raffaele romanelli centro e periferia: l`italia unita
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raffaele romanelli centro e periferia: l`italia unita
RAFFAELE ROMANELLI CENTRO E PERIFERIA: L’ITALIA UNITA Il titolo d'una relazione sull'Italia unita contiene una ambiguità che non voglio lasciarmi sfuggire. Ci si riferisce al farsi dell'Italia unita, e dunque alla formazione dell'unità italiana e ai decenni che seguirono, oppure alla storia unitaria nel suo complesso, che si spinge fino ad oggi? In un congresso di Storia del Risorgimento va senz'altro scelta la prima delle due ipotesi. Senonché l'incertezza del termine ad quem del Risorgimento, il costante richiamo a tematiche risorgimentali nella storia successiva, e soprattutto la durata strutturale dei problemi definiti in quel processo di fondazione, tutto ciò autorizza a una certa elasticità, e dunque, pur facendo riferimento prevalente ai decenni dell'Italia liberale, compirò rapide incursioni in periodi a noi più vicini. Tanto più mi consentirò qualche anacronismo in quanto ho inteso rispondere alle sollecitazioni del titolo proposto - «i rapporti tra centro e periferia» - non tanto esponendo singoli eventi storici quanto discutendo una logica strutturale, di sistema, che sotto vari appellativi e denominazioni caratterizza stabilmente la storia italiana, la si voglia riferire al nesso tra centro e periferia, come qui facciamo, o alla 'questione delle autonomie', o dell'accentramento e del decentramento, come si diceva all'epoca dei nostri fatti. In ogni caso, un'altra precisazione mi pare necessaria: soltanto in maniera subordinata, come si vedrà, richiamerò l'attenzione sulle dimensioni non territoriali del rapporto tra centro e periferia, o riguardanti l'economia, la società o la cultura; il mio punto di partenza riguarda infatti la dimensione territoriale di quel rapporto, quale si configura nella sfera statuale. Questa è la prospettiva prevalente negli studi, che del resto evoca, nel caso italiano, una indubbia centralità dello Stato nell'ordinare il nesso centro-periferia. In questi ambiti, va innanzi tutto osservato che le linee essenziali del sistema amministrativo adottato con la legge comunale e provinciale del 1865, le quali secondo gli storici ebbero carattere centralistico netto e inequivocabile, hanno poi mostrato grande resistenza al cambiamento e sostanzialmente sono rimaste invariate per più di un secolo. Se ci si attiene ai fondamenti di tale 'sistema prefettizio'- che in sintesi può essere descritto come un ordinamento uniforme e gerarchico di enti ter215 ritoriali sottoposti al controllo e alla tutela di autorità sopraordinate dirette dal centro -, va constatato che essi ispirano, oltre alla legge del 1865, anche quella crispina del 1888 e il Testo Unico del 1915 e quello del 1934, che è rimasto in vigore fino al 1990.1 Naturalmente, limitarsi a registrare questa continuità giuridico-formale nulla dice circa le funzioni storiche e il modo di operare di tale sistema, e non costituisce ancora - o non dovrebbe costituire - una sua interpretazione storica. Il fatto è però che la permanenza del medesimo quadro strutturale, oltre ad essere un dato normativo di indubbio interesse per gli storici, ha rappresentato un punto di riferimento per il discorso politico, e quindi anche per l'interpretazione storica. Il dato di fatto dell'accentramento, in altre parole, è stato il punto di partenza obbligato sia delle ideologie che della ricerca. Per la sua centralità nella storia italiana, il tema delle autonomie ha infatti avuto forte valore etico-politico lungo tutto il secolo, ed anzi è stato un elemento costitutivo della lotta politica, cosicché mal si distingue nel dibattito l'apporto descrittivo e conoscitivo da quello ideologico e politico.2 Tracciare la storia dei rapporti tra centro e periferia vuol dire dunque descrivere l'evolversi delle sistemazioni istituzionali date al problema, e contemporaneamente del ruolo giocato da quel problema nella dislocazione delle culture politiche. Orappunto va notato che in larga prevalenza le culture politiche italiane, nella misura in cui hanno rivendicato, o cercato, un radicamento nella società civile - come è proprio delle forze politiche soprattutto in regime rappresentativo , si sono costantemente dichiarate contrarie al permanere dell'accentramento. Non credo che questa affermazione richieda ulteriori specificazioni tanto essa appare evidente. Semmai, a contrario, si potrebbe notare quanto sia episodico e privo di forte legittimazione il percorso delle ideologie 'stataliste', se così vogliamo chiamare le argomentazioni volte a sostenere l'opportunità di forti interventi del 'centro' sulla 'periferia'. Chi volesse tracciarne la storia sarebbe costretto a collegare tra di loro spunti argomentativi, ispirazioni ideali 1 Ho esaminato le vicende unitarie alla luce di questa continuità In Centralismo e autonomie, in R. ROMANELLI, (a cura di), Storia dello Stato italiano dall'Unità ad oggi, Roma, 1995. per una sintesi dei quadro normativo cfr. M. Da Nicolò, La legislazione comunale e provinciale del regno d'Italia, in ID, (a cura di), L'amministrazione comunale di Roma. Legislazione, fonti archivistiche e documentarie, storiografia, Bologna, 1996, nonché la prima parte di G. VESPERINI, I poteri locali, I, Catanzaro, 1999. 2 Il carattere polìtico-ideologico del dibattito storiografico in argomento è presente a tutti gli autori che ne hanno offerto una sintesi. Per una breve e certo un po' schematica -classificazione politica degli studi cfr. M. Di: NICOLO', Accentramento e decentramento nella storia d'Italia: un conflitto storico politico in N. GALLERANO, (a cura di) L'uso pubblico della storia, Milano, 1995. Cfr. anche E. ROTELLI e P. TRANIELLO, ll problema delle autonomie come problema storiografico, in Regioni e stato dalla Resistenza alla Costituzione, a cura di M. LEGNANI, Bologna, 1975. 216 prive di realizzazioni istituzionali, oppure, al contrario, enunciazioni pragmatiche riguardanti temi specifici che sono presenti sia nella sinistra risorgimentale che nella destra di governo- specialmente in quella meridionale, il cui retroterra storico e culturale induceva ad una maggiore attenzione ai temi dello stato - e poi nei programmi di Francesco Crispi, e naturalmente di alcuni teorici del fascismo. Ma si tratterebbe appunto di episodi, ciascuno da intendere nel suo proprio contesto. Ben più solida, ricca e oggetto d'attenzione è la linea che unisce le argomentazioni contrarie al sistema accentrato, e che a tratti diviene apertamente filo autonomistica.3 Si tratta del resto di una linea più congeniale ai profili culturali e sociali delle classi dirigenti risorgimentali, composte da notabili possidenti localmente radicati, ostili ad ogni sentore di giacobinismo e di statolatria francese e semmai cultori del mito del self government inglese. Ma non molto diversa era l'attitudine della Sinistra storica, che giunse al potere nel 1876 anche sulla base di una richiesta di riforma in senso decentralistico, così come fece Giolitti all'epoca del discorso di Dronero. Inutile dire poi che le nuove forze politiche e sociali emerse in quei decenni - i democratici radicali e repubblicani, i cattolici e i socialisti - basavano la loro ideologia sul loro radicamento sociale e sull'esaltazione dell'autonomia locale, inclini a concepire il comune come una aggregazione sociale primaria e 'naturale' contro lo Stato.4 A partire dalla fine dell'Ottocento si assiste anzi ad una radicalizzazione in senso antiborghese e antistatale del discorso autonomistico, che in mano alle forze politiche emergenti cambiò natura e valenze, divenendo motivo di organizzazione politica nazionale contro il sistema, e non più progetto di riforma. In questo senso si può dire il fascismo, muovendosi contro quelle forze politiche ha assunto il compito 'reazionario' di stroncare ogni forza autonomistica, più che di costruire un centralismo forte e coerente. Come è noto, furono poi le forze 'antisistema' a 'vincere la Resistenza' contro il fascismo, da loro visto come la manifestazione estrema del vec- 3 Una puntuale rassegna dell'opinione si può leggere ora in U. CHIARAMONTE, Il dibattito sulle autonomie nella storia d'Italia 1796-1996, milano, 1998. Sul pensiero autonomistico dì fine Ottocento nelle due principali riviste liberiste, cfr. R. GHERARDI, Le autonomie locali nel liberismo italiano (1867-1900), Milano, 1984. 4 Come rapidi riferimenti al problema, bastino E. RAGIONIERI, La formazione del programma amministrativo socialista in Italia (1953), poi in Politica e amministrazione nella storia dell'Italia unita, Bari, 1967; I socialisti e le autonomie comunali fra l'800 e il '900, a cura di G. LACAITA, Milano, 1981; Le sinistre e il governo locale , in Europa: dalla fine dell'Ottocento alla Seconda guerra mondiale, a cura di M. DEGL'INNOCENTI, Pisa,1984; M. BELARDINELLI, MoVimento cattolico e questione comunale dopo l'Unità, Roma, 1979; R. RUFFILI,I Cattolici e In questione delle autonomie (1981), ora in ID., Istituzioni società stato,II, Nascita e crisi dello stato modern o: ideologie e istituzioni, a cura di M. S. PIRETTI, Bolongna, 1990. 217 chio centralismo liberale, e a dare alla costituzione repubblicana ispirazione nettamente autonomistica in sede di principi.' Chi volesse estendere oltre questo excursus non potrebbe non cogliere nella successiva storia repubblicana come un'eco del percorso seguito dalle élites politiche liberali; come queste nei decenni successivi all'unificazione misero costantemente all'ordine del giorno l'attuazione di un più largo decentramento senza però realizzarlo e alimentando una radicalizzazione del discorso autonomista, così in epoca repubblicana l'attuazione della costituzione è diventata obiettivo di rivendicazione dei gruppi d'opposizione fino a che, agli inizi degli anni Novanta, nuovi gruppi politici si sono definiti portando all'estremo la polemica anticentralistica e antistatalistica. Ce n'è quanto basta, credo, per consentirci di affermare che lungo tutta la storia unitaria le culture politiche italiane sono state in prevalenza e costantemente ostili al sistema accentrato, anche se raramente hanno saputo proporre alternative percorribili entro il quadro nazionale unitario. Non stupisce perciò che gli storici abbiano per lo più condiviso questa prospettiva, assumendo il centralismo - visto sempre nella sua dimensione territoriale - come un dato, considerato ora ineluttabile segno dell'avanzata dello 'stato moderno', ora necessaria strategia nazionalizzante, ora deprecabile esempio di pressione autoritaria e soffocante sulla periferia ad opera di minoranze di governo. 6 Pur avendo, come si è detto, prevalenti matrici politico-ideologiche, tale lettura è peraltro in sintonia con interpretazioni del fenomeno statale ad un tempo monistiche e `discendenti' (o 'diffusionistiche') proprie del pen- 5 Non occorre ricordare con quanta enfasi l'articolo 5 c. stabilisca che «La repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed ì metodi della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento». Alla cultura delle forze politiche alla costituente sono dedicati due volumi, curati da Roberto RUFFILLI, della Ricerca promossa dal Consiglio Regionale della Toscana in occasione del XXX della Repubblica e della Costituzione; il volume VII dell'opera è dedicato a Autonomie e decentramento nell'Italia repubblicana, Bologna, 1979. Cfr. anche i contributi alla seconda sezione (Le autonomie sociali e territoriali) di: FONDAZIONE L. e L. BASSO, FONDAZIONE ISTITUTO GRAMSCI ISTITUTO LUIGI STURZO, Le idee costituzionali della Resistenza. Atti del convegno, a cura di C. FRANCESCHINI, S. GUERRIERI e G. MONINA, Roma, 1997. 6 «Era l'invincibile forza dello Stato moderno -così scriveva Carlo Morandi nel 1944, a proposito della mancata realizzazione del programma decentralista di Depretis -, stimolata dalle necessità di sviluppo della vita sociale, che spingeva un po' in tale direzione; ma erano altresì gli interessi [ ...] della crescente burocrazia [...]. Sta di fatto che, in Italia, una vera democrazia moderna intesa come pratica d'autogoverno e come sviluppo delle autonomie regionali [ ...] non si ebbe né con Depretis né con i successori», Cit. da E. RAGIONIERI, Politica e amministrazione cit., pp. 162-163. In una recente rivisitazione dell'intera materia, Piero AIMO, proponendo «una schema schematizzazione, un po' brutale ma dìdascalisca, delle varie e contrapposte valutazioni interpretative», distingue un filone «neolìberale» e «giustificazionista» che «asssolve» la scelta centralistìca, da una corrente «per così dire 'filoautonismìstica', in cui convergono elementi sia di provenienza (latamente) marxista che di osservanza 'democratica' (e spesso di matrice cattolica: 'neoguelfa')». Cfr. Stato e poteri locali in Italia 7848-1995, Roma, 1997, p.44. 218 siero giuridico coevo, ma anche della letteratura storico-sociologica sui processi di state formation fiorita in ambiente politologico internazionale e alla quale tornerò ad accennare più avanti. Per la verità, di questa letteratura politologica sulla formazione degli stati gli studiosi italiani dell'accentramento non si mostrano sulle prime consapevoli, cosicché alcune consonanze emergeranno solo più tardi, allorché quelle tematiche avranno conosciuto una sostanziale revisione. E' invece evidente la comune matrice giuridica che inizialmente connota sia il discorso storico sul sistema amministrativo che il discorso politologico sul potere, entrambi da collegare alla tensione progettuale e costituente che anima i primi studi sull'argomento. È singolare che nonostante la costante rilevanza del tema nella storia del paese, gli storici non se ne fossero gran ché occupati fino agli inizi degli anni Sessanta. Ciò va forse attribuito agli orientamenti della storiografia dell'epoca, che cominciava solo allora a recuperare l'interesse per le materie 'economico-giuridiche' e che peraltro esitava a storicizzare l'età contemporanea. Fatto sta che ancora negli anni Cinquanta la letteratura storica sull'argomento era assai scarna.7 Un nuovo interesse nacque in occasione del centenario dell'unificazione, che cadde in un periodo costituente - o 'post-costituente' - in tante cose simile alla fase che celebrava. Nacque in quella congiuntura l'Istituto per la Storia dell'Amministrazione Pubblica (d'ora in avanti citato come ISAP), la cui collana di Studi e testi si aprì con lo studio di Adriana Petracchi su Le origini dell'ordinamento comunale e provinciale italiano, opera che anticipa le celebrazioni e collega saldamente la vicenda risorgimentale alla precedente tradizione assolutistica.8 Segue, sempre per iniziativa dell'ISAP, il Congresso celebrativo del centenario delle leggi amministrative di unificazione i cui Atti furono pubblicati in venti volumi nel 1967. Opera di prevalente sistemazione della materia normativa, contiene però alcuni importanti saggi interpretativi di Gianfranco Miglio, di Feliciano Benvenuti, di Roberto Ruffilli e di Massimo Severo Giannini, ai quali 7 Ricordo a questo proposito gli studi di P. PASSERIN D’ ENTREVES, I problemi dell'unificazione italiana (18601861), in Quaderni di cultura e storia, n (1953), n. 5; L'ultima battaglia politica di Cavour. I problemi dell'unificazione italiana, Torino, 1956; LA politica delle annessioni nell'Italia del 1860, in Atti del XXXIX Congresso di storia del Risorgimento italiano, Roma 1961, e di C.GHISALBERTI, L'unificazione amministrativa del regno d'Italia, in Rassegna storica toscana, III (1957), poi in ID., Contributi alla storia delle amministrazioni preunitarie, Milano, 1963. Una informazione bibliografica coeva si legge in C.ASIUTI, L'unificazione amministrativa del Regno d'Italia, Napoli, 1966. 8 II sottotitolo recita Storia della legislazione piemontese sugli enti locali dalla fine dell'antico regirne al chiudersi dell'età cav ouriana (1770-1861), Venezia 1962, 3 voll. 219 farò soprattutto riferimento.9 Una iniziativa simile si deve all'Istituto per la storia del Risorgimento italiano, che promosse una collana di documenti e testi su «L'organizzazione dello Stato» diretta da Angelo Maria Ghisalberti e coordinata da Alberto Caracciolo, il quale già nel 1960 aveva pubblicato un saggio ricco di spunti problematici e destinato a larga fortuna, Stato e società civile. Tra i volumi della collana, dedicati ai vari aspetti dell'organizzazione statale, è per noi particolarmente significativo quello da Claudio Pavone proprio al nesso tra centro e periferia.10 Sempre nella stessa congiuntura apparvero importanti saggi di Alberto Aquarone 11 e di Ernesto Ragionieri. 12 Si tratta nel complesso di un flusso di ricerche e di iniziative editoriali che improvvisamente richiamarono l'attenzione sul nodo storico costituito dalla formazione originaria dello stato italiano, e in essa per l'appunto del nesso tra centro e periferia. Questi scritti non tanto si interrogavano sulla natura del centralismo o ne offrivano una definizione,13 ma semmai si concentravano sulle scelte politiche e sul dibattito del tempo, interrogandosi sui motivi che avevano condotto alla scelta dell'accentramento e da allora sulla sua apparente irreformabilità, pur in un contesto culturale nel complesso non favorevole. «Il primo problema che si pone a chi voglia studiare le origini del sistema amministrativo dell'Italia unita, è proprio questo - scriveva Claudio Pavone in apertura del suo studio - : come mai uomini assertori di idee che, alimentate dalla 9 G. MIGLIO, Le contraddizioni dello Stato unitario, e Rappresentanza ed amministrazione nelle leggi del 1865; F. BENVENUTI, Mito e realtà nell'ordinamento amministrativo italiano; K. RUFFILLI, Governo, Parlamento e correnti politiche nella genesi della legge 30 marzo 1865, tutti in L'umificazione amministrativa e i suoi protagonisti, a cura di F. BENVENUTI e di G. MIGLIO, Venezia, 1969. Cito le pagine di Ruffilli da ID., Istituzioni Società Stato, I, Il ruolo delle istituzioni amministrative nella formazione dello Stati in Italia, a cura di M. S. PIRETTI, Bologna, 1989, pp. 275-328. Di M. S. GIANNINI cfr. I comuni, Venezia, 1967. 10 amministrazione centrale e amministrazione periferica da Rattazzi a Ricasoli (1859-1866), Milano, 1964. 11 Accentramento e prefetti nei primi anni dell'Unità, poi in Alla ricerca dell'Italia liberale, Napoli, 1972. 12 Politica e amministrazione nello Stato unitaria, del 1960, cui seguì nel 1963 Accentramento e autonomie nella storia d'Italia. Entrambi furono poi pubblicati in Politica e amministrazione cit., Bari, 1967. A Ragionieri si deve anche l'ordinamento della Mostra storica dell'unificazione amministrativa italiana, 1865-1965, tenutasi a Palazzo Pitti in Firenze il 10 ottobre-30 novembre 1965, alla quale collaborarono molti degli studiosi allora impegnati sull'argomento e per la quale cfr. Mostra storica (...), Guida alla mostra, Firenze, 1965. 13 Benché una sintetica, efficacissima, messa a punto concettuale e dunque storica si trovasse già in M. S. GIANNINI, I Comuni cit., che scioglieva le numerose ambiguità presenti ne «l'uso promiscuo che si fa dei concetti di libertà locale, indipendenza degli Enti locali, autogoverno, autonomia comunale» (p. 28) e invitando a distinguere elettività, controlli e funzioni, forniva molti spunti allora non sviluppati dagli storici per una analisi più corretta e complessa del problema. 220 profonda diffidenza antigiacobina, circolavano nell'ambiente moderato fin dai tempi della Restaurazione, giunti al potere ricalcarono passo passo la strada contro la quale avevano scritto, scrivevano e scriveranno tante dotte pagine?». 14 E Ernesto Ragionieri: «Il problema di conoscere le forme del processo storico attraverso il quale si arrivò a costruire lo Stato italiano in quelle forme di rigido accentramento che poi gli sono rimaste caratteristiche, si presenta di soluzione particolarmente complessa e difficile, in quanto esse sembrano contrastare con le tendenze espresse riguardo all'organizzazione dello Stato italiano nel corso del Risorgimento».15 In quest'ottica, la congiuntura del 1859-'61 diveniva un passaggio obbligato, quasi un laboratorio in cui si potevano studiare le matrici di una lunga continuità istituzionale. «È opinione largamente diffusa - e in fondo difficilmente contestabile - scriveva Gianfranco Miglio -, 16 che le grandi leggi di unificazione amministrativa, perfezionate attorno al 1865, costituiscano soltanto il corollario di scelte e decisioni maturate fra il 1859 ed il 1861». Ad una analisi puntuale del succedersi degli avvenimenti in quel breve periodo si dedicarono allora molti degli autori citati, da Petracchi a Ragioneri a Ruffilli a Pavone, non diversamente da quanto fanno le più recenti sistemazioni della materia, come quelle, pure citate, di Aimo o di Chiaramonte. Proviamo allora a sintetizzare ancora una volta quella vicenda e lo schema interpretativo che ne deriva. E' noto che il processo di estensione della legislazione comunale e provinciale sarda ebbe inizio con l'annessione della Lombardia, avvenuta in una situazione di emergenza e grazie ai pieni poteri concessi a Rattazzi, che pur tra critiche e perplessità, realizzò una semplice estensione della legislazione sarda alle province lombarde, rinviando a momenti migliori la valutazione delle specificità da salvaguardare nelle tradizioni amministrative locali. «Fu un atto, scrive Claudio Pavone, che, per la sua natura accentratrice, prefigurò tutti quelli successivi, contribuendo a far sì che il dibattito sull'ordinamento amministrativo italiano nascesse subito attorno al tema del decentramento, alimentandosi della rivendicazione a disfare o modificare qualcosa di già esistente».17 La 'legge Rattazzi' fu così applicata anche 14 Amministrazione centrale cit., p. 5. 15Politica e amministrazione cit., p. 72. 16 Le contraddizioni dello Stato unitario cit., p. 27. 17 Amministrazione centrale cit., p. 26. 221 alle province dell'Italia centrale.18 Ma proprio la progressiva estensione dei confini del regno verso l'Italia centrale e poi meridionale rese ad un tempo ancor più urgente e più discutibile l'adozione di una legge che aveva indubbio carattere centralistico. A questo punto, quando erano già state annesse l'Emilia e la Toscana ed era avviata l'impresa dei Mille, fu istituita presso il Consiglio di Stato una 'commissione temporanea di legislazione' deputata a formulare un nuovo assetto amministrativo. Il 13 agosto il ministro per l'Interno Farini inaugurò i suoi lavori con una 'nota' cautamente favorevole ad un assetto regionalistico. Lo stesso fece in novembre il suo successore, Marco Minghetti, che quindi nel marzo del '61 presentò un disegno di legge di riforma che peraltro rifiutava ogni vera ipotesi regionalista e semmai mirava a potenziare l'istituto provinciale, delineando l'ipotesi di dar vita a «consorzi permanenti di province». Fin dall'inizio, l'ostilità verso il centralismo di tipo francese era bilanciata dalla pari ostilità mostrata dall'opinione moderata verso un federalismo di tipo statunitense o svizzero («nessuno oserebbe di discen trare l'amministrazione a tal grado che può mettere a repentaglio l'unità politica e civile», scrisse Minghetti).19 E questo timore per i pericoli di disgregazione insiti in una concessione di autonomia a province di tradizioni sociali, culturali e amministrative distanti da quelle sarde andò accrescendosi e drammatizzandosi di fronte all'annessione del Mezzogiorno. Come ha scritto Ernesto Ragionieri, «lo sviluppo del seme del decentramento fu arrestato dal prorompere della questione meridionale».20 I modi stessi in cui le province meridionali furono annesse - con la forza, e con scarso o nullo contributo dei suoi quadri dirigenti - maturò nei moderati la convinzione che ogni concessione di autonomia, oltre a mettere in discussione l'unità stessa, avrebbe consegnato il potere nelle mani di élites retrive e ben poco amanti della libertà, se non esplicitamente borboniche (e forse anche perciò di tendenze autonomistiche). Anche in questo caso, vi fu una accesa polemica contro la semplice estensione delle leggi sarde .21 Ma l'incalzare degli avvenimenti politico-militari condusse a nuove misure d'emergenza. Nel giugno del 18 Cfr. I. ZANNI ROSIELLO, L'unificazione politica ed amministrativa nelle 'Province dell'Emilia (1859-60), Milano, 1965. "Cit. da E. RAGIONIERI in Politica e amministrazione cit., p. 93. 20 Ibidem., p. 88. 21 Cfr. A. SCIROCCO, Governo e paese nel Mezzogiorno nella crisi dell'unificazione (1860-67), Milano, 1965; In., Il Mezzogiorno nell'Italia unita (1867-1865), Napoli, 1979. 222 1861 morì Cavour. Il suo successore, Ricasoli, il 9 ottobre abolì il regime provvisorio ed estese a tutto il regno la legge sarda e nel dicembre ritirò il progetto Minghetti. L'intera questione fu rinviata a una successiva discussione, ed in effetti negli anni successivi fiorì una ricca letteratura pamphlettistica attorno ai migliori ordinamenti da darsi al paese, letteratura nel complesso favorevole a una modifica degli ordinamenti sardi in senso decentralistico. Tuttavia la varietà delle voci che allora si levarono e delle proposte concretamente avanzate non consentì che si formasse un orientamento comune quale era richiesto dalla delicatezza e dalla complessità dei rapporti di forza stabilitisi tra le varie province del paese, e soprattutto tra il centro-nord e il Mezzogiorno: l'emergenza del momento, le esigenze di controllo sociale, il timore di alimentare fratture socio-territoriali consigliarono di rimandare ogni riforma a tempi migliori. Si giunse così nel 1865, nella nuova emergenza dettata dal trasferimento della capitale a Firenze, alla decisione di adottare il sistema sardo evitando ogni ulteriore dibattito parlamentare sull'argomento. Il revirement degli esponenti cavouriani - esemplare appare al riguardo il percorso seguito da Bettino Ricasoli dall'autonomismo toscano al rigido unitarismo - oltre a dare una risposta agli interrogativi che si erano posti gli storici forniva loro un paradigma interpretativo assai chiaro: la prevalente tendenza anti-centralistica delle culture politiche del tempo cedeva alla ragione storica del centralismo; si trattasse della convinzione che lo 'stato moderno' doveva imporsi con le sue logiche razionalizzatrici, oppure che le classi dirigenti periferiche non fossero all'altezza del compito, o che occorresse prevenire il pericolo di gravi fratture sociali e territoriali, o ancora che l'accentramento fosse «condizione necessaria alla salvaguardia dei rapporti di classe che stavano alla base dello Stato unitario italiano »,22 in ogni caso un 'rigido accentramento' finiva col presentarsi come una soluzione obbligata nel contesto politico e sociale del tempo. Si noti che lo schema interpretativo ora descritto può essere applicato anche alle vicende successive dell'ordinamento comunale e provinciale. Infatti i progetti di riforma con cui la sinistra andò al potere nel 1876 subirono continue rielaborazioni e rinvii negli anni in cui veniva allargato il suffragio e crescevano le tensioni politiche, fin quando la spinta realizzatrice di Crispi li portò a compimento, tutelando però il sistema dai pericoli derivanti dalla realizzazione di alcune misure decentratrici (come l'elettività del sindaco e della presidenza della giunta pro 22 Così E. RAGIONIERI, Politica e amministrazione cit. p. 125. e ani cit. p. 125. 223 vinciale) con elementi di nuovo centralismo.23 Le riforme introdotte nell'epoca giolittiana ampliarono le competenze comunali in maniera assai rilevante e significativa, ma sempre accompagnando 1e maggiori autonomie con rinnovati controlli, tanto che si ritiene che fosse quella 'l'epoca d'oro' dell'istituto prefettizio. Passato il regime fascista, che evidentemente spezzò la dialettica tra opposizione, opinione autonomistica e linea governativa (senza che perciò si perfezionasse il disegno statalista) 24 e raggiunta con la costituzione repubblicana la massima affermazione del principio autonomista, quella dialettica riprese in termini assai simili, focalizzandosi questa volta sul problema dell'attuazione del dettato costituzionale e del decentramento, cosicché nuovamente si sono viste le opposizioni 'di sistema' fare leva sul tema delle autonomie, e i governi rinviare o ostacolare le riforme per timore delle fratture politiche che il decentramento avrebbe potuto provocare nell'ordinamento nazionale. Come ha osservato Roberto Ruffilli, «quello che si è realizzato, subito dopo l'entrata in vigore della Costituzione, è stata l'applicazione di quella cosiddetta legge della reversibilità delle parti, che ha visto, in genere, nel nostro paese, le forze salite al potere sulla base di una tradizione autonomistica accantonare queste tradizioni, e forze di opposizione, anche di tradizione non autonomistica, impegnarsi, in rapporto alle esigenze del ruolo di opposizione, in queste battaglie autonomistiche» .25 In tempi ancor più recenti, nei nostri anni Novanta, l'insorgere di partiti regionali e di rivendica 23 Nell'ottica fin qui analizzata, cfr. C. RAGIONIERI, Politica e amministrazione cit. E, per una analisi del momento politico, R. ROMANELLI, Francesco Crispi Crispi e la riforma dello Stato nella svolta del 1887, ora in ID., Il comando impossibile. Stato e società nell'Italia liberale, 2a ed., Bologna, 1995. 24Sui caratteri dello 'statalismo' fascista cfr. A. AQUARONE, L'organizzazione dello stato totalitario, Torino, 1965. Per il tema qui trattato, rinvio sinteticamente al mio Centralismo e autonomie cit. 25 Cfr. R.RUFFILLI, Battaglia autonomistica e riforma L' riforrna dello Stato democratico, ora in Istituzioni società stato cit., III, p. 762. Nello stesso senso Miglio, sottolineando la permanenza del contrasto-che si direbbe strutturale c paralizzante-tra le opposte opinioni di chi ritiene incompiuta e fragile l'unità statale e chi la ritiene invece fin troppo dispotica ed oppressiva» [...] «E questo radicale contrasto di posizioni critiche diventa ancora più significativo quando si constata che a sostenere le une o le altre, nel corso del secolo, si alternano indistintamente tutte le fazioni ed ì movimenti in cui si viene man mano articolando la lotta politica in Italia: una alternanza che non si risolve e spiega nella monotona vicenda del potere - per la quale sinistre e destre, senza distinzione, quando sono al governo appaiono sensibili alle ragioni dell'unità, e quando si trovano all'opposizione sposano la causa del particolarismo». Cfr. Le contraddizioni dello Stato unitario cit., p. 28. Nello stesso senso Ettore Rotelli e Francesco Traniello, a proposito del dibattito sulle regioni: <<a mano a mano che l'indagine storica della questione regionale è stata approfondita, si è venuto constatando [...) che molte volte si era verificato in passato quel singolare 'gioco delle parti', per cui chi aveva propugnato le autonomie, allorché si era trovato all'opposizione, le aveva osteggiate al governo, salvo magari riproporle dopo essere tornato all'opposizione». Cfr. Il problema delle autonomie conre problema storiografico, in Regioni t, Stato dalla Resistenza alla Costituzione, cit., p. 24. 224 zioni federalistiche sembra riproporre la stessa dinamica, nella quale le opposizioni spingono la rivendicazione autonomistica fino ad estremi impercorribili, lasciando ai governi - che in linea di principio dichiarano di condividere l'istanza anticentralistica - la responsabilità delle mancate riforme. A me sembra che dal nodo costituente derivi dunque una interpretazione sistemica che tende ad imporsi come principale spiegazione strutturale all'intera dinamica dei rapporti tra centro e periferia, nono stante le sue contraddizioni e interne tensioni. In questo quadro è spesso accaduto che, per dare conto di quelle tensioni gli storici abbiano fatto ricorso a locuzioni ossimoriche più evocative che analitiche (penso all'assetto 'liberal-autoritario' di cui scriveva Ruffilli al 'liberismo antiautonomista' di Raffaella Gherardi, ma anche al mio 'comando impossibile' e così via). La varietà delle motivazioni, dei percorsi intravisti, dei programmi e degli interessi presenti in quella congiuntura, nonché alcuni problemi istituzionali che allora si presentarono e i percorsi alternativi che furono discussi o sperimentati, benché segnalati dagli storici, non hanno dato vita a un diverso disegno esplicativo. Scarsi sviluppi hanno ad esempio avuto gli spunti già offerti nel dibattito dei primi anni Sessanta da quegli studiosi che forse perché portatori di una sensibilità a tematiche proprie della tradizione cattolica erano portati a mettere l'accento, anziché sull'opposizione diretta tra centro e periferia, piuttosto sul ruolo assegnato o negato ai vari gruppi, corpi e interessi sociali e istituzionali intermedi dalle voci e dalle proposte allora in gioco, non tutte facilmente collocabili sui fronti dell'innovazione e della conservazione. Mi riferisco ad esempio a Roberto Ruffilli. Prendendo in considerazione non solo la legislazione comunale e provinciale, ma anche altri aspetti delle riforme allora discusse come il contenzioso amministrativo, o la pubblica sicurezza - Ruffilli individuava una tendenza «a liberalizzare, secondo la prospettiva liberal-garantista individualista, il rapporto tra il singolo cittadino e lo Stato» fermo restando invece «il rifiuto della liberalizzazione del rapporto fra lo Stato e le varie comunità e forze sociali», e su questa base sottolineava che sia il liberalismo che lo 'statalismo' esprimevano tendenze molteplici, ciascuno presentando aspetti ideali, programmatici e innovativi, ed altri più 'conservatori', inclini cioè a difendere interessi costituiti di varia natura .26 Gianfranco Miglio, a sua volta, sottolineava l'importanza delle 26 Cfr. R. RUFFILLI, Governo, Parlamento e correnti politiche cit., p. 298. Sul complesso degli studi di Ruffilli in tema di autonomie mi sono soffermato in Ruffilli e gli studi sulle autonomie locali, ìn Roberto Ruffili. Un percorso di ricerca, a cura di M. RIDOLFI, Milano, 1990. 225 proposte, presto lasciate cadere, intese a rafforzare la presenza periferica dello Stato in circoscrizioni territoriali più ampie delle province .27 Pur rimanendo sul piano della lettura formale degli ordinamenti, va infatti notato che fin dall'inizio il sistema prefettizio era apparso intrinsecamente debole per certe sue caratteristiche che lo differenziavano dal modello francese delle 'prefetture integrate', riducendone l'efficacia e le valenze 'dirigistiche'. Il prefetto italiano infatti esercitava un controllo sulle amministrazioni locali, ma non sugli uffici periferici dell'amministrazione centrale come avveniva in Francia .28 Inutilmente nel 1868 il ministro dell'interno Carlo Cadorna tentò di operare un decentramento di poteri governativi e un loro rafforzamento in sede periferica unificando molte attribuzioni di uffici periferici dello Stato nel prefetto, che così sarebbe stato una 'autorità provinciale accentrante'.29 Una logica simile si ritrova in un progetto crispino - anch'esso non realizzato - di creare dei 'prefetti distrettuali', alla cui guida e sorveglianza sarebbero stati ricondotti molti servizi amministrativi decentrati, e ancora qualcosa di simile fu realizzata da Rudinì nel 1896 per la sola Sicilia con la creazione di uno speciale 'Commissario civile'. 30 Le disfunzioni lamentate nel sistema prefettizio mostrano che il 27 «Distratti dalla clamorosa contesa fra 'regionalisti' ed 'unitari', noi tutti abbiamo troppo sottovalutato la posizione di quegli esperti di amministrazione che, raccogliendo l'eredità dei tecnici piemontesi di vecchia scuola, continuarono ad insistere sull'idea di una circoscrizione territoriale maggiore di quella affidata, allora come ancora oggi, al Prefetto, e di una sostanziale accrescimento dell'autonomia e della potestà dei funzionari periferici». Cfr. G. MIGLIO, Le contraddizioni dello Stato unitario cit., p. 36. 28Su questo aspetto, già sottolineato da R. C. FRIED, ha richiamato l'attenzione anche Sidney TARROW, il quale spiega che i liberali italiani «non cercarono di realizzare l'unità interministeriale dell'amministrazione, che era la chiave del sistema francese, bensì cercarono un modo per esercitare il controllo territoriale con strumenti più forti. Gli italiani [...] erano pìù che disposti ad usare i mezzi polizieschi del prefetto contro l'agitazione sociale, ma gli altri ministeri agivano liberamente a livello territoriale. Se il prefetto francese era 'un re nel suo Dipartimento' , il prefetto italiano era un'estensione del Ministero degli Interni, con il suo noto interesse per l'ordine pubblico e per 'fare' le elezioni. Gli altrì ministeri potevano invece esercitare il loro potere nelle province senza essere soggetti al suo controllo, e non vi era nulla di equivalente al mito napoleonico in grado di tenere insieme lo stato». Cfr. Tra centro e periferia, Il ruolo degli amministratori locali in Italia e in Francia, Bologna, 1979, pp. 50-51. Sull'eco che il confronto con la Francia ebbe nel dibattito italiano cfr. i cenni di P. BONINI, Amministrazione e costituzione: il rnodello francese, Roma, 1999, pp. 13-26. 29 Proprio sugli aspetti tecnico-amministrativi dell'Istituto è intervenuto di recente G. ASTUTO, Cornmissariato civile e amministrazioni comunali nella Sicilia di fine secolo, in Storia Amministrazione Costituzione, V[ (7998), n. 6. 29 Sul progetto Cadorna del 1868, oltre a R. C. FRIED, Op. cit., pp. 84-105, cfr. S. SEPE, Amministrazione e «nazionalizzazione». Il ruolo della burocrazia statale nella costruzione dello Stato unitario (1867-1900), ìn M. MERIGGI, P. SCHIERA (a cura di), Dalla città alla nazione. Borghesie ottocentesche in Italia ` in Germania, Bologna, 1993, pp. 313-315. 226 rapporto di subordinazione della periferia al centro era tutt'altro che diretto, e fin dall'inizio complicato da una serie di barriere, di differenti percorsi e di soggetti intermedi. A ciò si aggiunga che il paradigma centralistico così come era disegnato dalla legge comunale e provinciale (lo abbiamo sopra descritto come «ordinamento uniforme e gerarchico di enti territoriali sottoposti al controllo e alla tutela di autorità sopraordinate dirette dal centro») non si applicava a tutti i settori e a tutte le materie. A parte il fatto che anche in materia comunale la legge attribuiva spazi di manovra di qualche rilievo ai municipi, come ad esempio quello che riguardava il dazio consumo, uno dei cespiti non secondari delle finanze locali che poteva dar vita a una sorta di politica economica municipale, 30 non tutte le materie erano sottoposte al meccanismo centralizzatore; non l'assistenza, ad esempio, che una legge del 1862 lasciava alla piena autonomia delle 'opere pie', 31 o non l'università, che fu 'nazionalizzata' con molta gradualità e molti contrasti.32 Ciò peraltro non ha suggerito agli storici di modificare il 'paradigma centralistico'; in questi ultimi casi ad esempio - opere pie e università -, essi hanno attribuito la mancata o difettosa centralizzazione alla resistenza degli interessi coinvolti e dunque hanno delineato una 'mancata statualizzazione' che rientra appieno in un comune quadro esplicativo, sostanzialmente fondato sullo schema binario dell'impulso centrale al quale rispondono resistenze o adeguamenti periferici. Si tratta di uno schema che, stante il ruolo decisivo attribuito al centro (ovvero allo Stato) nei processi di acculturazione nazionale e di creazione del mercato, tende ad essere applicato anche agli studi su cultura ed economia, dei quali, come ho detto, ho scelto di non occuparmi in questa sede. Così sommariamente delineato un primo schema esplicativo del rapporto tra centro e periferia che si è imposto a partire dalla fase costituente, va poi detto che maggiori elementi di complessità sono stati introdotti via via che gli studi: a. hanno ampliato il ventaglio dei temi 30 Manca peraltro una trattazione dell'argomento. Cfr. però G.ALIBERTI, II Dazio sui Consumi dopo l'Unità, in Nord e Sud, XIV (1967), e, per un più ampio contesto, P. FRASCANI, Finanza locale e sviluppo economica: appunti sulla dinamica della 'Pesa pubblica in età liberale, ora in ID.,Finanza, economia ed intervento dall'un unificazione agli anni Trenta, Napoli, 1988. 31 Ricordo che la legge del 3 agosto 1862 che regolò l'attività delle opere pie sanciva la piena autonomia degli enti. Cfr. S. SEPE, Stato e opere pie da Minghetti a Depretis, in Quaderni sardi dí storia, IV - V (1983-1984), n. 4. Un maggior intervento pubblico si ebbe solo con la legge crispina di riforma delle opere pie, sulla quale si vedano ì vari contributi raccolti in ISAP, Archivio, n.s., 6, Le riforme crispine, IV, Arnministrazione sociale, Milano, 1990, pp. 3-332. 32 M. MORETTI, I.PORCIANI, Il sistema universitario tra nazione e città: un campo di tensione, in M. MeRiGGI, P SCHIERA (a cura di), Dalla città alla nazione cit. 227 trattati; b. sono passati dall'analisi formale degli ordinamenti a quella del funzionamento degli apparati, seguendo una evoluzione che caratterizza la storiografia delle istituzioni; c. hanno esteso l'attenzione a periodi successivi al momento costituente risorgimentale, nei quali non solo la fisionomia della pubblica amministrazione andò mutando, ma si confrontò con paralleli processi di democratizzazione. Un primo terreno di ricerca a cui prestare attenzione riguarda lo studio degli apparati centrali dello stato e della pubblica amministrazione in genere.33 Benché la storia dell'organizzazione amministrativa centrale non riguardi specificamente la tematica del rapporto tra centro e periferia, è evidente che quando dalla descrizione formale dell'ordinamento amministrativo - e dei dibattiti politici connessi - si passa a una maggiore attenzione per il funzionamento degli apparati stessi e per il personale burocratico, inevitabilmente si affronta il tema dell'impatto degli apparati periferici dello stato - singole prefetture, intendenze di finanza, provveditorati agli studi, etc. - con la società e le strutture di potere periferiche.34 A questi vanno aggiunti gli studi sul personale amministrativo, centrale e periferico. Riguardo a quest'ultimo, messo d'un canto l'insieme dei sindaci, che solo di riflesso possono essere considerati come funzionari, e ai quali comunque non sono stati dedicati studi sistematici come quelli loro dedicati in Francia,35 nemmeno il personale impiegatizio minore ha gran ché attirato l'attenzione degli storici.36 33 I notevoli traguardi raggiunti dagli studi in questo campo sono testimoniati dalle opere recenti di S. SEPE, Amministrazione e storia. Problemi della evoluzione degli appaiati statali dall'Unità ai nostri giorni, Rimini, 1995, e soprattutto di C. MELIS, Storia dell'amministrazione italiana 1861-1993, Bologna, 1996, alle quali rinvio per l'intera materia. 34 A questo argomento sono specificamente dedicate le riflessioni di S. SEPE, Amministrazione e nazionalizzazione. Il ruolo della burocrazia statale rulla costruzione dello stato unitario (1861-1900), in M. MERIGGI - P SCHIERA, Dalla città alla nazione cit. Allo studio dell'azione periferica dell'amministrazione statale sono dedicati N. RANDERAAD, Autorità in cerca di autonomia. I prefetti nell' Italia Liberale, Roma 1997 e, in ISAP, Archivio, n. s, 6, sopra citato, in particolare i voll. I, Amministrazione centrale, e III, Amministrazione locale. 35 II riferimento è a M. AGULHON, L. GIRARD, J.L. ROBERT, W. SERMAN, Les Maires en France du Consolat a nos jour, Paris, 1986. Sull'Italia vedi comunque di P Aimo, la 'sciarpa tricolore': sindaci e maires nell'Europa dell'Ottocento, ìn Jahrbuch für eurupaische Verwaltungsgeschichte, (1992) n. 4; ID., Borgomastro, maire, alcade e sindaco: ruolo e designazione dai notabili ai partiti, in Amministrare, XIII (1993), n. 1, 1993. 36 Cfr, comunque R. ROMANELLI, Sulle carte interrninate. Un ceto di impiegati tra privato e pubblico: i segretari comunali in Italia, 1860-1915, Bologna, 1989. Più di recente, cfr. M.L.D'AUTILIA, L’ impiegato comunale e prov inciale dell'Italia liberale tra lauro In privato e funzione pubblica, in L'Amministrazione comunale di Roma, (a cura di) M. De NICOLO, cit. e, per uno -specifico caso, L.CANSANO, L'organizzazione e gli impiegati del Comune di Firenze nel primo ventenno postunitario, in Storia Amministrazione Costituzione, VI (1998), n.6. 228 Ben maggiore attenzione è stata rivolta allo studio dei prefetti.37 Gli studi hanno valorizzato l'operato di alcuni funzionari, rendendo improponibile l'immagine dell'istituto prefettizio in chiave prevalente mente 'repressiva' cara alle opposizioni politiche d'ogni epoca. Ne è uscita rafforzata una interpretazione che pur senza mettere in discussione i capisaldi del paradigma centralistico, tuttavia sottolinea il carattere non tanto repressivo, ma di impulso, del centralismo prefettizio. In altre parole, i prefetti non tanto e non solo rappresentano un potere di controllo e di interdizione delle autonomie locali, come è nella vulgata anticentralistica, ma sono visti anche come 'suscitatori d'energie', portatori di un impulso al movimento, alla modernizzazione e alla nazionalizzazione.38 Ed è a questa tensione costruttiva che risultava d'ostacolo la limitatezza dei loro poteri effettivi. Comunque, sia perché in questa opera di nazionalizzazione i prefetti italiani scontassero la particolare incompiutezza degli strumenti di comando messi a loro disposizione, sia perché ogni disegno 'statalizzante' risulta inevitabilmente imperfetto quando lo si esamini nel concreto operare, fatto sta che dagli studi su singoli apparati, su prefetti e prefetture emerge una trama di complesse relazioni tra il centro e la periferia che esalta il momento del compromesso, della contrattazione, della mediazione tra diversi interessi più che quello del comando imperioso e della subordinazione più o meno recalcitrante. È questo lo sbocco interpretativo ricorrente degli studi recenti, che finisce col disegnare in maniera nuova il paradigma centralistico. L'attenzione si sposta infatti dall'autonomia come grado formale di autogoverno all'intensità dei poteri periferici, che si misurano secondo altre e più complesse coordinate, come già osservava, ma solo sul piano giuridico formale, Massimo Severo Giannini.39 Proprio perché il sistema è accentrato, il principale 37 Più che la discussione sull'istituto prefettizio interessa qui l'azione concretamente svolta dai singoli funzionari. Su questo aspetto, e sulle varie biografie, si è ormai lavorato parecchio. Si vedano tra gli altri: C GAMBI, Le statistiche dí un prefetto del regno, in Quaderni storici, XV (1980), n. 45; N.RANDERAAD, Autorità in cerca di autonomia, cit.; E. GUSTAPANE, Le fonti per la storiografia dei prefetti, in Storia Amministrazione Costituzione, ISAP, I (1993), n. 1; V. G. PACIFICI, Angelo Annaratone (1944-1922): la condizione dei prefetti nell'Italia liberale, Roma, 1990; P. PEZZINO, Un prefetto 'esemplare': Enrico Falconcini ad Agrigento (1862 - 1863), in ID. , 11 Paradiso abitato dai diavoli, Milano, 1992; V. PELLEGRINI, Biografie e memorie dei funzionari dell'Italia unita, 1994. 38 Già Ragionieri, che fu tra i primi a interessarsi all'argomento, osservava che l'operato dei rappresentanti periferici dello Stato da un lato «limitava(no) e mortificava(no) l'esistenza di ciò che dal processo storico risorgimentale traeva le premesse della sua vita», ma dall'altro «tendeva(no) ad introdurre ciò che spontaneamente non esisteva». E. RAGIONIERI, Politica e amministrazione cit., p. 124. Ma su questa linea interpretativa si sono mossi più decisamente A. AQUARONE, Alla ricerca dell'Italia liberale cit., R. ROMANELLI, Il comando impossibile cit. e N. RANDERAAD, Autorità in cerca d'autonomia cit. 39 I comuni cít. 229 strumento a disposizione della periferia per acquisire risorse politiche e finanziarie è la capacità di sviluppare rapporti col centro. In altre parole, la periferia acquista poteri in quanto tale, ovvero in quanto è nella misura in cui è resa periferia dal sistema centralistico. Da una visione «diffusionista» si passa ad una «neo-pluralista», la quale «sottolinea l'aspetto negoziale del rapporto storico tra centro e periferia ed assegna a quest'ultima un ruolo meno subordinato».40 Quest'ultima indicazione è senz'altro stimolante, e può aprire prospettive interamente nuove alla ricerca. Ma pone non pochi problemi, sia in riferimento agli orizzonti concettuali e degli strumenti analitici chiamati in causa, che della idoneità della ricerca esistente a contribuirvi. Lo sguardo si posa infatti direttamente sulla periferia, e sui suoi rapporti col centro. Ora, raramente la pur ricchissima messe di studi di storia locale adotta questa prospettiva. Anche trascurando l'antiquaria, o le mere celebrazioni in cui il municipio è ambito autoreferenziale, il nesso che la gran pare degli studi locali stabiliscono tra centro e periferia per lo più consiste nel vedere nel locale (amministrativamente definito) il luogo elettivo di formazione - o, rispettivamente, la proiezione, e magari la distorsione - di fenomeni nazionali. Ciò vale ad esempio per la storia dei movimenti politici, ed in particolare per quel filone di studi inaugurato dalla fortunata Storia di un comune socialista. Sesto Fiorentino di Ernesto Ragionieri,41 che soprattutto nei suoi successivi sviluppi tende ad indagare ad un tempo il contributo dato all'amministrazione locale dalla cultura di partito e il ruolo svolto dalle esperienze amministrative nel disegnare una (sub) cultura politica nazionale. Nel migliore dei casi e quando non è acritica riproduzione in scala minore di quanto si crede già noto su scala nazionale 42 - questa analisi locale disegna il profilo di macrofenomeni storici attraverso l'analisi contestuale delle sue manifestazioni concrete. Spiega, in altre parole, come va letto il conflitto politico, o il successo di un movimento o di uno schieramento, in un contesto sociale dato. In questa prospettiva, sono in particolare alcuni studi di microstoria - che rivendicano una chiara distinzione dalla storia locale tradizionale - a offrirci degli spunti per analizzare concretamente l'aspetto 'negoziale' di cui si parlava, perché mostrano come siano giocate 40 F. RUGGE, lntroduzione, in I regimi della città. Il governo municipale in Europa tra '800 e'900, a cura dello stesso, Milano, 1992, p. 26. 41 Roma, 1953, ristampato nel 1995. 42 Altrove ho chiamato questa tendenza storiografia 'al pantografo'. Cfr. R. ROMANELLI, La nazionalizzazione della periferia. Casi e prospettive di studio, in Meridiana, II (1998), n. 4. 230 le risorse esterne (economiche o politiche) nell'equilibrio locale.43 Manca tuttavia in questi studi una definizione del 'rapporto negoziale' che possa inserirsi in maniera convincente nel quadro dei problemi che qui si discutono. Infatti quando gli storici hanno inteso proporre una formalizzazione del rapporto di mediazione, hanno fatto in genere riferimento ad analisi politologiche o antropologiche del clientelismo politico che appartengono non tanto allo studio dei processi classici di formazione dello Stato, quanto all'analisi delle sue varianti clientelari, in ispecie in ambito meridionale, o mediterraneo, e in sostanza alludono a un discostamento da quei modelli classici, ad una loro degenerazione. Si tratta di approcci che all'inizio hanno risentito da un lato della polemica ideologica contro il clientelismo politico, dall'altro della 'scoperta' delle peculiarità della società arretrata che l'antropologia politica soprattutto anglosassone è andata facendo dopo la seconda guerra mondiale. 44 Ma torniamo alla storia dell'amministrazione. Come si è detto, nuove sollecitazioni ad articolare il rapporto tra centro e periferia sono venute agli storici dallo studio di fasi successive al primo impianto sta tuale, ed in particolare dell'età giolittiana, allorché alcune trasformazioni avvenute sul piano normativo hanno modificato in profondità il sistema. Si è detto che fu questa l'età d'oro del prefetto. E tuttavia, con 43 Ho presenti in questo senso gli studi di G.CIVILE, II comune rustico. Storia sociale dI un paese del Mezzogiorno nell'800, Bologna, 1990; G. GRIBAUDI, A Eboli. Il mondo meridionale in cent'anni di trasformazioni, Venezia, 1990. Si vedano anche, tra gli scritti minori, G. MELETTI, Gruppi al potere e politica comunale in un piccolo centro urbano delle Marche, Montemarciano alla fine dell'800, in Storia urbana, (1982), n. 21; R. ROWLAND, Nella retroguardia conflitto e integrazione in una comunità meridionale (1914-1927), in Meridies, (1987), nn. 5-6. 44 Esempi del primo approccio sono i lavori di Luigi GRAZIANO, che per primo ha introdotto questa tematica in Italia, con una interessante commistione di politologia statunitense e di gramscismo italiano, cfr. , Clientelismo e sistema politico. II caso dell'Italia, Milano, 1980, Io. (a cura di), Clientelismo e mutamento politico, Milano, 1974, nonché il volume di G. GRIBAUDI, Mediatori. Antropologia del potere cristiano nel Mezzogiorno, Torino, 1980. Ad essi va aggiunto, soprattutto grazie alla sua traduzione in italiano, F. G. BAILEY, Per forza o per frode. L'antropologia sociale e le regole della competizione politica, Roma, 1975. Tra gli esempi più noti e discussi di studi antropologici dì comunità si vedano E. C. BANFIELD, Le basi morali di una società arretrata, Bologna, 1961 - sul quale però cfr, A. PIZZORNO, Familiarismo amorale e marginalità storica, ovvero perché non c'è niente da fare n Montegrano, in Quaderni di sociologia, XVII (1967), n. 16 e A. BLOCK, La mafia in un Villaggio siciliano 1860-1960. Imprenditori, contadini, violenti, Torino, 1986 (1974). Più di recente, ha fatto uso del concetto di 'intermediazione' soprattutto L. MUSELLA in Clientelismo e relazioni politiche nel Mezzogiorno trii Otto e Novecento, in Meridiana, II (1988) n. 2 e in Individui, amici, clienti. Relazioni personali e circuiti politici in Italia Meridionale tra Otto e Novecento, Bologna, 1994. Ma sì entra così in un diverso campo di studio, quello delle reti elettorali-clientelari in regime rappresentativo, sul quale la letteratura è ormai vasta, anche se soffre anch'essa, a mio parere, di eguale indeterminatezza teorica. Sui motivi per i quali evito qui di addentrarmi in questo settore di studi rinvio alle considerazioni con cui concludo il presente intervento. A titolo indicativo mi limito a citare E. FRANZIANA, Le strutture elementari della clientela, in La scienza moderata. Fedele Lampertico e l'Italia liberale, a cura di R. CAMURRI, Milano, 1992. 231 l'estendersi delle funzioni pubbliche, nascevano anche nuove forme organizzative dell'amministrazione, che si volevano più agili e funzionali - organi decentrati per politiche di settore, aziende autonome, 'uffici speciali' e 'commissariati', etc. - che affiancarono la pubblica amministrazione tradizionale, con ciò moltiplicando i canali della mediazione, e della contrattazione, tra centro e periferia.45 Nello stesso periodo, proprio l'estensione dell'intervento pubblico in materia economico-sociale attribuiva un ruolo decisivo al governo locale. Parlando di governo locale, anziché di 'potere locale', o di 'periferia', mi riferisco speficamente alle circoscrizioni amministrative territoriali alle quali in misura crescente sono demandati compiti di gestione delle moderne politiche statali.46 Tra la fine dell'Ottocento e il primo Novecento l'Italia non fece eccezione, ed anzi mostrò una precocità nella quale l'indotto modernizzante proveniente dal centro si intrecciava con le autonome vocazioni all'innovazione proprie di alcune aree del paese in particolare. Anche in questo caso, la debolezza operativa dell'impulso centrale lasciava ampi spazi alla creatività locale. Ha osservato nel 1967 Massimo Severo Giannini che i comuni, sollecitati nella loro attività regolativa da impulsi d'origine superiore furono però anche «i più operosi creatori di istituti giuridici», tanto che «il primo periodo della nostra storia unitaria ha visto un vero e proprio "diritto comunale" che ha costituito un anticipazione di legislazione statale»..47 Fu questa la premessa del forte dinamismo mostrato dai comuni nell'età giolittiana. Se è vero è che la precedente creatività istituzionale dei comuni andò proprio allora declinando, come ha sostenuto M. S. Giannini, forse imbrigliata da una crescente normativa statale, è pur vero che si colloca allora l'esplosione di «imprenditorialità municipale» della quale ha scritto Fabio Rugge, riferendosi alla creazione delle aziende municipalizzate, l'innovazione 45 Sarà sufficiente per questi fenomeni rinviare a G. MELIS, Storia dell'amministrazione italiana, cit. 46 Per una tipologia, cfr. C. D. LOCKARD, Local government, in International Encyclopedia of the Social Sciences, vol. 9, New York - London, 1968. L'estensione dei compiti del governo locale è una caratteristica del moderno welfare, in cui sono gli enti locali a gestire in stretto rapporto con i cittadini la maggior parte dei servizi sociali. Cfr. D. DELLA PORTA, La politica locale. Potere, istituzioni e attori tra centro e periferia, Bologna, 1999. 232 47 M. S. GIANNINI, I comuni, cit. p. 35. 232 più incisiva del periodo.48 A partire dalla fine dei nostri anni Ottanta, una serie di studi locali ha esaminato l'emergere di nuove politiche amministrative, in genere ad opera di gruppi di nuova borghesia e da schieramenti politici progressisti che man mano prendono il posto del notabilato agrario più immobilista e sordo all'innovazione amministrativa.49 Le ricerche mostrano come dapprima le attività almeno formalmente imposte dalla legge alle amministrazioni locali, o tollerate come facoltative - dai servizi statistici alla viabilità e all'arredo urbano, dagli acquedotti ai cimiteri - quindi iniziative nuove di maggior impegno imprenditoriale - dall'edilizia popolare alle reti tramviarie, dalla produzione di gas all'elettricità - costituiscono terreno di formazione e di espressione di nuove culture e di nuove classi dirigenti amministrative e tecniche nelle 'periferie' del 48 P. RUGGE, Un nuovo pubblico. Profili giuridico-amministrativi dell"imprenditorinlità municipale in età giolittiana, in la municipalizzazione ín area padana. Storia Ed esperienze a confronto (a cura di) A. BERSELLI, P. DELLA PERUTA, A. VARNI, Milano, 1988. Dello stesso autore cfr. anche, 'La città che sale'; il problema del governo municipale di inizio secolo, in Istituzioni e borghesie locali nell'Italia liberale, a cura di M. BIGARAN, Milano, 1986, che delinea ìl 'protagonismo municipale' in relazione all'estendersi dei servizi pubblici, nonché Trasformazioni delle funzioni dell'amministrazione e cultura della municipalizzazione, in ISAP, Archivio n.s., n3, Milano, 1985, I. Ometto di menzionare l'ulteriore letteratura sulle municipalizzazioni, che è ormai assai nutrita. Per un quadro d'insieme cfr. M. DEGL'INNOCENTI, Il protagonismo urbano e il comune popolare tra Otto e Novecento, in Studi senesi, CVIII (1996), n.3. 49 Per mettere in evidenza il crescendo d'interesse sul tema e la congiuntura storica che ne ha visto la luce, può esser utile segnalare almeno alcuni di questi studi nell'ordine della loro apparizione, iniziando con Istituzioni e borghesie locali nell'Italia liberale, a cura di M.BIGARAN, cit., che è una prima raccolta di interventi d'impostazione problematica. Quindi: A.POLSI, Le amministrazioni locali postunitarie fra accentramento e autonomia: il caso del comune di Pisa (1860-1885), in Società e storia IV (1983) n. 23; ID., Possidenti e nuovi ceti urbani: l'élite politica di Pisa nel ventennio post-unitario, in Quaderni Storici, XIX (1984) n. 56. G. MORICOLA, La città di Avellino tra crescita e arretratezza: caratteristiche sociali ed azione amministrativa del personale politico locale in età liberale (18611903); Annali XIX (1984) n. 56 Avellino e l'Irpinia tra '800 e '900, Avellino, 1984; C. PASQUAL, Possidenti, notabili e amministrazione locale. Il comune dal 1875 al 1890, in Dueville: storia e identificazione di una comunità del passato, a cura di C. POVOLO, Vicenza, 1985; M. BIGARAN, Una città a statuto autonomo nell'Impero asburgico: il governo municipale di Trento alla fine dell'Ottocento, in AA.VV., 1948-1988. L'autonomia trentina. Origini ed evoluzione fra storia e diritto, Atti sessione storica a cura dì P. SCHIERA, Trento, 1988; A. M. BANTi, Terra e denaro. Una borghesia padana dell'Ottocento, Venezia, 1989; A.AIMO L'organizzazione della città. Amrninistrazione e politica urbana a Bologna dopo l'Unità (1859-1889), Bologna 1990; Municipalità e borghesie padane tra Ottocento e Novecento. Alcuni casi di studio, a cura di S. ADORNO e C. SORBA, Milano, 1991, con interventi su Milano, Forlì, Parma, Mantova, Bologna e Piacenza; R. BALZANI, Un comune imprenditore. Pubblici ser v izi, infrastrutture urbane e società n Forlì (1860-1945), Milano, 1991; M. BIGARAN, Infrastrutture urbane e politica municipale fra Otto e Novecento: il cascai Trento, in Passato e Presente, X (1991); Il governo della città nell'Italia giolittiana. Proposte di storia dell'amministrazione locale, a cura di C. MOZZARELLI con la collaborazione dì E. FERRARI, Trento, 1992, con studi su Ferrara, Modena, Pavia, Reggio Emilia, Roma e Udine; C. SORBA, L'eredità delle mura. Un caso di municipalismo democratico (Parma 1889-1914), Milano, 1993; Una borghesia di provincia. Possidenti, irnprenditnri, amministratori a Forlì fra Ottocento e Novecento, a cura di R.BALZANI e P HERTNER, Bologna, 1998, opera quest'ultima tra le più approfondite e dettagliate su un piccolo centro; S. MAGAGNOLI, Elites e municipi. Dirigenze, culture politiche e governo della città nell'Emilia del primo Novecento (Modena, Reggio Emilia e Parma), Roma, 1999. Più specificamente rivolti al fatto amministrativo sono invece i saggi raccolti da M. De NICOLO' in L'amministrazione comunale di Roma, cit. 233 paese. 50 Come si è detto, il rapporto col centro non è mai il problema principale di questi studi, che sono essi stessi il frutto e la testimonianza di una nuova attenzione al locale urbano e semmai si inseriscono in un filone di ricerca riguardante la storia delle borghesie e dell'imprenditorialità, più che quella dell'amministrazione. Non mancano tuttavia gli spunti sull'uso che vien fatto nella politica locale del rapporto con le autorità di controllo.51 Ma ciò che mi interessa per ora notare è che nella fase più matura - quando viene varata la legge sulla municipalizzazione e si sperimenta la maggior parte delle innovazioni nel settore dei servizi - que sto attivismo amministrativo locale fu anche espressione di una cultura municipale di forte ispirazione ideale e progettuale alimentata dalla crescita di culture politiche d'opposizione al sistema liberale - quella socialista e quella cattolica - che costruivano la loro identità nel radicamento locale e nella battaglia anticentralistica, come già si è detto. Ciò dette al governo locale un carattere particolare: le iniziative economico-sociali furono prese soprattutto dai comuni retti da giunte progressiste, fino a dar vita a varie forme di 'socialismo municipale’ o di 'corporativismo municipale' delle quali gli storici hanno riconosciuto l'appartenenza ad una comune tendenza europea .52 Tali iniziative 'periferiche' - che costituivano ad un tempo uno stimolo e una contestazione per il «centro» - nascevano dunque da contesti locali di forte tradizione, ma erano anche 50 Per usare le parole dì uno degli studi sopracitati: «Anche il caso forlivese [ ...] pullula di queste figure, specialmente medici e ingegneri, sia funzionari comunali, sia professionisti entrati in rapporto di collaborazione con l'amministrazione, sia artefici in prima persona di iniziative imprenditoriali private più o meno coronate dal successo (gas, tramvia, elettricità». Così F. CONTI, Amministratori, tecnicii, imprernditori: il mercato delle infrastrutture e la modernizzazione del territorio (1860-1914), in Una borghesia di provincia cit., p. 472. 51 Così ad esempio apprendiamo che a Panna «le richieste per un pìù stretto controllo politico sulle rappresentanze municipali, ossia per un intervento del governo a sostegno delle forze liberali minacciate dalle nuove maggioranze radicalsocialiste, risultano frutto, [...] ben più dei timori del notabilato locale che non di un disegno governativo teso a conformare indirizzi politici centrali e locali», mentre «gli amministratori liberali e quelli democratici ricompongono [...] i propri dissidi nel momento in cui sono posti di fronte all'opportunità dì schierarsi contro eventuali misure di riduzione della libertà di manovra degli enti locali». Cfr. C. SORBA, L'eredità delle mura cit., p. 76. 52 Oltre ad interventi precedentemente citati, si vedano anche, di L. RUGGE, Gli esordi della municipalizzazione in Italia: appunti su stato, autonomie, 'socialísrno municipale', in Jus, (1984), nn. 1-2; ID., Sulle tracce di un corporativismo municipale, in Economia e corporazioni. II governo degli interessi nella storia d'Italia dal Medioevo all'età contemporanea , a cura di C. MOZZARELLI, Milano, 1988; C;. SAPELLI, Comunità e° mercato. Socialisti, cattolici e 'governo economico municipale ' a gli inizi del XX secolo, del XX secolo, Bologna, 1986. Per il confronto con la Francia, cfr. l'. DOGLIANI, II dibattito franco-italiano sul socialismo municipale in Europa, in A. SCHIAVI, Indagine sociale, culture politiche e tradizione politiche e socialista nel primo '900, a cura di M. RIDOLFI, Cesena1994; ID., Un laboratorio di socialismo municipale. La Francia (1870-1920), Milano, 1992. 234 forgiate dai nuovi collegamenti e scambi che andavano stabilendosi tra municipi a livello nazionale e che presto dettero vita ad un solido reticolo associativo - come mostra la storia dell'Associazione Nazionale dei Comuni d'Italia - proprio ad opera delle culture politiche antagoniste allora emergenti, quella cattolica e quella socialista, in questo caso assai vicine l'una all'altra. 53 Abbiamo fin qui accumulato una serie di elementi che complicano notevolmente l'iniziale interpretazione del rapporto tra centro e periferia. Difficilmente infatti la dinamica del sistema può essere descritta dalla dialettica tra impulso centrale e recezione o resistenza periferiche laddove quel rapporto verticale appare, oltre che tecnicamente poco unilineare e uniforme (per le caratteristiche del sistema amministrativo), oltre che mediato da una serie di scambi nei due sensi (per il suo funzionamento 'negoziale'), anche attraversato da processi di 'nazionalizzazione orizzontale' in cui culture politiche concorrenti collegano tra loro le periferie. 54 È allora evidente che non possiamo più assumere il centralismo come un dato, limitandoci a cercare una spiegazione della 'contraddizione bloccata' che perdura nella storia italiana (originaria scelta centralistica e della sua permanenza nel tempo), ma dobbiamo riflettere meglio sulla natura del sistema. Insoddisfatti della concezione classica del rapporto di dipendenza politico-amministrativa che corre tra il centro e la periferia nello stato centralizzato, dobbiamo riformulare gli strumenti analitici a nostra disposizione, cominciando col mettere in discussione il concetto stesso di rapporti tra centro e periferia . E' possibile infatti che rispetto a locuzioni più tradizionali, come ad esempio 'accentramento-decentramento', o 'accentramento e autonomie', parlare di rapporti tra centro e periferia possa suggerire un approccio più neutrale e analitico. E' utile tuttavia cogliere le origini e le implicazioni di 53 Sull'Associazione Nazionale Comuni Italiani (ANCI) cfr. ANCI, Per lo storia dell'ANCI, a cura di R. RUFFILLI CM, S. PIRETTI, Roma, 1986, e ora O. GASPARI, L'Italia dei municipi. II movimento cornunale in età liberate (1879-1906), Roma, 1998. Per una consimile iniziativa di poco precedente si veda F. MAZZANTI PEPE, Il movimento per le autonomie locali e il decentramento ani amministrativo nell'ultimo decennio dell'Ottocento, in Storia Amministrazione Costituzione, VI (1998), n. 6. 54 Parlando di culture politiche concorrenti mi riferisco al fenomeno che la scienza politica definisce come 'subculture', termine forse non dei più efficaci per il discorso storico a causa dell'indeterminatezza delta subaltemità alla quale allude, e che comunque nel nostro caso complica ulteriormente i rapporti tra centro e perferia per l'aggiungersi dì un radicamento territoriale di tali subulture nazionali, onde si potrà parlare, in modo alquanto ambiguo, di 'subulture territoriali'. 235 una formula che ha avuto grande fortuna negli ultimi decenni e che pur essendo libera dalle forti implicazioni ideologico-politiche che hanno sempre connotato questa tematica in Italia, fin dall'origine si è mostrata carica anch'essa di forti valenze normative. Ricordo che la fortuna della formula 'centro-periferia' è legata alla ricerca di modelli di interpretazione planetaria all'indomani della seconda guerra mondiale. E' forse opportuno, riandando a quella stagione, distinguere due diversi tipi di lettura delle vicende del pianeta, l'una conflittuale, che sottolineava gli squilibri come portato dei processi di globalizzazione, l'altra che invece intravedeva la possibilità di una esportazione delle istituzioni europee occidentali agli stati emergenti. Si deve alla prima, maggiormente debitrice al marxismo ed orientata in senso economico, la tematizzazione delle asimmetrie e dipendenze che si sviluppano soprattutto in vaste aree (o 'regioni') del globo, ma anche all'interno dei singoli stati nazionali, ben espresse dal concetto di «colonialismo interno»..55 Non c'è dubbio che in quest'ottica potrebbe esser vista la vicenda della periferia meridionale del nostro paese. Tutti i temi fin qui esaminati possono in effetti essere ri-declinati nella prospettiva dualistica e fanno parte a buon diritto della cosiddetta questione meridionale: basti pensare al ruolo svolto dall'emergenza meridionale nella scelta originaria dell'accentramento, o alla funzione di stimolo che i prefetti, in gran parte di origine centro-settentrionale, svolsero nelle province del Mezzogiorno, alla presunta maggiore aderenza della società meridionale ai meccanismi clientelari, e così via. Non è certo il luogo questo per discutere la storia della questione. Va però trattenuta l'idea che la nozione di centro e periferia vada anche vista rinunciando all'indifferenza verso la varietà dei singoli contesti locali - una indifferenza che è propria del tipo ideale, e che si è rispecchiata nell'uniformità amministrativa - ed anzi segnalando gli squilibri nascenti dall'applicazione delle stesse norme in contesti tanto diversi, il che porta ad includere, nella nozione di centro/ periferia, l'idea che la distanza della periferia dal centro non sia soltanto territoriale ma anche sociale, culturale, ed economica, e che perciò la perifericità possa apparire più specificamente come marginalità o come dipendenza. Ma lo schema interpretativo che sottosta al centralismo italiano 55 ll riferimento è a M. HECHTER, Il colonialismo interno, Torino, 1979 (ed. or. 1975), che sulla scia delle teorie di André Gunder Frank e Rodolfo Stavenhagen (incentrate queste sull'America latina), ha proposto anche per l'Europa (la sua analisi riguarda il Galles, l'Irlanda e la Scozia) una interpretazione del nesso centro-periferia come stato di dipendenza strutturale interna prodotta dallo sviluppo capitalistico. 236 va riferito piuttosto all'altro filone di studi, quello riguardante il processo di formazione dello stato nazionale moderno, o meglio la natura dei 'sistemi politici', di cui lo stato nazionale appare come una variante, tipicamente europea e particolarmente adatta a descrivere i fenomeni ottonoventeschi. Nati con l'obiettivo esplicito di individuare un modello universale di formazione dello stato da applicare poi ai sistemi politici di nuova formazione nel mondo ex-coloniale,56 gli studi sui sistemi politici ai quali mi riferisco proposero inizialmente dei modelli interpretativi a carattere normativo e di tipo evoluzionista (developmentalist), nel senso che tendevano a prospettare un percorso storico ottimale. e necessario, secondo la tendenza, o la moda, che caratterizzò quella fase. 57 Il processo di formazione del moderno Stato europeo era visto come costruzione di vasti spazi territoriali in cui un centro emergente sottoponeva al suo comando militare-burocratico la periferia. Si può dunque dire che la costruzione di un legame unidirezionale tra centro e periferia non sia tanto un aspetto della costruzione dello stato moderno, ma l'elemento che lo definisce. In questo quadro il rapporto tra centro e periferia assume un aspetto decisamente 'diffusionista', e si concentra sul nesso comando/ resistenza o adattamento in una struttura idealmente 'radiale', ovvero che 'periferizza' le società locali subordinandole a un rapporto asimmetrico col centro e che tra l'altro prende in considerazione i rapporti tra centro e periferia come se le periferie non avessero legami tra loro. Come si vede, ci troviamo di fronte a un quadro in cui potrebbero facilmente essere fatte rientrare le visioni del centralismo italiano fin qui discusse - che potremmo dire evoluzioniste e diffusioniste, anche se nulla trapelò di quegli studi politologici in Italia, le cui esperienze storiche del resto non furono prese in considerazione dalla politologia euro 56 L'obiettivo è esplicito nei convegni patrocinati dal Dipartimento di scienze sociali dell'UNESCO: <<.Was there anything the leaders and the intellectuals of the post-colonial world could learn from the early European experiences of state-building and national unification from the sixteenth to the nineteenth century?>>,. Così S. ROKKAN, Centre-formaton, nation-building and cultural diversity: Report on a Unesco Programme, in S. N. ESENSTADT, S. ROKKAN, eds., Building States and Nations, Beverly Hills-London, 1973, p. 27. 57 Il riferimento è alle teorie degli stadi di sviluppo, economico o politico, di Rostow o di Organski. Ma vedi il volume sopra citato a cura di S.N, EISENSTADT e S. ROKKAN, Building States and Nations, nonché la vasta e fortunata opera curata da C. TILLY, La formazione degli stati nazionali nell'Europa accidentale, Bologna, 1984 (cd. or, 1975). 237 pea.58 Ciò che qui ci interessa, tuttavia, è che se ci si limitasse a considerare tale schema di formazione degli stati come strutture di comando tra centro e periferia, troppe cose resterebbero fuori dell'esperienza storica della formazione degli stati nazionali come quello italiano. E in effetti nelle analisi della formazione dei sistemi politici di cui stiamo parlando, la struttura di comando militare-burocratico (la statualità) non è mai scissa dalla dinamica dei fenomeni economici e culturali, ovvero dal costituirsi della nazione. Tali processi economici e tali processi culturali - nel più ampio significato antropologico del termine cultura - possono seguire il medesimo andamento 'irradiante', o diffusionista (in tal caso definiremmo il centro come «area privilegiata del territorio dove i detentori delle risorse-chiave politiche, economiche e culturali si riuniscono in apposite istituzioni per esercitare il loro potere decisionale»). 59 Può accadere però che i vari processi seguano percorsi differenti. Non soltanto ciascun «sottosistema» (politico, culturale ed economico) «possiede una propria base di infrastrutture e propri metodi di penetrazione territoriale» 60, ma le linee 'verticali' del comando - dal centro alla periferia - si intersecano con fenomeni 'orizzontali' di aggregazione di diversi strati sociali (in particolare delle élites), nel campo culturale, religioso e sociale, che collegano diversamente le periferie, generando, nelle parole di Stein Rokkan, delle «cross-locally organizational subcultures» e delle «crosslocally organized economic units».61 Ne risulta una configurazione di casi diversi che fa presto rigettare ogni idea evoluzionista e con essa le gerarchie che ne conseguono (con la collocazione di casi più avanzati e più arretrati lungo il medesimo percorso).62 I casi europei presi in considerazione - in genere appartenenti all'Europa centro-settentrionale 58 Negli studi sullo state formation si fa in genere riferimento, oltre che alle grandi monarchie storiche, ai casi minori dell'Europa settentrionale e orientale, e da lì si passa semmai ai paesi extraeuropei. Come sì è avuto modo di vedere, il caso italiano ha interessato alcuni scienziati politici anglosassoni - da Fried a Tarrow e a Putnam - ma soprattutto gli antropologi che hanno trovato nel Mezzogiorno un'area di sperimentazione di studi sulle comunità. Raramente tutto cìò si è incontrato con gli studi storici italiani. Della perdurante separazione tematica e disciplinare testimonia la recente sintesi di D. DELLA a PORTA, La politica locale cit., che alquanto sorprendentemente ignora del tutto gli studi storici in argomento. 59 D. W. URWIN, Centro e periferia, in Enciclopedia delle scienze sociali, I, Roma, 1991, p. 709. 60 Ibidem., p. 710. 61 S. ROKKAN, Centre formation cit., p.18. 62 Ancora nelle parole riassuntive dì Rokkan, si riferisce così l'opinione in particolare di S. N. EISENSTADT: There was no single dominant model of the modern polity. The leaders of the devepoling nations were faced with a variety of alternatives. These might differ in cost to different section of the populations but there was still a great deal of leeway for rational choice,. Cfr. ivi., p. 29. Di qui, in opposizione alla cultura degli stadi di sviluppo e del diffusìonismo, la prospettiva analitica delle alternative storiche ai processi di sviluppo. 238 - suggeriscono allora di parlare alternativamente di stati «policefali», o «consociazionali»;63 o di delineare differenti tipi di periferie (come le «periferie esterne», le «periferie interfaccia», le «periferie enclaves» tipizzate da Urwin);64 e magari di ipotizzare stati privi di centro,65 quasi che l'analisi approfondita finisca col vanificare l'utilità descrittiva della formula centro-periferia, che del resto è da tempo oggetto di critiche essenziali.66 Inutile dire che queste indicazioni possono risultare particolarmente stimolanti per discutere il caso italiano, che si presenta de visu come policentrico (e di conseguenza anche 'pluriperiferico', nel senso che ciascuno dei centri - identificabili con le ex-capitali - è attorniato da periferie proprie, come è il caso manifesto dell'ex Regno delle Due Sicilie), con dualismi economici, aree decentrate di sviluppo, subculture nazionali e territoriali, forti densità di corpi intermedi, e così via; tutti fenomeni studiati ciascuno nel loro ambito, ma raramente collegati tra di loro a delineare un modello specifico di rapporti tra centro e periferia non più incentrato su una visione 'statocentrica' e territoriale, ma che pure dia conto, dandogli nuova veste, di un dato storico inoppugnabile, e cioè il rilevante ruolo svolto dallo stato nella formazione del sistema politico italiano e nella stessa nazionalizzazione del paese. Di recente si sono invece aperti scenari diversi. Sotto l'evidente influsso delle trasformazioni istituzionali, economico-sociali e culturali che caratterizzano l'Italia di fine secolo (e che - è inutile dirlo - hanno offerto nuovo terreno di coltura alle radicatissime tendenze anticentralistiche, antistatuali e filoautonomistiche dell'opinione), alcuni studiosi 63 Così S. ROKKAN, Centre formation cit, p.78. Dello stesso cfr. la «mappa concettuale d'Europa» disegnata in Cities, States, and Nations. A dimensional Model for the Study of Contrasts ín Development, ibid., sul quale cfr. l'. FLORA, Il macro-modello dello sviluppo politico europeo di Stein Rokkan, in Rivista italiana di scienza politica, X (1980), n. 3. 64 D. W. URWIN, Centro e periferia cit., pp. 711-12. 65 Così è descrivibile l'attuale assetto belga. Cfr. A. MUGHAN, Belgium: All Periphery and No Centre?, in Centreperiphery Relations in Western Europe, a cura di Y. MENY e V WRIGHT, Londra, 1985. 66 Delle quali dà conto anche Derek W. Urwin nel complicare e differenziare la formula fino al suo esaurimento: <<un paese può avere nessuno, uno o pìù di un centro e nessuna, una o più di una periferia»; in termini culturali poi, assunto che le relazioni più centrali per ogni individuo sono quelle che egli sperimenta personalmente nella propria comunità, «la località, anche se oggettivamente periferica, diventa centrale: tutto ciò che sta fuori, incluso il centro dello Stato, diventa periferico». Cfr. Centro e periferia, cit, pp. 708-709. Riportano queste critiche anche Y. MENY e V. WRIGHT IT nell'opera sopra citata: «centres and peripheries are everywhere, depending on the point of observation which is adopted, centres have peripheries and each periphery is articulated around a centre» (Centre-periphery Relations, cit., p. 1). 239 sembrano oggi propensi ad abbandonare del tutto la formula 'centroperiferia', con le sue varie implicazioni. Per tenere presente ancora una volta i contesti attuali dei quali si guarda al passato, basti dire che sul piano politico-istituzionale il modello centralistico sembra aver concluso il suo ciclo da quando l'obiettivo dell'attuazione del dettato autonomistico della costituzione repubblicana è stato superato dalla scelta di nuovi assetti legislativi che sanciscono la priorità delle competenze locali e il carattere residuale e suppletivo di quelle statali, mentre si discute di modificare la stessa costituzione in senso federalistico.67 Nel frattempo sul piano economico-sociale (e poi anche politico), lo sviluppo della piccola e media industria nelle regioni dell'Italia centrale e centro-orientale ha contribuito a generare identità territoriali fortemente sentite, anche se culturalmente malcerte e geograficamente non ben definite. Nel dibattito sul 'localismo' italiano che ne è seguito, anziché riferirsi alle tematiche del local government, è sembrato ad alcuni più pertinente privilegiare una concezione socio-antropologica per la quale «l'ambito locale coincide con un contesto territoriale concepito dagli attori sociali come teatro di interazioni e di riconoscimento, e che è caratterizzato da una «società locale» specifica, per storia, economia, cultura, politica».` Il profilo dei soggetti territoriali essendo tratteggiato da alcuni caratteri loro propri, radicati nella permanenza di tratti antropologici più che dal loro essere periferie rispetto a un qualche centro, «è sfumata anche la polarità oppositiva fra il locale e il globale, concepiti, da molti autori, non come contesti alternativi, ma come ambiti la cui interazione è reciprocamente necessaria».` Va allora aperta una parentesi riguardo all'identificazione territoriale e amministrativa di tali 'ambi ti locali'. In via teorica almeno, questa accezione di 'locale' sembra assai lontana dai riferimenti storici e istituzionali che per almeno un secolo hanno fatto coincidere 'periferia' con le circoscrizioni amministrative e su di esse ha concentrato l'attenzione degli storici, e cioè la regione (a lungo oggetto di discussione, più che realtà effettiva), la provincia, e sopra ogni altra il comune amministrativo. Per effetto della maggior rilevanza, storica e amministrativa, del comune, su di esso si è naturalmente concentrata la maggior parte degli 67 Mi riferisco alle leggi che a partire dal 1990 hanno riconosciuto a comuni e province funzioni proprie, non delegate dallo Stato, nonché all'esito-peraltro puramente assertivo, com'è nella tradizione - delle due commissioni bicamerali sulla riforma dello Stato. 68 I. DIAMANTI, Localismo, in Rassegna italiana di sociologia, XXXV (1994), n. 3, p. 420. 69 l. DIAMANTI, Localismo cit., p. 419. 240 studi, senza bisogno di una definizione dell'oggetto. 70 Assai più incerta è la legittimità storica delle altre circoscrizioni amministrative. Mentre la fragilità dell'ente provinciale si riflette nella povertà della produzione storiografica relativa,71 nel caso della regione ha pesato, come è ovvio, la sua mancata realizzazione, ed anzi la sua negazione, in gran parte costringendo l'analisi al dibattito delle idee. Ciò non toglie che aree di riferimento provinciali e regionali - siano esse regioni storiche, distretti amministrativi, o ampie partizioni geografiche come 'il Nord', 'il Centro' e 'il Sud' - sono sempre state presenti nel discorso politico-amministrativo, economico, sociale e infine storiografico. Basti ricordare senz'ordine né completezza le partizioni territoriali utilizzate nell'ordinamento giudiziario, amministrativo, statistico, che hanno fatto parlare di una sorta di 'regione prima della regione',72 oppure il rilievo che hanno sempre avuto nella vita politica i gruppi parlamentari regionali, o la convergenza di interessi individuati attorno a poli regionali, come è il caso del 'gruppo toscano', della 'deputazione meridionale' o dello 'Stato di Milano', come suona l'efficace titolo di un importante studio di Fausto Fonzi sull'opposizione a Crispi,73 per non parlare del riferimento territoriale presente, a volte implicito e a volte controverso, nei concetti di 'triangolo industriale' o di `questione meridionale', alla quale di tanto in tanto è stata contrapposta una 'questione settentrionale'. 74 Non si potrebbero tuttavia assegnare tali studi e questioni ad una storiografia sulle regioni, che in sostanza è mancata fino a quando non si è concretamente posto il problema della loro realizzazione istituzionale. 70 Accade però che l'uniformità amministrativa contribuisca a volte a cancellare anche dal discorso storico la radicale differenza -e per certi versi l'antitesi - che distingue la città e il centro urbano dal villaggio e dal comune rustico. Sul concetto di città, vedi P. RUGGE, Le nozioni di città e cittadino nel lungo Ottocento. Tra 'pariforme sistema' e nuovo particolarismo, in Dalla città alla nazione, cit. 71 Non mancano peraltro studi di vario orientamento e valore. A. A. MOLA, Storia dell'arnministrazione provinciale di Cuneo dall'Unità al fascìsrno (1859-1925), Torino, 1971; A.POLSI, Comuni e controlli: il ruolo e la funzione delle deputazioni provinciali dalla legge comunale del 1865 alla riforma crispina, in M.BIGARAN (a cura di), Istituzioni e borghesie locali cit.; Sui consiglieri provinciali: F. G. ORSINI, Per una storia delle amministrazoni provinciali pugliesi. La Provincia in Terra d'Otranto, 1861-1923, Manduria, 1994; La Provincia di Firenze e i suoi amministratori dal 1860 a oggi, a cura di S. MERENDONI e G. MUGNAINI, Firenze, 1996. 72 Sui compartimenti statistici cfr. I,. GAMBI, Compartimenti statistici e regioni costituzionali, Napoli, 1964; S. PATRIARCA, Numbers and Nationhood. Writing Statistics in Nirreteenth-century Italy, CAMBRIDGE, 1996, in particolare pp. 189-209. 73 F. FONZI, Crispi e lo stato di Milano, Milano, 1972. 74 Si veda di recente di M. MERIGGI, Breve storia dell'Italia settentrionale dall'Ottocento a oggi, Roma, 1996. 241 Sono allora apparsi degli studi specificamente dedicati all'argomento da Ettore Rotelli e da Roberto Ruffilli nell'ambito dell'ISAP, un istituto che ha sempre collegato la ricerca storico-istituzionale con finalità di riforma e di progettazione politica.75 II riferimento prevalente al quadro normativo e discorsivo, ovvero all'ente regione e al dibattito che ha accompagnato la sua introduzione nell'ordinamento, costituiva il pregio ma anche limite di questi lavori, che difficilmente potevano condurre a più ampi studi sulle regioni storiche e sul loro sviluppo moderno. Lo testimoniano le incertezze e gli squilibri interni che hanno caratterizzato un'opera di grande rilievo - e di grandi dimensioni - nata negli stessi anni e solo oggi prossima al compimento: la Storia delle regioni Einaudi, una iniziativa problematica fin dall'inizio, che è servita più come grande contenitore che per delineare un nuovo soggetto.76 La nostra parentesi istituzionale si chiude quindi con un ritorno all'idea di una 'periferia'- se così vogliamo ancora chiamarla - svincolata dal troppo rigido riferimento alla circoscrizione amministrativa e attratta piuttosto da spazi di aggregazione e di identificazione economico-sociali o culturali. Per ciò che riguarda la regione italiana, è una idea che ha pure una sua storia e una sua storiografia, anche se spesso soffocate dal dibattito politicoistituzionale sull'ente regione.77 In realtà l'indeterminatezza di tali diversi spazi storici, e la difficoltà di individuarne i contorni - in dimensione di volta in volta sub -, super o transnazionale - all'interno dei processi di formazione degli stati e delle economie 75Cfr. di E. ROTELLI L'avvento) della regione in Italia. Dalla caduta del regime fascista alla Costituzione repubblicana (1943-1947), Milano, 1967, che studiava il percorso seguito dalla crisi del fascismo alla carta costituzionale del '48, a cui è seguito, di R. RUFFILLI, La questione regionale (1862-1942), Milano 1971, nonché, a cura di M. LEGNANI, Regioni e stato dalla Resistenza alla Costituzione, cit., in particolare la p. Ill, La Regione nel dibattito politico dalla Resistenza alla Costituente. 76 II problema dell'identificazione dello spazio regionale è peraltro presente, sia pure in misura diversa, in tutti i volumi, fino a delineare in alcuni casi un 'modello regionale' specifico. Così è per esempio per il Veneto (Torino, 1984), a cura di S. LANARO, che vi ha scritto Genealogia di un modello, Un tentativo di avviare una riflessione complessiva sulla dimensione regionale fu fatto in occasione della ripresa dell'opera einaudiana in un seminario di studio tenutosi nel febbraio 1979 per iniziativa della stessa casa editrice e di Quaderni storici, che però non ebbe seguito. Ne rimane l'intervento allora pronunciato da Giovanni Levi, che tentò dì collegare l'iniziativa alla discussione internazionale sulla formazione degli stati e ad alcuni degli autori qui precedentemente citati, come A. BLOK, M. HECHTER o C. TILLY, nonché una mia breve nota a commento entrambi in Quaderni Storici XIV (1979) n. 41. 77 L. GAMBI è tomato più volte sull'argomento. Cfr. ad esempio Le 'regioni' italiane come problema storico, in Quaderni storici XII (1977), n. 34; Le regioni negli stati preunitari, in Studi di storia medievalile e moderna per Ernesto Sestan, vol. II, L'età moderna. Firenze, 1980, e di recente, Il concetto di regione non come sinonimo di unità amministrativa, come sistema territoriale. Riflessioni sul regionalismo di Pier Paolo D'Attorre, in Memoria e ricerca, VII (1999), n. 3, intervento che ci consente di ricordare uno studioso e una rivista che si sono particolarmente occupati del tema. Per uno sguardo sintetico si può comunque rinviare a S. CAVAZZA, Identità e culture regionali nella storia d'Italia, in Memoria e ricerca, a III (1995), n. 6, 242 moderne rende assai problematico il discorso .78 Quanto poi sia difficile distinguere tali aree 'naturali' dalle partizioni amministrative correnti lo mostra uno studio di forte impatto sul dibattito accademico, quello di uno studioso non italiano, Robert Putnam, che ha preso in considerazione precisamente l'ente regione, così come è stato introdotto nell'Italia del 1971.79 Ritenendo che l'ente regione italiano potesse costituire una occasione unica per verificare la riuscita di una istituzione del tutto nuova, Robert Putnam ha elaborato una serie di misuratori della sua 'efficienza' dalla stabilità degli organi di governo alla correttezza gestionale, dalla produttività legislativa nei vari settori al gradimento dell'elettorato, e così via- e ha rilevato una differenziazione abbastanza netta tra le varie regioni, disegnando una carta di maggiore efficienza che ritaglia alcune regioni del centro-nord del paese. Domandandosi quali fossero le possibili cause di questo più alto standard, ha creduto di rilevarle in un più accentuato `spirito civico', che ha collegato all'esistenza di una società civile più coesa e ricca già nell'Ottocento e che, risalendo indietro nei secoli, corrisponderebbe all'area del comune medievale. Ecco dunque, secondo questa impostazione, disegnata una 'regione', o area subnazionale, che però attraversa le regioni amministrative e la cui tendenziale omogeneità risiede nelle virtù civiche per definizione proprie dei centri urbani, e dunque, tornando alla nostra terminologia, del comune amministrativo. Non a caso, si tratta delle aree e dei centri urbani sui quali si è avuta la maggior quantità di studi sui governi e le borghesie urbane da noi già ricordati. Del dinamismo di questa periferia urbana abbiamo infatti già parlato, in particolare in relazione all'attivismo municipale di inizio fascicolo appunto dedicato a Identità e culture regionali. Non è un caso che Memoria e ricerca sia particolarmente interessata alla dimensione locale; al pari di altre riviste- come Quaderni storici, ad esempio - Memoria e ricerca offre l'esempio di un percorso ricorrente nella cultura storiografica italiana, che conquista una presenza nazionale a partire da una ben definita matrice regionale, matrice che in entrambi i casi citati segnala la vitalità della fascia centrale della penisola. Un fenomeno che andrebbe esso stesso considerato nella nostra rivisitazione del rapporto tra centro e periferia. 78 Per una interessante discussione sul tema, anch'essa assai problematica e disomogenea, si veda Gli spazi del potere. Aree, regioni, Stati: le coordinate territoriali della storia contemporanea, a cura di F. ANDREUCCI e A. PESCAROLO, o, Firenze, 1989, che tra l'altro comprende di KOCKA, Fecondità e complessità del concetto di spazio come categoria storiografica, e di HOBSBAWN, La dimensione statale come fondamento delle articolazioni regionali. 79 Cfr. R.PUTNAM, La tradizione civica nelle regioni italiane, Milano, 1993. Tra i numerosi interventi suscitati dal libro di Putnam, vedi: P.PEZZINO, L'Italia delle regioni, in La rivista dei libri, settembre 1994; L. CAFAGNA, II cavallo di Federico, in Quaderni di sociologia, n.s., XXXVII, (1993), n. 5, pp. 172-180, nonché il dibattito curato da M. RIDOLFI SU Memoria e ricerca, Il (1994), n. 3, con interventi di M. FINCARDI, L. MUSELLA, t n, G. RICCAMBONI e M. RIDOLFI. Cfr. anche D. DELLA PORTA, La politica locale, cit. pp. 102-111. 243 Novecento. Il problema è però di cogliere i tratti specifici e le radici della loro modernità. Che la periferia, investita dai processi di modernizzazione, possa poi recare ad essa un contributo particolarmente accentuato e dinamico non deve stupire.80 Nel caso italiano, questo dinamismo e questa modernità possono magari risultare più accentuati che non altrove grazie al policentrismo urbano che notoriamente caratterizza il paese, nonché alla fragilità e alla scarsa legittimazione del centro. Il problema sul quale lo studio di Putnam richiama invece la nostra attenzione, al di là della sua dubbia validità in sede storiografica, è il fatto che nel caso italiano la modernità di alcune periferie, fattasi addirittura dirompente in tempi recenti, sembra espressione di valori, interessi, perfino tradizioni civiche e assetti sociali 'tradizionali', anzi di lunga e lunghissima durata, che precedono di gran lunga la formazione del centro statale e ancor meglio di esso incarnano la sua vocazione modernizzante. A ben guardare, gli studi sulle borghesie urbane ottocentesche offrono diverse testimonianze del ruolo svolto nei processi di modernizzazione da gruppi sociali che devono la loro interna coesione e la comu nanza di valori e di interessi a matrici e origini 'premoderne'.81 Ma c'è di più. Questi gruppi e questa coesione sembrano svolgere un ruolo essenziale nella stessa configurazione di una identità nazionale. Alcuni studi recenti, dedicati alle politiche simboliche, celebrative e monumentali messe in atto nell'Italia di fine Ottocento-primi Novecento, mostrano quanto sia rilevante il ruolo della 'periferia' cittadina non solo nel recepire e riorganizzare i messaggi che provengono dal centro, come è ovvio, ma anche nel dare ad essi corpo e sostanza che altrimenti essi non avrebbero. L'identità simbolica della nazione, in altre parole, si plasmerebbe nella vitalizzazione e nella manipolazione locale di comuni messaggi; in 80 Il dinamismo della periferia può infatti esser considerato un fenomeno proprio della modernizzazìone, come risultato di impulsi che provengono dal centro politico al pari della diffusione della cittadinanza, dello stato di diritto, del sistema di mercato, etc. In quanto tali, essi possono radica re diritti e attese tra di loro in conflitto. In questo senso D. W. URWIN parla di due tipi di diritti, «the right to respect for community of origin, whatever its language or cultural composition, and the right to opportunities for full use of individual abilities. The first may be called the right to roots, the other the right to options». Cfr. The Prize of a Kingdom: Territory, Identity and the Centre-periphery Dimension in Western Europe, in Centre-Periphery Relations, cit, a cura di Y. MENY e W. WRIGHT, cit. p.164. Cìò può inoltre suscitare un surplus di modernizzazione periferica che costituisce una ulteriore smentita degli schemi diffusionisti. Come scrivono Merry e Wrìght a pg. 3, contrary to the view of certain supporters of the developmentalist school who view peripheral demands rooted in history as an attempt to prevent the process of political modernization, the awakening of the periphery was often accompanied by, and sometimes even strenghtened, radical economic and social change». 81 Un caso esemplare è costituito dallo studio citato di A. M. BANTI, Terra e denaro, in cui la formazione di un gruppo modernamente borghese a Piacenza e le fratture interne alle classi dirigenti locali sono spiegate a partire dalle diverse matrici aristocratiche dei vari gruppi. 244 questo senso ad esempio le celebrazioni municipali «costituiscono i momenti forti di una identità locale e regionale sul nuovo terreno della nazione. Esse rappresentano un modo per dare una connotazione nazionale a identità locali più antiche e radicate allo scopo di rendere più vicina la nazione».82 Arriveremmo così a dire che alcune periferie si trovano ad occupare una posizione più `centrale' nei processi di modernizzazione italiana - ciò che del resto è fatto di immediata percezione per gli abitanti della penisola - proprio in quanto sono più lontane dalle fonti dell'input modernizzante e meglio capaci di conservare tratti culturali specifici, valori e coesione sociale tradizionali. Il che, ovviamente, assesterebbe un nuovo colpo, oltre che al già vacillante concetto di modernizzazione, anche ad un'idea del nesso centro-periferia basata su di esso. In sostanza, ho dunque tratteggiato per l' 'Italia unita' un modello centralizzatore e diffusionista di relazioni tra centro e periferia che tuttavia crea, o lascia, ampi spazi ad un protagonismo della periferia che ha tanti caratteri prestatuali e preunitari. Mi sentirei di fermarmi qui se non sentissi muovermi un'obiezione di fondo, che non potrebbe essere elusa. Lo schema qui tratteggiato appartiene infatti per intero alle complesse logiche dello stato amministrativo moderno, ma sembra ignorare il meccanismo fondamentale di rapporti tra centro e periferia in regime costituzionale, quello costituito dalla rappresentanza politica. L'omissione è voluta, naturalmente: più volte, nel corso del mio ragionamento, ho censurato le aperture che sarebbero venute naturali - quasi necessarie - verso la tematica dell'intermediazione politica, e che avrebbero richiesto di scandagliare il vasto campo di studi sul ceto politico, sulla natura delle pratiche trasformistiche, sui singoli esponenti politici e sulla costruzione delle fortune, sui loro rapporti con il collegio elettorale - e dunque quasi sempre con le città, di cui molti esponenti politici erano sindaci o amministratori -, e ancora sui primi collegamenti di tipo partitico, o 'prepartitico' che essi stabiliscono a livello locale, o 8 2 C o s ì I . P O R C I A N I , I d e n t i t à locale - identità nazionale. In costruzione di una doppia apparenza, in O . JANZ, P. SCHIERA, H. SIEGRIST (a cura di), Centralismo e federalismo h a Otto e Novecento. Italia e Germania n confronto, Bologna, 1997. Della stessa autrice si veda anche La festa della nazione. Rappresentazione dello Stato e spazi sociali nell'Italia unito, Bologna, 1997. Sul versante 'nazionale' cfr. B. TOBIA, Una patria per gli Italiani. Spazi, itinerari, monumenti nell'italia unita (1870-1900), Roma-Bari, 1991. Per un periodo successivo cfr. S. CAVAZZA, Piccole patrie. Feste popolari tra regione c nazione durante il fascismo, Bologna, 1997. 245 nazionale, e così via, tutti temi che appunto riguardano il nesso tra centro e periferia in regime costituzionale. Va infatti ricordato che una delle funzioni originarie dei sistemi rappresentativi moderni è proprio quella di collegare le periferie al centro, di unirle in una comune «identità pubblica».83 E se la costruzione dello stato amministrativo della quale qui si è prevalentemente discusso enfatizza il flusso 'discendente', dal centro alla periferia, in regime costituzionale esso si incontra e si intreccia inestricabilmente con l'altro, 'ascendente', che corre dalla periferia al centro attraverso la rappresentanza politica. Ho invece scelto di distinguere i due flussi, che ho appena detto inestricabili, al fine di mettere meglio in evidenza alcune caratteristiche del sistema politico italiano. Ha osservato Gianfranco Miglio, parlando dei postulati del regime rappresentativo, che essi, «applicati al secolare meccanismo dello Stato moderno, assumevano ruoli e producevano effetti profondamente diversi, a seconda che si trattasse di comunità politiche rese omogenee dalla prolungata azione livellatrice dei governi assoluti e dalla lunga convivenza storica, oppure di comunità eterognee, tenute insieme soltanto dalla recente presenza di una classe politica più o meno consolidata».84 Quest'ultimo fu appunto il caso dell'Italia unita e delle sue classi dirigenti liberali, le quali adottarono sì il regime rappresentativo - a mio parere con scarsa consapevolezza della sua natura e funzione storica 85 - ma allo stesso tempo affidarono le funzioni di controllo della periferia, di unificazione e nazionalizzazione, a meccanismi propri delle monarchie assolute, delle quali certamente avevano maggiore esperienza e cognizione, anche se, come abbiamo visto nel confronto col caso francese, spesso li applicarono con perplessità e contromisure che ne limitavano l'efficacia. Questo squilibrio, questa disarmonia tra meccanismi rappresentativi e meccanismi amministrativi nella comune funzione di collegamento tra centro e periferia è la caratteristica del sistema italiano che vorrei mettere in evidenza. Nei primi decenni liberali, per quel difetto di 83 Lo ricorda A. PIZZORNO, evocando la concezione di J. STUART MILL, «che concepisce la rappresentanza come un processo di riunificazione delle componenti disperse e divergenti di una entità sociale», cosicché si può concludere che «la rappresentanza è un metodo di governo che si applica alle società caratterizzate da una qualche forma di spaccatura fondamentale, o di divisione». Cfr. I regimi rappresentativi: crisi e corruzioni, in Parolechiave, II (1994), n. 5, p. 69. 84 Cfr. G. MIGLIO, Le contraddizioni della Stato unitario cit. p. 29. 85 L'ho argomentato di recente in Nazione e costituzione nell'opinione liberale avanti il '48, in La rivoluzione liberale e le nazioni divise, Convegno internazionale di studio, Venezia, 1999. 246 precedente amalgama delle classi dirigenti, così come una borghesia nazionale si formò attraverso l'accostamento di identità borghesi-municipali, anche l"unificazione alta', a livello parlamentare - tratto in sé proprio del sistema rappresentativo classico, di tipo inglese settecentesco - avvenne per mera convergenza parlamentare dei rappresentanti dei singoli collegi, o tutt'al più della loro espressione regionale, come già si è notato, con alcune conseguenze assolutamente peculiari del sistema di governo italiano, come la scelta calibrata dei ministri per provenienza regionale.86 È questa 'inadeguatezza unificatrice' del sistema parlamentare a far risaltare il ruolo dello stato amministrativo nella costruzione del nesso tra centro e periferia. E ciò non solo per la diffusione delle pratiche 'trasformistiche', che appunto appaiono come meccanismo di mediazione continua, e spesso perversa, in genere spiegate proprio sottolineando il peso esercitato della centralizzazione amministrativa sul sistema rappresentativo. Vi è infatti un altro aspetto della questione che vorrei mettere in evidenza, e cioè il fatto che il potere amministrativo 'discendente' non soltanto tende ad opporsi a quello 'ascendente'; e semmai a mediare con esso, ma che spesso manifesta la sua propria vocazione a costituirsi esso stesso come forma di rappresentanza. Come è noto, nei primi decenni liberali i consigli elettivi dei comuni e delle province erano diretti da sindaci nominati dall'alto e, nel caso consiglio provinciale, dal prefetto stesso. Era chiaramente espressa negli intenti del legislatore l'idea che tali agenti del governo fossero rappresentanti delle popolazioni - ed in particolare di quegli interessi delle popolazioni che le rappresentanze elette avrebbero potuto mal rappresentare - secondo una concezione della rappresentanza 'organica', o 'ratione officii', che evidentemente non appartiene all'idea moderna della rappresentanza.87 Nello stesso senso possono essere interpretate la funzioni affidate ai numerosi `consigli' o 'consigli superiori' che a livello locale e nazionale 86 È ciò che G. MIGLIO ha chiamato 'struttura cripto-federale': «La pretesa di concentrare formalmente ogni potere in un Parlamento a base 'rappresentativa' nazionale, urtandosi contro gli incoercibili particolarismi territoriali, diede luogo in realtà ad una struttura cripto-federale. Stimolati dallo stesso meccanismo istituzionale ad occuparsi degli affari amministrativi locali pìù che dei grandi problemi legislativi del paese, ì parlamentari divennero i patroni degli interessi particolari e l'espressione di clientele ben determinate. Il risultato finale fu non solo la denegazìone patente del principio per il quale, secondo la dottrina da Burke in poi, sta o cade lo Stato parlamentare - e cioè, come vorrebbe ancor oggi la Costituzione vigente, che l'eletto rappresenti l'intera nazione e non i propri elettori - ma addirittura il riconoscimento di fatto di una articolazione regionale della stessa Rappresentanza, sancìto attraverso il rispettato costume di tener conto di quella nella formazione delle compagini governative». Cfr. Le contraddizioni dello Stato unitario, cit., p. 40. 87 Richiama l'attenzione su questi aspetti P AIMO, Amministrazione e 'nazionalizzazione' cit. pp. 329 e sgg. E, prima di lui, G. MIGLIO, Rappresentanza ed amministrazione cit. 247 affiancavano l'azione di governo, e che in genere sono descritti come forme di 'rappresentanza degli interessi', senza che sia del tutto chiaro il nesso con la rappresentanza politica. È dunque la convinzione di quanto fosse fragile e scarsamente legittimata la rappresentanza politica di fronte alla predominanza dello stato amministrativo che mi ha suggerito di trascurare la prima a favo re del secondo nel delineare i rapporti tra centro e periferia. In questo senso mi è occorso di chiamare sostanzialmente 'assolutistica' la natura di quei rapporti.88 Accogliendo l'espressione pur nella sua forzatura - e chiarendo al lettore che essa va letta appunto nel contesto del rapporto tra centralismo e autonomie - un osservatore attento ha notato che «l'impiego di questo aggettivo intenzionalmente iperbolico, se comprensibile quando riferito ad un governo dall'alto non democratizzato - monoclasse o autoritario - diventa problematico allorché, con la Repubblica, la presenza dei partiti penetra tanto al centro che in periferia, democratizzando entrambi i termini del rapporto».89 L'osservazione va accolta in pieno, e segnala l'importanza della cesura rappresentata dall'avvento del regime costituzionale repubblicano. Essa peraltro enfatizza fino oltre le mie intenzioni l'efficacia dell'iperbole per i decenni dell'Italia liberale e liberaldemocratica, alla quale si limita il presente contributo. Toccherà agli studiosi del periodo successivo dirci fino a che punto di tale matrice 'assolutistica' non rimangano significativi residui anche nel periodo successivo.90 88 Cfr, il mio Centralismo e autonomie cit. 89 Così N. RUGGE, Storia dello Stato: istituzioni e dottrine giuspubblicistiche, in Storica, lII (1997), n. 7, pp. 730-131. 90 Come si potrebbe ad esempio pensare allorché ci si accorge che i richiami alla rappresentanza organica e ratione officii presenti nell'ordinamento liberale e da me appena ricordati sono stati espressi dall'autore citato con intento apertamente propositivo in occasione di una celebrazione ufficiale del centenario delle leggi di unificazione. Mi riferisco a G. MIGLIO, Rappresentanza cd amministrazione, cit. che è la relazione d'apertura del convegno celebrativo, svolta nel salone dei Cinquecento in Palazzo vecchio a Firenze.