Evasione fiscale: la fine del segreto bancario in Europa
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Evasione fiscale: la fine del segreto bancario in Europa
Evasione fiscale: la fine del segreto bancario in Europa (?) A fronte della crisi economica internazionale i Governi delle principali potenze economiche mondiali si sono trovati davanti alla necessità di reperire fondi in ingenti quantità, al fine di dare avvio a manovre volte al risanamento delle proprie economie e all’arresto dei fenomeni di recessione avviati dalla crisi stessa. Una delle direzioni intraprese è stata quella della lotta all’evasione fiscale, in particolare in forma di fondi offshore, cioè capitali collocati nei cosiddetti “paradisi fiscali” e sottratti alla tassazione dei paesi in cui sono prodotti. In Italia il problema è stato recentemente affrontato dal Governo presieduto da Mario Monti nella forma del noto accordo con la Svizzera, tentativo che si è arenato prima di portare a una conclusione, complici anche le vicende politiche italiane; anche l’attuale Governo presieduto da Enrico Letta ha tentato di trovarvi una soluzione, ma allo stesso modo non ha potuto vantare esiti totalmente soddisfacenti, almeno sin’ora. Viene dunque da chiedersi che cosa renda tanto difficile questa operazione di recupero, quali siano gli ostacoli che impediscono alle varie agenzie del fisco di scoprire l’entità, il collocamento e i titolari dei suddetti capitali. Tra questi una posizione di sicura rilevanza è da attribuire al segreto bancario. Dare una definizione universale di segreto bancario risulta difficile a causa della grande diversità con cui lo stesso è concepito nei diversi ordinamenti giuridici. Tradizionalmente il modello più pervasivo è quello svizzero, che trova un esplicito riconoscimento a livello legislativo nella “Legge federale sulle banche e le casse di risparmio” (LBCR), al cui art. 47 è statuito che “chiunque rivela intenzionalmente informazioni coperte dal segreto bancario, è punito con la detenzione fino a tre anni o con una pena pecuniaria”. Il segreto bancario svizzero gode anche di un riconoscimento, seppur indiretto, a livello costituzionale: l’art. 13 della Costituzione federale postula infatti il principio della protezione della sfera privata della persona, ciò che è considerata la principale finalità del segreto medesimo. Diametralmente opposta è la concezione del segreto bancario “all’italiana”: non solo non si riscontra nel nostro ordinamento positivo alcuna norma che lo sancisca espressamente; ma addirittura la dottrina giuridica, nell’opinione maggiormente condivisa, tende a escludere l’esistenza di un segreto bancario come tale, autonomamente connotato, riconducendo i relativi profili di segretezza alle norme generali che sanciscono i doveri di correttezza e buona fede, nella fase delle trattative precontrattuali come nell’esecuzione del contratto (artt. 1175 e 1375 cod. civ.). Di fronte a tale diversità è dunque lecito domandarsi cosa permetta di accomunare sotto una stessa espressione realtà così differenti. Tale elemento va individuato nella finalità di questo istituto: la protezione della riservatezza del cliente, per evitare che importanti informazioni, di carattere patrimoniale ma non solo, che la banca naturalmente acquisisce durante la sua attività vengano diffuse e rivelate a terzi, con un ovvio danno alla privacy e alla sicurezza patrimoniale e personale del cliente. Il segreto bancario è quindi ispirato alla tutela di elementi ritenuti basilari in qualunque stato di diritto. Il problema sorge allorché questo venga opposto a controlli di vigilanza e quindi diventi un ostacolo alla repressione di reati di carattere finanziario e fiscale: non è raro che clienti facciano leva su questi aspetti per porre i propri patrimoni al sicuro da una tassazione ritenuta eccessiva, coadiuvati da istituti di credito che non esitano a porre il veto del segreto bancario di fronte alle richieste di informazioni avanzate dalle autorità. Il segreto è dunque uno strumento così pregnante da bloccare qualsiasi tentativo di far valere la legalità? Fortunatamente la risposta è negativa: in numerosi casi esso tollera eccezioni a fronte delle quali le autorità possono acquisire le suddette informazioni. Così in Italia, oltre a limitazioni di minor impatto repressivo, il segreto non può essere invocato di fronte a provvedimenti di sequestro disposti dal giudice, né a richieste di informazioni scritte oppure ordini d’esibizione di atti e documenti emessi nell’ambito di procedimenti penali o ai sensi dell’art. 212 c.p.c. Soprattutto il segreto non può essere opposto all’Amministrazione Finanziaria dello Stato, cosa che svuota l’istituto pressoché totalmente della sua utilità pratica. Anche in Svizzera, dove, come s’è visto, il segreto assume connotati giuridicamente molto più rilevanti, le autorità fiscali hanno la possibilità di procurarsi informazioni bancarie. Inoltre è stata introdotta una legge in materia di riciclaggio di denaro (LRD) che limita fortemente la portata del segreto, allo scopo di obbligare le banche a identificare i propri clienti e conseguentemente a non accettare, anzi a segnalare, persone che cercano di aprire relazioni bancarie in Svizzera senza una motivazione lecita e plausibile. I profili critici diventano evidenti se si tiene presente che le sopracitate limitazioni hanno efficacia solo nazionale, mentre i fenomeni di evasione si caratterizzano per una dimensione transnazionale, rendendo quindi necessari specifici accordi tra gli Stati interessati per rendere efficaci le misure previste o per attuarne di nuove. Gli Stati che adottano il segreto bancario percepiscono però dei vantaggi considerevoli dalla sua presenza, attirando ingenti capitali che vengono qui depositati o investiti proprio a fronte dei benefici che il riparo del segreto stesso può garantire. Si capisce agevolmente perché tali Stati siano restii a rinunciarvi. Queste pratiche si riscontrano soprattutto nei cosiddetti “paradisi fiscali”: sono comunemente definiti in questo modo Stati che, oltre ad adottare una legislazione che limita fortemente la trasparenza (spesso proprio tramite un ricorso spregiudicato al segreto bancario), impongono una tassazione estremamente bassa o addirittura nulla sui redditi, costituendo per il cliente un rifugio da un prelievo troppo oneroso. Spesso l’accesso ai vantaggi offerti da questi “tax havens” è garantito tramite la costituzione di società offshore, cioè società registrate in un certo Stato, solitamente un paradiso fiscale, ma che conducono la propria attività su un territorio diverso da quello dello Stato di registrazione: in questo modo è possibile usufruire dei vantaggi fiscali applicati nel luogo in cui si è registrati e al contempo di quelli offerti da un mercato solitamente più sviluppato (marketing, ricavi, produttività…). Pochi dati sono sufficienti per comprendere l’enormità degli interessi in gioco: nel 2000 il Fondo Monetario Internazionale aveva calcolato che il peso finanziario dei paradisi fiscali si aggirava intorno ai 1.700 miliardi di dollari. Tale cifra è stata rivista a 11.500 miliardi di dollari nel 2005 dalla Rete mondiale per la giustizia fiscale. Si calcola che più del 50% dei flussi finanziari mondiali transitino per i paradisi fiscali. Diversamente da quello che si può pensare il fenomeno non interessa solamente realtà asiatiche, come Malesia o Filippine, o americane, come Panama, Costa Rica o Isole Cayman; pure in territorio europeo geograficamente inteso è possibile riscontrare numerosi Stati che nel 2009 sono stati inclusi nella lista OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo svulippo economico) dei paradisi fiscali, seppur con differenti caratteri: Andorra, Gibilterra, Liechtenstein, Monaco, San Marino, Austria, Lussemburgo, Svizzera e altri. Come ha agito dunque l’Unione Europea? Inutile dire che il bersaglio principale delle azioni multilaterali è stato il segreto bancario. In primis, nel 2011 è stata emanata la direttiva n.16, che disciplina la cooperazione amministrativa fra gli Stati membri, con l’obbiettivo di rendere possibile la copertura di tutte le persone fisiche e giuridiche nell’Unione relativamente al pagamento (o, nel caso di evasione, al non pagamento) di imposte di qualsiasi tipo. Estremamente rilevante è la disciplina che la direttiva fornisce in merito allo scambio automatico obbligatorio di informazioni tra gli Stati: l’articolo 8 dispone che i dati fiscali su redditi da lavoro, compensi corrisposti ai dirigenti, polizze vita, pensioni e proprietà immobiliari, riguardanti periodi d’imposta dal 1 gennaio 2014 e relativi a residenti in altro Stato membro, dovranno necessariamente essere oggetto di comunicazione ai Paesi di provenienza. Un altro importante intervento europeo ha riguardato anche i cinque Paesi extra UE allora considerati paradisi fiscali: Svizzera, San Marino, Andorra, Monaco e Liechtenstein. In occasione dell’Ecofin (riunione dei Ministri delle Finanze dei Paesi UE) tenutosi a Bruxelles il 14 maggio 2013 è stato raggiunto un accordo per dare mandato alla Commissione Europea di negoziare una nuova intesa sulla fiscalità del risparmio con questi Stati, non potendo estendere a essi la direttiva 2011/16; questo grazie al favore di Austria e Lussemburgo, che avevano fino ad allora posto un veto a tale possibilità: segno di una sempre maggiore consapevolezza della necessità di una cooperazione volta alla repressione dell’evasione fiscale, ormai maturata anche da Paesi da sempre restii alla collaborazione. Il fine delle trattative, ancora in corso, è quello di consentire la tassazione di interessi e di altri redditi maturati da cittadini residenti nei Paesi membri che hanno depositi e altri assets finanziari nei paesi terzi, sulla base di un regime di scambio automatico di informazioni dalle banche alle autorità dei Paesi di provenienza. I risultati più significativi riguardano però la Svizzera, considerata il maggior paradiso fiscale in territorio europeo e il principale baluardo del segreto bancario. I primi cedimenti alle pressioni esterne in materia hanno portato al cosiddetto “modello Rubik”: accordi bilaterali che la Svizzera aveva firmato con Gran Bretagna e Germania e che prevedevano un rientro impositivo per queste ultime su redditi depositati in Svizzera, senza ricevere però informazioni sull’identità dei relativi evasori. Tali accordi sono però stati oggetto di dure critiche da parte della Commissione Europea, perché introducevano una frammentazione nella strategia europea di lotta all’evasione e lasciavano intatto il segreto nella Confederazione Elvetica. Ancora, il 9 ottobre 2013 il Consiglio federale svizzero ha approvato una legge che entrerà in vigore il 1 novembre e attribuirà all’ufficio Mros, l’autorità svizzera antiriciclaggio, la competenza di comunicare a partners stranieri numeri di conto corrente, informazioni su transazioni di capitali o saldi di conti attualmente coperti dal segreto bancario o d’ufficio. L’ultima, ma forse più importante, spallata al segreto elvetico è stata data il 15 ottobre 2013 con la sottoscrizione da parte della Svizzera della “Convenzione OCSE sulla mutua assistenza in materia fiscale”, nella quale spicca la previsione che il segreto bancario e il requisito dell’interesse fiscale nazionale non possano essere invocati a fondamento del rifiuto di scambiare informazioni a fini fiscali. Anche l’ultimo tassello del mosaico rappresentante la fine del segreto bancario svizzero sembra essere stato collocato al suo posto. Siamo dunque giunti alla fine? A sostegno della tesi contraria si levano alcune considerazioni giuridiche. L’adesione alla Convenzione dovrà infatti essere ratificata dal Parlamento elvetico e, una volta superato questo scoglio non indifferente, sarà probabilmente sottoposta a referendum popolare secondo quanto previsto dalle procedure elvetiche per l’adesione a trattati internazionali, in quanto le maggiori forze politiche svizzere si dicono ad essa contrarie. Va inoltre considerato che lo scambio automatico previsto dal trattato è possibile solo a fronte di specifici accordi bilaterali tra i firmatari dello stesso; e su ognuno di questi accordi sarà nuovamente necessaria la ratifica parlamentare e potrà essere proposto referendum popolare. Si segnalano anche alcune riserve riguardo alla legge che entrerà in vigore dal 1 novembre: da questa data l’Mros potrà comunicare alle agenzie antiriciclaggio estere le informazioni per sospetto di riciclaggio nell’ambito di reati di diritto comune (corruzione, droga, truffa), ma non per i reati fiscali, come l’evasione. Questo perché è necessaria una revisione del diritto penale fiscale svizzero: si attende per il 2015 la punibilità del riciclaggio dei proventi di crimini fiscali. Solo da allora la novità del 1 novembre genererà i suoi effetti fiscali e sarà possibile effettuare comunicazioni anche sul riciclaggio dei proventi di crimini fiscali. Si può comprendere allora l’affermazione di Paolo Bernasconi, avvocato e notaio autore della legge antiriciclaggio elvetica, secondo il quale “la fine del segreto bancario svizzero è annunciata ma non sarà per domani”. Attendiamo dunque sviluppi futuri per valutare la reale portata di queste novità. Certo è che la conquista più importante è sicuramente di stampo culturale: l’intenzione manifestata da certi Paesi, indicati come paradisi fiscali, di allinearsi agli standard europei in materia di trasparenza e di abbandonare i tradizionali baluardi di segretezza, apre un importante spiraglio sulla possibilità di introdurre un’ uniformità fiscale in Europa, anche in vista di un futuro allargamento dell’Unione e della prospettata nascita di un’ Unione Bancaria. DARIO DITARANTO Bibliografia: G. Cavalli, M. Callegari, Lezioni sui contratti bancari, Zanichelli, 2011 Sitografia: www.oecd.org www.csbancari.ch www.iusletter.com www.fiscooggi.it www.ilsole24ore.com www.governo.it www.borsaitaliana.it Licenze fotografiche: Foto 1:”Segreto bancario”, foto di LaNotizia, licenza CC BY, Flickr.com Foto 2: “Guardia di Finanza”, foto di Adrian Scottow, licenza CC BY, Flickr.com