Dalla nascita dell`Unione Europa, alla moneta unica, e gli effetti

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Dalla nascita dell`Unione Europa, alla moneta unica, e gli effetti
A cura di Maria Rosaria Perrotta
Dalla nascita dell’Unione Europa, alla moneta unica, e gli effetti della crisi
economica e monetaria
Introduzione
La crisi economica scoppiata negli Stati Uniti nel 2008 ha avuto forti ripercussioni soprattutto
per paesi appartenenti all’eurozona e per la stessa Unione Economica e Monetaria. Prima di
comprendere quali sono state le cause che hanno generato tale crisi, è necessario per prima
cosa fare un excursus storico partendo dalla nascita dell’ Unione Europea fino ad arrivare
all’adozione della moneta unica europea, analizzando in seguito i fattori che hanno generato
la crisi finanziaria, la quale ha determinato un forte euroscetticismo nei confronti dell’Unione
Europea e della moneta unica.
Background storico
Alla fine della seconda guerra mondiale, la necessità di una pace duratura comincia a far
pensare ad un’unione degli stati Europei e ciò anche al fine di arginare lo strapotere degli
U.S.A e della Russia sia in campo militare che tecnologico. È così che negli anni Cinquanta
la Comunità europea del carbone e dell’acciaio comincia ad unire i paesi europei sul piano
economico e politico.
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Pochi sanno, però, che è il 9 maggio 1950 la data di nascita dell’Europa comunitaria, proprio
quando lo spettro di una terza guerra mondiale angosciava tutta l’Europa. Presso la sede del
Ministero degli Esteri, infatti, venne presentata alla stampa la dichiarazione redatta da Robert
Schuman, Ministro francese degli Affari Esteri, in collaborazione con il suo amico e
consigliere, Jean Monnet, che, insieme, diedero un’idea dei propositi ambiziosi della stessa.
Proponendo alla Germania e agli altri paesi che volessero partecipare di creare una comunità
di interessi pacifici, Schuman compiva un atto storico: tendendo la mano agli avversari della
guerra da poco finita, fece tacere i risentimenti da essa provocati, azzerava l’incubo del
passato, e avviava altresì un processo totalmente nuovo nell’ordine dei rapporti
internazionali, proponendo a nazioni secolari di ritrovare insieme, con l’esercizio comune
della loro sovranità, l’influenza che ciascuna di esse appariva ormai impotente ad esercitare
da sola. L’Europa comunitaria, che da allora si sta costruendo giorno per giorno, ha
rappresentato il grande progetto del XX secolo ed è oggi la nuova speranza per il secolo
appena iniziato. Una panoramica storica sui cinquant’anni di integrazione europea dimostra
che l’Unione europea rappresenta un successo storico. Paesi una volta rivali, alcuni devastati
dai massacri più spaventosi che questo continente abbia mai conosciuto, oggi condividono
una stessa moneta, l’euro, e gestiscono i propri interessi economici e commerciali nel quadro
di istituzioni comuni.
La proposta della sua creazione, annunciata da Schuman nel 1950, fu rapidamente accettata
da sei paesi (è la cosiddetta “Comunità dei sei”): Belgio, Francia, Italia, Repubblica federale
tedesca, Lussemburgo e Olanda, che ratificarono il trattato in meno di un anno. Entrò in
vigore il 25 luglio 1952 ed è scaduto cinquant’anni dopo, il 23 luglio 2002 (al carbone e
dell’acciaio si applica adesso il diritto comune del trattato CE). Seguì poi il trattato di Parigi
che è considerato il precursore del Trattato di Roma, vero atto col quale si fonda la Comunità
Economica Europea.
Il 25 marzo 1957 viene firmato a Roma il trattato istitutivo della Comunità Economica
Europea (CEE). I 6 Paesi si uniscono nel Mercato comune europeo (Mec).
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Il loro scopo è quello di realizzare un’integrazione economica tra i paesi membri,
caratterizzata dall’eliminazione delle barriere amministrative, doganali e fiscali che
ostacolavano la libera circolazione delle merci, e di proteggere i paesi più deboli.
La cerimonia si tenne solennemente in Campidoglio, nella sala degli Orazi e Curiazi del
Palazzo dei Conservatori, la stessa dove il 29 ottobre 2004 i rappresentanti degli allora 25
Paesi membri dell’Unione Europea hanno firmato la Costituzione per l’Europa. Il Trattato di
Roma prevedeva l’istituzione di un’Alta Autorità (poi Commissione europea), con compiti
esecutivi e di iniziativa legislativa; un Consiglio dei Ministri (poi Consiglio europeo), che
approva e promulga gli atti legislativi e decide gli orientamenti delle politiche da seguire
deliberando all’unanimità o a maggioranza; una Corte di Giustizia, giudice nelle controversie
relative alle politiche affidate alla CEE e interprete delle norme del Trattato. Inoltre,
prevedevano l’istituzione dell’Assemblea parlamentare europea, (poi Parlamento europeo)
composta da 142 deputati nominati dai parlamenti dei sei paesi membri della Comunità. La
sessione costitutiva di questo organo, avente a quel tempo solo funzioni consultive, si tenne a
Strasburgo il 19 marzo 1958, sotto la presidenza di Robert Schuman. Soltanto nel 1962,
l’Assemblea avrebbe assunto il nome di Parlamento europeo e, solo nel 1979, si sarebbero
svolte le prime votazioni a suffragio universale diretto per l’elezione dei suoi membri.
Nel 1984 il Parlamento Europeo approvava il progetto di trattato per l’Unione Europea, che
prevedeva il trasferimento alla Comunità di varie competenze in materia di politica
economica e finanziaria, di Sanità e di legislazione sociale, con la proposta di creare una vera
unione politica. Nello stesso anno il movimento federalista, presente in quasi tutti i paesi
d’Europa, proponeva un’unione fra tutti gli stati in un unico superstato, unione non solo
economica ma anche politica e militare, tale da influenzare notevolmente le decisioni a livello
mondiale. Tale proposta è però respinta dai Capi di Stato in sede di Consiglio Europeo in
quanto ciò avrebbe ridotto la sovranità dei singoli stati. Tuttavia si decide di creare, entro il
1992, un mercato unico europeo. Oramai, dal momento che i problemi di cui si occupa non
sono più solo economici, non si parla più di Comunità Economica Europea (CEE), ma di
Comunità Europea (CE).
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Nel 1981 la Grecia diventa il decimo Stato membro dell’UE, mentre il Portogallo e la Spagna
aderiranno all’UE nel 1986. Sempre nel 1986 viene firmato l’Atto unico europeo, che pone le
basi per un ampio programma di sei anni finalizzato a risolvere i problemi che ancora
ostacolano la fluidità degli scambi tra gli Stati membri dell’UE e crea così il ‘Mercato unico’.
Si produce un grande sconvolgimento politico quando, il 9 novembre 1989, viene abbattuto il
muro di Berlino e, per la prima volta dopo 28 anni, si aprono le frontiere tra Germania Est e
Germania Ovest, che saranno presto riunificate in un solo paese.
Il crollo del comunismo nell’Europa centrale ed orientale ha determinato un avvicinamento
dei cittadini europei. Nel 1993 viene completato il mercato unico in virtù delle ‘quattro
libertà’ di circolazione di beni, servizi, persone e capitali. Gli anni Novanta sono inoltre il
decennio di due importanti trattati: il trattato di Maastricht sull’Unione europea (1993) e il
trattato di Amsterdam (1999). I cittadini europei si preoccupano di come proteggere
l’ambiente e di come i paesi europei possano collaborare in materia di difesa e sicurezza. Nel
1995 aderiscono all’UE tre nuovi Stati membri: Austria, Finlandia e Svezia. Una piccola
località del Lussemburgo dà il nome agli accordi di ‘Schengen’ che, gradualmente,
consentono ai cittadini di viaggiare liberamente senza controllo dei passaporti alle frontiere.
Milioni di giovani studiano all’estero con il sostegno finanziario dell’UE.
Con l’adesione all’UE di ben 10 nuovi paesi nel 2004 e di altri due paesi nel 2007 si
ritengono definitivamente sanate le divisioni politiche tra Europa orientale e occidentale. Nel
settembre del 2008 una crisi finanziaria investe l’economia globale, portando a una più stretta
collaborazione in campo economico tra i paesi dell'UE.
Oggi l'Unione europea è un’ organizzazione internazionale di carattere sovranazionale che
comprende 28 paesi membri indipendenti e democratici del continente europeo, che hanno
ceduto parte della loro sovranità agli organismi comunitari. La sua formazione sotto il nome
attuale risale al trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992 (entrato in vigore il 1º novembre
1993), al quale tuttavia gli stati aderenti sono giunti dopo il lungo cammino delle Comunità
europee precedentemente esistenti.
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Nei territori dell’'Unione si pratica il libero mercato, detto mercato comune (unione
economica), caratterizzata in parte da una moneta unica, l'euro, regolamentata dalla Banca
centrale europea (BCE) e attualmente adottata da 18 dei 28 stati membri (unione economica e
monetaria o Eurozona), dando vita nel suo complesso all'unione economica e monetaria
dell'Unione europea. L'Unione presenta, inoltre, una politica agricola comune, una politica
commerciale comune e una politica comune della pesca.
L'Unione europea a differenza degli Stati Uniti d’America, non è una federazione di Stati ma
un organismo alle cui istituzioni gli Stati membri delegano parte della propria sovranità
nazionale. Le sue competenze spaziano dagli affari esteri alla difesa, alle politiche
economiche, all'agricoltura, al commercio e alla protezione ambientale.
Gli organi principali dell'Unione comprendono la Commissione, la Corte di Giustizia, il
Parlamento, il Consiglio europeo e la Banca centrale europea.
Con l’avvento della moneta unica europea (1 gennaio 2002) si affidò alla Banca Centrale
Europea il compito di mantenere la stabilità dei prezzi, così da poter contribuire a una crescita
durevole, al benessere economico e all’aumento dell’occupazione. Con l’introduzione
dell’Euro si sarebbe eliminata la discrezionalità delle banche centrali nazionali e l’ Euro
avrebbe reso più appetibile l’acquisto di beni prodotti al di fuori dell’Eurozona.
Inoltre, la moneta unica avrebbe favorito maggiori investimenti ed avrebbe comportato un
mercato finanziario più esteso aumentando il volume commerciale.
La crisi finanziaria
La crisi finanziaria scoppiata nel 2008 negli Stati Uniti ha avuto però forti ripercussioni
sull'economia dell'Unione Europea e in particolare per gli Stati appartenenti all'Eurozona.
Tale crisi, costituisce un pericolo per l'UEM e per la sopravvivenza stessa dell'Unione
Europea, causando una forte instabilità finanziaria in quanto gli Stati membri sono stati
fortemente soffocati dal debito pubblico e privato. Le misure, finora adottate hanno soltanto
evitato il collasso ma non hanno prodotto un miglioramento dell'Economia dell'UE.
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Secondo gli analisti, le ragioni che hanno determinato la crisi che ha colpito gli Stati della
zona euro sono da ricercarsi innanzitutto nel fatto che le politiche pubbliche di alcuni Stati
membri siano state gestite al di fuori dei vincoli di sostenibilità finanziaria. I modelli di
sviluppo e intervento pubblico nell'economia e nella società risultano essere differenti, le
modalità di prelievo fiscale e i modi per combattere l´evasione sono diverse in ciascuno stato.
A ciò si aggiunga che non hanno funzionato i meccanismi economici-giuridici posti in essere
dall'Unione Monetaria al lancio della valuta unica e il patto di stabilità si mostrava incapace
di provvedere al risanamento della finanza pubblica. Inoltre si è fortemente avvertita la
mancanza di un adeguato governo economico europeo. Infatti, in assenza di vincoli e
incentivi provenienti dall'Europa gli Stati hanno attuato in ritardo l'adozione di alcune
riforme, le quali potevano risollevare l'economia degli stati. Infine, vi è da dire che ancora
non si è trovata una soluzione soddisfacente che riesca a far funzionare i mercati finanziari.
Al fine di arginare la crisi l'UE ha adottato alcune strategie atte a favorire la stabilità e la
crescita, sono stati ad esempio rafforzati i meccanismi di controllo delle politiche di bilancio
messe in atto dai governi nazionali attraverso il rafforzamento del Patto di stabilità e Crescita
e l'introduzione del Semestre Europeo. Infatti, il Patto di stabilità e crescita non era riuscito a
garantire a tutti i Paesi l’adozione prudente delle finanze pubbliche durante i periodi
favorevoli del ciclo economico e quindi capaci di affrontare la crisi con bilanci in sostanziale
equilibrio. Alcuni Stati, infatti, hanno prodotto significativi squilibri macroeconomici che
hanno avuto forti ripercussioni sulla finanza pubblica determinando forti tensioni sui mercati
finanziari, conseguentemente la Commissione europea ha proposto di rafforzare il patto di
crescita e stabilità sia nella sorveglianza preventiva e sia nelle misure correttive e, inoltre, ha
previsto di introdurre nelle misure correttive l’introduzione di sanzioni monetarie. Il patto di
stabilità e crescita prevede due regole rilevanti: Il debito pubblico non deve superare il 60 %
del PIL nazionale in quanto un debito troppo alto può frenare lo sviluppo economico e il
disavanzo non deve essere superiore al 3% del PIL poiché se le spese superano le entrate, gli
Stati devono ricorrere al prestito, con conseguente aumento del debito pubblico.
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Il semestre europeo nasce da una disamina delle proposte avanzate dalla Commissione. Esso
viene introdotto nel maggio del 2010 al fine di garantire un rafforzamento della governance
economica dell'Unione Europea, contro le crisi finanziarie. Ciò assicura una cooperazione tra
le Istituzioni dell'UE e gli Stati membri e consente all’Unione di influire sulle loro politiche
di bilancio a partire dalla fase di programmazione finanziaria nazionale. L'obiettivo consiste
nell'adattare i provvedimenti nazionali agli obiettivi europei. Nel 2013 sono state apportate
alcune modifiche e la più rilevante consiste nel coinvolgimento diretto del Parlamento
Europeo che può intervenire direttamente in qualsiasi momento. Inoltre, garantisce che
vengano seguite politiche economiche più conformi agli interessi dei cittadini. Al fine di
rafforzare ulteriormente le politiche economiche è stato varato il Patto Euro Plus, volto a
migliorare la competitività, i livelli di convergenza tra gli Stati e a rafforzare l'economia
sociale di mercato. Tale patto è stato adottato dai Capi di Stato e di Governo della zona euro e
vi hanno aderito anche Danimarca, Lettonia, Lituania, Polonia, Bulgaria e Romania.
La Banca Centrale Europea, ha messo in atto alcune strategie dirette a colmare gli effetti
causati dalla crisi economica. Ma prima di vedere le modalità di intervento della BCE,
bisogna capire il quadro all'interno del quale esercita le sue funzioni. La responsabilità della
politica monetaria europea è attribuita al Sistema Europeo delle Banche Centrali (SEBC), che
è composto dalla Banca Centrale Europea (BCE) e dalle Banche Centrali Nazionali (BCN)
dei singoli stati membri. La BCE a differenza delle banche nazionali esercita la propria
funzione e la propria autorità monetaria su una moltitudine di Stati indipendenti, le politiche
decise dalla BCE sono messe in atto dalle singole banche centrali nazionali. Le banche
centrali nazionali devono vigilare sul sistema finanziario.
La crisi economica che ha investito tutto il pianeta, le politiche di austerità, i vincoli
economici che comporta l’essere membri dell’Unione Europea unitamente all’aumento della
disoccupazione ha fatto sì che sull’Unione Europea cominciasse a soffiare il vento anti-euro.
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Molti analisti ritengono che la costruzione dell’euro sia basata sui criteri della scuola
economica monetarista, inaugurata da Milton Friedman e fortemente contrapposta alla scuola
keynesiana. Non sorprende quindi che le regole contenute nei Trattati abbiano lo scopo
precipuo di impedire politiche espansive di tipo keynesiano.
La Banca centrale europea è molto differente dalle altre Banche centrali. In primo luogo essa
ha un solo obiettivo, quello di contenere l’inflazione. Lo statuto della Banca centrale
americana (la FED) invece prevede tra i suoi compiti quello di favorire la crescita e
l’occupazione (usando opportunamente i tassi di interesse e l’aumento dell’offerta di
moneta). Inoltre la BCE non può prestare denaro agli Stati membri né finanziare il debito
pubblico stampando nuova moneta (come invece ha fatto la FED).
Il trattato di Maastricht – nonché il nuovo “fiscal compact” – pongono poi seri limiti alla
spesa che un governo può effettuare in deficit per rispondere alla crisi.
Secondo i fautori di Keynes poi, l’adozione di una moneta unica che impedisce di usare la
svalutazione per favorire l’esportazione delle proprie merci impedisce lo sviluppo degli Stati
più deboli che vedono ridursi drammaticamente gli spazi di manovra per politiche
economiche contro la crisi. Una crisi peraltro che ha molto a che vedere con uno squilibrio tra
il centro dell’Europa e la periferia, con il centro (in particolare la Germania) che è diventato
un grande esportatore e la periferia che ha finora funzionato da acquirente. L’euro,
aggiungono ancora, ha impedito un riequilibrio della bilancia commerciale tra gli Stati
membri dell’Eurozona, penalizzando le periferie che non hanno potuto svalutare la moneta
per far crescere le esportazioni.
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La situazione attuale e l’avanzamento di correnti euroscettiche
La crisi economica ha stimolato la nascita e in alcuni casi il rafforzamento di sentimenti antieuropei e anti-euro al punto da considerare l’uscita dall’euro e dall’UE come l’unica
soluzione possibile. Sintomi di questo malessere, ormai diffuso, si possono intravedere anche
in quei Paesi notoriamente europeisti come Francia e Italia innanzitutto. Sentimenti che
rischiano di aumentare con il perdurare della crisi che sta alimentando i nemici dell’euro. E’
importante cercare di capire quali sarebbero i pro e i contro di una decisione di questo tipo.
Quello che sta accadendo in Francia potrebbe essere l’inizio di una frana che potrebbe
travolgere l’intera Europa, anche perché quella francese è la seconda economia dell’area
euro. Come detto, però, lo scetticismo non è prerogativa solo francese, infatti, dai recenti
sondaggi (Ipsos Mori) realizzati in 10 Stati dell’UE dimostrano che circa il 68 % dei cittadini
europei oggi boccerebbe la moneta unica e le politiche di Bruxelles. Il malcontento più forte
si ha proprio in Italia (77%), Francia e Spagna (76%), ma è alto anche in Germania (61%),
che ha evitato gli effetti della crisi e in qualche modo condiziona le scelte di tutta l’Unione.
La maggior parte degli economisti ritiene invece una follia poter fare a meno dell’Euro,
l’addio all’euro e il ritorno alla lira, secondo gli analisti, comporterebbe una svalutazione tra
il 20 e il 30 %. Di conseguenza schizzerebbe verso l’altro il costo di materie prime quali
petrolio e gas. Parimenti, calerebbe il valore di case e terreni delle cosiddette attività reali.
La “svalutazione”, in Italia, potrebbe pesare per 1.000 miliardi di euro (il conto è stato
effettuato basandosi sui dati relativi alla ricchezza degli italiani diffusi pochi giorni fa alla
Banca d’Italia). I nostri soldi sono protetti dal fondo di garanzia fino a 100 mila euro. Ma con
l’uscita dell’euro calerebbe il potere d’acquisto e calerebbe anche il valore in termini reali.
Secondo gli economisti, infatti, uscendo dalla moneta unica potrebbe schizzare l’inflazione e
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non sarebbe possibile compensare un eventuale aumento dei rendimenti della liquidità
depositata in banca.
Le cifre se l’inflazione balzasse del 5% annuo e i rendimenti in banca salissero del 2,5 %, i
conti correnti bancari e postali perderebbero valore per alcune decine di miliardi.
La svalutazione sarebbe inevitabile e pesante. Il ribasso delle quotazioni varierebbe in
funzione al rendimento nominale delle cedole e in base alla loro scadenza. I titoli triennali
crollerebbero, ma anche quelli decennali di circa il 20 per cento. Dunque per la componente
obbligazionaria, sulla base di 200 miliardi, si può stimare una perdita che oscilla tra i 20 e i
40 miliardi. Gli analisti, infatti, sostengono che l’uscita dall’euro possa rappresentare una
vera e propria sciagura in quanto si potrebbe verificare un calo del PIl del 30% circa. Non
deve essere quindi messo in discussione il ruolo della moneta unica, ma semmai le politiche
restrittive portate avanti dalla Banca Centrali e dai governi dei singoli Stati negli ultimi anni.
Il tutto al fine di rimettere in marcia l’economia e trovare un più giusto equilibrio fra rigore e
sviluppo.
Secondo i fautori del ritorno alla moneta nazionale, tra i principali vantaggi vi sarebbe quello
di gestire in autonomia la propria moneta. Questo significherebbe la possibilità di svalutare la
Lira a seconda delle necessità di mercato e finanza, operazione molto comune prima
dell’avvento dell’euro. Sempre secondo costoro la svalutazione ( in parte naturale e in parte
provocata) darebbe nuovo slancio alle esportazioni comparto molto colpito dalla crisi negli
ultimi anni, i cui costi crollerebbero a tutto beneficio delle aziende nostrane. Inoltre ne
gioverebbe il turismo, con un decisivo aumento degli arrivi dall’estero, visto che l’Italia
diventerebbe un paese molto economico per gli stranieri. I sostenitori del ritorno alla lira non
tengono però conto che le famiglie italiane si ritroverebbero, per quanto detto, più povere di
circa il 40% rispetto agli altri cittadini europei, con un conseguente crollo dei consumi interni
e del potere d’acquisto dei consumatori. Inoltre si correrebbe il rischio di default immediato
del sistema Italia, infatti, il prodotto interno lordo crollerebbe per effetto dell’aumento dei
costi per le aziende e per i consumatori.
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Gli italiani insomma diventerebbero un popolo di indebitati, sia a livello micro che macro, sia
i singoli contribuenti e sia lo Stato inteso come entità unitaria si troverebbero a pagare il
prezzo salato di una scelta avventata, i primi con l’aumento dei tassi per i mutui e i prestiti e
il secondo con l’aumento spropositato del debito pubblico relativo al rialzo dei tassi di
interesse su debito pubblico relativo al rialzo dei tassi di interesse su debito e prestiti bancari.
Se l’Italia dovesse prendere la decisione di uscire dall’euro(cosa che pare francamente
difficile), la prospettiva più concreta sarebbe una deficit galoppante e una concreta possibilità
di bancarotta immediata ( ovvero ancora una volta il default). Sembra una gabbia da cui è
difficile fuggire, ma non bisogna dimenticare che l’euro tanto vituperato, in questi anni, ci ha
difeso dal crollo dando respiro alle casse dello Stato nei momenti di difficoltà e accorrendo in
aiuto delle banche e dei governi.
Quali effetti avrebbe l’uscita dalla moneta unica?
 Il ritorno alla moneta nazionale comporterebbe una svalutazione tra il 30 e il 50%.
Se ad esempio l’Italia e altri Paesi minori uscissero dalla’euro, il rischio reale
potrebbe essere che a fronte di salari in lire, le rate del mutuo rimarrebbero in euro.
Aumento esponenziale dei titoli di Stato che però verrebbero svalutati. Ripercussioni
sul debito pubblico.
 L’aumento dell’inflazione viene dato per scontato, anche se è difficile fare i conti
oggi in una situazione in cui il rischio principale è la deflazione. Tutte le
importazioni, dall’energia alle materie prime, sarebbero un ulteriore aggravio di
costi.
 Banche, imprese e le famiglie che si sono indebitate all’estero con titoli osggetti al
diritto internazionale potrebbero subire dalla svalutazione una vera e propria
debacle.
 L’unico vantaggio sarebbe l’export di prodotti nazionali, perché i prodotti
diventerebbero meno cari rispetto alla concorrenza.
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Punto di vista dei socialisti e democratici
Alle politiche europee di austerità come risposta alla crisi economica, il gruppo socialista al
Parlamento europeo si è posto in maniera critica anticipando le possibili conseguenze, di
aggravamento della crisi stessa. Nella sua azione parlamentare, il gruppo S&D, non ha perso
occasione per ribadire il proprio dissenso all’austerità ribadendo che solo la messa in atto di
politiche di rilancio degli investimenti ed delle istituzioni che sono apparse ripiegate su se
stesse prigioniere di logiche istituzionali, avrebbero potuto contribuire a uscire dalla crisi. Ha
inoltre, dichiarato che le decisioni fondamentali sull’Europa e sull’integrazione non possono
essere prese a livello di Consiglio, attraverso il cosiddetto metodo intergovernativo ma che
occorre cedere il passo al metodo comunitario.
Il gruppo S&D, è riuscito a far adottare la tassa sulle transazioni finanziarie, che certamente
non è la panacea a tutti i mali ma serve per trovare risorse da reinvestire e per avere uno
strumento per limitare le speculazioni sul mercato. I mercati finanziari a loro volta non
possono perdere di vista i bisogni veri dell’economia reale e i bisogni sociali a cui l’economia
democratica deve dare una risposta.
L’obiettivo che deve guidare l’Unione europea non deve essere soltanto quello di coordinare
le politiche economiche e fiscali. Occorrono strumenti comunitari per affrontare i problemi
del debito. La mutualizzazione del debito tra i paesi membri: i cosiddetti eurobond
ossia immissioni obbligazionarie comuni può essere una soluzione e su questo infatti il
gruppo S&D ne ha fatto una battaglia. Va rivista anche l’azione della Bce che deve diventare
a tutti gli effetti, un prestatore di ultima istanza ossia un garante della stabilità economica
dell’area euro cosi come lo è la FED per gli Stati uniti.
Come ha più volte detto Jacques Delors, ex presidente della Commissione europea, gli
europei erano ben consci del fatto che la moneta unica rappresentava un salto di qualità un
passaggio determinante per le economie dei singoli Paesi membri. E’ mancata la
cooperazione che era e rimane l'anello mancante, che spiega in gran parte la crisi dell'euro.
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Il passaggio alla moneta unica non è stato accompagnato dalla creazione di un soggetto
politico europeo responsabile della sua gestione ed il suo successo non poteva dipendere solo
dalle regole definite dal Trattato, ma anche dalla volontà e dalla capacità dei governi di
indirizzare le proprie politiche verso la convergenza. L’UEM doveva camminare su due
gambe: la banca centrale indipendente, e la cooperazione efficace tra i paesi membri, questi i
motivi che spinsero Jacques Delors nel 1997 a lanciare un patto di coordinamento delle
politiche economiche, una proposta che rimase inascoltata dai governi degli Stati membri.
Si è di fronte ad un bivi adesso che si potrà superare solo con la presa d’atto della necessità di
rivedere il ruolo della BCE e della politica economica europea. Occorrerà una responsabilità
morale e politica per riemergere e uscire dalla crisi.
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Conclusioni
Attualmente il quadro generale non è certamente uno dei più rosei, se l’economia interna non
riprende vigore e gli investitori stranieri non ritornano ad avere fiducia nella tenuta del paese
l’euroscetticismo sarà sempre più diffuso. Appare semmai necessario trovare i rimedi giusti
perché l’Unione Europea possa rappresentare il volano per lo sviluppo dell’intera area. Certo
non vi sono ricette miracolose, ma è necessario fare qualcosa per evitare la stagnazione. La
maggior parte degli economisti ritiene che al fine di superare gli ostacoli che ancora si
frappongono ad una piena espansione Europea è necessario:
1) Trasformare l’Unione Europea in una “transfer union” come gli Usa il cui governo
centrale si occupa di sostenere finanziariamente i singoli Stati;
2) assumere come obiettivo vincolante la riduzione del peso del debito pubblico
attraverso la crescita guidata della domanda interna e non attraverso i “sacrifici”
3) Trasformare la BCE in una vera Banca Centrale, con tutti i poteri e dovere che le altre
Banche Centrali hanno nel mondo a partire dalla possibilità di emettere moneta per
finanziare il debito pubblico, poter prestare direttamente agli Stati, fungere da
prestatore di ultima istanza per gli istituti di credito e investendola del dovere di
favorire la crescita e di controllare l’inflazione;
4) Rilanciare gli investimenti pubblici nella produzione di beni collettivi materiali e
immateriali (infrastrutture, ricerca, tutela ambientale, istruzione, salute) anche
utilizzando lo strumento degli Eurobond, cioè i “BOT europei”, cosi da condividere il
rischio del debito pubblico e avere una fonte di finanziamento diretto per i programmi
comunitari di sviluppo;
5) Istituire una vera imposta patrimoniale sia in funzione e redistributiva che allo scopo
di disincentivare la rendita e indurre invece gli investimenti;
6) Favorire chi ha maggiore propensione al consumo abbassando il carico fiscale sui
lavoratori e sul ceto medio;
7) istituire una vera tassa sulle transazioni finanziarie e valutarie sul modello proposto da
Keynes e James Tobin, una tassa che sia abbastanza elevata da sfavorire le transazioni
a breve termine (tendenzialmente speculative) e quindi incentivare gli investimenti a
più lunga scadenza;
8) favorire la centralizzazione dei capitali;
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9) ridare al settore pubblico un ruolo di peso nell’economia, bloccando le privatizzazioni
dei servizi pubblici, mettendo al centro l’interesse collettivo e usando le grandi
imprese nazionali ancora in mano pubblica come volani per lo sviluppo;
10) Aumentare considerevolmente la spesa pubblica in ricerca ,poiché il tessuto
economico di molti paesi è troppo frammentato in microimprese per potersi accollare
i costi necessari;
11) Usare la spesa pubblica per orientare la modernizzazione del sistema produttivo e la
sua indipendenza;
12) Combattere la precarietà cancellando molte delle forme contrattuali oggi vigenti e
favorendo la stabilizzazione dei rapporti di lavoro, sia attraverso un contratto di
inserimento fortemente orientato alla formazione sia attraverso carichi che rendano
antieconomico il ricorso ai contratti diversi dal tempo indeterminato;
13) rafforzare e tutelare il potere contrattuale dei lavoratori in modo che i salari tendano a
risalire per favorire la domanda interna e la crescita.
La ripresa economica del New Deal negli anni ‘30 in America, e le politiche di intervento
pubblico nell’economia e nel welfare in Europa, hanno assicurato decenni di prosperità e
crescita all’interno di un quadro di giustizia sociale. Gli anni ‘80 e ‘90 sono stati anni
all'insegna del laissez-faire e delle privatizzazioni. Non sorprende quindi che ai nostri giorni
vi siano drammatici problemi di disuguaglianza, fino ad arrivare alla recessione. Bisogna
quindi invertire la tendenza, tornando a ridare al pubblico un ruolo significativo
nell'economia non solo come regolatore, ma anche come propulsore.
A cura di Maria Rosaria Perrotta
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