservare come si ricorra oramai
ad una pluralità di etichette, alcune neutre altre semanticamente pregnanti, che
in ogni caso non si possono considerare del tutto sovrapponibili in quanto
ciascuna di esse reca con sé un preciso profilo culturale che sottintende
15
l’impronta degli atteggiamenti e delle finalità di chi le adopera. Ma passiamo
ora in rassegna alcuni moduli espressivi relativi all’universo minoritario, la cui
16
analisi non ha alcuna pretesa di esaustività.
varie lingue oggi parlate sono scalate secondo una gerarchia in cui quelle ai livelli più alti guadagnano
sempre più terreno a spese di quelle ai livellli più bassi” (Cardona 1984: 36).
14
Piergigli (2001: 21) specifica che “una definizione della nozione di lingua ufficiale – sia questa
riferita alla lingua maggioritaria come ad eventuali lingue minoritarie – non emerge nel diritto
comparato da puntuali disposizioni costituzionali o legislative, ma si desume dal complesso delle
normative, generali o settoriali, che ne disciplinano gli effetti giuridici”.
15
Barbina (1993: 99-100) già faceva notare che “L’Europa presenta una notevole varietà di
situazioni linguistiche che non sembra facilmente catalogabile ed espressioni come ‘lingue regionali’,
‘lingue etniche’, ‘lingue minacciate di scomparsa’, ‘lingue meno utilizzate’, ‘dialetti’ ecc. non sempre
possono venire utilizzate senza ingenerare equivoci” e che “non si riesce nemmeno a trovare una
definizione univoca per termini come ‘regionale’, ‘minoranza’, ‘minoritaria’, ‘minore’, ‘meno diffusa’
ecc., che hanno diversi significati a seconda del problema o dell’entità che con essi si vuole
descrivere”.
16
Riprendo alcuni spunti proposti nella tipologia degli idiomi minoritari di Telmon (1994: 949950).
Le minoranze linguistiche
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- colonia
Se consideriamo le comunità linguistiche minoritarie secondo una dimensione
cronologica, è possibile individuare una tipologia di parlate minoritarie in funzione della profondità temporale del loro insediamento: per tale gruppo di
idiomi è invalsa l’espressione lingue minoritarie di antico insediamento ovvero
mino-ranze linguistiche storiche.
Nella dialettologia di stampo italiano per indicare tali nuclei si dispone anche
del tipo colonia che include in primo luogo quelle varietà linguistiche interne al
diasistema italoromanzo che, per effetto di flussi migratori e di mobilità interna,
si ritrovano delocalizzate, ossia reinsediate a distanza dalla sede primitiva di
radicamento territoriale e trapiantate e immerse in un assetto linguistico
spiccata-mente diverso. Pur presentando una certa condizione di alterità rispetto
al contesto linguistico circostante, tali idiomi si tipicizzano dunque per il fatto
che il codice di riferimento non si trova al di là dei confini linguistici italiani
(come nel caso delle minoranze slovene, croate, tedesche ecc.), “né tanto meno
si ricollega a un tipo linguistico endogeno al quale si riconosce una spiccata
individualità come è quello praticato dalle comunità di espressione friulana,
ladina, sarda, occitana e francoprovenzale” (Orioles 2005: 409), che al contrario
hanno sviluppato la loro storia linguistica senza abbandonare la sede originaria,
ma è costitutivo delle varietà dialettali tradizionalmente classificate come
italiane:
La loro genesi è da porre in rapporto da una parte con processi migratori di antica
data e comunque consolidati, che vanno dal Medioevo – come è il caso degli
insediamenti galloitalici di Sicilia e Basilicata – al XVIII secolo, come per le parlate
tabarchine di Sardegna, i dialetti emiliani trapiantati in Versilia (Gombitelli, in
comune di Camaiore) e nella valle del Serchio (prov. di Lucca) ecc. A volte invece
la disomogeneità può discendere anche da condizioni autoctone, come potrebbe
essere nel caso di alcuni centri di espressione veneta (Marano e Grado ad esempio)
che vanno a formare una discontinuità in seno a un’area compattamente friulanofona; per il fatto di restare al di fuori del diasistema sardo basato sul logudoresecampidanese, possono essere equiparabili a eteroglossie interne anche le varietà
sassarese e gallurese. (Orioles 2005: 409)
A partire dalla bibliografia di riferimento è possibile estrapolare alcune
documen-tazioni sull’uso del tipo terminologico, senza tuttavia tralasciare che
in Biondelli 1856 figura un capitolo dal titolo Prospetto topografico-statistico
delle Colonie straniere d’Italia. Anche Bertoni (1916: 193-198) destina
un’appendice a quelle che definisce complessivamente C o l o n i e
100
Fabiana Fusco
d i a l e t t a l i i t a l i a n e (“Con la denominazione surriferita, designiamo
alcune parlate, alcune i s o l e l i n g u i s t i c h e , che si riattaccano a un
sistema dialettale ‘italiano’ diverso da quello che ci aspetteremmo per ragioni
geografiche”; lo studioso fa suoi gli esempi di Gombitelli e Sillano, di
Bonifacio e della cosiddetta colonia ‘italo-gallo-ladina’ di Sanfratello ecc. in
Sicilia), facendo attenzione a distinguerle dalle colonie straniere per le quali
rinvia a Meyer-Lübke. Anche Merlo (1937: 4) inse-risce nella sua elencazioni i
Corsi Galluresi (disseminati sulle due isole) e gli “Italiani Settentrionali”,
espressioni con cui si riferisce alle parlate galloitaliche di Sicilia documentate
nei centri di Novara, S. Fratello, Piazza Armerina. Infine Pellegrini (1977: 5355) cita chiaramente le colonie gallo-italiche nell’Italia meridionale tipicizzando
sia quelle di Sicilia sia di Lucania; e aggiunge altresì gli insediamenti liguri in
Corsica e Sardegna e le isole linguistiche di espressione emiliana in Toscana
(Gombitelli e Sillano).
Delle fonti più accreditate non va passato sotto silenzio il cenno al
galloitalico di Sicilia e Basilicata rintracciabile in Tagliavini (1982: 400), con
rimandi in nota al tabarchino, al bonifacino e alle isole galloitaliche della
Toscana. Orioles 2005: 416 opportunamente fa notare che
Questi richiami a una letteratura rigorosa ma ampiamente accessibile, a una
manualistica che rappresenta (o quanto meno avrebbe dovuto rappresentare) il punto
di partenza per l’avvio di una discussione sul tema delle minoranze linguistiche in
Italia, intendono sottolineare il fatto che il “problema” delle eteroglossie interne,
eluso dal legislatore col comodo alibi del loro rapporto genealogico più stretto con
la lingua tetto, è in realtà ben presente nella storia della riflessione sulle
problematiche linguistiche del nostro paese.
C’è infine da segnalare che nella dialettologia italiana recente, il tipo colonia,
che, ripeto, focalizzava l’attenzione proprio sul processo migratorio e sulla costruzione di un insediamento lontano dall’area di origine, e ora per lo più sostituito da eteroglossie interne invocato da Telmon (1992: 145ss.) per attribuire
a talune parlate uno spazio ben più definito tra gli idiomi sottoposti ad una
“condizione di alterità rispetto all’italiano, alla lingua di Stato”.
- isola/oasi e penisola
Se invece si fa valere una dimensione geografica, ovvero in rapporto alla dislocazione spaziale dell’area di insediamento, esse possono configurarsi come
isole o penisole linguistiche; le prime costituiscono delle enclaves che
interrompono la continuità di un determinato territorio; le seconde invece “sono
Le minoranze linguistiche
101
propaggini di gruppi linguistici collocati al di fuori dei confini dello stato”
(Freddi ed. 1983: 250). A titolo esemplificativo cito Bertoni 1916 (a), Parlangèli
1970 (b) e Pellegrini 1977 (c, d, e), in cui i termini entrano anche in
17
combinazione con il determinate alloglotto:
a) Con la denominazione surriferita, designiamo alcune parlate, alcune isole
linguistiche, che si riattaccano a un sistema dialettale “italiano” diverso da quello
che ci aspetteremmo per ragioni geografiche (p. 193).
b) La già complessa stratificazione linguistica italiana è ulteriormente complicata
dalla presenza nel territorio della repubblica italiana di isole e penisole alloglotte; e,
viceversa, non sono poche le isole e penisole linguistiche italiane inserite nel
territorio di altri stati (p. 316).
c) Il numero più cospicuo di oasi o isole linguistiche alloglotte in Italia è costituito
dalle colonie albanesi […] (p. 44).
d) Per le oasi tedesche dell’Italia settentrionale il Merlo [Clemente] … segnala i
nuclei di immigrati dall’alto vallese nei secoli XII-XIII […] (p. 50).
e) Di origine gallo-romanza (franco-provenzale) sono le isole linguistiche (valdesi)
di Faeto e Celle di S. Vito […] (p. 53).
La metafora ‘geografica’ dell’isola, di fatto fuorviante, cela la volontà di
circoscrivere e chiudere la comunità finendo per adombrare “una realtà di
contatti plurimi, proprio in queste aree vistosamente presenti” (Ursini 2003:
152); in effetti il dispositivo terminologico
ripropone, grosso modo, la visione essenzialmente territoriale della dialettologia e
della geografia linguistica tradizionali, per le quali l’isola linguistica, l’area isolata o
separata sono state considerate i luoghi ideali dell’omogeneità e del monolinguismo,
della ‘reine Sprache’ (cf. Bianconi 2000: 5).
Una tale visione, prima ancora che linguistica, è sostanzialmente un retaggio
ideologico, espressione di quell’ideale ottocentesco che presupponeva che uno
Stato-nazione dovesse necessariamente coincidere con un territorio linguistico
intrinsecamente compatto e omogeneo e per cui ciò che non rispondeva a tale
principio, varietà locale o minoritaria, era occultato o peggio osteggiato.
17
Sullo statuto di alloglotto e di alloglossia, in chiave di emarginazione e delimitazione delle
varietà diverse da quella ufficiale, rinvio a Orioles 1998/2002.
102
Fabiana Fusco
Non si può inoltre non ribadire che la posizione delle ‘penisole’ linguistiche è
ben più consolidata di quella delle ‘isole’; infatti
la distinzione (…) non si risolve in un dato geografico neutro, ma ha un importante
implicazione in termini di status sociolinguistico: posto infatti che gli idiomi del
primo tipo hanno una lingua di riferimento fuori dei confini nazionali della quale
costituiscono una propaggine, diremo che essi sono muniti di un ‘tetto’ (mit Dach),
quasi fossero ‘coperti’ e protetti, mentre le parlate che non dispongono di tale
connessione vengono caratterizzate come sprovviste di tale copertura (ted. dachlos,
letteralmente “senza tetto”); ne discende che sono più facilmente attratte dallo
standard del paese in cui sono parlate e dunque sono maggiormente esposte al
18
rischio dell'erosione e poi dell'estinzione. (Orioles 2003b: 59)
Resta inoltre da precisare che nei vari e approfonditi contributi dedicati alle
minoranze linguistiche in Italia, è stato Giuseppe Francescato che, lamentando
la genericità della metafora dell’isola o oasi linguistica e la dilagante scarsa
atten-zione nei confronti della complessità del repertorio che contraddistingue
tali aree, ha fatto rilevare come esistano “di fatto minoranze più piccole
all’interno di minoranze più grandi. In questo caso è preferibile dunque parlare
di ‘minoranze di II ordine’, piuttosto che di ‘isole’ all’interno di isole maggiori”
(Francescato 1993: 312), alludendo in specie ai nuclei germanofoni di Sauris e
19
Timau, incorporati nell’area di espressione friulana. Si tratta di una osservazione importante tesa a mettere da parte la supposta omogeneità linguistica
della minoranza per far invece emergere che se “le condizioni generali del
bilinguismo si verificano in molti casi di minoranze di I ordine; le condizioni
del trilinguismo (o plurilinguismo) si verificano soprattutto nei casi di
minoranze di II ordine, quando la popolazione alloglotta partecipa all’uso
dell’altra varietà minoritaria presente nello stesso ambito territoriale”
(Francescato 1993: 312).
- lingue ‘tagliate’
Non abbiamo ancora avuto modo di ricordare che il dibattito sulle comunità
linguistiche minoritarie in Italia ha di fatto inizio nelle belle pagine della Storia
linguistica dell’Italia unita del 1963 di Tullio De Mauro. Si è già evidenziato
18
Cf. Telmon (1994: 949) sul ruolo sociolinguistico di volta in volta diverso rivestito dalla linguatetto di riferimento.
19
La rilevante categorizzazione è stata proposta in Francescato 1988; a tal proposito Telmon
(1994: 949) fa riferimento a minoranze sovrapposte, “come sono i casi delle minoranze secondarie
che si trovano all’interno di minoranze primarie”, di contro a minoranze adiacenti (o contigue) o
distanti fra di loro.
Le minoranze linguistiche
103
che numerosi erano stati, in precedenza, i rilievi che avevano proiettato le
minoranze linguistiche in primo piano, ma ciascuno aveva trattato questi idiomi
come un aspetto per lo più marginale della realtà linguistica italiana, e
soprattutto privo di ogni implicazione problematica, visto che veniva calato
all’interno di una griglia esplicativa basata sulla salda preminenza conferita
all’italiano quale lingua nazionale. Nella Storia, invece, quello delle minoranze
linguistiche viene tematizzato come un problema sfaccettato e variamente
articolato, ma che trova nel concetto di plurilinguismo la sua definizione più
efficace. Le minoranze concorrono in sostanza a delineare il già composito
assetto linguistico italiano e contribuiscono, a fianco delle realtà dialettali, a
rendere il paese “una maggioranza di minoranze” (Pellegrini 1977: 18, n. 21).
A partire da quegli anni le iniziative si susseguono su due piani distinti e
paralleli: da un lato si moltiplica una serie di proposte di legge presentate nel
corso delle varie legislature, precedute dall’indagine parlamentare del 1971 e il
relativo Rapporto del 1974, che doveva costituire la premessa indispensabile
per interventi più appropriati a livello legislativo 20; e dall’altro si anima un
dibattito linguistico volto ad enfatizzare gli aspetti scientifici del problema: le
istituzioni rappresentative degli studiosi delle scienze linguistiche partecipano
fattivamente alla discussione organizzando importanti convegni come quelli di
Cagliari (27-30 maggio 1977) e Pisa (16-17 dicembre 1982) promossi rispettivamente dalla Società Linguistica Italiana e dalla Società Italiana di Glottologia
(cf. Albano Leoni 1979 e Ajello 1984).
In un senso e con obiettivi opposti a quelli emersi negli interventi sopra descritti, si fa strada negli stessi anni anche l’atteggiamento di coloro i quali mettono l’accento su una posizione rivendicazionista che, immaginando un deliberato progetto di alienazione linguistica, tace sulle positività del processo di
costi-tuzione dell’unità linguistica del paese. In quest’ottica si pone Salvi 1975
che, riprendendo nel titolo del suo saggio l’espressione lingue tagliate, accusa
“l’avvento della ‘società opulenta’, della cultura di massa e del miracolo
economico ital-iani” (Salvi 1975: 78) di aver stravolto le condizioni di vita e
21
linguistiche delle comunità minoritarie. I fenomeni di trasformazione
economica e culturale della società italiana realizzatisi nei decenni postunitari, e
soprattutto alle soglie del XX secolo sono, a suo giudizio, la causa di una vera e
20
Si segnala che questi sono gli anni in cui le regioni a statuto ordinario manifestano un’attenzione
crescente verso le minoranze linguistiche, cf. Orioles (2003c: 16-17).
21
Si leggano con profitto le riflessioni di Pellegrini (1977: 18) e Pellegrini (1984: 11), che
denunciano la scarsa obiettività delle argomentazioni contenute in Salvi 1975; nonché le sensate
critiche di Renzi 1975 sull’atteggiamento “nazionalitario” di Salvi: “Salvi ha affrontato la situazione
delle minoranze linguistiche in Italia come un fatto a parte, isolandolo da ogni contesto. L’unico
rapporto di cui tenga conto è l’analogia con le persecuzioni di altre minoranze fuori di Italia. Questa
limitazione di prospettiva provoca a mio parere delle forti storture” (Salvi 1975: 331).
104
Fabiana Fusco
propria “colonizzazione” portata a compimento dallo stato unitario a danno
delle minoranze linguistiche. Riferendosi proprio a tale atteggiamento Telmon
(1994: 926) mette in guardia dalla “considerazione della minoranza come di un
insieme socialmente omogeneo e indifferenziato” che inevitabilmente “porta
alla distorsione della realtà e alla visione astratta della contrapposizione tra
minoranza e maggioranza come contrapposizione di classe”. La visione di Salvi
appare, in definitiva, debole e ingenua: in altre parole una visione mirata a
sostenere un’azione di salvataggio delle parlate minoritarie e di strenua difesa
contro l’avanzare prevaricatore dell’italiano.
22
All’espressione lingue tagliate si affiancano inoltre nazioni proibite, lingue
23
minacciate, lingue legate, altre Italie, Italie dimezzate, mille culture, ecc.: si
tratta di enunciazioni neoromantiche e ‘paesanistiche’ che – al di là di ogni
inten-zione – rischiano di confinare le parlate minoritarie nei loro spazi
linguistico-culturali, isolandole in un mondo chiuso e fiabesco.
- lingue e culture regionali, lingue minoritarie, lingue di minoranza, lingue
meno diffuse e lingue meno usate
Si tratta di espressioni di latitudine più ampia che, come vedremo, cercano per
lo più di sfuggire da retaggi localistici e ideologici, per tentare invece, non
senza qualche limite, di ‘coprire’ nel modo più generico e neutro ogni caso
riconducibile alle situazioni finora descritte. È ben noto che oggi l’Europa si
presenti con una peculiare frammentazione linguistica, la cui origine storica va
ricercata nelle caratteristiche geomorfologiche di questa area del mondo sia
nella complessità delle vicende delle sue popolazioni. Riduttivamente è
possibile affermare, riprendendo alcune considerazioni già espresse, che
nell’interpretazione dello stato e dell’identità hanno prevalso lungo i secoli due
posizioni, l’una più favorevole ad una politica orientata verso la pari
uguaglianza dei cittadini e l’altra più attenta a reclamare una gestione
particolaristica tesa al riconoscimento delle ‘differenze’ (cf. Barbour/Carmichael 2000). L’Europa degli Stati-nazione appare quindi come un mosaico di
compagini politiche che hanno, quasi sempre, una chiara dominanza di un’unica
lingua, la lingua nazionale, ma che contengono, sparse sulle loro aree, gruppi
linguistici minoritari o frammenti di comunità mi-noritarie che sono riuscite a
22
Ripresa nel titolo di Soravia (1998: 119-120) in cui si esplicita che “La difesa e il recupero del
cosiddetto dialetto, ad esempio, è anche tra gli elementi alla base dei leghismi degli anni ’90, le
diversità furono e sono spesso strumentalizzate a giustificare eccessi e licenze, i diritti delle
minoranze deviati a favore di risorgenti nazionalismi e separatismi”.
23
Molte delle quali registrate, con i relativi riferimenti bibliografici, da Piergigli (2001: 6, n. 5).
Le minoranze linguistiche
105
salvaguardare in qualche modo fino alla nostra epoca la loro identità culturale e
linguistica.
Di fatto il primo dopoguerra coincide con la stagione dei grandi trattati, che
riportano la problematica delle minoranze al diritto internazionale, alla
regolamentazione dei confini, alla prevenzione dei focolai destabilizzanti che
accompagnavano la nascita di nuovi paesi etnicamente non omogenei: la minoranza,
dunque, in quanto concetto politico e giuridico, era innanzitutto nazionale o, in
subordine, etnica e prototipicamente si identificava con le comunità che trovavano
riscontro in una lingua oltreconfine. Ma, una volta esaurita questa fase fondazionale,
il concetto si è via via dilatato fino a includere entità linguistiche che, pur
riconoscendosi all’interno dell’italoromanzo, presentano una fisionomia particolare
(Orioles 2003b: 64).
Nonostante le contestazioni e le rivendicazioni e alcuni nodi irrisolti che
riguardano l’Europa orientale, negli ultimi decenni almeno nelle diverse entità
statali della parte occidentale ci si è avviati verso una sempre maggior
considerazione di temi come il plurilinguismo e il pluriculturalismo sia in
ambito scientifico sia in quello politico-istituzionale. Numerosi stati europei si
sono adoperati per aggiornare o riformulare le proprie politiche linguistiche,
costituendo in tal modo un ottimo banco di prova per gli studiosi. Lo stesso
stato italiano, con l’approvazione della 482/99, ha avviato, come abbiamo già
avuto modo di osservare, un’articolata serie di attività di tutela e promozione
linguistica. In tale nuovo contesto, è da rilevare il ruolo decisivo che talune
istituzioni sovranazionali hanno giocato a sostegno delle parlate minoritarie;
abbiamo già ricordato, il Parlamento europeo e il Consiglio di Europa, cui si
devono la preparazioni di importanti rapporti, ma soprattutto l’elaborazione di
decisivi documenti che hanno contribuito a mettere in circolo designazioni dal
contenuto più sfumato e di maggior portata estensiva. Piergigli (2001: 10-11) fa
tuttavia notare che
Secondo un approccio comune a molte Costituzioni contemporanee che trova
conferma in alcune risoluzioni del Parlamento europeo (1981, 1983, 1987) e nella
Carta delle lingue regionali o minoritarie del Consiglio d’Europa (1992), la tendenza
a sottolineare l’oggetto della disciplina, e solo indirettamente i soggetti beneficiari o
gli impegni degli Stati, suggerisce di sostituire al concetto ambiguo e
onnicomprensivo di “minoranza nazionale” quello più specifico, sotto il nostro
angolo visuale, di “lingue e cultura regionale o minoritaria”.
106
Fabiana Fusco
Proprio di lingua regionale parlano Dell’Aquila/Iannaccaro (2004: 105) che la
definiscono come
concetto del diritto francese che riconosce alcuni (pochi) diritti a certe lingue
autoctone, pur se, per il momento, solo nell’educazione. La lingua regionale sta alla
lingue nazionale come la regione sta allo stato in uno stato nazionale in cui le
regioni non hanno alcuna reale autonomia. L’espressione “lingua regionale o
minoritaria” è usata anche nella European Charter for Regional and Minority
Languages”, dove ha sostanzialmente il significato di lingua parlata da una parte dei
cittadini di uno stato in numero inferiore al rimanente della popolazione e in genere
24
radicata in parti specifiche del territorio dello stato.
In altre legislazioni si ricorre invece a lingua minoritaria, espressione di facile
identificazione ma sicuramente poco felice, in quanto
Una lingua definita come minoritaria, in genere, qualunque sia la sua estensione
sociale e demografica, ha in ogni caso meno diritti rispetto alla lingua nazionale o
ufficiale, e, se attenzione le viene portata da parte del legislatore, è il tipo di
attenzione che diremmo ‘mussale’, ossia incentrato sulle conservazione e
rivitalizzazione, mai sull’effettivo lavoro per accrescerne le potenzialità
comunicative e veicolari. (Dell’Aquila/Iannaccaro 2004: 106)
In altre parole la nozione di lingua minoritaria reca con sé inevitabilmente un
carico di prestigio nettamente ridotto, sebbene in certi territori sia essa lingua
nazionale (ad esempio l’irlandese) ovvero lingua ufficiale (ad esempio il
25
romancio). Secondo una dimensione sociolinguistica è altresì importante separare le lingue minoritarie dalle lingue in situazione di minoranza: se le prime si
collocano su di un piano sociolinguistico più basso rispetto alla lingua
nazionale e conservano uno status giuridico inferiore, le altre sono invece
varietà “eventualmente anche di grande diffusione internazionale, ma che si
trovano a essere oggettivamente in minoranza demografica o legislativa
24
Cf. Berruto (1995: 205, n. 9) che rileva come di recente si stia diffondendo “il termine ‘lingua
regionale’ in particolare per designare in un paese lingue di minoranza opposte ad una lingua
nazionale”; lo studioso segnala altresì l’interessante opposizione tra lingua maggiore e lingua minore,
stabilita sul numero di parlanti e sull’utilizzo nell’educazione scolastica e per la quale rimanda alle
argomentazioni di Ferguson 1966, a cui aggiungo le utili precisazioni di Stolz 2001.
25
In verità non bisognerebbe dimenticare che “quello di lingua minoritaria non è un concetto a
priori ma è un qualcosa che si determina storicamente; esso non si fonda tanto su criteri oggettivi,
misurabili, quanto su una somma di fattori di identificazione, di atteggiamenti linguistici, di
valutazioni di prestigio. Una lingua non è minoritaria fin quando i suoi parlanti non vogliono che lo
sia” (Cardona 1984: 47).
Le minoranze linguistiche
107
all’interno di una particolare compagine statale (ad esempio il tedesco in Italia)”
(Dell’Aquila/ Iannaccaro 2004: 107).
Per indicare in genere i gruppi linguistici minoritari si è venuti poi ad utilizzare, per lo più in sede politico-istituzionale e in specie a livello internazionale,
il tipo espressivo lingue di minoranza, in riferimento a quelle lingue diverse da
quelle ufficiali, i cui utenti sono meritevoli di una salvaguardia linguistica e culturale, che talora alterna con le varianti più sfumate lingue meno diffuse (dal
francese langues moins répandues) o lingue meno usate entrate in circolazione
grazie all’uso pubblico che ne fa l’Unione europea
Si tratta sostanzialmente di una forma politically correct, non marcata socialmente
né politicamente, per indicare le lingue di minoranza, le quali necessitano, secondo
le disposizioni dell’Unione, di particolare sostegno e tutela (Dell’Aquila/Iannaccaro
2004: 107).
Tali espressioni trovano inoltre riscontro nella denominazione dell’EBLUL
(“European Bureau of Lesser Used Languages”) che opera dagli anni Ottanta
per la difesa delle comunità linguistiche minori della comunità europea.
In definitiva l’attuale proliferare di etichette che ambiscono ad una
connotazione ‘neutra’ del fenomeno costituiscono
l’ennesima conferma della difficoltà di coagulare un consenso generale sulle
formule definitorie e dell’intendimento di non impegnare aprioristicamente i
governi, che restano liberi di riconoscere le minoranze esistenti nei rispettivi territori
e di accordare loro il beneficio di una protezione speciale. (Piergigli 2001: 67)
4. Conclusioni
Tali accenni alle denominazioni in uso per alludere alle comunità minoritarie
hanno quindi come obiettivo quello di confermare l’effettivo ostacolo che si riscontra nel maneggiare talune categorie linguistiche e il relativo apparato
nomen-clatorio. Le espressioni qui passate in rassegna costituiscono uno dei
modi possibili di classificare le diverse situazioni minoritarie, ed è di sicuro
parziale e incompleto sotto il profilo storico e (socio)linguistico, ma ritengo che
esse possano essere utili per gettar luce sulla complessità e la difformità della
casistica in questione e sulla difficoltà a proporre un inquadramento unitario e
teorico anche di politica linguistica.
Per comprendere lo schema ‘terminologico’ proposto nella presente indagine occorre sempre richiamare alla mente il quadro epistemologico che ha ispi-
108
Fabiana Fusco
rato l’approccio europeo in generale e italiano in particolare al tema delle lingue
minoritarie; se infatti ripercorriamo la questione della tutela, si passa da una
prima fase di emersione del fenomeno, collocabile nella prima metà del secolo
scorso, quando per l’appunto la valorizzazione delle espressioni locali (dialetti
e minoranze) era in netto contrasto con i valori trasmessi dalla lingua e la
cultura ufficiali, cioè nazionali, ad una fase di graduale riconoscimento almeno
nelle enunciazioni di principio (si veda l’art. 6 della Costituzione entrata in
vigore nel 1948) per poi giungere, intorno agli anni Settanta, ad una nitida presa
di coscien-za della diversità linguistica e delle affermazioni dei diritti
linguistici, anche sotto la spinta delle profonde trasformazioni in atto nella
società. È soprattutto da questo momento in avanti che inizia a perdere vigore
l’approccio compartimen-tato d’impronta ‘territorialista’ (cf. Malfatti 2004:
270) – documentabile nei ter-mini colonia, isola/oasi e penisola – incline a non
considerare le interrelazioni che attraversano i territori di insediamento delle
parlate minoritarie, ed emerge una visione più articolata che contempla
implicazioni di ordine sociolinguistico e interlinguistico (non trasparenti nelle
espressioni lingue e culture regionali, lingue minoritarie, lingue di minoranza,
lingue meno diffuse e lingue meno usate, ma intercettabili nei nuovi contenuti),
in modo tale da applicare all’esplorazione dei gruppi minoritari categorie e
principi esplicativi non diversi da quelli che abitualmente entrano in gioco
quando guardiamo alle ‘lingue in contatto’ (variazione, repertorio, rete, codeswitching, ecc.):
il plurilinguismo, e non certamente il monolinguismo, è la condizione necessaria di
sopravvivenza di qualsiasi comunità o isola alloglotta. Quindi, le isole linguistiche
dovrebbero essere considerate come il luogo ideale e forte del plurilinguismo, del
contatto di sistemi diversi e di conseguenza l’interferenza e la mescolanza appaiono
come le manifestazioni necessarie dei normali processi evolutivi della lingua.
(Bianconi 2000: 6)
Sgombrato il campo dall’equivoco di fondo, cioè che la minoranza si configuri
come l’area privilegiata in cui si radicano monolinguismo e omogeneità (stereotipo purtroppo ancora presente in taluni passaggi della 482/99),26 il passo da
compiere sarà di promuovere un atteggiamento sensibile alle identità ‘multiple’,
in continuo interscambio linguistico di forme e strutture, vivo e alimentato da
26
Fabietti (1998: 64) fa notare che “tanto nel caso di chi vede l’Italia abitata da etnie diverse,
quanto in quello di chi pensa che gli italiani costituirebbero una sola etnia, al centro del ragionamento
sta un uso costitutivo di questa nozione, il fatto stesso di credere che l’ ‘etnia’ sia qualcosa di
identificabile nella presenza di tratti oggettivi, isolabili, immutabili e individuanti un gruppo ben
determinato”.
Le minoranze linguistiche
109
variabili contestuali e socioculturali; una serie indagine non può infatti prescindere dal problema della convivenza tra le diverse varietà, del loro reciproco
condizionamento nel repertorio della comunità, della percezione da parte dei
par-lanti dei rapporti gerarchici tra di esse. Proprio in tema di minoranze
Denison 1999: 29 si era così espresso
È importante capire che non è il caso di dover scegliere fra l’identità friulana (o
carnica, o saurana). Il bello è che si può essere nello stesso tempo saurano, carnico,
italiano e europeo, e cittadino del mondo. È possibile perché (come ci fa vedere il
plurilinguismo di tanti saurani) il cervello e la natura dell’uomo si adattano senza
difficoltà ad una identità composita, sia del gruppo, sia personale. Il plurilinguismo
diventa difficile solo se cominciamo a credere che è anormale.
In tal modo si riesce ad insegnare la possibilità di appartenere contemporaneamente a diverse categorie e gruppi e a contemplare le varie sfaccettature che
rappresentano l’identità di una persona. Una visione di questi tipo dovrebbe
inoltre scongiurare il pericolo di un ritorno di nuovi ‘confini’ o di identità
‘altre’, di identità ‘separate’, di identità ‘fittizie’ (non rare nelle società
27
contemporanee) in funzione di un mero profitto politico ed economico. Non
mi resta quindi che concludere riprendendo nuovamente il pensiero di Benoist
(1996: 299) sull’identità, ancora attuale ma soprattutto estensibile anche ad altri
costrutti, come quello di ‘minoranza linguistica’, i cui contorni, come crediamo
di aver dimostrato, restano ancora troppo sfumati:
proprio questo abbiamo visto operarsi…non tanto un consolidamento del concetto di
identità quanto la sua decostruzione da diverse angolazioni, a proposito delle quali,
il nostro impegno (quasi una scommessa) è quello di dimostrare che c’è qualche
convergenza aperta e problematica tra esse e che si tratta di convergenze atte a poter
offrire nuove vie di ricerca e tali da non pretendere di richiudere il campo di studio
sulla certezza di una verità acquisita.
27
Si vedano a tal proposito le riflessioni di Bauman (2003: 33) sulla metafora delle “comunità
guardaroba” che “vengono messe insieme alla bell’e meglio per la durata dello spettacolo e
prontamente smantellate non appena gli spettatori vanno a riprendersi i cappotti appesi in
guardaroba”; cf. altresì Telmon (1992: 86) e Toso in stampa.
110
Fabiana Fusco
Bibliografia
Albano Leoni, Federico (ed.) 1979: I dialetti e le lingue delle minoranze linguistiche di
fronte all’italiano. Atti dell’XI Congresso Internazionale di Studi della Società di
Linguistica Italiana (Cagliari, 27-30 maggio 1977), Roma: Bulzoni
Ajello, Roberto (ed.) 1984: Le minoranze linguistiche: stato attuale e proposte di
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Abstract
The labels used to indicate minority languages are not neutral terms: each has a
precise cultural content which is impressed with the behaviours and intentions
of those who use them. After having reconstructed the historical process which
led, in the context of international politics, to the elaboration of the concepts of
national, ethnic and then language minority, we shall review the various
denominations which have been used through time to designate this construct:
moving from nineteenth and twentieth century expressions like isola linguistica,
colonia and oasi, which evoke a situation of isolation, we shall examine recent
times in which there co-exist on the one hand expressions with a populist tinge
(threatened languages, cut-off languages and others) and on the other hand a
nucleus of terms formed in the context of the European Community institutions
(lesser used languages, regional languages and cultures, regional or minority
languages), with the common need to find a neutral denomination which
removes any possible implication of conflict. The limits and possible
ambiguities of every choice of terminology will be discovered.
In conclusion we shall sustain the need to re-define the minority category on
a sociolinguistic rather than a genealogical basis.