dispensa - Scienze Umane

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dispensa - Scienze Umane
Dipartimento di Filosofia, Pedagogia e Psicologia
CORSO di laurea
Scienze dell’Educazione
DISPENSA
di
PEDAGOGIA DELLA LETTURA
(6 cfu)
a cura della docente
Silvia Blezza Picherle
Selezione antologica su
Lettura e comprensione dei media
Anno Accademico 2013-2014
PREMESSA
Il Corso di Pedagogia della lettura è stato suddiviso in due moduli, uno riferito alla lettura dei libri e alla
promozione della lettura attraverso la Letteratura per l’infanzia (produzione e ambito di ricerca per una
fascia d’età-0-16/18, vedi www.raccontareancora.org) ed uno riferito alla lettura (e comprensione) dei
media, in particolare la Tv.
In questa dispensa sono stati scelti passi antologici che riguardano la “lettura e la comprensione
critica dei media”. A tale proposito di parla di un settore specifico, la “Media Education”, ambito di
ricerca e attività educativa attiva all’estero già dagli anni ’80 del secolo scorso. Educare ai media è
diventata una vera necessità, direi un’emergenza educativa, in quanto sempre più i media alimentano
l’immaginario infantile e adulto, contribuendo a diffondere un’informazione carente e a volte distorta,
nonché modelli umani e valori che finiscono per essere assimilati e assunti inconsapevolmente,
attraverso programmi informativi, spot pubblicitari, serial. Attualmente in Italia la Media Education è
realizzata soprattutto in ambito scolastico ma, come è stato ribadito durante le lezioni, è necessario che
si attui anche in ambito extrascolastico, con bambini, giovani e adulti, in forma ludica e laboratoriale
(vedi il sito nazionale MED Media Education).
Per alcuni aspetti riguardanti i diversi processi implicati nella lettura dei media e le trasformazioni
cognitive che comportano si rimanda ai paragrafi 1.3, 1.4, 1.5, del testo d’esame: S. Blezza Picherle,
Formare lettori, promuovere la lettura, Franco Angeli, Milano 2013, da leggere assieme al volume di
Sartori ed a questa dispensa.
I passi antologici proposti di seguito intendono sollecitare una riflessione su problemi che a volte non
vengono colti o di cui non si è consapevoli, proprio perché la Tv, per la sua intrinseca “grammatica”,
non li rende evidenti. In questo contesto non si sono potute proporre, invece, strategie operative
concrete. Si rimandano quindi gli studenti ad un approfondimento degli aspetti più operativi della Media
Education.
Si consiglia di leggere la breve nota inserita tra parentesi perché spiega il senso del singolo testo e lo
correla agli altri volumi da portare all’esame.
La docente
Silvia Blezza Picherle
Verona, aprile 2014
MEDIA EDUCATION (di Len Masterman)
Tratto da: P. C. Rivoltella (a cura), A scuola di media. Educazione, media e democrazia
nell’Europa degli anni ’90, , La Scuola, Brescia 1997.
Nel mondo anglosassone, ma anche, in quello latino-americano la Media Education (o Media Literacy)
è un movimento politico oltre che pedagogico, che si è fatto carico della integrazione curricolare dei
media nella scuola (ma anche nell'extrascuola). Si potrebbe parlare di più tipi diversi di media
education:
a) educazione «con» i media: è la concezione strumentalista dei media che finisce per risolvere
l’intervento media-educativo nell’ambito della metodologia didattica e/o della tecnologia dell’istruzione
(usare i media per insegnare le discipline);
b) educazione «ai» media: è il senso specifico della media education, quello che coinvolge le diverse
agenzie educative riguardando la maturazione dei soggetti in età evolutiva; abilita l’utenza, soprattutto i
minori, ad un impatto ottimale con l’ambiente dei media. L’obiettivo principale è: accrescimento della
comprensione dei media, del modo in cui funzionano e di come rappresentano la «realtà», di come
queste loro rappresentazioni vengono interpretate e da chi;
c) educazione «per» i media: riguarda l’area della formazione professionale, e quindi dell'uso dei media
all'interno delle diverse professioni.
(Per gli educatori è importante, ai fini del discorso educativo svolto durante le lezioni, il punto b), in
quanto prevede un'educazione ai media nella scuola e nell'extrascuola, studiata e realizzata in
collaborazione sinergica da educatori, docenti ed operatori culturali [nota di S. Blezza Picherle]).
I Principi base della Media Education
1.1. Il concetto centrale ed unificante della Media Education è quello di rappresentazione.
I media non riflettono la realtà, ma la rappresentano. I media, cioè, sono sistemi simbolici o segnici.
Senza questo primo principio la Media Education non sarebbe concepibile. Se infatti i media fossero
come delle «finestre sul mondo», o semplicemente riflettessero la realtà, studiarli sarebbe superfluo
come studiare una lastra di vetro. Non studieremmo i media in sé e per sé, ma solo gli argomenti e i
contenuti che essi veicolano (per esempio, lo sport, la fiction, ecc.). Lo studio dei media deve essere
invece basato sull’assunto che essi non sono trasparenti, ma anzi sono capaci di modellare il contenuto
dandogli certe forme caratteristiche. Da qui l’idea che i media rappresentano la realtà e non la
riflettono.
1.2. Uno degli obiettivi fondamentali della Media Education è quello di smascherare la falsa
«naturalezza « dei media.
La Media Education sfida la «naturalezza» delle immagini mediali, rivelandone la natura di costrutto
attraverso lo studio: a) delle questioni relative alla produzione; b) delle questioni relative all’impatto
ideologico delle costruzioni mediali presentate come «buon senso»; c) delle diverse modalità con cui il
pubblico «legge» e reagisce dinanzi al contenuto mediale.
1.3. La Media Education è principalmente investigativa. Non cerca di imporre valori culturali
specifici.
Essa mira ad accrescere la comprensione dei modi in cui i media rappresentano la realtà. Il suo obiettivo
è quello di produrre cittadini ben informati che sappiano formulare i loro giudizi sulla base delle
informazioni disponibili. Nel caso dei giudizi di valore, essa cerca di incoraggiare gli studenti ad
esplorare l’insieme dei giudizi riguardanti un dato testo esaminandone le fonti e gli effetti. Non cerca di
imporre alcun preconcetto su ciò che costituisce televisione o cinema o giornali di qualità «buona» o «
scadente».
1.4. La Media Education si costruisce attorno ad alcuni concetti-chiave considerati come strumenti di
analisi e non come contenuto alternativo.
Esiste oggi in Europa un certo accordo su quelli che sono i concetti-chiave in base ai qua1i si cerca di
rendere l’investigazione testuale dei singoli media la più sistematica e rigorosa possibile. Tra essi
ricordiamo: denotazione e connotazione, genere, selezione, comunicazione non verbale, linguaggio
mediale, naturalismo e realismo, audience, istituzione, costruzione, mediazione, rappresentazione,
codece/codifica/decodifica, reorica, discorso, soggettività. È chiaro che questi concetti hanno gradi
diversi di complessità. Alcuni (selezione e costruzione, per esempio) possono essere facilmente
insegnati sia ai ragazzi che agli adulti, ma altri possono risultare più complicati. L’abilità nell’insegnare
i media sta proprio nella capacita di ridurre una tale complessità a forme più semplici (e tuttavia sempre
intellettualmente interessanti) adottando un curriculum a spirale.
1.5. La Media Education è un processo a lungo termine che dura tutta la vita.
Per la maggior parte dei bambini l’interesse per i media inizia molto tempo, prima che essi vadano a
scuola, e continua anche nella loro vita da adulti. Una Media education che non sappia tenere conto di
questo fatto è destinata a ridurre di molto le sue potenzialità. Pertanto, stimolare un alto grado di
motivazione e coinvolgimento da parte degli alunni, deve essere molto più che un auspicabile effetto di
un insegnamento efficace. Deve diventare un obiettivo primario. Se la Media education non riesce ad
essere un esperienza divertente ed appagante, oltre che istruttiva, gli alunni non trarranno alcun
incoraggiamento a continuare a studiare i media anche dopo aver varcato i cancelli della scuola.
1.6. La Media Education mira a raggiungere non solo la comprensione critica ma anche l’autonomia
critica
La Media education dovrebbe sviluppare negli alunni/fruitori una fiducia in se stessi e una maturità
critica tali da renderli capaci e disposti ad applicare il loro giudizio critico anche ai programmi televisivi
o agli articoli di giornale che si troveranno davanti in futuro. La prova del fuoco per valutare la riuscita
o meno di un programma di Media education è rappresentata dalla misura in cui gli alunni/fruitori
riescono ad esercitare il loro senso critico nei confronti dei media anche quando l’insegnante non è
presente. L’obiettivo primario di una Media education che si prolunga nel tempo non è semplicemente
quello di conseguire una consapevolezza ed una comprensione critica de media, ma anche
un’autonomia critica (…). Non è più sufficiente che gli alunni rielaborino o riproducano le idee e le
informazioni fornite loro dall’insegnante (come spesso fanno nelle altre lezioni). Ne è sufficiente che gli
insegnanti incoraggino gli alunni a sviluppare il loro senso critico in classe (sebbene questo rimanga di
importanza vitale): il compito veramente importante ed impegnativo per il media educator consiste nel
creare negli alunni sia la capacità che la volontà di continuare a farlo per il resto della loro vita.
1.7.L’efficacia della Media Education può essere valutata sulla base di due criteri generali.
a) la capacità degli alunni di applicare ciò che conoscono (le loro idee e principi critici) a situazioni
nuove; b) il grado di impegno, interesse e motivazione dimostrato.
1.8. La Media Education parte sempre dall’attualità.
La Media education cerca di illuminare le situazioni della vita quotidiana sfruttando l’interesse e
l’entusiasmo suscitato dagli eventi di attualità riportati dai media. Essa usa a scopo educativo la grande
quantità di materiali e di risorse offerta dai media. Sta proprio qui il piacere di insegnare ed imparare sui
media, anche se questo spesso comporta un notevole impegno da parte dell’insegnante il quale deve
saper raccogliere ed organizzare in modo rapido e creativo il materiale da usare in classe (...). Tuttavia,
la Media education non deve limitarsi all’attualità. Essa deve piuttosto usarla per aprire quelle
prospettive politiche e storiche di più ampio respiro che i media in genere ignorano e per esplorare
mondi più vasti (storia, cultura, religione, problemi della giustizia e della pace, ecc.)». (pp. 71-76)
«Gli otto concetti-chiave che costituiscono il principio organizzatore e il nucleo forte della
programmazione sono quelli sottoindicati.
1.Tutti i media sono «costruzioni». Questo principio è ritenuto il più importante concetto della Media
Literacy. I media non sono il riflesso della realtà esterna (....) ma sono rappresentazioni che obbediscono
a un ampio spettro di condizionamenti e decisioni. Compito primario della scuola ( e delle altre agenzie
educative) è quello di «decostruire» ciò che è stato prodotto secondo punti di vista e interessi particolari.
2. I media costruiscono la realtà. Ognuno di noi si costruisce una visione del mondo basata sulle
esperienze fatte, le informazioni ricevute, le osservazioni e le intuizioni personali. Il problema è che
oggi molte di queste osservazioni non sono più dirette, ma vengono « precostruite» dai media che
tendono a sostituirsi al pensiero autonomo di ognuno. Si corre il rischio che la televisione si metta a
pensare al posto di tutti.
3. Il recettore negozia il significato dei media. Il ragazzo (ma anche l’adulto) deve capire che nel gioco
della ricezione è lui il negoziatore dei significati. Nel processo di ricezione entrano in gioco: a) le
conoscenze, i bisogni e gli interessi personali, come pure le proprie angosce e i complessi; b) il
background familiare e culturale; c) gli atteggiamenti e i pregiudizi; d) il momento particolare che
ognuno sta vivendo ( di gioia o di paura). La media education vuole rendere coscienti i recettori di
questi meccanismi che sono in gioco.
4. I media hanno implicazioni commerciali. Fanno parte del più grande business in atto nel mondo
contemporaneo. Catturano audience per consegnarla ai pubblicitari.
5. I media trasmettono ideologie e messaggi di valori. Tutti i media sono in qualche modo adversiting,
pubblicità. Promuovono un certo modo di vivere basato sul consumismo, l’esaltazione del successo e
del sesso, ecc..
6. I media hanno implicanze sociali e politiche. La televisione ha cambiato la vita delle famiglie, può
costruire o distruggere un personaggio politico (...).
7. Forma e contenuto sono strettamente collegati ai messaggi dei media. Ogni medium ha una sua
grammatica e codifica la realtà in un modo specifico e lo stesso avvenimento è letto in modo differente
da media diversi.
8. Ogni medium possiede una propria forma estetica. Gli studenti devono essere portati non solo a
decodificare i testi mediatici, ma anche a godere delle specifiche forme estetiche che sono espresse dai
singoli media: musica, cinema, teatro, romanzo, ecc.» (pp. 115-116).
L’INFORMAZIONE INUTILE (di Gianfranco Bettettini)
Tratto da: G. Bettettini, A. Fumagalli, Quel che resta dei media. Idee per un’etica della
comunicazione, Franco Angeli, Milano 2010, pp. 21-53 (passim)
(Questo testo è stato inserito perché si correla a quanto spiegato durante le lezioni e trattato
ampiamente nel volume di Giovanni Sartori in merito alla disinformazione e all’impoverimento del
capire. Si tratta di un fenomeno che, nel corso di questi anni e sino ad oggi, si è ulteriormente
accentuato, generando un serio aggravamento in merito alla diffusione di un’informazione vera e
rilevante, quella necessaria per rendere informati i cittadini e quindi capaci di vivere e sceglire in modo
consapevole in una società democratica. Per questo motivo è importante che il “lettore/fruitore” di
media sappia leggere e non solo sfogliare, sentire distrattamente, fare surfing sulle notizie, accettare
acriticamente tutto ciò che viene proposto. Per vivere in modo consapevole bisogna esercitare il senso
critico, leggere con attenzione televisione e altri media informativi, approfondire, chiedersi il perché,
creare collegamenti tra notizie e informazioni. Tutto questo lo si può attuare in “laboratori” di
educazione ai media, ancora tutti da sviluppare ed incrementare sul territorio, ed arricchire ed
ampliare nelle scuole. [Nota di S. Blezza Picherle].
Di fatto oggi c’è un sostanziale consenso nella grande maggioranza dei soggetti su almeno alcune delle
più gravi deformazioni del settore giornalistico (…). Paradossalmente, in una società democratica
un’informazione corretta è ancor più necessaria che in una società autoritaria, dittatoriale. Per la
democrazia l’informazione è come il nutrimento, la linfa vitale: è infatti la premessa perché abbia senso
un qualsiasi tipo di discussione e di decisione che riguardi lo spazio pubblico. L’informazione è un bene
primario, ma lo è solo a patto che essa sia vera e sia in qualche modo “essenziale”, tocchi i temi
rilevanti, quelli su cui bisogna decidere, prendere posizione, sia a livello pubblico che privato (…).
L'informazione falsa, la de-formazione è la negazione stessa dell'informazione.
Apparentemente la nostra società democratica occidentale ha goduto di un’assai elevata crescita
quantitativa dell’informazione, un aumento che sembrerebbe segno di un deciso miglioramento
qualitativo delle informazioni a disposizione della società, ossia dei singoli cittadini. Eppure questo
straordinario fiorire quantitativo e superficiale di mezzi di informazione (quotidiani, periodici,
telegiornali, servizi televisivi d’informazione, siti Web, blog e social network dedicati alle notizie) non
sembra aver garantito un sostanziale miglioramento del tasso di informazione (cioè di informazioni vere
e rilevanti a disposizione del singolo cittadino). Non sembra, oggi, essere garantita l'elaborazione di
un'immagine del mondo più fedele di quanto non avvenisse in altri momenti della storia, in altre società.
Ci sono a disposizione, certo, più informazioni su un maggiore numero di avvenimenti, ma il risultato
per il cittadino medio non sembra essere una migliore informazione intesa come migliore comprensione
intellettuale del mondo, dei suoi aspetti e di quanto vi avviene. Inoltre, sempre di più, il sistema
informativo è soggetto alle strategie di manipolazione da parte di aziende, enti e istituzioni che hanno
interessi a far “passare” una notizia (a volte costruendola dal nulla) e mettono in atto – attraverso i
cosiddetti spin doctors e spesso potenti società di pubbliche relazioni – vere e proprie strategie di
condizionamento di informazione. Qui l’informatizzazione e i collegamenti in rete mettono in risalto un
problema che era già emerso in fondo con la nascita della stampa: non basta la quantità delle notizie,
occorre avere percorsi, guide, occorre poter costruire percorsi di senso, posto che la semplice
accumulazione non è ancora messa-in-forma, informazione nel senso più forte del termine.
Con l’avvento di Internet e in particolare del Web 2.0 assistiamo a un’accentuazione di questo
fenomeno: un aumento crescente, a ritmi esponenziali, delle informazioni disponibili, cui corrisponde un
altrettanto crescente disorientamento, dovuto alla difficoltà di reperire punti di riferimento e guide
valide per la propria navigazione online.(…)
Quello che è certo è che oggi, accanto a maggiori dettagli su tutta una serie di episodi, si continuano a
dare molti fenomeni di costruzione di significati distorti, costruzioni di realtà artefatte, costruzione di
personaggi sostanzialmente virtuali.
I motivi di questo stato di cose sono molteplici.
Anzitutto c’è una fragilità del sistema: è assai difficile la verifica e il controllo delle fonti stesse di
informazione. Un sistema informativo è un immenso circuito interconnesso in cui, una volta che un
elemento abbia raggiunto un punto di accesso, entra in circolo a velocità vertiginose ed è difficilissimo
poter avere un controllo razionale sulla sua “diffusione”. Se una notizia viene lanciata da un’agenzia di
stampa, se viene raccolta come presunta “dichiarazione” di qualche personaggio più o meno
mediaticamente rilevante, anche nel caso sia falsa, tale notizia ha ormai assicurata una larghissima
circolazione: un’eventuale smentita (…) non è in grado di fermare questa circolazione né di
contrarrestarne, se non in minima parte, gli effetti. La prima notizia in qualche modo è sempre vincente,
ed è incontrollabile. Assai spesso – forse la gran maggioranza delle volte - questa “circolazione
impazzita” (di notizie) non nasce da qualche volontà esplicita di disinformazione, ma è semplicemente
frutto dell’imperizia, dell’imprecisione, della fretta, della mania dello scoop a tutti i costi, che impera fra
i professionisti dell’informazione, del desiderio di informare sugli avvenimenti in senso reale,
dell’accelerazione dei tempi di lavoro del giornalista. Nel Web 2.0 questa dinamica viene enfatizzata dal
proliferare delle fonti informative, che in teoria dovrebbero garantire un maggiore pluralismo e libertà di
espressione, ma nella pratica spesso non fanno altro che moltiplicare ulteriormente la diffusione di
notizie non verificate. Un caso molto celebre di notizia palesemente falsa, che tuttavia rimase a
disposizione degli utenti di Internet per un lungo periodo e con grande visibilità, è quella riguardante la
voce Wikipedia dedicata al giornalista John Seigenthaler, ex collaboratore di Robert Kennedy. (…)
A questa debolezza ha contribuito anche l’accelerazione dei tempi di lavoro del giornalista. Mentre
l’immagine popolare e romantica del giornalista è quella dell’eroe solitario che viaggia, raggiunge i
luoghi degli avvenimenti, conosce, si informa e poi comunica quanto ha potuto sperimentare di persona,
magari a rischio della vita, le giornate della quasi totalità dei giornalisti di oggi sono molto più
prosaicamente legate a una sedia e a un monitor di qualche redazione, a leggere e “cucinare” le notizie
di agenzia o i comunicati stampa, magari da arricchire con qualche intervista telefonica, con un occhio
costantemente aperto su cosa succede alla televisione e sul Web. (…)
Quello che più di tutto interessa ai mezzi informativi non è avere la verità su quanto avviene, ma poter
trasmettere delle “belle notizie”, interessanti, colorite, accattivanti. Bisogna dare ogni giorno una storia
da dare in pasto ai media, creare eventi, dichiarazioni, fornire immagini belle e interessanti. I sistemi
informativi più accorti – come quelli che lavorano per la Casa Bianca – a partire dalla presidenza
Reagan sono passati alla strategia della “manipolazione attraverso l’inondazione”: bisogna avere ogni
giorno una storia da dare in pasto ai media, creare eventi, dichiarazioni, fornire immagini belle e
interessanti. (…)
Questo vale in modo articolare per le notizie televisive: spesso infatti la discriminante se trasmettere o
meno una notizia si riduce all’esistenza di immagini ben girate e attraenti: di capisce quindi come a
partire da questo rapporto che poco ha a che vedere con il valore informativo puro, possano inserirsi
strategie di manipolazione più o meno pesanti, oppure interessi magari in sé legittimi ma estranei a
quello specificatamente informativo. (…)
Oggi il “giornalismo di inchiesta”, che è faticoso e costa tempo, denaro e creatività, è poco praticato.
È molto più facile riciclare quanto è già pubblicato su altri organi di stampa, riprendere commenti,
servizi, pseudo inchieste fatte da altri, in un gioco al rimando massmediale che fa sì che l’attenzione
sociale venga stimolata dai media in modo che è sostanzialmente uniforme se considerato
sincronicamente, ma che diventa sussultorio se osservato in tempi appena più lunghi. Per una settimana
il principale problema italiano è, per esempio, l’usura, e l’indignazione massmediale produce prese di
coscienza, deplorazioni, preoccupazioni, interpellanze parlamentari, dibattiti, talk show e decreti legge.
La settimana dopo il problema vitale diventa un altro: la questione precedente è cancellata, dimenticata,
semplicemente “superata”. Questa mancanza di interesse per quanto sta realmente avvenendo fa sì che,
nonostante la enorme quantità di professionisti dell’informazione, che nell’immagine romantica
dovrebbero essere tutto il giorno in giro a cercare di capire che cosa succede, ci siano fenomeni
macroscopici che covano, che montano, che avvengono e che riescono a passare inavvertiti a lungo
finché uno dei media se ne accorge. A questo punto, se il medium ha sufficiente visibilità, tutti si
lanciano sulla preda. Altre volte questi fenomeni esplodono grazie a qualche evento di tipo
“catastrofico” (un delitto, ad esempio) e quindi tutti si riversano a commentarli e possono fingere di
analizzarli e addirittura di comprenderli, ma per lo più si limitano a circondarli e sommergerli di
dichiarazioni e commenti badando a che si dica tutto e il contrario di tutto, a meno che non ci sia
qualche interesse forte a dettare una selezione delle opinioni che accedono alla ribalta. (…)
Da qui la moltiplicazione di chiacchiera e pettegolezzo, che negli ultimi venticinque anni ha riempito
le pagine dei giornali anche “seri”, disperdendo l’attenzione del lettore su un’informazione che non ha
niente di rilevante dal punto di vista civile e che nello stesso tempo occupa molto spazio, togliendo
invece la possibilità e l’accesso ad argomenti più seri e rilevanti, oppure operando una deformazione che
tende, di qualsiasi avvenimento, a far passare solo gli aspetti che più banalmente si pensa solletichino la
curiosità del pubblico. Il giornale, e in certa misura il Tg, che dichiara di essere al servizio del lettore,
strumento di accesso a ciò che è rilevante, tende sempre più a lasciar filtrare solo ciò che è curioso. Per
questo, in quei settori di confine tra giornalismo e pubblicità in cui l’obiettivo è che comunque esca una
notizia (…) si tende a inventare litigi, polemiche, scandali inesistenti solo perché in questo modo si
confida che passi sui media l’esistenza dell’oggetto da promuovere.
La messa in forma e quindi la de-formazione non dipende solo da fattori strutturali: è poi la coscienza
professionale degli operatori a fare la differenza fra ciò che avviene sempre quando si sintetizza, si
riferisce, si racconta e ciò che è frutto di fattori estrinseci, di interessi parziali, di falsificazioni, di prese
di posizione ideologiche o viziate dal criterio della superficialità. (…)
D’altra parte il modello tradizionale di giornalismo è messo fortemente in crisi dal proliferare dei blog
e in generale dei siti di informazione prodotta “dal basso” (dai cittadini), e non paiono delinearsi
all’orizzonte scenari alternativi incoraggianti. Nei siti portali ad alto traffico (da yahoo.it a libero.it, ad
esempio), il tipo di informazione evidenziata in home page è sempre più spesso orientata al gossip e ai
risvolti scandalistici della vita di star e starlette televisive. Guardando le notizie più cliccate, si può
verificare una corsa al ribasso, dal punto di vista della qualità e della tensione etica, a fronte di una crisi
del giornalismo d’inchiesta vero e proprio. (…)
Sussiste inoltre un rapporto perverso creatosi tra informazione e pubblicità, che hanno invertito la loro
relazione. In molti settori che si dichiarano informativi la parte informativa è surrettiziamente solo un
riempitivo del vero messaggio, che è quello pubblicitario. (…) In effetti un’analisi minimamente
accurata del valore informativo di alcune di queste pubblicazioni non può che rilevare la scarsissima
rilevanza della dimensione propriamente giornalistica di testate, che cercano solo di trovare storie per
intrattenere il loro pubblico nelle poche pagine che inframezzano i molti annunci pubblicitari o
cosiddetti “redazionali”, pagine che si presentano come informative, ma che di fatto sono curate e
pagate da investitori pubblicitari.
Società iperemotiva, pubblicità, telegiornali emotivi (di Michel Lacroix)
Tratto da: Il culto dell’emozione, Vita e Pensiero, Milano 2002, pp. 15-31 (passim)
Il tema della pubblicità è diventato un elemento essenziale nelle campagne promozionali. I pubblicitari,
che auscultano la società meglio di chiunque, hanno capito che l’emozione fa vendere. (…) “Emozioni
garantite” annunciava l’azienda Piooner, “catturare le emozioni” lancia il catalogo Fnac del 2000 e così
tutto, anche le catene alberghiere, ruotano attorno alla parola “emozione”. (…)
Le campagne pubblicitarie “emotive”, ormai diventate la maggioranza, rivelano due tratti della psiche
contemporanea: in primo luogo mostrano che si è verificato un ritorno all’emozione con gli individui
che oggi hanno “sete di emozioni”. (…) In secondo luogo ci mettono in guardia sul pericolo di uno
sviamento dell’emozione. (…) Dopotutto gli oggetti ai quali chiediamo di “smuovere” la nostra anima,
le situazioni che stimolano la nostra vita affettiva, sono spesso dei semplici artifici. Non tendiamo forse
a strumentalizzare l’emozione? Il ritorno dell’emozione si accompagna a un suo insidioso traviamento.
Gli individui esaltano la sensibilità, ma non esitano a svilirla. (…)
Gli audiovisivi sono letteralmente saturi di emozione. Gli svaghi che gli individui chiedono alla
cultura dell’immagine manifestano un’indubbia preferenza per l’agitazione affettiva. Molti film sono
stati pubblicizzati con frasi del genere. “Le vostre emozioni più profonde tornano in superficie”, “La
storia di un giovane di un giovane alla ricerca di sensazioni forti”, “E’ un film pieno di emozione”. Il
sensation–seeker, “cacciatore di emozioni”, è l’eroe del nostro tempo. (…) Le fiction televisive non
sono, per lo più, che ingegnosi montaggi, prodotti tagliati su misura nella materia emozionale in virtù di
un “taglia-incolla” analogo a quello che si fa per un testo. Anche in questo caso, le valutazioni più
usuali, sono del tipo: “Una storia interpretata con calore, con belle emozioni”, “La storia di questa
madre coraggio, filmata con emozione, prende allo stomaco lo spettatore”.
Si tratti di varietà, di show, di talk show, di fiction, il medium televisivo fa surfing sull’emozione. (…)
In generale il piccolo schermo conquista audience con “grandi momenti di emozione”. (…)
Le informazioni televisive subiscono anch’esse il contagio dell’emozione, tanto che in alcuni casi si
può parlare di “Tg emozionali”. Si pensi ad una sequenza relativa a delle inondazioni. Le immagini,
spettacolari, risvegliano la paura ancestrale di fronte allo scatenarsi della natura, a cui si aggiungono la
simpatia per gli abitanti sconvolti, e sotto sotto, l’ansietà. [E così per gran parte dei servizi riguardanti
situazioni umane difficili in situazioni di guerra, di carestia, di rapimenti, ecc.].
La politica subisce a sua volta questo contagio dell’emozione. La riprovazione indignata, la
propensione a scandalizzarsi, i riflessi di compassione giocano un ruolo crescente nel dibattito pubblico.
Le reazioni emotive prendono talvolta il posto del giudizio critico, dell’analisi scientifica, del dibattito
delle opinioni. Recependo gli avvenimenti attraverso lo specchio enfatizzante dell’emozione si rischia di
far sparire i problemi e di reagire in eccesso. (…) L’influenza dell’emozione sulla vita pubblica si
ripercuote sull’immagine dell’uomo politico ideale. Oggi, i capi di Stato o di governo, devono
rispondere in modo adeguato alla domanda emotiva dell’opinione. Essi non potranno esimersi dal
mostrarsi umani, compassionevoli, empatici. Nel deserto ideologico che la società moderna attraversa,
questa presenza nella politica dell’aspetto affettivo esercita un’evidente funzione compensatrice. (…) In
assenza di grandi progetti che le mobilitino, le masse vogliono che i loro responsabili condividano le
loro gioie e le loro pene. I governanti devono mostrarsi in grado di sentire le cose.
La chiarezza compiacente degli slogan (di Massimo Baldini)
Tratto da: M. Baldini, Parlare chiaro, parlare oscuro, Laterza, Roma-Bari 1989, pp. 51-56
(passim).
(Questo testo è stato inserito per dimostrare la forza persuasiva degli slogan, pubblicitari e non, che
tendono ad essere assimilati acriticamente ed assunti come pensieri e verità inconfutabili. Gli spot
(anche sulla promozione della lettura) proiettati durante le lezioni, sono serviti proprio per evidenziare
questo loro intrinseco potere di “non pensiero”. Ma ciò non accade solo per gli spot, in quanto
nell’informazione e nel parlato quotidiano, perfino nella formazione educativa, oggi sempre di più si
procede per “affermazioni a spot”, senza che vi sia argomentazione o pensiero critico. Da ciò si evince
che è quanto mai necessario pensare percorsi operativi di “analisi delle formule slogan” per rendere i
fruitori dei media dei “lettori” critici e consapevoli. Gli slogan dominano la pubblicità, la politica ma
un po’ tutto il modo di parlare nella televisione e nei media e sono degli straordinari manipolatori di
opinioni.[Nota di S. Blezza Picherle].
Non sempre la chiarezza, come abbiamo già accennato, è un fenomeno totalmente positivo; accanto ad
una chiarezza luminosa esiste anche una chiarezza fittizia, illusoria, compiacente, una chiarezza — per
intendersi — che porta le stimmate della negatività. In questo particolarissimo ambito rientra la
chiarezza degli slogan. (…)
Gli slogan fioriscono in tempi di crisi e “manganellano” il pubblico con parole che intrappolano, che
imprigionano il pensiero, con parole che sono vere e proprie armi, con parole-choc. Gli slogan ci
forniscono pensieri “precotti”, intendono impedirci ogni riflessione, pretendono cioè di pensare per
noi.(…)
Lo slogan in primo luogo è una formula concisa. Infatti, «allungare uno slogan non significa
rafforzarlo, ma indebolirlo, in qualche caso distruggerlo; può perdere ogni potere anche per una sola
parola in più. “L'alcool uccide lentamente” provoca la pronta replica: “Dunque non c'è pericolo
immediato!”. Il “vero” slogan sarebbe stato “L'alcool uccide”: asserzione inconfutabile perché
sommaria, sommaria perché concisa».
In secondo luogo, lo slogan deve consistere in una formula facilmente ripetibile: il suo potere viene
dall'essere una formula che possiamo e amiamo ripetere. Contrariamente a quanto si pensa «la
ripetizione non fa mai lo slogan [...], è lo slogan che crea la possibilità e il bisogno della ripetizione».
Gli slogan sono per lo più anonimi. Ed è proprio dall'anonimato che traggono la loro forza d'urto, «sono
i “si dice” che mettono in ombra il mittente e mettono a tacere il destinatario; gli slogan sono una
verifica della teoria americana dello sleeper effect, l'effetto ipnotico: un messaggio tende ad essere
creduto nella misura in cui se ne dimentica la fonte o l'autore. Lo slogan è “suggerito” piuttosto che
“comunicato”».
Lo slogan è una formula polemica, manichea, semplicistica, dogmatica («sono formule a cui non si
replica, che non ammettono obiezioni»). Quasi mai è menzognero, e se è menzognero lo è casualmente,
sempre però è sommario. Lo slogan, inoltre, è una formula tesa a sollecitare all'azione; esso fornisce alle
pulsioni collettive «una formula semplice e d'effetto che contribuisce fortemente a convogliarle verso
una meta». In breve, è una formula di lotta la cui funzione è quella di far agire e non di far pensare. Lo
slogan, dunque, «è tale, quando l'enunciato comporta non solamente una indicazione, un consiglio o una
consegna, ma una sollecitazione; quando le parole non hanno lo scopo di informare o di prescrivere, ma
quello di far agire; quando cioè la lingua non serve più a dire ma a provocare altro da quel che dice».
A più riprese Reboul sostiene che la vera forza degli slogan sta nell’ambiguità, legata alla poca
chiarezza. Ad esempio i due slogan pedagogici “Più democrazia nella scuola” e “Educare scolari che
pensino”, possono voler dire cose tanto diverse da essere contraddittorie. Il primo può voler significare:
1. Far partecipare gli scolari all’elaborazione dei programmi dei corsi; 2. Dare a tutti la medesima
istruzione; 3. Educare ciascuno secondo le proprie capacità. E il secondo può voler dire sia “ritornare
allo studio delle materie di base”, come pure” studiare a fondo i problemi sociali più scottanti” (….).
In altre parole, lo slogan è una formula che fa più di quel che dice e fornisce all’uomo della massa una
giustificazione ovviamente “pseudo-razionale. (…) Dunque il potere degli slogan è duplice. Grazie alla
concisione che lo rende piacevole a ripetersi e distoglie la nostra attenzione dai moventi per cui ci
sollecita, esso ci fa agire senza scegliere. Ma oltre a questo potere, in verità di limitata importanza, di
farci votare, comperare, parteggiare, esso fa un uso di un secondo potere segnatamente più pericoloso:
lo slogan è un “pensiero” che frena il pensiero, lo addormenta, ne sospende la responsabilità; un
pensiero che mi regala il sollievo, la soddisfazione, il piacere di pensare in mia vece.
Lo slogan ha qualcosa in comune con le formule magiche, è, se vogliamo, un residuo di pensiero
magico, è una formula che seduce il bambino che è in ognuno di noi, che fa sospendere il senso critico
(…). Nello slogan, grazie a questa sua capacità di dissimulazione, la parola diviene un’arma segreta e in
ciò consiste il suo vero pericolo, nel fatto che non solo pensa per noi ma pensa “in un certo senso alle
nostre spalle”. (…)
Solo prendendo coscienza della realtà si potrà discernere il suo potere di persuasione, ripensare il
pensiero che pretende di inculcarci; si potrà riflettere sullo slogan, invece di pensare per slogan. (…) Se
vogliamo passare dal pensiero preconfezionato al pensiero pensante dobbiamo imparare a smontare i
meccanismi che regolano il funzionamento degli slogan e dobbiamo imparare altresì ad analizzare le
loro tecniche persuasive. (…) La demistificazione degli slogan ha luogo quando si riesce a mettere in
luce il loro potere manipolatorio e la loro capacità persuasiva, nonché la loro capacità di far leva sulla
paura di pensare e sul bisogno di “credere”. (…)
Gli slogan possiedono, indubbiamente, fascino e potere; tuttavia il rimprovero fondamentale che può
essere loro mosso è che essi, nonostante la loro chiarezza, spengono il pensiero. (…) Gli slogan ci
forniscono pensieri “precotti”, intendono impedirci ogni riflessione, pretendono cioè di pensare per noi.
Tendono ad impedirci ogni riflessione.
La trasmissione di messaggi valoriali, comportamenti e modelli
(La Tv (come pure altri media), attraverso raffinatissime tecniche, trasmette ai fruitori messaggi
seduttivi che penetrano profondamente nell’inconscio, erodendo ogni capacità di autonomia. La
psicologa Anna Oliverio Ferraris (La sindrome Lolita, 2008) e Loredana Lipperini (Ancora dalla parte
delle bambine, 2007) mostrano come attraverso gli spot televisivi, internet, cartoni animati e altre
narrazioni, si trasmettano modelli femminili e maschili che i bambini e ragazzi tendono ad imitare nella
vita quotidiana. Le bambine, ad esempio, vengono rappresentate in modo seduttivo, quasi sensuale,
mentre pubblicità e programmi vari stanno riproponendo stereotipi e pregiudizi di genere che risalgono
ad un lontano passato.
Questi due brevi testi qui proposti si ricollegano alle lezioni, durante le quali si è discusso di questo
argomento, anche analizzando e commentando spot pubblicitari.
Dalla lettura emergerà come sia necessario predisporre anche in ambito extrascolastico attività ludicoconversazionali che sollecitino l’analisi dei prodotti mediali e una loro valutazione critica [nota di S.
Blezza Picherle]).
A) Ad erotizzare il corpo infantile contribuiscono oggi stilisti e pubblicitari. (…) In due note pubblicità
di abbigliamento per bambini, le modelle fotografate hanno un'età che si aggira tra i sei e gli otto anni.
In una di esse, le baby-modelle indossano abiti che ricalcano la moda adulta e guardano dritto
nell’obiettivo, quasi a sfidare l'osservatore. Hanno catene e monili che rappresentano un forte richiamo
per le piccole consumatrici. Nell'altra, due lolite in minigonna, in posa da pin-up, guardano
provocatoriamente la macchina da presa. Indossano top e stivali, hanno vistosi nastri tra i capelli: una è
quasi distesa su una sedia, le gambe allungate; l'altra tiene le mani in tasca, imbronciata. È un'immagine
inquietante. Non sono bambine ma piccole adulte. Dall'espressione dei visi e dagli sguardi si direbbe
che abbiano un passato e un'esperienza di seduttrici consumate.
Da vari documenti emerge che le immagini erotizzate delle bambine stanno diventando sempre più
comuni nella pubblicità. “Corporate paedophilia”, cioè “pedofilia aziendale”, è un modo provocatorio di
segnalare un tipo di strumentalizzazione che sconfina nell'abuso. Negli Stati Uniti c'è stata una
mobilitazione di giornalisti, associazioni per la tutela dell'infanzia, genitori e psicologi che ha portato
alla costituzione di una task force in seno all’American Psychological Association. Nel 2007 è stato
pubblicato un rapporto, dal titolo Task Force on the Sexualisation of the Girls, da cui emerge che
all'erotizzazione del corpo delle bambine non concorrono soltanto pubblicità e mass media ma anche i
genitori e gli insegnanti. Si viene a creare una sorta di “circolo vizioso”: le ricerche di mercato
individuano alcune tendenze (trend) più o meno volatili; attraverso i mezzi di comunicazione di massa la
pubblicità diffonde, potenzia e fissa queste tendenze; la loro diffusione su vasta scala ha
successivamente l'effetto di imporre gusti e mentalità tra i consumatori più recettivi; prende così il via
una moda che può avere risvolti collaterali non previsti. Per esempio, la preoccupazione per l'aspetto
fisico può creare nei bambini insoddisfazione o imbarazzo quando pensano di essere “inadeguati”.
L’erotizzazione dell'abbigliamento può indurre le bambine ad assumere atteggiamenti provocatori che
attirano l'attenzione dei maschi, in una età in cui non comprendono ancora tutte le possibili conseguenze
di look e movenze che alludono al sesso. Non soltanto le piccole lolite si mettono in situazioni rischiose,
ma l'oggettivazione del corpo e l'imitazione di modelli adulti conducono facilmente a una
rappresentazione del sesso di tipo strumentale, nel senso che la sessualità può essere considerata alla
stregua di una mercé di scambio. Trasformata in oggetto di consumo, la baby-modella, che, per la gioia
dello sponsor e della sua mamma (che in lei si specchia) assume in studio pose seduttive davanti alla
macchina fotografica e occhieggia allusiva dai cartelloni pubblicitari, lancia un messaggio di
disponibilità. (….) Sotto la pressione dei marchi alla moda e dei modelli che trovano intorno a loro, le
ragazzine imparano precocemente l’arte della seduzione, come spiegano i sociologi canadesi Richard
Poulin e Amelie Laprade (2006). «Esse vengono trasformate in oggetti di desiderio. Diventano
prigioniere dello sguardo degli altri per esistere. Si espongono e si formano un’idea della della sessualità
e dell’amore centrata sul sesso e sul consumo».
(Tratto da: A. Oliverio Ferraris, La sindrome Lolita, Rizzoli, Milano 2008, pp.33- 37 passim).
B) La moda per bambine non è in nulla dissimile da quella delle sorelle più grandi o delle madri, ha un
corredo di trucchi e optional invidiabile, alle une e alle altre si offrono trousse di ombretti e rossetti a
forma dì caramella, farfalla, fiore, di futile e incantevole assurdità. Giochi, certo. Ma, ancora una volta,
il gioco è tale se se ne conosce la materia prima, e se sì è consapevoli del per-sonaggio con cui si flirta e
in cui ci si cala. Ma questa consapevolezza esiste?
Veniamo ai giocattoli. Nessuno, oggi, riterrebbe attendibile l'antica divisione del mondo ludico in due
emisferi distinti: il meccano, e tutto ciò che richiede logica, impegno, concentrazione, per i maschi; la
bambola, che prefigura un destino chiuso e fatale, per le femmine. Eppure è ancora così: basta tornare a
osservare uno dei blocchi pubblicitari inseriti nella programmazione per ragazzi, e si verificherà che i
maschi vengono ancora rappresentati alle prese con corse di automobiline, scontri di action fìgures (non
"bambole", ma riproduzioni miniaturizzate di personaggi a loro volta di sesso maschile, anche se di
natura non umana), mazzi di carte o cartucce per Game Boy, o giochi intelligenti che consentono di
migliorare le proprie conoscenze scientifiche. Le bambine sono invariabilmente intente a ballare di
felicità per un paio di scarpe nuove o a cullare bambolotti sempre più raffinati in grado di parlare
muoversi, mangiare ed esigere affetto; o a rispecchiarsi in bambole-ragazza, che siano l'immortale
Barbie, le sue sorelle più sboccate e meno vestite, le Bratz, o la semplice affollata schiera di fate e
maghe che vengono dal mondo del fumetto e del cartone animato.
Una testimonianza certo, che anche in quest'ultimo settore sono aumentate le eroine. A patto di sapere
che il proliferare di sacerdotesse giapponesi, elfe britanniche, streghe italiane va ancora una volta a
coincidere con un destino storico che vede nella donna il tramite privilegiato con il sacro: e che le
consentirà di essere vincente, anzi, presente nella società degli uomini solo se si rapporta a una
trascendenza a cui non le è dato aspirare, ma di cui può solo essere voce, oracolo, pizia. Quelle stesse
eroine sono anche di carta: il mercato italiano dei libri per ragazzi è stato nell'ultimo decennio un filone
fecondo, da arare avidamente anche se, come spesso avviene, con poca accortezza. Mentre basta
sfogliare i libri di testo delle elementari per scoprire che tutto è rimasto come quarant’anni fa: e che
mentre fior di intellettuali ci rassicuravano sul fatto che le donne sono ricche e vincenti come le amiche
di Sex and the City, nella maggior parte dei casi le figure femminili proposte a bambine e bambini
continuano a essere maestre, segretarie, infermiere.
Non conta, si dirà. Non conta, si diceva trent'anni fa, quando si sottolineava che, senza l'azione sul
mito e sui simboli, una stagione di riflessioni, di battaglie, di entusiasmi, sarebbe rifluita via come
l'acqua. E infatti, anche se non si usano più i grembiulini, è ancora rosa il mondo delle bambine. Rosa la
loro Play-station, i loro telefonini, le copertine dei loro magazine, i capelli delle Ninja dei cartoni
animati, rosa i blog delle dodicenni, rosa la letteratura usa e getta delle sorelle appena più grandi (anche
se ora utilizza, certo giocosamente, la definizione di chick list, letteratura per pollastrelle). Da quelle
piccole esperienze quotidiane si è distolto lo sguardo: e alloro interno sono riaffiorati gioiosamente gli
stereotipie i pregiudizi.
(Tratto da: L. Lipperini, Ancora dalla parte delle bambine, Feltrinelli, Milano 2007, pp. 55-58 passim)