Benedettelli/Radicati - L`Italia e l`arbitrato internazionale

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Benedettelli/Radicati - L`Italia e l`arbitrato internazionale
Opinioni
Arbitrato
Arbitrato internazionale
L’Italia e l’arbitrato internazionale (*)
di Massimo V. Benedettelli e Luca G. Radicati di Brozolo
Lo scritto si propone di fornire una ricognizione delle tematiche di fondo e delle tendenze dell’arbitrato internazionale e di studiarne il ruolo in rapporto alla situazione dell’Italia. Gli autori partono dalla constatazione
che, mentre l’arbitrato è anche per gli operatori italiani il mezzo di soluzione delle controversie privilegiato in
ambito internazionale, il più delle volte il diritto italiano ha scarsa o nulla applicazione in relazione all’arbitrato. In questa prospettiva il lavoro fornisce una chiave di lettura dei problemi legati all’esistenza di una pluralità di leggi e di fori atti ad impattare sulle diverse questioni legate ad un arbitrato internazionale. Vengono
esaminati anche il ruolo dell’autonomia delle parti e i legami con il diritto statale, l’impatto della scelta della
sede dell’arbitrato, la progressiva liberalizzazione della materia, la concorrenza fra sistemi giuridici, il ruolo
delle diverse fonti nazionali ed internazionali, l’emergere di una disciplina ormai “transnazionale” dell’arbitrato. Le considerazioni conclusive valutano le prospettive di evoluzione della cultura dell’arbitrato internazionale in Italia ed i riflessi sulla collocazione dell’Italia nel panorama internazionale, con una considerazione
anche sui rapporti con l’arbitrato interno.
L’importanza e le problematiche
dell’arbitrato commerciale internazionale
L’arbitrato è il mezzo di soluzione delle controversie
più frequentemente convenuto, ed utilizzato, nel
commercio internazionale. Anche le imprese italiane lo prevedono, e vi fanno frequentemente ricorso,
nei loro rapporti con controparti straniere. Dalle
statistiche emerge che le società italiane sono al
quarto posto nella classifica per nazionalità delle
parti degli arbitrati svolti sotto l’egida della Camera
di Commercio Internazionale e che più del 20% degli arbitrati amministrati dalla Camera Arbitrale di
Milano coinvolge parti straniere
L’arbitrato volto a risolvere le controversie relative a
tali rapporti è qualificato come «internazionale», o
più propriamente come arbitrato commerciale internazionale. Quest’ultima locuzione mira a distinguere l’arbitrato tra soggetti privati (o tra soggetti privati da un lato e Stati esteri, organizzazioni internazionali o entità statali agenti iure privatorum dall’altro)
dall’arbitrato internazionale in senso stretto, vale a
dire l’arbitrato nel quale le parti sono esclusivamente Stati o altri soggetti di diritto internazionale e che
è regolato dal diritto internazionale pubblico. L’arbitrato internazionale così inteso pone problemi di
natura assai diversa rispetto all’arbitrato commerciale internazionale, il quale è nondimeno spesso designato anche come arbitrato internazionale tout court
(e in questo senso il termine verrà utilizzato nel prosieguo di queste pagine).
Malgrado l’importanza che l’arbitrato ha acquisito
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nei rapporti internazionali, assai di frequente la
complessità e la specificità dei problemi ad esso
connessi non vengono adeguatamente percepite,
specie dai pratici. Ciò può naturalmente essere
fonte quanto meno di sorprese, quando non addirittura di risultati indesiderati. Alla luce di ciò le
molteplici fonti dell’arbitrato, e le relazioni tra di
esse intercorrenti, richiedono di essere conosciute
con precisione da chi si interessa a questa materia.
All’analisi sistematica di tale materiale è dedicata
la parte relativa all’arbitrato internazionale del
Commentario dalla cui introduzione sono tratte
queste pagine.
Caratteri distintivi e problematiche
dell’arbitrato internazionale: pluralità
di leggi applicabili e di ordinamenti
competenti, diverse prospettive dalle quali
può essere considerato
Da un punto di vista concettuale, della loro funzione e del loro funzionamento, arbitrato interno ed arbitrato internazionale sono identici. In entrambi i
Nota:
(*) Questo scritto riproduce, con taluni adattamenti, l’Introduzione alla Parte II (Arbitrato internazionale) del Commentario breve
al diritto dell’arbitrato nazionale ed internazionale diretto da Benedettelli, Consolo e Radicati di Brozolo, Padova, 2010. A tale
Parte II, organizzata come una sorta di «codificazione» delle diverse fonti - convenzionali, legislative, regolamentari - che disciplinano i diversi aspetti dell’arbitrato internazionale, si rinvia per
un’analisi approfondita di tutte le questioni qui evocate, oltre che
per i necessari riferimenti.
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casi si tratta evidentemente di un meccanismo per la
soluzione delle controversie fondato sull’autonomia
delle parti. L’arbitrato internazionale solleva quindi,
in pratica, tutti ed i medesimi problemi che si pongono in relazione a quello interno (in punto per
esempio di validità ed efficacia della convenzione
arbitrale, costituzione dell’organo arbitrale, disciplina della procedura, pronuncia ed effetti del lodo, rimedi esperibili contro quest’ultimo).
L’arbitrato internazionale si differenzia tuttavia
per una ragione di fondo, perché presenta, in atto
o in potenza, contatti con una pluralità di ordinamenti, e ciò in virtù di fattori vari quali: la cittadinanza, la residenza o il domicilio delle parti persone fisiche, la nazionalità, la sede legale o la sede
amministrativa delle parti persone giuridiche, la
cittadinanza, la residenza o il domicilio degli arbitri, la sede legale o amministrativa dell’istituzione
eventualmente chiamata ad amministrare la procedura, il luogo in cui ha “sede” l’arbitrato, gli elementi del rapporto litigioso sottostante quali il
luogo di esecuzione delle prestazioni contrattuali o
il luogo in cui si è prodotto l’evento dannoso, la
legge applicabile al merito della controversia, la
legge applicabile alla procedura, e così via. A ben
guardare, anche un arbitrato all’origine puramente
interno, svolgentesi quindi come fenomeno giuridico in seno ad un unico ordinamento, può in seguito acquisire risvolti di internazionalità, in particolare se si presenta la necessità o l’opportunità
di riconoscere o eseguire all’estero il lodo cui esso
dà luogo o di ottenere all’estero misure cautelari o
istruttorie.
L’assenza di un collegamento della fattispecie arbitrale ad un singolo ordinamento, capace di porsi come parametro unico per la soluzione di qualsiasi
questione, e di converso il suo collegamento con
una pluralità di Stati e di leggi, solleva dunque una
serie di problemi ulteriori rispetto a quelli che si
pongono per l’arbitrato interno, ma soprattutto richiede un approccio notevolmente diverso alla loro
soluzione.
Quanto meno in astratto, infatti, diverse leggi possono avere titolo per applicarsi, sia con riguardo ad
aspetti diversi di un medesimo arbitrato, sia addirittura per la soluzione di una medesima questione specifica. Sotto il primo profilo, per esempio, la legge
regolatrice della clausola compromissoria può essere
diversa da quella applicabile al merito o alle questioni di procedura o all’impugnazione del lodo. Sotto il
secondo profilo, la convenzione arbitrale potrebbe
per esempio essere valutata sulla base della legge
della sede dell’arbitrato, della legge regolatrice del
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contratto cui afferisce, di una diversa legge scelta
dalla parti per regolare il negozio compromissorio,
della lex fori del tribunale nazionale di fronte a cui
ne viene eccepita l’inefficacia. La presenza di elementi di collegamento a più Stati comporta altresì
l’esistenza di una pluralità di fori nazionali almeno
in linea teorica competenti ad intervenire nelle diverse vicende dell’arbitrato (per esempio, nella valutazione di validità ed effetti della convenzione arbitrale ed eventualmente, in caso di giudizio negativo su questa questione, nell’esercizio della giurisdizione sulla controversia; nella nomina o sostituzione
dei membri del collegio; nell’emanazione di misure
cautelari; nell’assistenza all’istruttoria; nell’impugnazione del lodo; nell’attribuzione di efficacia al lodo).
Le fonti dell’arbitrato: il rapporto tra
ordinamenti statali e autonomia privata
In presenza di ciascuna di queste situazioni - che in
gergo internazionalistico si definiscono conflitti di
leggi e di giurisdizioni - sorge la questione di individuare la legge (o le leggi) ad esse applicabili ed il foro (o i fori) competenti a dirimerle.
Parallelamente sorge però spesso anche la questione del ruolo dell’autonomia delle parti. Degli effetti di quest’ultima si può discutere in primo luogo per individuare, analogamente a quanto avviene per l’arbitrato interno, i limiti entro cui le parti sono libere di disciplinare i singoli aspetti della
procedura (per esempio, le modalità di nomina e
di sostituzione degli arbitri, la limitazione o l’ampliamento dei mezzi di impugnazione, il regolamento processuale). Se ne può discutere anche e
soprattutto per verificare in che misura l’autonomia delle parti possa influenzare la determinazione
della legge regolatrice di ciascuna delle distinte
questioni appena accennate, o addirittura eliminare qualsiasi ruolo delle leggi e delle corti statali.
In effetti, in ambito internazionale uno degli
obiettivi del ricorso all’arbitrato può essere anche
quello di isolare da ogni interferenza statale il rapporto sottostante ed il meccanismo di soluzione
delle controversie. In altri termini può avvenire
che si miri ad escludere sia le legislazioni nazionali, viste come poco idonee a disciplinare questo tipo di rapporto che spesso presenta peculiarità assai
diverse da quelli interni, sia, ancor più, le corti
statali. Queste sono in effetti percepite come anch’esse troppo legate alla particolarità di un singolo ordinamento (per esempio per l’applicazione di
regole di procedura troppo poco attagliate alle esigenze di un contenzioso veramente internaziona-
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le), e soprattutto come non sufficientemente indipendenti dalle parti in causa.
A questo proposito esiste un dibattito, particolarmente acceso alcuni decenni addietro, circa il rapporto tra arbitrato internazionale e diritti nazionali.
Si discute, cioè, se l’arbitrato abbia sempre e necessariamente un ancoraggio in un sistema statale - in
altri termini, se esso sottostia sempre ai diritti nazionali, con le inevitabili limitazioni più o meno accentuate all’autonomia delle parti - ovvero se esso
sia o si possa ritenere in qualche modo svincolato da
tutti gli ordinamenti nazionali, potendosi parlare
quindi di un arbitrato floating o sans loi. Si tratta, peraltro, di un dibattito che non ha parallelo con riguardo all’arbitrato interno.
Non è questa la sede per approfondire il tema. Basti
accennare che oggi si tende a ritenere abbastanza
diffusamente che l’arbitrato non può prescindere interamente dagli ordinamenti statali. L’intervento di
questi rimane di fatto indispensabile quando è richiesto un intervento coercitivo (ad esempio, in caso di mancata esecuzione spontanea del lodo) o
quando l’autonomia delle parti è insufficiente ad assicurare il corretto funzionamento della procedura
(ad esempio, in caso di défaillance dei meccanismi
per la nomina o la sostituzione dei membri del collegio previsti dalle parti o di lacuna della disciplina
prevista delle parti che esige il ricorso a norme statali suppletive). Peraltro, gli ordinamenti statali
possono poi all’occasione limitare la libertà delle
parti di configurare a proprio piacimento la disciplina dell’arbitrato (un esempio per tutti l’art. 809
c.p.c. che dispone a pena di nullità che il numero
degli arbitri deve essere dispari) o intervenire sull’efficacia del lodo, procedendo al suo annullamento ad
esito di una sua eventuale impugnazione o negando
allo stesso riconoscimento ed esecuzione.
La circostanza, innegabile, che all’atto pratico l’incidenza degli ordinamenti statali sulla disciplina dell’istituto si è oggi molto affievolita per effetto del ruolo sempre più ampio da essi riconosciuto all’autonomia delle
parti, non deve insomma far perdere di vista il ruolo del
diritto statale e indurre a credere (o ad illudersi) che
l’arbitrato possa prescinderne quasi totalmente. D’altro
canto, ad un livello più strettamente teorico, va rilevato che i poteri di autonomia abbisognano di un ordinamento (di almeno un ordinamento) che dia agli stessi
garanzia, e tale ordinamento è nella maggior parte dei
casi un ordinamento statale (1).
lativo ad un arbitrato internazionale deve quindi essere in grado di districarsi fra le molteplici fonti normative atte ad influire, in un modo o nell’altro, sulla soluzione del problema stesso, nonché di identificare i tribunali che potrebbero favorire, o di converso ostacolare, il raggiungimento dell’obiettivo di
volta in volta perseguito.
Le norme possono provenire da una varietà di fonti.
Per prime, per il motivo indicato poc’anzi, vanno
considerate quelle statali. Ciascun ordinamento nazionale contiene una propria disciplina dell’arbitrato che è, almeno in astratto, in grado di fornire una
cornice esaustiva di tale istituto. Per non citarne
che alcuni, in Italia si tratta del Libro IV, Titolo VIII
del codice di procedura civile (artt. 806-840); in
Francia degli artt.1442 ss. del code de procedure civile;
in Svizzera degli artt. 176-194 della legge federale
sul diritto internazionale privato; in Inghilterra dell’Arbitration Act 1996. Tali legislazioni possono prevedere una disciplina differenziata per l’arbitrato interno e per l’arbitrato da esse qualificato come internazionale (in base a nozioni che peraltro spesso non
esauriscono tutte le ipotesi di arbitrato con elementi di estraneità rispetto al paese in questione), come
è il caso per esempio della Svizzera e della Francia e
come avveniva in Italia fino all’ultima novella del
2006, ovvero possono dettare un’unica disciplina
applicabile all’arbitrato sia interno, sia internazionale (secondo il modello, oggi recepito anche in Italia, dell’Arbitration Act 1996 e di diverse altre legislazioni).
Quanto meno secondo la tesi tradizionale, che appare ancor oggi la più realistica, ciascun procedimento
arbitrale trova il proprio fondamento ed inquadramento, nei termini sopra indicati, in un ordinamento statale determinato, che ne costituisce la lex arbitri. Il collegamento tra un singolo arbitrato e la rispettiva lex arbitri è, secondo la tesi oggi predominante, determinato dal luogo in cui le parti hanno
stabilito, espressamente o implicitamente, la sede
dell’arbitrato stesso. Tale scelta, di solito effettuata
con riferimento ad una città, va in realtà intesa come criterio, eminentemente giuridico, di collegamento della procedura al relativo ordinamento statale. Potrà infatti darsi il caso che in tale città, e in
tale Stato, non si svolga alcuna attività processuale
(udienze, conferenze personali degli arbitri, pronunNota:
Il ruolo della lex arbitri e la «nazionalità»
dell’arbitrato
Chi si trova ad affrontare un qualsiasi problema re-
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(1) Cfr. BenedettellI, Ordinamento comunitario e arbitrato commerciale internazionale: favor, ostilità o indifferenza?, in Boschiero, Bertoli (a cura di), Verso un “ordine comunitario” del
processo civile, Napoli, 2008, 111 ss., e 124.
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zia del lodo), e che essi non presentino alcun contatto con la controversia o con la procedura. Ciò
non inciderà però minimamente sulla scelta operata
dalle parti di esercitare i propri poteri di autonomia
compromissoria in seno all’ordinamento prescelto.
In termini concreti, quindi, se un arbitrato ha la
propria sede per esempio a Lugano o a Ginevra, ciò
ne comporta la sottoposizione alla disciplina dell’arbitrato svizzera (con tutte le sue norme imperative e
suppletive) ed alla competenza dei tribunali svizzeri
per gli interventi di supporto della procedura e per le
impugnazioni; se ha sede a Parigi si applicheranno le
corrispondenti norme francesi sull’arbitrato e sussisterà la competenza dei tribunali francesi, e così via.
Conseguenza di questo collegamento del singolo arbitrato all’ordinamento giuridico della lex arbitri è
che, in un certo senso, ogni arbitrato viene ad avere
una propria «nazionalità». Ciò fa venire in rilievo
una distinzione ulteriore rispetto a quella tra arbitrato interno ed arbitrato internazionale ricordata sopra. Si tratta della distinzione tra arbitrato «domestico» e arbitrato «estero», una distinzione evidentemente soggettiva, che dipende dalla prospettiva dalla quale si guarda ad una data procedura arbitrale.
Per arbitrato domestico si intende quello regolato
dalla legge del paese nella cui prospettiva ci si pone
(vale a dire la lex fori), mentre per arbitrato estero si
intende quello regolato da una legge diversa. Per
l’ordinamento italiano è quindi domestico l’arbitrato con sede in Italia e disciplinato dagli articoli 806
ss. c.p.c. (in linea di principio, salve cioè deroghe
operate dalle parti nella convenzione arbitrale alla
parte suppletiva di tale disciplina), mentre è estero
quello con sede in un paese diverso dall’Italia e disciplinato dalla legge di tale paese. Di converso, l’arbitrato «italiano» è evidentemente «straniero» nella prospettiva di tutti gli altri paesi.
La «liberalizzazione» dell’arbitrato
internazionale e la concorrenza fra «piazze
di arbitrato»
Le singole discipline nazionali dell’arbitrato possono differenziarsi in misura maggiore o minore le une
rispetto alle altre, ed in particolare possono essere
più o meno rigide o, di converso, liberali. E in effetti un tempo le differenze tra le diverse legislazioni in
materia erano significative, essendo molte di esse
caratterizzate da particolarità assai marcate, e prevaleva una tendenza ad una considerevole rigidità (nel
senso di una scarsa apertura all’autonomia negoziale) nonché, alla base, ad uno scarso favor per l’arbitrato. Si pensi, per esempio, per restare all’Italia, al
divieto di clausola compromissoria per arbitrato
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estero, previsto dall’abrogato art. 2 c.p.c. (e già sostanzialmente eliminato dall’adesione italiana alla
Convenzione di New York del 1958), o al requisito
che gli arbitri avessero nazionalità italiana previsto
dall’art. 812, c. 1 c.p.c. modificato con la novella del
1983, o all’annullabilità del lodo per errore di diritto, eliminata (e a quel tempo soltanto per l’arbitrato
internazionale) solo nel 1994.
All’origine, quindi, il diritto nazionale poteva in
molte situazioni concrete, in particolare quelle internazionali, inibire del tutto il ricorso alla soluzione
arbitrale, e comunque la sottoposizione ad una lex
arbitri piuttosto che ad un’altra poteva comportare
differenze estremamente significative nella disciplina del singolo arbitrato.
Con il tempo la situazione si è profondamente modificata, per effetto dell’affermarsi di una maggiore
apertura anche in questo campo verso i valori dell’autonomia privata e dell’abbandono di approcci di
autarchia giuridica.
Il contributo forse più determinante alla liberalizzazione del sistema, e dunque anche al successo dell’arbitrato internazionale, è venuto dalla Convenzione di New York del 10 giugno 1958 sul riconoscimento e
l’esecuzione delle sentenze arbitrali straniere. Come noto, questo è uno dei trattati internazionali di maggiore successo fra quelli che incidono sui rapporti
privati transnazionali, essendo oggi in vigore fra oltre 140 Stati. In sostanza, la Convenzione impone
due obblighi agli Stati contraenti, quello di dare effetto alle convenzioni arbitrali e quello di dare riconoscimento ed esecuzione ai lodi stranieri, o comunque non emanati sotto la propria legislazione.
In tal modo l’arbitrato è venuto a beneficiare di un
trattamento di gran lunga più favorevole dei procedimenti di fronte alle giurisdizioni nazionali, dato
che (se si eccettua la disciplina comunitaria del Regolamento (CE) 44/2003) non esiste a tutt’oggi a livello multilaterale una convenzione che prescriva
l’obbligo di dare effetto alle clausole di elezione del
foro e di riconoscere le sentenze straniere (la Convenzione dell’Aja del 30 giugno 2005 sulle clausole
di elezione del foro non è ancora in vigore, avendo
ricevuto una sola ratifica).
L’effetto pratico della Convenzione di New York è
stata una sostanziale equiparazione dell’arbitrato
estero all’arbitrato nazionale, con la possibilità per i
soggetti privati di ricorrere liberamente all’arbitrato
estero con la relativa tranquillità di vedersene riconoscere il prodotto ovunque nel mondo, ivi compreso nel proprio paese. Ciò ha indotto una potente
concorrenza tra i singoli sistemi di arbitrato internazionale. Fin da quasi subito dopo l’entrata in vigore
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della Convenzione - in omaggio a genuine esigenze
di favorire l’autonomia delle parti e di facilitare ed
incoraggiare il ricorso all’arbitrato, visto come strumento di promozione del commercio internazionale, ma anche in risposta a più egoistici e mercantilistici obiettivi di promuoversi come sedi di arbitrati
internazionali - taluni paesi, in primis la Francia e la
Svizzera, si sono dotati di legislazioni liberali e moderne in materia, le quali sono poi state applicate in
maniera creativa dalle rispettive giurisprudenze. Ciò
ha naturalmente finito per attrarre verso tali paesi le
parti desiderose di disciplinare i propri arbitrati secondo i canoni dell’efficienza e della libertà, sfuggendo alle eccessive interferenze e limitazioni che
ancora caratterizzavano gli altri ordinamenti. L’influenza benefica di questi esempi ha poco alla volta
stimolato molti altri paesi a seguirne le tracce modernizzando e liberalizzando le rispettive normative.
È così che anche l’Italia ha proceduto a successive
riforme della propria legislazione con le novelle del
1983, 1994 e 2006.
La libertà di scelta del regime dell’arbitrato
Il risultato di questa evoluzione è che oggi chi prende in considerazione il ricorso all’arbitrato nei rapporti internazionali ha in sostanza la possibilità di
scegliere la legge ed il sistema di corti nazionali che
daranno ad esso disciplina. La scelta avviene in concreto tramite la designazione della sede dell’arbitrato. In merito a questa le parti godono oggi di una liberta pressoché totale, visto che quasi tutti gli Stati
accettano di garantire tale aspetto dell’autonomia
privata, assoggettando alla propria legge gli arbitrati
“localizzati” sul loro territorio. Data l’ampiezza di
questa libertà, e il fatto che, come già si notava, la
designazione della sede non comporta in concreto
altra conseguenza se non quella di rendere competente la legge ed i tribunali del paese in cui essa si
colloca, la «sede dell’arbitrato» viene ad essere in
sostanza una finzione. Essa è infatti un modo indiretto per fare dipendere la lex arbitri in ultima istanza dalla volontà delle parti. In altri termini, la sede
funge da criterio di collegamento affidato all’autonomia delle parti tra il singolo arbitrato e la rispettiva legge regolatrice.
L’assoggettamento ad una determinata lex arbitri - la
quale, per quanto importante, non assume peraltro
un ruolo paragonabile alla lex fori per un tribunale
nazionale - non esclude in particolare che la disciplina di singole questioni rilevanti per l’arbitrato vada desunta da altre leggi. Tra queste assumono particolare rilievo la legge regolatrice del rapporto che si
instaura tra le parti e gli arbitri (nonché l’eventuale
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istituzione che amministra l’arbitrato); la legge del
luogo di esecuzione del lodo; le leggi regolatrici delle diverse questioni di merito (che non si esauriscono necessariamente in quella che disciplina il contratto); la legge del luogo delle misure cautelari, la
legge regolatrice della convenzione arbitrale; la legge di eventuali Stati davanti ai cui giudici la parte
intenzionata a contestare la convenzione arbitrale
decidesse di instaurare un procedimento.
Convergenze e divergenze fra normative
nazionali in tema di arbitrato
Proprio perché determina la lex arbitri, la designazione della sede è gravida di implicazioni e, se non
soppesata con cura, può comportare conseguenze
impreviste e non necessariamente favorevoli.
È vero che, con il tempo, si è giunti nei diversi ordinamenti ad una larga convergenza di soluzioni su
molte questioni cruciali e anche più di dettaglio in
tema di disciplina dell’arbitrato: l’ampliamento della sfera dell’arbitrabilità, il riconoscimento del potere degli arbitri di valutare la propria competenza (il
c.d. principio Kompetenz-Kompetenz), l’autonomia
della clausola compromissoria dal contratto in cui è
inserita, la libertà delle parti di determinare le regole di procedura e di scegliere la legge applicabile al
merito, e così via. Quasi dappertutto vi sono state
ampie aperture in favore dell’autonomia delle parti
che consente a queste, a prescindere dalla lex arbitri
applicabile, di modellare la disciplina dell’arbitrato
in larga parte a loro piacimento. Il distacco dalle interferenze statali è ulteriormente facilitato dalla presenza di istituzioni private sempre più sofisticate ed
attrezzate per risolvere gran parte dei problemi atti a
porsi in concreto, e sotto l’egida delle quali, in virtù
dell’autonomia loro riconosciuta, le parti possono
fare svolgere i propri arbitrati.
Nondimeno, permangono tra i diversi ordinamenti
differenze talvolta non trascurabili, nelle soluzioni
date a singoli problemi, nel ruolo lasciato all’autonomia delle parti, nei motivi di impugnazione, nei
regimi processuali delle impugnazioni (per esempio,
in Inghilterra l’impugnazione del lodo può comportare tre gradi di giudizio davanti alle corti locali, in
Svizzera è previsto un solo grado di giurisdizione,
mentre nella maggior parte degli altri paesi, Italia
compresa, ne sono previsti due), nei rapporti tra annullamento del lodo nello Stato della sede e suo riconoscimento in un altro Stato (per esempio, in
Francia l’intervenuto annullamento del lodo in uno
Stato straniero non è di per sé motivo ostativo al suo
riconoscimento nel foro), negli approcci della giurisprudenza e nell’atteggiamento delle corti.
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Tutto ciò continua a rendere molto rilevante la scelta della lex arbitri, dalla quale può dipendere in maniera talvolta determinante la sorte dell’arbitrato.
Ne consegue che la designazione della sede, da cui
essa dipende, va valutata con estrema cura avuto riguardo alle implicazioni giuridiche, e non - come
talvolta ancora avviene - sulla base di semplici considerazioni logistiche (o, peggio ancora, turistiche)
nell’errata convinzione che la sede sia il luogo in cui
si tengono le udienze o si espletano le altre incombenze dell’arbitrato.
L’Italia, il diritto italiano e l’arbitrato
internazionale
Le implicazioni di tutto ciò per quanto concerne in
particolare l’Italia e l’ordinamento italiano sono abbastanza evidenti. A prescindere dal collegamento
del rapporto sottostante con l’Italia, per esempio a
causa della nazionalità, del domicilio o della sede
italiani di una delle parti o dell’esecuzione delle prestazioni in Italia, la legislazione italiana in materia
di arbitrato (gli artt. 806 ss. c.p.c. commentati nella
prima parte di quest’opera) sarà applicabile ad un
determinato arbitrato soltanto se questo ha “sede”
in Italia, vale a dire se le parti si sono accordate in
questo senso. Ove così non sia, il diritto italiano diventa sostanzialmente irrilevante per l’arbitrato in
questione, se non eventualmente all’atto della richiesta di riconoscimento o esecuzione in Italia, tematiche peraltro in gran parte disciplinate dalla
Convenzione di New York.
Proprio per ciò è indispensabile una chiara comprensione della prospettiva internazionalistica dell’arbitrato internazionale. Si è infatti costretti a constatare che nella prassi, anche dei rapporti che coinvolgono gli operatori italiani, solo raramente l’Italia
è designata come sede di arbitrati internazionali.
Ciò è frutto di una varietà di fattori, tra cui il fatto
che per troppo tempo la legislazione italiana in materia di arbitrato è stata molto conservatrice e poco
liberale ed aperta alle istanze del commercio internazionale, e che la giurisprudenza ha mantenuto anch’essa un approccio relativamente poco comprensivo di tali istanze, persistendo in atteggiamenti provinciali scarsamente comprensibili agli operatori
stranieri. A ciò si aggiungono le resistenze legate alla lingua ed alla scarsa appetibilità per il contenzioso internazionale del «sistema paese» Italia, i cui organi giudiziari non vengono, a ragione o a torto, visti come particolarmente efficaci per gli interventi
in relazione alle procedure arbitrali internazionali.
Né si può dire che la recente novella abbia fatto
molto per dissipare questo retaggio negativo e per
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sforzarsi di rendere l’Italia una sede più attraente per
gli arbitrati internazionali. Il legislatore, infatti, pur
avendo deciso di estendere alcune soluzioni della
previgente disciplina dell’arbitrato internazionale
all’arbitrato interno, ha però poi sostanzialmente
trascurato la specifica problematica dell’arbitrato internazionale, persistendo nel rifiuto di ispirarsi ai
migliori esempi stranieri tra cui la Legge Modello dell’Uncitral sull’arbitrato commerciale internazionale,.
Tutto ciò comporta quindi che in una grande maggioranza dei casi gli operatori italiani si troveranno
ad arbitrare in un ordinamento straniero ed a doversi porre in maniera particolarmente accentuata i
problemi di scelta della sede, di coordinamento tra
fonti di diversa provenienza e di conoscenza di quelle legislazioni, regolamenti e prassi giudiziali e arbitrali straniere.
Le fonti dell’arbitrato internazionale
diverse dal diritto statale: le convenzioni
internazionali
Pur se fondamentali, nel senso finora chiarito, le legislazioni statali non sono come si è detto l’unica
fonte della disciplina dell’arbitrato internazionale.
Le convenzioni internazionali svolgono anch’esse
un ruolo non secondario. Quella senz’altro di gran
lunga più importante è la già ricordata Convenzione
di New York. È vero che essa disciplina solo due problemi - che si collocano logicamente all’inizio ed alla fine della vicenda arbitrale, ossia la deroga alla
giurisdizione statale e il riconoscimento del lodo all’estero - lasciando fuori tutte le questioni squisitamente relative allo svolgimento dell’arbitrato in
senso proprio e alle impugnazioni. Le due questioni
trattate sono tuttavia centrali per la disciplina della
vicenda arbitrale, e come si è detto le norme a tal fine dettate dalla Convenzione sono state determinanti per l’intero sviluppo del fenomeno dell’arbitrato internazionale negli ultimi decenni. Senza
contare che la Convenzione e la sua prassi applicativa esercitano influenze che vanno ben oltre: si pensi per esempio che le soluzioni sviluppate in tema di
motivi di rifiuto di riconoscimento ed esecuzione ai
sensi del suo art. V fungono molto spesso da modello per l’interpretazione dei corrispondenti motivi di
annullamento previsti dalle legislazioni statali,
conformemente peraltro a quanto previsto dalla
Legge Modello dell’Uncitral.
Segue: i regolamenti delle istituzioni
arbitrali, la giurisprudenza, la prassi,
le codificazioni delle prassi, la dottrina
Ugualmente importanti sono i regolamenti arbitrali
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i quali svolgono un ruolo determinante in un gran
numero di arbitrati. Le istituzioni arbitrali che amministrano buona parte di tali regolamenti, come la
Camera di Commercio Internazionale, forse la più
nota a livello internazionale, e la Camera Arbitrale
Nazionale ed Internazionale di Milano, per citarne
una italiana di particolare successo, hanno acquistato un peso importante nel mondo dell’arbitrato internazionale per la loro autorevolezza e per il loro
contributo significativo all’efficienza delle procedure. Esse contribuiscono al buon funzionamento degli
arbitrati che si svolgono sotto la loro egida, e l’insieme dei loro regolamenti e delle loro prassi costituisce un corpus di regole di estrema importanza dal
quale non si può prescindere, spesso neppure quando gli arbitrati si svolgono fuori da un contesto organizzato.
Importantissime sono, infine, la giurisprudenza e la
prassi. Ormai esiste una giurisprudenza estremamente abbondante e molto ben documentata delle corti
di un gran numero di paesi, basata in gran parte sulle rispettive leggi nazionali ma anche sulla Convenzione di New York e sulle altre convenzioni internazionali, oltre che sui regolamenti degli organismi arbitrali, la quale è fonte di ispirazione per la soluzione
degli svariati problemi che si pongono in concreto.
Lo stesso dicasi della prassi dei tribunali arbitrali e
delle istituzioni arbitrali che, seppur non sempre
pubblicata in modo puntuale, è comunque nota attraverso le divulgazioni e gli studi dottrinali. A ciò si
aggiungono le regole, le raccomandazioni, i rapporti
elaborati da diverse organizzazioni professionali o
scientifiche (come l’International Bar Association, cui
si devono per esempio importanti regole in materia
di assunzione delle prove e di conflitti di interesse, o
l’International Law Association) che vengono citate
ed applicate con frequenza nella prassi.
È inutile dire che un contributo sostanziale alla conoscenza ed all’elaborazione della prassi e delle regole è fornito dalla dottrina. Oggi esiste anche una
dovizia di manuali e pubblicazioni monografiche e
periodiche che analizzano e rendono conto delle diverse problematiche e commentano regolarmente
tutte le novità legislative e giurisprudenziali, da cui
è possibile acquisire una ricostruzione sistematica
dei singoli istituti e delle tendenze evolutive.
L’armonizzazione progressiva
delle prassi arbitrali: lex mercatoria
arbitralis e «principi generali dell’arbitrato
internazionale»?
Da tutte queste fonti è ormai possibile ricavare un
complesso alquanto articolato di regole e di principi
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relativi ad una molteplicità di aspetti dell’arbitrato,
i quali presentano una notevole uniformità a livello
internazionale.
Questi potrebbero forse essere visti come embrione
di una lex mercatoria arbitralis, vale a dire il pendant
per l’arbitrato di quella lex mercatoria, o diritto commerciale transnazionale, che costituisce il corpo di
regole uniformi che si affiancano ai diritti statali e
che disciplinano con modalità diverse molti aspetti
di importanti categorie di rapporti commerciali internazionali. Allo stesso modo, il corpus di regole e
di principi di provenienza eterogenea in materia di
arbitrato è una fonte cui i tribunali arbitrali, ed anche gli stessi tribunali nazionali chiamati ad occuparsi di arbitrato, possono attingere, ed in concreto
attingono con modalità diverse, per trovare ispirazione o addirittura vere e proprie regole per la soluzione del caso concreto, quanto meno in tutte quelle situazioni in cui non esistono norme imperative di
un qualche ordinamento applicabili al caso specifico. Non è del resto infrequente, anche nella giurisprudenza, il riferimento a “principi generali dell’arbitrato” che trascendono le culture giuridiche ed il
diritto positivo dei singoli ordinamenti.
Regole di questo tipo sono utili per fornire soluzioni
relativamente prevedibili ed uniformi, ed in linea
con le aspettative dei pratici, alle singole questioni
che di volta in volta si pongono. In effetti il rovescio
della medaglia dell’autonomia delle parti sempre più
riconosciuta in questa materia è l’incertezza che può
aversi quando le parti non hanno adeguatamente disciplinato ex ante le diverse situazioni atte a venire
in rilievo per la soluzione della loro controversia. Infatti, in un contesto internazionale il ricorso alle
norme suppletive fornite dalle singole legislazioni
nazionali, e che andrebbero ricercate di volta in volta principalmente nella lex arbitri, spesso non è la soluzione ottimale.
Esempi di regole e prassi che tendono ad una certa
uniformità sono quelle in tema di interpretazione ed
effetti della convenzione arbitrale, di vari aspetti
della procedura, di interpretazione di taluni motivi
di impugnazione, e così via. A fronte di tale innegabile importante convergenza permangono anche naturalmente, in alcuni paesi o aree geografiche e in
settori non marginali, disparità di disciplina e di
prassi. Tra l’altro, tali disparità si verificano anche in
relazione ad alcune materie che sono oggetto di armonizzazione, se è vero, per esempio, che alcuni
Stati che hanno negli ultimi anni assunto ruoli primari nel commercio internazionale continuano ad
interpretare in modo molto restrittivo i motivi di
opposizione al riconoscimento ed esecuzione dei lo-
il Corriere giuridico 1/2011
Opinioni
Arbitrato
di stranieri previsti dall’art. V della Convenzione di
New York.
Evoluzione e sviluppi del diritto
dell’arbitrato internazionale
Come naturale, la disciplina di questa variegata materia è in continua evoluzione. Pertanto, a fianco di
sviluppi che tendono a facilitare il ricorso all’arbitrato ed a renderlo più attraente, vi sono anche evoluzioni forse meno positive. Tra queste viene spesso
messa in evidenza una sua crescente «proceduralizzazione» e conflittualità, evidenziata anche dall’uso
sempre più frequente dei tentativi di ricusazione degli arbitri, che contribuiscono inevitabilmente ad
accrescere i costi e la durata dei procedimenti, facendo venire meno in parte i vantaggi originari di
questa forma di soluzione delle controversie.
Tra le evoluzioni si deve evidentemente segnalare
quella forse più significativa, vale a dire l’emergere
in maniera prepotente dell’arbitrato in materia di
investimenti. Si tratta dell’arbitrato tra i soggetti
che effettuano investimenti in paesi stranieri e gli
Stati ospiti o loro emanazioni, il quale si fonda sulla
rete di migliaia di trattati bilaterali o multilaterali in
materia oggi in vigore. La vera potenzialità di questo
tipo di arbitrato come forma di protezione degli investimenti esteri è stata scoperta solo negli ultimi
lustri e ciò ha dato vita ad una prassi ormai molto
ricca. Tali arbitrati, che presentano particolarità
marcate rispetto all’arbitrato commerciale tradizionale, si svolgono principalmente sotto l’egida dell’International Center for the Settlement of Investment
Disputes (ICSID) previsto dalla Convenzione di
Washington del 18 marzo 1965. Questo strumento,
a lungo rimasto quasi dormiente, ha ricevuto impulso decisivo alla fine degli anni novanta, anche per
effetto di taluni procedimenti molto pubblicizzati
coinvolgenti imprese italiane. Ormai non passa quasi settimana senza che venga reso un lodo in materia
di investimenti, non più soltanto ai sensi della Convenzione di Washington, ma in misura crescente anche ad hoc o in base a regolamenti delle istituzioni
arbitrali. Questa giurisprudenza, che a differenza di
quella dell’arbitrato commerciale classico è per la
maggior parte pubblica, offre spunti di estremo interesse non solo sulle questioni di merito (che esulano
dall’oggetto di questa opera), ma anche su quelle di
procedura che sono per la maggior parte trasponibili all’arbitrato commerciale, e fornisce quindi un
contributo importante allo studio della materia.
Considerazioni conclusive
L’arbitrato internazionale presenta dunque una serie
il Corriere giuridico 1/2011
di caratteristiche particolari che richiedono di essere ben conosciute e comprese da chiunque si trovi
confrontato con la materia, in veste di pratico o di
teorico. In Italia questi tratti distintivi - e più in generale gli sviluppi della legislazione, della prassi e
del dibattito internazionale sull’arbitrato - non sono
sempre abbastanza messi a fuoco, come dimostra anche la recente novella che ha mancato di cogliere
alcuni punti importanti (2). Tale situazione, palese
indice fra l’altro della carenza di dialogo costruttivo
tra studiosi dell’arbitrato interno e dell’arbitrato internazionale (cui mira a porre un primo rimedio il
citato Commentario breve sull’arbitrato nazionale e internazionale), ha come conseguenza una insufficiente apertura dell’Italia alle prospettive del mondo
esterno che si riflette in una perdurante marginalizzazione del mondo arbitrale italiano. Ciò va naturalmente a discapito anche in questo campo del «sistema Paese» e del ruolo dell’Italia nei rapporti internazionali. Da questo non si può non essere colpiti in
modo particolarmente negativo in un momento storico in cui una cultura moderna dell’arbitrato sta
avanzando rapidamente in molti paesi stranieri, ivi
compresi molti che anche solo fino a pochissimo
tempo fa erano fortemente ostili a questo istituto. La
mente corre ai paesi dell’America Latina, e per primo al Brasile che nel giro di poco più di un decennio
è passato da un bando quasi completo dell’arbitrato
ad un’accettazione molto ampia, le cui ricadute sono
visibili in contesti diversi.
L’auspicio è quindi anche che una maggiore conoscenza del diritto comparato dell’arbitrato internazionale e delle particolarità di questo istituto, invero
oggetto di crescente attenzione da parte anche dei
pratici, contribuisca a dinamizzare e modernizzare
l’arbitrato internazionale in Italia. Ciò consentirà
all’Italia di essere pienamente alla pari con gli altri
paesi con cui si vuole rapportare sul piano internazionale. Una maggiore diffusione della cultura dell’arbitrato internazionale potrebbe a sua volta avere
ricadute positive anche sull’arbitrato interno, il quale può sicuramente beneficiare assai dell’iniezione di
modernità derivante da una maggiore osmosi con le
tecniche e gli approcci dell’arbitrato internazionale.
Nota:
(2) Sia consentito un unico riferimento per più ampi sviluppi a Radicati di Brozolo, Requiem per il regime dualista dell’arbitrato internazionale in Italia? riflessioni sull’ultima riforma, in corso di
pubblicazione in Riv. dir. proc., 2010.
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