Pearl Jam OnLine

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Pearl Jam OnLine
BEFORE HIS FIRST STEP,
HE’S OFF AGAIN
Dieci giorni di luglio in giro per l’Europa con i Pearl Jam
[Matteo Lunelli]
Viaggiare veramente significa non avere la minima idea di che giorno
sia. Significa svegliarsi una giorno a Stoccolma, quello dopo a Oslo e
quello dopo ancora vedere l'alba guidando in un punto non definibile
tra Copenaghen e Amburgo.
Viaggiare rock significa aspettare fino alle 3.20 sul marciapiede del
Forum di Copenaghen, con la maglietta ancora sudata e con troppo poche
sigarette in tasca. Ma significa anche ritrovarsi davanti Eddie Vedder,
stringergli la mano e in uno stentato ed emozionato inglese
ringraziarlo.
Banale e semplice, ma straordinariamente vero e intenso. Come
viaggiare, come viaggiare rock, come ascoltare i Pearl Jam
INTRODUZIONE
Mare, montagna, villaggi vacanze, città, musei, relax, zaino in spalla, compagnie
oceaniche o solitudine. Ci sono tantissimi modi per trascorrere le vacanze estive,
tutti belli e legittimi. Ma cʼè anche chi decide di dedicarle ad una rock band. Non
solo un semplice gruppo, per chi li ama e li segue: i Pearl Jam rappresentano per i
fan molto di più. Basta fermarsi dieci minuti alla coda fuori dai cancelli di un loro
qualsiasi concerto. Si vedranno ragazze e ragazzi di ogni età, di ogni estrazione
sociale, di ogni nazionalità, ognuno con storie e vite diverse. Molti avranno sul
proprio corpo una loro frase o un loro logo, per segnare indelebilmente un amore.
Molti avranno addosso una loro maglietta.
Tutti hanno in testa i loro versi, le loro frasi, che hanno aiutato le persone a
descrivere un momento particolare della loro vita: canzoni di pura rabbia, canzoni
politiche, canzoni dʼamore e di amicizia. Tutti, poi, conoscono la loro storia. Tutti
sanno che se per caso suoneranno una dopo lʼaltra, in sequenza, Alive, Once e
Footsteps allora quello sarà un momento incredibile. Tutti sanno che se faranno
Crown of Thorns probabilmente i ragazzi della band con un dito al cielo
ricorderanno il loro amico Andy. Tutti sanno che quando partiranno le prime note di
Yellow Ledbetter allora vorrà dire che lo show sta per finire. Addirittura molti sanno,
a seconda delle chitarre che vengono imbracciate, la canzone che stanno per
suonare. Per chi non li ama o non li conosce, probabilmente, tutto ciò può
sembrare molto adolescenziale. In parte, ma solo in una piccolissima parte, hanno
ragione. In verità, tutto ciò, è stupendo. È stupendo sapere che sette mesi fa, a
dicembre, migliaia di quei ragazzi ritrovatisi poi a luglio si sono connessi e hanno
fatto una corsa allʼultimo F5 per portarsi a casa i biglietti. È stupendo sapere che
tutti i presenti hanno chiesto ferie o organizzato la propria estate sulla base delle
date degli show. È stupendo sapere che tutti sono tornati a casa e in ufficio molto
più stanchi rispetto a quando sono partiti. Ma con un sorriso, un carico di emozioni
che ha ripagato di tutti gli sforzi.
Queste poche pagine, di stomaco e di cuore più che di cervello, sono per tutti loro.
Per ragazze e ragazzi che hanno viaggiato da ogni angolo del mondo, speso soldi
ed energie, per i Pearl Jam.
IL TOUR 2012
20 e 21 Giugno Manchester, U.K. - MEN Arena
23 Giugno Isle Of Wight, U.K. - Isle Of Wight Festival
26 e 27 Giugno Amsterdam, Olanda - Ziggo Dome
29 Giugno Werchter, Belgio - Werchter Festival
30 Giugno Arras, Francia - Main Square Festival
2 Luglio Praga, Repubblica Ceca, O2 Arena
4 e 5 Luglio Berlino, Germania - 02 Arena
7 Luglio Stoccolma, Svezia - Ericsson Globe Arena
9 Luglio Oslo, Norvegia - Spektrum
10 Luglio Copenhagen, Danimarca - Forum
LʼORGANIZZAZIONE
A dicembre anche io, o meglio Iaia, ero connesso. Prima un biglietto, poi un altro,
poi un altro ancora. Il piano si stava realizzando: Berlino, Stoccolma, Oslo e
Copenaghen, quattro show per una vacanza allʼinsegna del rock. Poi un messaggio
dʼerrore, un altro ancora, il carrello che si svuota. Nervosismo e parolacce. Un altro
tentativo. Errore. Parolacce che diventano bestemmie, nervosismo che diventa
isteria. Errore, errore, errore.
Un respiro profondo, un rapido summit per decidere una nuova strategia dʼacquisto,
e ci si riprova. Alla fine i biglietti sono nel cassetto. Il pagamento è avvenuto con
successo. Penso che il rock stia diventando sempre più un affare da nerd
smanettoni e pirati informatici che non da cappelloni, ma tantʼè: i biglietti ci sono, il
viaggio può iniziare. Un mese più tardi vengono aggiunte due date: Berlino 2 e
Praga. Non si può dire di no, e anche questi due biglietti sono nel carrello.
Ora si tratta di spiegare il tutto ad amici e parenti, che con lʼarrivo della primavera,
chiacchierando, tirano fuori la domanda: «Ma questʼestate cosa farete?». Per alcuni
capire la risposta vera sarebbe quasi impossibile, quindi ci si limita ad un generico
«Mah, credo faremo un giro in nord Europa, in un poʼ di capitali scandinave, per
stare al fresco. Ci sono anche dei concerti, ma vedremo...». Con altri, consci della
malattia, si può essere sinceri: «Tour con i Pearl Jam a luglio: 10 giorni, 6 concerti,
5 capitali». Persone che mi conoscono e mi vogliono bene e quindi, pur magari non
capendo del tutto, mi assecondano con un «Figo».
Man mano che luglio si avvicina si procede con lʼorganizzazione. Oddio, in realtà si
dovrebbe procedere con lʼorganizzazione. Dieci giorni prima della partenza non
abbiamo la minima idea di come arriveremo a Praga, di come ci sposteremo da
una capitale allʼaltra, di come rientreremo a Trento da Copenaghen. Alcuni
romanticamente potrebbero definirlo «spirito rock» o «spirito on the road», ma
molto più banalmente si tratta di pigrizia. Alla fine, visti i prezzi dei voli, la scelta è
quella più rock: si fa tutto via terra, macchina e treno. Un rapido calcolo e alla fine
saranno 5.000 chilometri. Niente male.
IL TOUR
La cosa più straordinaria dei concerti sono le persone. Come in tutti gli aspetti della
vita sono loro a fare la differenza. La band può essere in grande forma, la set list
può essere grandiosa, ma è sempre il pubblico, e quindi le persone, a fare la
differenza. E ai concerti dei Pearl Jam, ci si può mettere la mano sul fuoco, il
pubblico è in grado di dare quel valore aggiunto allo show. Se poi si ha la fortuna di
conoscere e parlare con una parte dei fan, si capisce il perché.
In una situazione normale, di quotidianità nella propria città, nel proprio ufficio, in un
bar o in un ristorante, quando si incontrano delle persone le prime due domande,
per rompere il ghiaccio e iniziare a conoscersi, sono sempre «Come ti chiami?» e
«Cosa fai nella vita?», dandosi la mano per stabilire un minimo contatto fisico che
avvicina. Ai concerti, in coda o ammassati davanti alle transenne, le prime
domande sono «Da dove vieni?» e «Quante date hai fatto e farai?». E non cʼè
alcuna necessita di stringersi la mano, perché di lì a breve il contatto fisico sarà
molto più vero e intenso, ci si proteggerà a vicenda, ci si terrà per mano per fare
una coreografia su un determinato pezzo, magari ci si abbraccerà alla fine per
ringraziarsi. A me, e a tutti, di sapere come ti chiami e che lavoro fai, non me ne
frega nulla. Soprattutto della seconda.
Tra fan dei Pearl Jam ci si riconosce al volo: in giro per Stoccolma, ma anche nelle
altre città, sono stato salutato e ho salutato decine di ragazzi, per il semplice fatto
che indossavamo una maglietta dei nostri. Come i motociclisti o i camperisti che si
incrociano sulla statale.
Spesso, in coda, ci si trova a parlare in inglese con delle persone. Poi, venti minuti
dopo, si vede la persona con cui si è parlato che urla allʼamico: «Aò, pijame da bere
anche per me». Vabbè, si pensa, almeno ho fatto un poʼ di esercizio nel parlare la
lingua della Regina.
Personalmente sono sono mai stato particolarmente orgoglioso di essere italiano. Il
patriottismo è un sentimento che non mi appartiene e, se non per alcuni aspetti,
non sono molto proud della mia nazione. Sarà che sono nato e cresciuto in un
territorio di confine, sarà che amo tantissimo gli argentini e cileni, così come
lʼeducazione scandinava, la parlata inglese, il “take it easy” spagnolo e il rispetto
americano. Sarà per questo, ma il tricolore italiano non lo sento particolarmente.
Tuttavia, nel tour, lʼorgoglio italiano si sente. Bandiere che spuntano come funghi,
Eddie Vedder che le riconosce e ringrazia, e che saluta dal palco di Berlino anche
con un «Vaffanculo», ridendo.
Il primo vero approccio con le persone, quelle che fanno i concerti, è a Berlino. A
Praga, infatti, vedo lo show dallʼalto: niente calca e sudore, niente plettri o
necessità di bere. Il concerto è ottimo e la band in grande forma: Sometimes come
opener è grandiosa, Setting Forth, Not For You, Push Me Pull Me, Garden e 1/2
Full nella parte centrale della scaletta sono unʼemozione, e il primo encore è
particolarmente ispirato.
Dalla Repubblica Ceca si prende il treno e si va in Germania. Nemmeno il tempo di
farsi una doccia in ostello che arriva lʼsms. «La band è al Ritz». La mia professione
mi insegnerebbe a dover verificare le fonti della notizia, ma, per dirla con Vedder,
«Vaffanculo». Gli italiani che scrivono hanno le proprie fonti, non verificabili ma
evidentemente attendibili, e quindi si fa un salto. In serata, da un dei van nero/grigi
che diventeranno poi una sorta di ossessione, esce Eddie Vedder. Da altre fonti, in
questo caso verificabili, avevamo saputo che era stato al museo dedicato ai
Ramones ed ora stava tornando in hotel. Il nostro, camicia nera e inseparabile
cappellino, si ferma qualche secondo. Indica la mia maglietta, che lo ritrae in
posizione da surfista, e mima, in pratica, sé stesso. «See you tomorrow Ed», e ce
ne andiamo per una passeggiata notturna in giro per Berlino. Prima del rientro in
ostello un salto alla O2 Arena è dʼobbligo. E lì ecco una tenda, sacchi a pelo, birre e
acqua e una ventina di persone. La coda per la transenna è partita, una ventina
dʼore prima dellʼinizio del concerto. Italiani, polacchi, australiani tutti insieme, ad
attendere. Qualche ora dopo ci sono già cento persone: numero scritto a penna
sulla mano, bermuda, occhiaie, zaino pieno di acqua e cibo, bandiera in tasca e tshirt dei PJ. Ci si siede per terra e si aspetta. Una sigaretta e due chiacchiere.
Unʼaltra sigaretta e un pezzo di cartone che diventa la richiesta di una canzone. Il
sole batte in testa, le bandiere diventano unʼimprovvisata tettoia per creare un poʼ
dʼombra, gli sbadigli lasciano posto ai sorrisi quando si incontra qualche persona
che non si vedeva da anni, magari dal tour 2006. E il discorso finisce subito lì:
quanti show hai visto? Cʼeri al PJ20? Verrai a Stoccolma? La solidarietà da
marciapiede non manca, e quando qualcuno si alza chiede a tutti gli sconosciuti
vicini se serve acqua o «something to eat».
Lentamente si avvicina lʼora. La gente si alza, si fuma lʼultima, si svuotano gli zaini
e si estrae il biglietto. La raccomandazioni della security sono sempre le stesse:
«Non correre». Beh, non correre non vuol dire non camminare molto velocemente,
e quindi si vola alla transenna. In cinque secondi bisogna valutare dove si è messa
la gente già entrata, capire dove si sono piazzati gli energumeni di due metri,
decidere se stare davanti a Eddie, anche in terza o quarta fila, o se lato Mike o lato
Stone, o se pur di avere la transenna di è disposti a defilarsi un poʼ lateralmente.
Cinque secondi che decideranno le tre o quattro ore successive. A Berlino 1
optiamo per la transenna, lato Mike, anche se leggermente defilati. Si attende e poi
ecco gli X. Destino ingrato quello dei gruppi spalla, ma guardando John Doe si
capisce perfettamente il significato della frase «dare tutto su un palco». Gli X
ringraziano, si dicono onorati di far parte di questa celebrazione. E mai termine fu
più azzeccato. Spesso nel descrivere i concerti si usa la metafora della messa
laica, con i musicisti nel ruolo dei sacerdoti: forse non è unʼimmagine molto
originale, ma di certo si avvicina parecchio alla realtà.
Da quando gli X scendono dal palco tutto si accelera. Il tempo di un lungo respiro e
si va da Long Road a Indifference. In mezzo lʼhappy birthday cantato alla mamma
di Mike, con 18.000 voci che rendono omaggio allʼemozionata signora, e una Baba
con il figlio di Matt alla chitarra.
Ma Baba è anche la canzone dei tamburelli. Eddie ne regala quattro, e il primo è
per Iaia. Appena Ed smette di cantare e la band inizia a jammare, tiro fuori il mio
iPhone e imposto su video. So che qualcosa sta per succedere. Eddie va verso
Mike e schiaccio start. Si avvicina, si china e passa il tamburello a Iaia.
Finisce il concerto. E con la coda dellʼocchio vedo il gruppo di italiani che si lancia
fuori dal palazzetto. Una pipì incredibile? Una fame lancinante? Assolutamente no:
ci si rimette in coda davanti alla porta laterale, perché tra meno di 24 ore ci sarà un
altro show. Pazzie da Pearl Jam. La stanchezza è già dimenticata, lʼadrenalina è in
circolo, negli occhi e nelle orecchie ci sono ancora frammenti di un grande show, e
tutti sanno che il day two, probabilmente, sarà ancora migliore. Si inizia a scrivere
la lista. Una lista molto diversa da quella cantata da Paolo Rossi. In questa ci sono
solo nomi di persone che amano la musica, e non è vero che il numero 5 ama di
più del 157. Si tratta di un modo, probabilmente lʼunico, per mettere un poʼ dʼordine
e di regole nellʼamore per i PJ. Perché anche se in amore vale tutto, in transenna
delle regole devono esistere. Dove ci sono regole ci sono anche discussioni, ma
questo fa parte del gioco, e le poche ore di sonno, oltre ai sentimenti e alla voglia di
emozioni che accecano, non aiutano. Ma la cosa bella è che il confronto, anche se
vivace, anche se fa bestemmiare, serve sempre: e quindi se i fan sono una grande
famiglia e un grande gruppo, è normale che ci siano degli scontri verbali.
Passano le ore e ci si ritrova punto e a capo. Stesso marciapiede, stesse facce,
stessi occhi stanchi, stessa voglia che arrivino presto, di nuovo, le 21. Il mio amico
canadese si lascia andare nei ragionamenti: Berlino, il muro, the wall, Pink Floyd,
Mother. Suona strano ma non impossibile.
Guardo i visi delle persone. Cerco di capire le loro storie, la loro vita, i loro sogni.
Ma è impossibile. Bermuda e maglietta dei PJ, tatuaggi e All Star, bottiglia dʼacqua
e pseudo panino con gommoso formaggio Lidl. Sembriamo tutti uguali. Tutti
parliamo la stessa lingua, lʼinglese, per essere ancora più uguali. Tutti sappiamo dei
Mookie Blaylock o di Into The Wild o del morbo di Crohn, ma chissà cosa sanno
quei ragazzi laggiù. Chissà se cʼè un giornalista o un medico, un pubblicitario o un
operaio, un farmacista o un manager. Chissà se quella ragazza seduta lì è felice o
se cerca la felicità nel concerto. Chissà se quel tipo che dorme per terra ha un
lavoro o se ha chiesto un prestito per essere qui. Chissà se dovessi incontrare in
unʼaltra situazione la ragazza che mi offre un biscotto e sarebbe disposta ad
aiutarmi. Ho idealizzato quei cinque ragazzi sul palco, perché quindi non dovrei
idealizzare anche i loro fan? Tuttavia una cosa esiste: lʼegoismo dal fan. A volte non
si vorrebbe, non si è lucidi, ma è evidente come, in molti casi, lʼegoismo da
concerto emerga. Ed è per questo, mi dico, che alla prima occasione possibile,
dimostrerò a me stesso che io non ho lʼegoismo da concerto. Lʼoccasione si
presenterà a Oslo, ma ne parleremo più tardi.
Ora torniamo a Berlino 2: sono le 18 e si entra. Terza fila, davanti a Eddie, ben
sapendo che sarà durissima. Ecco gli X, e ogni giorno che passa mi piacciono
sempre di più. Mentre scrivo canticchio Devil Doll e Poor Girl, non Hail Hail o Down:
un poʼ mi preoccupa ma so che passerà e che tanto smetto quando voglio.
Arrivano i ragazzi e attaccano Oceans. Poi ecco i pezzi tirati, da Breakerfall a Not 4
You e la mia fronte fa concorrenza a quella di John Doe. La band è in grande
forma, Eddie molto comunicativo: quando si è davanti a lui non si riesce a togliergli
gli occhi di dosso. Mike può inventarsi di tutto, lʼonda può sballottarti di qua e di là,
corpi che sudano birra possono passarti sopra la testa, ma gli occhi sono tutti per
lui. Anche quando si mette in disparte per un assolo o una jam. Find my singer
magnetically.
Mike attacca Yellow Ledbetter e anche Berlino inizia a diventare un ricordo. Yellow
Ledbetter è una canzone incredibile. Mettetevi nei suoi panni, in quelli della
canzone intendo. Lei sa benissimo che, se arriverà, arriverà per ultima. O al
massimo per penultima. Sa che, quando verrà suonata, non ci saranno giochi di
luci, ma tutto il palazzetto sarà illuminato a giorno. La gente sarà stanca e sudata,
e, anche se la accoglierà con un boato, sarà un poʼ triste perché tutti sanno che
tutto sta per finire. Non ci saranno giochi di mani, battiti ritmati o coreografie.
Mentre la suonano, nella parte finale, gran parte della band sarà dietro gli
amplificatori ad asciugarsi il sudore e bere una birra. Il suo testo tutte le volte
cambia, e nessuno ha ancora capito di cosa parli esattamente, anche se alcune
interpretazioni sono certamente intriganti. Ma, cambiando ogni volta, è difficilissimo
riuscire a cantarla. La sua musica tutte le volte cambia, e molto spesso i riff inseriti
sono quelli di altre canzoni, come se lei, da sola, non potesse esistere. Eʼ stata una
delle prime canzoni scritte dai PJ, ma non è stata inserita in nessun album ufficiale,
solo in live o raccolte. Insomma, un brutto destino per questa canzone: non può
essere cantata, rende tristi i fan, quattro quinti del gruppo la ascoltano
distrattamente e non la suonano. Pensate quanto YL può invidiare una Corduroy,
che rappresenta spesso lʼinizio dei balli, o una Betterman, che viene cantata dal
pubblico e jammata dalla band. Un triste destino, e per questo la amo e la rispetto
particolarmente.
Da Berlino a Stoccolma: sveglia alle 6 dopo qualche ora di meritato sonno e pronti
per 12 ore di treno. Si arriva in fretta ad Amburgo, un caffè e una sigaretta, e poi via
a Copenaghen. Nave sul traghetto, iPod nelle orecchie e Evolution da rileggere.
Fuori dal finestrino il verde di boschi e prati, il rosso delle sporadiche casette e
lʼazzurro di un cielo che pare essere più vicino alla terra.
Passeggiando per Stoccolma si respira benessere. La città è bella, pulita, curata e
ordinata. I pescatori pescano - e fin qui tutto logico - in pieno centro storico e nel
porto - e questo è molto scandinavo e “green” -. Ma veniamo a noi: i Pearl Jam
stanno al Grand Hotel e a confermarcelo è una risposta negativa di un ragazzo
della sicurezza. Lo stalkeraggio alle rock star, imparo, si basa sullʼinterpretazione di
segnali e parole, sullʼosservazione dei movimenti e sullʼanalisi delle certezze e delle
possibilità. Bella frase, ma in realtà è una cazzata. Lo stalkeraggio si basa sulla
pazienza. E, in assoluto, è una cosa negativa e da non fare. Ce lo hanno chiesto
proprio i PJ nei loro testi. Ma anche loro sanno che una stretta di mano costa poco
a loro e significa tanto per noi. Ecco quindi che la firma di Stone, la foto con Mike e
la stretta di mano a Jeff, oltre a qualche rapido ringraziamento, significano qualcosa
per me anche se sono costati qualcosa alla loro privacy.
Al Palazzetto arriviamo senza fretta: i posti sono a sedere e quindi ci si evita la
coda in cambio di un poʼ di turismo. E ascoltare un concerto dallʼalto, di tanto in
tanto, non è male. Il day off ha permesso alla band di ricaricare le pile e la set list è
spettacolare. Durante Do The Evolution, nella miglior versione dei concerti visti,
ecco lʼimmagine dei Pearl Jam. Vi spiego. Se vi chiedessero di descrivere i PJ con
una fotografia, quale scegliereste? Il salto di Jeff, Ed e Mike? Mike che fa lʼassolo a
occhi chiusi? Eddie che balla su Given to Fly? Eddie che sembra quasi mangiarsi il
microfono e canta con i denti digrignati e lo sguardo feroce? No. Io scelgo
lʼimmagine di Jeff e Stone che si avvicinano a Matt, con Mike che li raggiunge poco
dopo, e suonano, concentrati sui propri strumenti ma sorridendosi a vicenda. Eddie,
un poʼ defilato, si gusta la musica tenendo in una mano la bottiglia e con lʼaltra
battendo il tempo sulla coscia, guardando con un occhio i compagni e con lʼaltro i
fan che saltano e tengono il ritmo con le mani. Questi, per me, sono i PJ. Questo è
il rock. Questa è la magia. Questo momento è lʼeucarestia della celebrazione.
Alle 3.40 si va a dormire, con la luce nel cielo, che confonde il bioritmo, e con la
musica nelle orecchie, che rimette a posto il bioritmo.
Qualche ora di sonno e si torna in strada. La old blue car che we use to race è una
Ford Fiesta color oro. Nella radio risuona Into The Wild e il paesaggio intorno si
sposa alla perfezione con le acustiche note di Eddie. Arriviamo ad Oslo e ad
attenderci ci sono prezzi stellari e una pioggerellina inglese. Allo Spektrum una
ventina di ragazzi sono già in coda: dopo la parentesi borghese di Stoccolma si
torna sul marciapiede. Unica differenza, bibite e cibo ridotte al minimo
indispensabile, visto che i prezzi ci ricordano che viviamo in un Paese in crisi.
La star assoluta della coda a Oslo è la ragazza norvegese invitata a salire sul palco
a Stoccolma. Le leggende sul suo conto si sprecano: Mike le ha regalato una
chitarra; salirà sul palco anche oggi; Eddie la porterà alle Hawaii. E qui subentra un
altro interessante elemento sociologico delle code da concerto rock. Dopo
lʼegoismo, di cui abbiamo già parlato, ecco lʼinvidia. In questo caso le distinzioni
non sono in base alle persone o alla nazionalità, ma in base al genere. Per tutte le
ragazze, che la guardano storto, lei è «la puttana che è salita sul palco». Per tutti i
maschi, che la guardano perché è carina, lei è «quella che è salita sul palco,
andiamo a conoscerla». Quando, attendendo rispettosamente il momento giusto otto giorni di stalkeraggio alle star aiutano a individuarlo -, le parlo, si rivela una
ragazzina timida e in gamba. Le leggende sul suo conto e su fantomatici regali si
rivelano naturalmente false. Anche se, ammette, Eddie le ha regalato due biglietti
per stare a lato del palco a Copenaghen. Però non li sfrutterà: non ha soldi, ha
problemi sul lavoro e anche quando le offro un passaggio gratuito per la
Danimarca, pur tentennando, rifiuta. Sul perché sia stata scelta per salire sul palco
il mistero resta. Lei dice che semplicemente lʼha chiamata Eddie, forse perché ha
ballato e cantato scatenata tutto il tempo, unica ragazza in terza o quarta fila in
mezzo a energumeni sudati. Smentite, quindi, le malelingue tipiche da «invidia
femminile da coda» che lʼavrebbero vista fare gesti inequivocabili con promesse
sessuali alla band.
Ad Oslo siamo davanti a Mike. Ottima posizione e il concerto parte subito alla
grande con Long Road, Hail Hail e Low Light. Eddie è un poʼ malato, ma tiene
botta. Alla fine della set list Iaia lancia sul palco il suo cappello verde, Eddie lo
indossa e saluta il pubblico. Stare davanti a Mike è sinonimo di plettri a go go e a
metà del primo encore me ne capita uno tra le mani. Ecco il momento giusto per
mettere da parte lʼegoismo da concerto, del quale abbiamo parlato prima. Ho visto
che Iaia almeno uno lo ha, e allora mi giro dai due ragazzi dietro di me. Chiedo se
hanno preso qualche plettro e sconsolati, tra un fuck e lʼaltro, mi dicono di no.
Tendo la mano verso quella di uno dei due, quello che mi ha risposto, e gli passo il
triangolino di plastica. Non gli dico nulla, gli faccio cenno di sì con la testa e alzo il
pollice dellʼaltra mano verso lʼalto. Lui lo guarda, lo gira un paio di volte e per le tre
canzoni successive continua a battermi sulla spalla in segno di ringraziamento. Alla
fine dellʼencore mi stringe la mano e mi dice che sono una grande persona e che
mi augura di vivere una vita ricca di gioia e felicità. Gli strizzo lʼocchio e sono felice.
Più di lui, credo.
Finisce lo show, Matt lancia le bacchette e il polsino a Iaia: il bottino da concerto
diventa sempre più ricco. Ricordi che staranno poi in qualche cassetto, ma che in
quel momento rappresentano tanto. Aspettiamo i ragazzi allʼuscita, tanto dormire è
ormai un optional.
Eddie esce e assicura Iaia che ha conservato in valigia il cappellino verde e ci dà
appuntamento al giorno successivo, non prima di beccarsi i cori “Forza Roma alè”
avendo indossato il polsino giallorosso lanciato da un fan, il romanissimo Er Tibbia.
Ripenso al saluto di Eddie e ricordo che il giorno successivo ci sarà un altro show.
Lʼultimo.
La Fiesta oro ci attende, fiordi, ponti, pioggia e alberi ci fanno compagnia e si arriva
a Copenaghen. La Danimarca, quando si parla di concerti dei PJ, è un argomento
un poʼ tabù. Anche a poche ore dallʼinizio del concerto non si sente alcun fan fare
qualche tipo di riferimento a quanto accaduto dodici anni e dieci giorni fa. Cʼè una
sorta di rispettoso silenzio al riguardo, un tacito accordo che impone di pensarci ma
di non parlarne. Anche la band non ne parla sul palco, ma ci pensa: ci pensa
regalando una versione da brividi di Love Boat Captain. Eddie canta ad occhi chiusi
i primi versi, con dolcezza, per poi sfogare la rabbia sulla chitarra nella parte
strumentale. A fine pezzo mi accorgo che il mio volto è bagnato, ma non di sudore.
Lʼattacco immediato di Corduroy mi aiuta a non pensarci troppo e il concerto
riparte. Eddie è distrutto, con poca voce e malato: lascia spesso la scena al
pubblico e alla band, ma non molla di un centimetro. Come un calciatore con i
crampi, che però non vuole abbandonare la squadra. Inizia Yellow Ledbetter, e
questa volta rappresenta una doppia fine. Guardo il palco vuoto e penso che è
sempre uguale: a pochi metri, allʼesterno, ci sono città e nazioni e culture e persone
diverse, ma quel palco ogni sera è sempre uguale. Estraniante ma romantico.
Prima di salire in macchina e puntare in direzione Italia, decidiamo di aspettare la
band. Lʼ1, le 2, le 3, Eddie è dentro e noi aspettiamo. La ventina non mi ripara
abbastanza dal freddo, ma non si molla. Restano una quindicina di irriducibili e alle
3.30 la pazienza è premiata. Jesse, che mi pare sia il nome della bodyguard di
Eddie, ci dice che il nostro sta per uscire e si fermerà a salutarci. Promessa
mantenuta, e di lì a pochissimo mi ritrovo Eddie davanti. Gli stringo la mano e
balbetto dei ringraziamenti. “Grazie per la tua musica, grazie per questo tour: è
stato duro per voi e per te, ma anche per noi che abbiamo macinato chilometri.
Grazie”. Lui mi risponde, ma non ascolto la risposta: sto già pensando ad un
eventuale complicatissimo e lunghissimo discorso da fargli. Non è una situazione
facile: io lo conosco, so moltissime cose di lui e della sua vita, mentre lui si ritrova
davanti questo ragazzo e lʼunica cosa che sa è che ascolto i Pearl Jam e ho atteso
ore solo per stringergli la mano. Capisco che non posso conquistarmi la sua stima
in un minuto o comunque farmi conoscere da lui, raccontargli della mia vita, delle
mie passioni, del fatto che sono felice e fortunato. Chissà, magari un giorno tutto
questo accadrà, ma so che non sarà adesso, sul marciapiede davanti allʼuscita
laterale del Forum di Copenaghen. Però a dargli la mano e a ringraziarlo ci tenevo.
E lʼho fatto. Poi tocca a Iaia, ma sono talmente pieno di pensieri in testa che non
riesco a sentire quello che si dicono. Vedo che la abbraccia e sono felice, ancora
un pizzico di più.
Carichi di adrenalina in corpo saliamo in macchina: ci attendono una quindicina di
ore di guida, con gli occhi stanchi, il cervello pieno di immagini che sono già ricordi
e le gambe che fanno male. Ma stampato in faccia cʼè un sorriso mal celato. Un
sorriso che ripaga di tutta la fatica, dei chilometri, dei soldi spesi. Un sorriso che
non tutti capiscono, ma chi lo capisce sa perché è così bello e così ben stampato
sui nostri volti.