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Notiziario settimanale n. 505 del 24/10/2014
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Questa versione stampabile del notiziario settimanale contiene, in forma integrale, gli articoli più significativi pubblicati nella
versione on-line, che è consultabile sul sito dell'Accademia Apuana della Pace
24/10/2014: Settimana internazionale per il disarmo.
27/10/2014: Giornata ecumenica del dialogo cristiano-islamico.
Nel conflitto l’altro mi obbliga a considerarlo, mi invita a vedere un altro
punto di vista che non sia il mio, amplia il mio campo di comprensione
del mondo.
La felicità non dipende dalle circostanze piacevoli o spiacevoli, ma dal
nostro atteggiamento di fronte a queste circostanze
Isabelle Filliozat
Indice generale
Evidenza...........................................................1
Sulla Perugia-Assisi. La non-adesione del Movimento Nonviolento (di
Movimento Nonviolento)........................................................................... 1
Lavoro e diritti: partecipa anche tu alla manifestazione a Roma del 25
ottobre (di CGIL Massa-Carrara)............................................................... 2
ONU: “Kobane, una nuova Srebrenica” (di Roberto Prinzi)...................... 2
La pagina dell'AAdP.......................................3
Romagnano - a scuola per confrontare modelli di città (di Periferie al
Centro)....................................................................................................... 3
Approfondimenti.............................................4
I nuovi processi di privatizzazione e finanziarizzazione dei beni comuni
(di Forum Italiano dei Movimenti per l'Acqua )......................................... 4
La voce del padrone (di Umberto Romagnoli)........................................... 4
Come fece Gandhi a vincere? (di Mark Engler, Paul Engler) .....................6
Pacifismo istituzionale italiano: maglia nera del pianeta: Intervista a
Patrick Boylan........................................................................................... 9
Notizie dal mondo......................................... 12
Occupying Movement in Hong Kong: alcuni antefatti (di Mee Kam Ng) 12
IRAQ-SIRIA. Kobane allo stremo, scaricata (di Chiara Cruciati)............14
LIBIA: i risvolti internazionali della guerra civile (di Francesca La Bella)
................................................................................................................. 15
Israele scarica Abu Mazen: "E' peggio di Arafat". Altre 2610 case per
coloni (di Michele Giorgio)...................................................................... 15
Dopo ‘Margine protettivo’: quale futuro per Palestina e Israele? (di
Richard Falk)........................................................................................... 16
Quali giustificazioni per l'attacco contro l'Isis in Siria? Un'analisi di diritto
internazionale (di Vito Todeschini).......................................................... 17
Appelli............................................................19
Appello: maggiore protezione per le persone senza una nazionalità (di
European Network on Statelessness)........................................................ 19
Recensioni/Segnalazioni............................... 19
Urlare non serve a nulla: Gestire i conflitti con i figli per farsi ascoltare e
guidarli nella crescita, di Daniele Novara (di Centro PsicoPedagogico per
l'educazione e la gestione dei conflitti).................................................... 19
Associazioni................................................... 19
Ciao Aldo (di ANPI Massa)..................................................................... 19
1
Evidenza
Sulla Perugia-Assisi. La
Movimento
Nonviolento
Nonviolento)
non-adesione del
(di
Movimento
...Per tutte queste ragioni il Movimento Nonviolento (fondato da Aldo
Capitini) – nella consapevolezza che la Marcia della Pace, patrimonio
collettivo del movimento, per la forza della sua storia, l'evocazione, la
suggestione, e lo spirito che richiama dovrebbe essere una "Assemblea in
cammino", "aperta" e di "tutti" - ritiene che non vi siano le condizioni per
poter aderire alla Perugia-Assisi del 2014...
La prima Marcia della Pace Perugia-Assisi del 1961 ha partorito il
Movimento Nonviolento, l'una e l'altro voluti da Aldo Capitini. La Marcia
come presentazione del programma, il Movimento come strumento
attuativo. Marcia e Movimento, insieme, per la nonviolenza organizzata.
La nostra storia, dunque, si intreccia con quella delle marce della pace,
dalle prime organizzate proprio dal Movimento Nonviolento fino a quelle
promosse dalla Tavola per la pace, passando per quelle che contestammo
perchè troppo ambigue sul tema dell'opposizione alla guerra. Fu proprio
per questo che nel 2000 organizzammo autonomamente, insieme al MIR,
la Marcia nonviolenta Perugia-Assisi "Mai più eserciti e guerre".
Nel 2011, cinquantesimo anniversario della prima edizione della marcia di
Capitini, fummo co-promotori della "Marcia per la pace e la fratellanza
dei popoli", per cercare di ritrovarne lo spirito originale. Fu una grande
manifestazione popolare nella quale riuscimmo ad introdurre il tema
politico del disarmo e la valorizzazione della campagna NO-F35.
Dopo quella esperienza chiedemmo alla Tavola della Pace un incontro di
valutazione e riflessione sul se e come procedere con le marce PerugiaAssisi, per non cadere, dopo 50 anni, nella ritualità e nella celebrazione
fine a se stessa, a scapito dei contenuti. Non è mai arrivata alcuna risposta,
ma anzi la Tavola stessa è implosa. Le sue principali organizzazioni,
contestandone la conduzione monocratica, la poca trasparenza e la non
chiarezza nel rapporto con le Istituzioni locali che la Marcia sostengono
anche finanziariamente, hanno preso atto che l'esperienza della Tavola si
era conclusa ed hanno dato vita alla Rete della Pace, per dotarsi di
un'organizzazione autonoma, democratica ed indipendente.
La riflessione collettiva sulla Marcia dunque non è mai avvenuta, per
contro con un anno di anticipo siamo venuti a sapere della convocazione
di nuova Perugia-Assisi nel 2014, indetta a nome della ormai ex Tavola e
di altre improvvisate sigle, indipendentemente dal contesto internazionale
nella quale viene "cadere" e dai percorsi di elaborazione politica collettiva
del "popolo della pace". Titolo, contenuti e documento della Marcia sono
stati comunicati come un dato di fatto. A tutti si chiede solo di aderire e
partecipare. La gestione, l'organizzazione, l'immagine della Marcia sono
in mano al cosiddetto "comitato promotore" con una modalità, quanto
meno, privatistica.
L'Appello per la Perugia-Assisi – la cui stesura non è stata condivisa con
alcuna delle organizzazioni associative, culturali, sindacali, che da sempre
animano la Marcia della Pace - è del tutto generico e superficiale, e non
tiene conto del ritorno violento della guerra come continuazione della
politica con altri mezzi in Palestina ed Israele, in Siria, in Iraq, in Libia, in
Afghanistan, Ucraina, Congo, Nigeria e nelle decine di altre zone del
mondo, di fronte al quale la comunità internazionale è impotente o
complice, come il nostro Paese che continua a vendere armi a tutte le parti
in conflitto. Né tiente conto del percorso organizzativo e politico del
"popolo della pace" che ha visto – anche come onda lunga della marcia del
2011 - una plurale convergenza nell'Arena di Pace e Disarmo dello scorso
25 aprile, dove è stata lanciata la Campagna per la Legge di inziativa
popolare per il Disarmo e la Difesa civile, non armata e nonviolenta, come
azione politica unitaria.
Con l'Arena di Pace e Disarmo e con la Campagna che partirà il prossimo
4 novembre il movimento per la pace ha fatto un salto di qualità sul piano
degli obiettivi specifici, delle alleanze tra il mondo del disarmo, del
servizio civile, del volontariato, tra forze laiche e religiose, dei processi di
condivisione delle pratiche, della capacità organizzativa e di autonomia
economica, senza dover dipendere da finanziamenti pubblici. Oggi il
movimento per la pace non può essere riportato alla genericità degli
slogan retorici, buoni per ogni stagione, ma che non spostano in avanti il
processo di disarmo e di costruzione delle alternative alla guerra, alle armi
ed agli eserciti, strumenti che l'alimentano e la rendono possibile. La
Marcia, come scriveva Aldo Capitini, non può essere "fine a se stessa", la
Marcia è un mezzo nonviolento di azione: tra i requisiti fondamentali vi è
quello di dover proporre obiettivi politici specifici e chiari, "onde che
vanno lontano", che impegnino responsabilmente ciascuno dei marciatori.
Nel frattempo, il cartello delle Reti con le quali abbiamo dato vita ad
Arena di Pace (Rete della Pace, Rete Disarmo, Tavolo interventi cvili di
pace, Sbilanciamoci!) hanno organizzato una manifestazione che si è
svolta domenica 21 settembre a Firenze, come risposta urgente e
straordinaria alla crisi internazionale in atto (Palestina e Israele, Siria,
Iraq, Libia, Afghanistan e Ucraina) e per fare tutti insieme un passo di
Pace. E' stata un'iniziativa necessaria, adeguata, tempestiva, che ha
raccolto un comune sentire. Un passo di maturità e di unità. Vi abbiamo
partecipato attivamente, fin dalla sua organizzazione, con la nostra
aggiunta nonviolenta: la proposta della Campagna per la Difesa civile, non
armata e nonviolenta, che inizierà il prossimo 4 novembre
( www.difesacivilenonviolenta.org )
Queste sono le scadenze che ci vedranno impegnati nei prossimi mesi.
Movimento Nonviolento
Fonte: http://nonviolenti.org/cms/news/398/238/Sulla-Perugia-Assisi-Lanon-adesione-del-Movimento-Nonviolento/
via Spagna, 8
www.azionenonviolenta.it
www.nonviolenti.org
via Spagna, 8
37123 Verona
ottobre 2014
(segnalato da: AAdP)
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2162
Lavoro e diritti: partecipa anche tu alla
manifestazione a Roma del 25 ottobre (di CGIL
Massa-Carrara)
Il 25 ottobre noi saremo con quel popolo che porterà in piazza, a Roma, la
nostra stessa idea di lavoro.
Per noi il lavoro che non c'è è la vera priorità e quello che ci aspettiamo
dal Governo è che produca politiche in grado di moltiplicare le occasioni
di lavoro e di proteggere il lavoro che c'è.
Per noi il lavoro è la vera ricchezza di un Paese e chi lavora non è uno
strumento usa e getta ma un protagonista attivo e pensante, che esprime se
stesso nel processo produttivo a cui partecipa.
Per noi il lavoro non si crea modificando le regole che lo tutelano ma
facendo rispettare le leggi che ci sono, in modo che gli imprenditori
onesti non subiscano la concorrenza di chi agisce in modo scorretto, di chi
2
corrompe, di chi evade o di chi incentiva il lavoro nero.
Per noi il lavoro precario deve essere superato davvero, eliminando quei
vantaggi che in questi anni hanno spinto le imprese ad utilizzare le forme
contrattuali più penalizzanti per chi lavora.
Non siamo disponibili a rassegnarci all'idea che rinunciare ai propri diritti
e alla propria dignità sia necessario per risollevarsi dalla crisi,
Dalla crisi si esce se si recupera una vera coesione sociale, se si batte
l'evasione, se si modernizza davvero il Paese investendo nella banda larga,
nella formazione dei giovani e dei meno giovani, nei servizi alla persona,
nella difesa del suolo e dell'ambiente, nei beni culturali che sono la
ricchezza dell'Italia: noi che abbiamo questa idea di Paese non pensiamo
che la via giusta per realizzarla sia comprimere ancora i diritti dei
lavoratori e puntare a dividere il mondo del lavoro.
Porre al centro del dibattito la questione della libertà di licenziare senza
che i giudici se ne immischino non è certo un messaggio che va nella
direzione della ricerca della coesione sociale.
Se l'Europa fin qui ha proposto ricette che non hanno fatto che prolungare
la crisi, dobbiamo avere la forza di proporre ricette diverse.
In Europa sono già molti quelli che fanno le nostre stesse valutazioni e
comprendono che si deve cambiare politica.
Dobbiamo diventare maggioranza nel Paese e nel continente perché ne va
del nostro futuro.
Per questi motivi scenderemo in piazza a fianco della CGIL, nella quale
riconosciamo uno dei soggetti che possono contribuire alla crescita dal
basso di un progetto per il Paese davvero moderno e solidale.
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2160
ONU: “Kobane, una nuova Srebrenica” (di Roberto
Prinzi)
L’inviato delle Nazioni Unite Staffan de Mistura lancia l’allarme per la
cittadina siriana, un terzo della quale è ormai saldamente nelle mani dello
Stato Islamico. Da Baghdad, intanto, il Ministro dell’Elettricità iracheno
lancia l’allarme: “l’80% della provincia di Anbar è controllata dai
jihadisti”.
“Tutti dovrebbero fare il massimo per fermare l’Isil a Kobane la cui caduta
[in mano ai fondamentalisti islamici] potrebbe causare una nuova
Srebrenica. Spero che non vedremo teste decapitate. Molti potrebbero
morire”. E’ preoccupato Staffan de Mistura, l’inviato speciale Onu per la
Siria e non lo nasconde. Del resto come dargli torto: lo Stato islamico (Is)
controlla un terzo (c’è chi dice esagerando metà) della cittadina siriana a
confine con la Turchia e se la situazione dovesse continuare così (ovvero
niente cibo e munizioni per la resistenza curda), l’Is dovrebbe occuparla
interamente nei prossimi giorni.
A monte della crisi rappresentata da Kobane c’è la profonda divisione
all’interno della coalizione anti-Isis, di cui, meno di un mese fa, il
Presidente Usa Obama (e una gran parte della stampa occidentale
compiacente) esaltava l’unità di intenti e definiva un “successo”. Ora però
i sorrisi di Parigi che avevano benedetto lo schieramento anti-Isis, lasciano
il posto a dubbi e a rabbia (malcelata). Innanzitutto verso l’alleata Turchia.
Ankara è riluttante a intervenire e si limita ad osservare nella confinante
Suruc l’andamento della mattanza in corso a pochi chilometri dal suo
territorio. E’ un’occasione troppo ghiotta per le autorità turche per
assestare un colpo ai curdi del YPG, alleati con il Pkk, i “terroristi” con
cui Ankara da due anni ha iniziato (un finto) processo di pace. Ma
l’assedio jihadista di Kobane rappresenta anche una occasione unica per il
Presidente turco Erdogan per ricattare la comunità internazionale
condizionando un suo intervento anti-Is alla caduta del nemico Assad in
Siria. Proposta che, al momento, ha incontrato pochi consensi.
Ma anche a Washington si ripropone il dibattito che aveva preceduto
l’inizio dei bombardamenti tra Obama e alcuni esponenti della Difesa. Il
pomo della discordia era se inviare o meno “truppe sul terreno” (“boots on
the ground”) nei due paesi mediorientali. Il Presidente, Nobel per la Pace e
che ha costruito la sua elezione sul ritiro statunitense dall’Iraq, aveva
rassicurato i cittadini americani promettendo una campagna militare
diversa da quella in Afghanistan (2001) e Iraq (2003). “Liberare” sì il
territorio iracheno, ma con “zero rischi” seguendo un modello ben
collaudato da Washington in Somalia e nel sud del Yemen basato su droni
e arei da guerra. Alcuni esponenti militari, invece, avevano aperto
timidamente ad una possibilità di invio di reparti di terra. Le parole di due
giorni fa del portavoce del Pentagono, il maggiore John Kirbi, saranno
pertanto sembrate a molti un déjà vu: “stiamo facendo il massimo dal cielo
per cercare di fermare l’avanzata dell’Is. Ma la potenza aerea da sola non
basta per salvare la città”.
Un’analisi giusta, ma che ha il grosso limite di essere limitata alla
cittadina siriana. E i raid in Iraq e in altre aree della Siria, andrebbe chiesto
a Kirbi, stanno producendo risultati positivi? L’Is sta davvero
retrocedendo? La cronaca di chi paga sulla propria pelle l’occupazione
jihadista e la guerra occidentale nei due paesi arabi ci racconta di un
terribile fiasco occidentale di cui Kobane è solo l’esempio mediatico più
appariscente.
Ma se Kobane cade, la prima responsabile è la Turchia. “Il governo turco
non sta facendo passare rifornimenti attraverso il confine e [i combattenti
curdi] sono privi di armi e di cibo. Ecco perché lo Stato Islamico
guadagna sempre più territorio” ha dichiarato al britannico The Guardian
l’attivista locale Mustafa ‘Abdi. “Quando i raid attaccano i
fondamentalisti islamici e ne uccidono cinque, loro [i jihadisti] ne
mandano altri 50”.
In questo contesto è facile comprendere la preoccupazione (tardiva)
dell’inviato Onu per la Siria. De Mistura ha detto ieri che tra i 500 e i 700
civili sono intrappolati a Kobane mentre 10.000-13.000 lo sono al confine.
“Vi ricordate Srebrenica [città bosnica dove nel luglio 1995 furono uccisi
8.000 musulmani da parte delle truppe serbo-bosniache del Generale
Ratko Mladic appoggiate dai paramilitari di Raznatovic, ndr]. Noi non
abbiamo dimenticato e, probabilmente, non perdoneremo mai noi stessi
per quanto accadde. Quando c’è una minaccia imminente che grava sui
civili non possiamo tacere”. Come se il dramma siriano fosse limitato alla
cittadina di Kobane, come se le altre Srebrenica siriane di tre anni e mezzo
di guerra civile non esistessero.
Infuriano senza sosta i combattimenti nella cittadina. Il Capo del consiglio
locale Anwar Muslim, ha affermato ieri che i jihadisti controllano solo un
terzo della città (la zona est), ma che attentatori suicidi si stanno
spingendo nel centro per infliggere più danni possibili alle difese curde. I
rumori dei colpi di arma da fuoco, di mortaio e granate arrivano sempre
più nitidi alle orecchie degli abitanti di Suruc dall’altra parte del confine.
Ma i carri armati di Ankara continuano a restare immobili appollaiati sulle
colline, mentre i soldati turchi si danno un gran da fare ma solo per
reprimere i curdi e i rifugiati sfuggiti all’inferno di Kobane.
Il comando centrale statunitense ha ieri reso noto di aver condotto nove
raid aerei a Kobane tra giovedì e venerdì. Sei di questi hanno distrutto un
carro armato, una mitragliatrice pesante e una postazione dello Stato
Islamico. Gli altri tre hanno colpito la zona settentrionale della città e
avrebbero distrutto due edifici occupati dai jihadisti. Ai bombardamenti
avrebbero partecipato anche gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita
secondo quanto riporta il comunicato del Comando centrale statunitense.
Risultati modesti se paragonati ai successi dei fondamentalisti islamici.
Ieri il Ministro dell’Elettricità iracheno, Qassem al-Fahdawi, ha rivelato
che ormai l’Is controlla l’80% della provincia occidentale irachena di
Anbar e che, se dovesse conquistare anche Ramadi, minaccerebbe la
capitale Baghdad. “Anbar ha bisogno di un maggiore sostegno sia via aria
che via terra – ha detto al-Fahawi che ha poi aggiunto allarmato –
l’esercito e la polizia hanno perso il controllo di Ramadi”. Ramadi, solo
una delle tante Kobane che non fanno notizia sulla stampa occidentale,
uno dei tanti esempi del fallimento della “guerra al terrorismo” lanciata da
Usa e Unione Europea post 11 settembre.
Ma si muore, e tanto, anche in Turchia. In seguito alle proteste contro
l’immobilismo del governo turco in Siria, Ankara ha ucciso negli ultimi
3
giorni 31 manifestanti (per le autorità locali “terroristi”) ferendone 360 e
arrestandone più di mille. E pensare che tre anni e mezzo fa l’allora
Premier turco Erdogan dava lezioni di democrazia al Presidente siriano alAsad e lo bacchettava perché aveva ucciso dei propri cittadini.
Di fronte ad una imminente mattanza di civili, dinanzi alle bandiere nere
dell’Is che sempre più colorano lo skyline di Kobane, si staglia la dignità
del popolo curdo che da solo resiste strenuamente all’avanzata dell’Is
difendendo il proprio territorio fino all’ultimo proiettile. Nonostante la
capitolazione sia sempre più vicina.
Nena News
(fonte: Centro Studi Sereno Regis)
link: http://nena-news.it/onu-kobane-una-nuova-srebrenica/
La pagina dell'AAdP
Romagnano - a scuola per confrontare modelli di
città (di Periferie al Centro)
Sabato 18 ottobre, all'Istituto Comprensivo Massa 6 di Romagnano,
nell'ambito del Convegno "Periferie al centro - Esperienze e progetti per
far vivere un quartiere", promosso da AadP e da una rete di Associazioni,
si è aperta una interessante riflessione intorno ad alcune tematiche di
fondo.
Il primo dei relatori, Nicola Solimano, Coordinatore delle attività della
Fondazione Michelucci di Firenze, ha indicato come presupposto
indispensabile il riflettere sulla nostra idea di periferia e di città, in un
contesto di continui e profondi mutamenti urbanistici, amministrativi,
socio-culturali, perché da ciò derivano le azioni e i progetti di intervento.
Il secondo ospite, Renato Bergamin, Direttore della Fondazione Cascina
Roccafranca di Torino, ha illustrato l'interessante esperienza che da sette
anni si è sviluppata nel Quartiere Mirafiori attraverso un intelligente uso
di fondi europei ed una proficua collaborazione tra Comune e soggetti
privati: un modello di gestione flessibile e partecipata in cui centrale è la
promozione di forme di cittadinanza attiva e di autosostenibilità
economica.
Non esistono certo modelli universali esportabili: ogni territorio ha le sue
specificità e le sue criticità; siamo anche tutti consapevoli delle ristrettezze
economiche imposte dalla prolungata crisi. Il Sindaco Alessandro Volpi e
l'Assessore al Bilancio e al Patrimonio Giovanni Rutili, che hanno voluto
essere presenti all'evento, hanno richiamato dunque all'attenzione il dato di
realtà di una Amministrazione che sente di dover prioritariamente
affrontare il problema del dissesto idro-geologico e dell'emergenza
abitativa, a fronte dell'annuale incertezza di risorse su cui può contare.
Rutili ha anche voluto ricordare come il Comune, pur con passi lenti, si
mostri tuttavia sensibile a dare riposta alla esigenza di spazi pubblici e alla
salvaguardia di quelli esistenti (ivi incluso il locale del Centro di
Aggregazione di Castagnara).
Approcci dunque inconciliabili? Auspichiamo che non sia così. Il
dibattito, che non poteva certo essere approfondito nel breve arco di un
pomeriggio, ha fatto piuttosto emergere la complessità di una
problematica che chiede studio, confronto, pluralità di interventi. Possono
forse essere scissi ed affrontati separatamente temi quali l'assetto
urbanistico, la sicurezza del territorio, la vivibilità di una citta che si
riscopra spazio sociale e luogo di incontri e relazioni significative? La loro
interconnessione è stata riconosciuta da tutti gli intervenuti.
A nostro avviso non è possibile porre in secondo piano le criticità sociali
del territorio ed aspettare che a loro volta queste diventino emergenze
(anche se i fatti dello scorso Natale ci dicono che siamo già in emergenza).
La soluzione può venire perciò solo da progetti articolati e diversificati,
prodotti dalla sinergia dell'Amministrazione, delle Associazioni, dei
cittadini: una città da ricostruire insieme, con una discussione dialettica
capace di generare non sterile antagonismo, ma piuttosto una
cooperazione aperta e fattiva.
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2163
Approfondimenti
sarebbero spinti alla cessione delle loro quote al mercato azionario per
poter usufruire delle somme derivanti dalla vendita, che il Governo pensa
bene di sottrarre alle tenaglie del patto di stabilità. Ciò si configura come
una vera e propria finanziarizzazione dei beni comuni.
I
nuovi
processi
di
privatizzazione
e
finanziarizzazione dei beni comuni (di Forum
Italiano dei Movimenti per l'Acqua )
I tempi previsti per l'attuazione di questo piano saranno abbastanza brevi e
il tutto dovrà conlcudersi con l'approvazione della legge di stabilità nel
mese di novembre.
Beni comuni
E' possibile affermare che il piano attraverso il quale il Governo intende
rilanciare con forza il processo di privatizzazione e finanziarizzazione dei
beni comuni seguirà tre assi fondamentali, già indicati nel DEF
(Documento di Economia e Finanza 2014): a) cessione di quote statali
delle grandi aziende; b) razionalizzazione delle aziende partecipate dagli
enti locali, seguendo lo slogan "riduzione da 8.000 a 1.000"; c)
dismissione del patrimonio pubblico.
Per quanto concerne i servizi pubblici locali e, quindi, anche il servizio
idrico l'attacco passerà attarverso tre strumenti:
il piano sulla "spending review" prevede aggregazioni e fusioni
individuando sostanzialmente dei poli aggregativi nelle grandi
multiutilities. Per favorire tali processi Cassa Depositi e Prestiti ha
annunciato di mettere a disposizione 500 milioni di € divenendo dunque
uno degli attori protagonisti. A riguardo il Governo ha messo in campo
una rinnovata strategia comunicativa che si ammanta della propaganda di
riduzione degli sprechi e dei costi della politica mediante lo slogan
“riduzione delle aziende da 8.000 a 1.000”.
il decreto "Sblocca Italia" costruisce un piano complessivo di
aggressione ai beni comuni tramite il rilancio delle grandi opere,
misure per favorire la dismissione del patrimonio pubblico,
l'incenerimento dei rifiuti, nuove perforazioni per la ricerca di
idrocarburi e la costruzione di gasdotti, oltre a semplificare e
deregolamentare la procedura delle bonifiche.
•
inoltre, contiene delle norme che, modificando profondamente
la disciplina riguardante la gestione dell'acqua, mirano di fatto
alla privatizzazione del servizio idrico.
•
In particolare l'articolo 7 modifica quella parte del Testo Unico
Ambientale (D. lgs 152/2006) che riguarda la gestione del
servizio idrico integrato. Tre appaiono le modifche più
pericolose:
•
modifica del principio cardine su cui si basava la disciplina,
ovvero passaggio da "unitarietà della gestione" a "unicità della
gestione";
•
imposizione progressiva del gestore unico per ogni ambito
territoriale che sarà scelto tra chi già gestisce il servizio per
almeno il 25 % della popolazione che insiste su quel territorio,
ovvero le grandi aziende e/o multiutilities;
•
imposizione al gestore che subentra di corrispondere al gestore
uscente un valore di rimborso definito secondo i criteri stabiliti
dall’AEEGSI, ciò rischia di rendere più onerosi e quindi
difficoltosi i processi di ripubblicizzazione (ad es. caso di
Reggio Emilia).
Anche questo provvedimento, quindi, appare ispirarsi agli stessi principi
della "spending review", ovvero individuare dei poli aggregativi nelle
grandi aziende e multiutilities. Ciò si configura come un primo passaggio
propedeutico alla piena realizzazione del piano di privatizzazione e
finanziarizzazione dell'acqua e dei beni comuni che il Governo sembra
voler definire compiutamente con la legge di stabilità.
•
La legge di Stabilità, che dovrà essere presentata entro il 15 Ottobre, in cui
probabilmente verranno inserite quelle norme volte a imporre agli Enti
Locali la collocazione in borsa delle azioni delle aziende che gestiscono
servizi pubblici, oltre a quelle che costringono alla loro fusione e
accorpamento secondo le prescrizioni previste dal piano sulla “spending
review”. Si arriverebbe, addirittura, a costruire un vero e proprio ricatto
nei confronti degli Enti Locali i quali, oramai strangolati dai tagli,
4
Infatti, al Governo italiano vengono imposte le solite ricette che passano
attraverso riforme strutturali. Riforme che si basano sempre sugli stessi
principi: deregolamentazione, riduzione dei diritti, privatizzazioni e in
generale allargamento della sfera d'intervento del privato a scapito di
quella pubblica. Da ciò deriva che il Governo attuale, entro il termine dei
sei mesi di presidenza di turno dell'UE, quindi entro fine anno, deve
necessariamente portare qualcosa al tavolo della trattativa europea. Per
questo ragioni sta accelerando sulle riforme istituzionali, su quelle che
riguardano il mondo del lavoro, la scuola, il rilancio delle privatizzazioni e
più in generale una rinnovata mercificazione del territorio e dei beni
comuni.
link:
http://www.acquabenecomune.org/raccoltafirme/index.php?
option=com_content&view=article&id=2866
Lavoro ed occupazione
La voce del padrone (di Umberto Romagnoli)
Anche in Italia ha successo l’opinione secondo cui il rilancio
dell’economia non può non presupporre un arretramento della legalità nei
luoghi di lavoro e la reintegra del lavoratore ingiustamente licenziato ne è,
per l’appunto, parte integrante.
Un’autorevole storiografia attribuisce al diritto del lavoro un ruolo di
pedagogia di massa sostenendo, non a torto, che avrebbe educato
moltitudini di artigiani spiazzati dall’avvento della grande manifattura, e
di contadini non più del tutto contadini, all’idea che la cosa più giudiziosa
che si potesse fare era quella di smetterla di rincorrere il sentimento di
giustizia offeso dalle forme di dipendenza imposte dal capitalismo
moderno all’interno di luoghi di produzione estranei agli schemi cognitivi
sedimentati nella memoria collettiva delle precedenti generazioni.
Piuttosto, conveniva inventarsi il modo di attrezzarsi per lottare contro la
diseguaglianza ridicolizzata da George Orwell: rispetto al suo dipendente
il datore di lavoro è “più” eguale. Sia nel momento in cui stipula il
contratto sia nella fase di esecuzione del rapporto che ne scaturisce. Per
questo, l’orizzonte di senso in cui si è sviluppato il diritto del lavoro del
‘900 era segnato dalla condivisione di un’esigenza propria dei più spaesati
e riluttanti protagonisti della rivoluzione industriale: quella di attenuare gli
effetti della strutturale asimmetria che è all’origine di una supremazia di
fatto nemica del principio di eguaglianza caro alla cultura giuridica (non
solo) liberal-democratica. Adesso, invece, i neo-liberisti non possono
sentirne parlare senza farsi prendere dalle vertigini. Infatti, pur
glorificando l’autonomia negoziale dei privati come simbolo ed insieme
veicolo di libertà, vorrebbero persuaderci che il ritorno ad un decisionismo
padronale il meno condizionato possibile, e dunque la negazione della
stessa contrattualità, finirà per giovare allo stesso lavoratore.
“Questa”, scrivono gli autori del preambolo di una importante legge
spagnola del 2012, “è una riforma nella quale ci guadagnano tutti perché
si propone di soddisfare di più e meglio i legittimi interessi di tutti”. Sarà
per questo, allora, che concede all’imprenditore la possibilità di
amministrare unilateralmente il rapporto di lavoro e, nel presupposto
pudicamente inespresso che il contratto vincola soltanto il dipendente, di
adattarne le clausole alla situazione aziendale. Insomma, l’imprenditore ha
facoltà di introdurre modifiche sostanziali delle condizioni di lavoro anche
se contrattualmente non previste né prevedibili nel momento costitutivo
del rapporto. Ciò che conta è che siano utili a preservare od aumentare la
produttività aziendale e, soprattutto, che siano decise da lui.
Le decisioni possono essere adottate in una quantità di materie
approssimativamente individuate dalla legge. Dai sistemi retributivi alla
mobilità funzionale e geografica, alla distribuzione dell’orario di lavoro.
Vero è che l’interessato può impugnare la decisione e il giudice ordinare il
ripristino della condizione ingiustificatamente cambiata per iniziativa
della controparte. Ma si può tranquillamente scommettere che il suo
dissenso non lo manifesterà mai. Né nella forma di un ricorso al giudice,
dato che i licenziamenti per cause aziendali sono facilitati da regole più
permissive di quelle preesistenti, né nella forma di dimissioni,
furbescamente scoraggiate da un importo dell’indennità significativamente
inferiore a quello dell’indennità spettante in caso di licenziamento
illegittimo (20 giorni di salario, anziché 33, per anno di anzianità).
Se la decisione ha carattere individuale, la sua esecutività è subordinata
alla previa comunicazione al diretto interessato; se ha carattere collettivo,
per diventare esecutiva, deve essere preceduta da un “periodo di
consultas” con la rappresentanza sindacale legalmente esistente o, qualora
non esista come accade di solito nelle piccole imprese, con una
rappresentanza ad hoc formata da tre dipendenti “democraticamente eletti”
(?) dalle maestranze o designati dai sindacati più rappresentativi, fermo
restando che in mancanza di accordo la decisione produrrà gli effetti
voluti. Non sembra peraltro che la prassi delle modifiche collettive a base
consensuale possa diffondersi. Infatti, l’intesa raggiunta equivale ad una
presunzione iuris et de iure della sussistenza della causa giustificativa
della modifica e dunque preclude ogni eventuale reclamo.
Come dire che, candido come una colomba e astuto come un serpente, il
legislatore ha tracciato un modello regolativo che non pone limiti al
dominio delle ragioni economiche, tecniche, organizzative e produttive
evocate ad ogni piè sospinto come un mantra. Non si è nemmeno accorto
che in questa maniera ha finito per decretare la morte del contratto che
istituisce il rapporto di lavoro. Dopotutto, non c’è contratto esente dal
rischio di circostanze sopravvenute che, diverse dall’evento che rende
impossibile l’adempimento, sono pur tuttavia inconciliabili con la
rappresentazione della realtà che ogni contraente si è fatta allorché ha
pattuito le sue obbligazioni. Sennonché, alla domanda “chi sopporta il
rischio che l’esecuzione del contratto di lavoro non corrisponda alle
aspettative?” il legislatore risponde affidandosi interamente
all’autodeterminazione del datore di lavoro. Ecco perché, in presenza di
un corpus di regole speciali che, come quelle descritte, sono plasmate sul
principio della irresistibilità delle esigenze oggettive dell’impresa
interpretate discrezionalmente dall’imprenditore non si può non
rimpiangere l’equilibrio della tutela offerta dal diritto comune dei
contratti. Come fanno i codici civili di tutti i paesi, anche quello vigente in
Spagna dispone che l’adempimento dei contratti non può essere lasciato al
loro arbitrio.
Un’ulteriore, vistosa eccezione al diritto comune consiste infatti nella
facoltà di sospendere l’efficacia del contratto di lavoro o di ridurre le ore
lavorate “mandando in mobilità”, diremmo noi, i dipendenti in caso sia di
ristrutturazione tecnico-organizzativa che di congiuntura di mercato
negativa provocata da “perdidas actuales” od anche solo “previstas”, col
consenso collettivo (se c’è) e comunque senza alcuna autorizzazione
amministrativa. Vero è che la decisione imprenditoriale è oggetto di
trattative e di un eventuale accordo collettivo con una rappresentanza
sindacale (anche ad hoc) blindato dall’inoppugnabilità amenoché non sia
viziato da frode o dolo. In sua mancanza, comunque, sarà notificata
all’autorità pubblica competente che, a sua volta, la comunicherà all’ente
tenuto all’erogazione del sussidio.
Peraltro, l’autonomia negoziale non è strapazzata soltanto quando si
esprime a livello individuale. Infatti, nemmeno l’autonomia negoziale
collettiva gode di rispetto. Anzi, il suo risveglio dopo il lungo sonno
franchista è stato turbato da una irruzione paragonabile a quella realizzata
con l’art. 8 della legge italiana del 2011, ma (se possibile) ancora più
devastante.
Infatti, il legislatore non si limita a celebrare l’apologia della
contrattazione di prossimità. Dopo avere sponsorizzato la derogabilità del
5
contratto collettivo di livello superiore ad opera della contrattazione
aziendale, che potrà avviarsi e concludersi “in qualunque momento” anche
in assenza di clausole di rinvio in un gran numero di materie, disciplina
accuratamente l’iniziativa datoriale (motivata con le medesime ragioni che
giustificano i licenziamenti collettivi) per disapplicare il contratto
collettivo nella cui sfera di efficacia rientra l’impresa sull’orlo di una crisi,
magari solamente presunta. Un nuovo contratto rideterminerà le
condizioni di lavoro al termine di “un periodo di consultas”. In mancanza,
le condizioni di lavoro le fisserà il lodo pronunciato da un arbitrato
obbligatorio. Ah, cosa non si farebbe per meritarsi la fiducia dei mercati!
Se gli Stati debitori dell’UE andassero a scuola, non ci sarebbero dubbi: il
titolo di primo della classe lo assegnerebbero alla Spagna.
Il complesso meccanismo che disarciona sindacati cui si chiede di
contrattare pur sapendo che potrebbe essere tempo buttato ha le proprietà
delle riforme “strutturali” nell’accezione chiarita da Wolfgang Streeck:
anch’esso infatti è preordinato allo scopo di aggirare, marginalizzare,
eliminare i soggetti “di ogni ordine e grado”, in primis il sindacato, che si
oppongano alle dinamiche del mercato. Di sicuro, il corposo disposto
normativo è in odore d’incostituzionalità e difatti impressiona
negativamente
l’impacciato
argomentare
dell’attuale
Tribunal
Costitucional che, in larghissima maggioranza composto da giudici
designati dalla destra parlamentare, ha respinto i primi ricorsi con
l’impassibilità del testimone che guarda bastonare un cane che sta
affogando. Ad ogni modo, non oso ipotizzare che anche questo
problematico snodo della riforma spagnola sia l’innovazione capace di
produrre un effetto-imitazione anche in un paese come il nostro paese,
dove i mass media sono indulgenti (o disinformati) a tal segno di lodare in
maniera sperticata il “modello spagnolo”. So soltanto che la riforma piace
in primo luogo perché enfatizza l’idea che il licenziamento per motivi
inerenti alle esigenze aziendali non è valutabile come l’extrema ratio cui è
dato ricorrere in circostanze di particolare gravità, bensì come una
modalità di ordinaria gestione aziendale. Inoltre, piace perché riduce in
misura significativa il costo dell’estinzione del contratto di lavoro
disapprovata in sede giudiziaria. Adesso, il costo si avvicina alla media
europea: non più 45 giorni di salario per anno di servizio con un massimo
di 42 mensilità, bensì 33 giorni con un massimo di 24 mensilità.
A questo punto, si capisce bene perché i duellanti del dibattito che si è
riacceso sull’art. 18 dello statuto riformato dalla legge Fornero-Monti del
2012 si soffermino sulle regole appena sunteggiate. Il fatto è che anche in
Italia ha successo l’opinione secondo cui il rilancio dell’economia non può
non presupporre un arretramento della legalità nei luoghi di lavoro e la
reintegra del lavoratore ingiustamente licenziato ne è, per l’appunto, parte
integrante. Anzi, ne è il pilastro. Tant’è che, nella vastissima area
produttiva in cui è assente, la quotidianità del rapporto di lavoro è
caratterizzata dalla sospensione di fatto della tutela legale, perché a fronte
del rischio di perdere facilmente il posto di lavoro chi lo occupa è disposto
a considerare come un male minore il sacrificio di tutti (o quasi) gli altri
suoi diritti. Pertanto, togliendo ogni legittimità alla pretesa del datore di
lavoro di comportarsi da padrone assoluto del posto di lavoro, la reintegra
costituisce la conseguenza più acuminata del rifiuto di assegnare
sistematicamente la prevalenza delle esigenze aziendali sull’interesse del
dipendente alla continuità del rapporto. Con buona pace dell’enfasi del
legislatore spagnolo, la loro oggettività non è un a-priori scientifico, bensì
il risultato di un calcolo di convenienza e dunque di un giudizio sulla
qualità degli interessi in conflitto. Un giudizio che, per definizione, non è
neutrale se può pronunciarlo soltanto uno degli interessati. Esso non può
spettare che ad un soggetto imparziale. Come è, per definizione, è il
giudice, con o senza toga.
La riproduzione di questo articolo è autorizzata a condizione che sia citata
la fonte: www.sbilanciamoci.info.
(fonte: Sbilanciamoci Info)
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Nonviolenza
Come fece Gandhi a vincere? (di Mark Engler, Paul
Engler)
La storia ricorda la Marcia del Sale di Mohandas Gandhi come uno dei
grandi episodi della resistenza del secolo scorso e come una campagna che
sferrò un colpo decisivo all’imperialismo britannico. Nella prima
mattinata del 12 marzo 1930 Gandhi, accompagnato da un gruppo
addestrato di 78 seguaci del suo ashram, iniziò una marcia di più di 200
miglia verso il mare. Tre settimane e mezzo dopo, circondato da una folla
di migliaia di persone, Gandhi pose piede sulla riva dell’oceano, si
avvicinò a una piana fangosa dove l’acqua, evaporando, aveva lasciato un
sottile strato di sedimenti e raccolse un pugno di sale.
L’atto di Gandhi infrangeva una legge del Raj britannico che imponeva
agli indiani di acquistare il sale dal governo e vietava loro di raccoglierlo
da sé. La sua infrazione avviò una campagna di disobbedienza di massa
che dilagò in tutto il paese, determinando sino a 100.000 arresti. In una
famosa citazione pubblicata dal Guardian di Manchester, l’onorato poeta
Rabindranath Tagore descrisse l’impatto trasformativo della campagna:
“Quelli che vivono in Inghilterra, molto lontano dall’Oriente, hanno ora
dovuto rendersi conto che l’Europa ha perso del tutto il suo precedente
prestigio in Asia”. Per i dominatori assenti di Londra era “una grande
sconfitta morale”.
E tuttavia, a giudicare da ciò che Gandhi ottenne al tavolo del negoziato
alla conclusione della campagna, ci si può fare un’idea molto diversa del
satyagraha del sale. Valutando l’accordo raggiunto nel 1931 tra Gandhi e
lord Irwin, il viceré dell’India, gli analisti Peter Ackerman e Christopher
Kruegler hanno sostenuto che “la campagna fu un fallimento” e “una
vittoria britannica” e che sarebbe ragionevole ritenere che Gandhi abbia
“dato via il bottino”. Queste conclusioni hanno un lungo precedente.
Quando fu annunciato per la prima volta il patto con Irwin, i membri del
Congresso Nazionale Indiano, l’organizzazione di Gandhi, ne furono
amaramente delusi. Il futuro primo ministro Jawaharal Nehru,
profondamente depresso, scrisse di sentire nel suo cuore “un grande vuoto,
come se qualcosa di prezioso fosse scomparso, quasi al di là di ogni
possibilità di recupero”.
Che la Marcia del Sale possa essere considerata contemporaneamente un
progresso epocale per la causa dell’indipendenza dell’India e una
campagna abborracciata che produsse scarsi risultati tangibili sembra un
paradosso sconcertante. Ma ancor più strano è il fatto che tale esito non è
unico nel mondo dei movimenti sociali. La storica campagna di Martin
Luther King a Birmingham, Alabama, nel 1963 ebbe esiti analogamente
incongrui. Da un lato determinò un accordo che mancò di molto lo scopo
di desegregare la città, un accordo che deluse gli attivisti locali che
volevano più che solo cambiamenti minori in pochi negozi del centro; al
tempo stesso Birmingham è considerata come uno dei motori chiave del
movimento per i diritti civili, avendo fatto forse più di ogni altra
campagna per far arrivare alla storica Legge sui Diritti Civili del 1964.
Quest’apparente contraddizione merita di essere esaminata. Più
significativamente illustra come le mobilitazioni di massa mosse da uno
slancio promuovano il cambiamento in modi che sconcertano quando
siano valutati in base ai presupposti e pregiudizi della politica prevalente.
Dall’inizio alla fine – sia nel modo in cui strutturò le rivendicazioni della
Marcia del Sale sia nel modo in cui portò a termine la sua campagna –
Gandhi confuse gli attori politici più convenzionali della sua era. Tuttavia
i movimenti che egli guidò scossero profondamente le strutture
dell’imperialismo britannico.
Per quelli che cercano di comprendere i movimenti sociali di oggi e per
quelli che desiderano amplificarli, restano rilevanti come non mai le
domande su come valutare il successo di una campagna e su quando sia
appropriato dichiarare vittoria. Per loro Gandhi può ancora avere qualcosa
di utile e d’inatteso da dire.
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L’approccio strumentale
Capire la Marcia del Sale e le sue lezioni per l’oggi richiede di fare un
passo indietro per considerare alcune delle domande su come i movimenti
sociali realizzano il cambiamento. Nel contesto appropriato, si può
affermare che le azioni di Gandhi furono esempi brillanti dell’uso delle
rivendicazioni simboliche e delle vittorie simboliche. Ma che cosa
implicano questi concetti?
Tutte le azioni, campagne e rivendicazioni di protesta hanno dimensioni
sia strumentali sia simboliche. Tipi diversi di organizzazione politica,
tuttavia, le combinano in proporzioni diverse.
Nella politica convenzionale le rivendicazioni sono principalmente
strumentali, mirate a conseguire un risultato specifico e concreto
nell’ambito di un sistema. In questo modello i gruppi d’interesse premono
per politiche che avvantaggiao la loro base. Le rivendicazioni sono scelte
con cura in base a ciò che sarebbe possibile ottenere, dati i confini del
paesaggio politico esistente. Una volta che è avviata una pressione per una
rivendicazione strumentale, i promotori tentano di far leva sul potere del
proprio gruppo per ottenere una concessione o un compromesso che
soddisfi le loro necessità. Se riescono a soddisfare i propri membri,
vincono.
Anche se operano principalmente all’esterno del regno della politica
elettorale, i sindacati e le organizzazioni a base comunitaria della linea di
Saul Alinsky (attivista e scrittore statunitense noto per la sua attività di
organizzatore di comunità e autore del noto volume Rules for Radicals,
NdT) – gruppi basati sulla costruzione di strutture istituzionali di lungo
termine – affrontano le rivendicazioni in modo principalmente
strumentale. Come spiega il giornalista e organizzatore Rinku Sen,
Alinsky ha stabilito una norma duratura di organizzazione comunitaria che
afferma che “la realizzabilità è di primaria importanza nello scegliere i
temi” e che i gruppi comunitari dovrebbero concentrarsi su “cambiamenti
immediati, concreti”.
Un esempio famoso nel mondo dell’organizzazione comunitaria è la
richiesta di un semaforo in un incrocio identificato come pericoloso dai
residenti del quartiere. Ma questa è soltanto una delle opzioni. Gruppi di
tipo Alinsky possono tentare di ottenere personale migliore in uffici locali
di servizi sociali, di por fine alla discriminazione di un particolare
quartiere da parte di banche e compagnie assicurative, o di ottenere un
nuovo percorso degli autobus per assicurare trasporti affidabili a un’area
mal servita. Gruppi ambientalisti potrebbero premere per un divieto di una
specifica sostanza chimica nota come tossica per la natura. Un sindacato
potrebbe avviare una lotta per ottenere miglioramenti per un particolare
gruppo di dipendenti in un luogo di lavoro o per affrontare un problema di
pianificazione.
Conseguendo faticosamente vittorie modeste e pragmatiche su tali temi
questi gruppi migliorano la vita e rafforzano le proprie strutture
organizzative. La speranza è che, col tempo, piccole conquiste si sommino
fino a diventare riforme sostanziali. Il cambiamento sociale è ottenuto
lentamente e costantemente.
La svolta simbolica
Nel caso di mobilitazioni di massa che trainano una lotta, compresa la
Marcia del Sale, le campagne funzionano in modo diverso. Gli attivisti dei
movimenti di massa devono progettare azioni e scegliere rivendicazioni
che si inseriscano in principi più vasti, creando una narrativa del
significato morale della loro lotta. Qui la cosa più importante a proposito
di una rivendicazione non è il suo potenziale impatto sulle politiche o la
sua realizzabilità a un tavolo negoziale. Quanto più critiche sono le
proprietà simboliche, tanto maggiore una rivendicazione è utile nel
drammatizzare per il pubblico la necessità urgente di rimediare a
un’ingiustizia.
regolamentazione del luogo di lavoro”.
Come i politici convenzionali e gli organizzatori focalizzati sulle strutture,
quelli che cercano di costruire movimenti di protesta hanno anch’essi
obiettivi strategici e potrebbero cercare di affrontare specifiche
rivendicazioni come parte delle loro campagne. Ma il loro approccio
complessivo è più indiretto. Questi attivisti non sono necessariamente
concentrati su riforme che si possano ottenere facilmente nel contesto
politico esistente. I movimenti che trainano una lotta, invece, mirano a
modificare il clima politico nel suo complesso, cambiando le percezioni di
ciò che è possibile e realistico ottenere. Lo fanno indirizzando l’opinione
pubblica su un certo tema e attivando una base di sostenitori in continua
espansione. Nei casi più ambiziosi, essi assumono temi che potrebbero
essere considerati politicamente inimmaginabili – il suffragio delle donne,
i diritti civili, la fine di una guerra, la caduta di un regime dittatoriale, il
riconoscimento giuridico delle coppie omosessuali – e li trasformano in
questioni politiche irrinunciabili.
I negoziati su specifiche proposte politiche sono importanti, ma arrivano
al momento finale di un movimento, una volta che l’opinione pubblica
abbia compiuto una svolta e i detentori del potere si diano da fare per
cercare di reagire alle proteste suscitate dalle mobilitazioni degli attivisti.
Nelle prime fasi, mentre i movimenti guadagnano vigore, la misura chiave
di una rivendicazione non è la sua praticabilità strumentale, bensì la sua
capacità di trovare eco nel pubblico e suscitare simpatia per una causa, su
una scala molto vasta. In altre parole il simbolico prende il sopravvento
sullo strumentale.
Una varietà di pensatori ha commentato il modo in cui i movimenti di
massa, poiché seguono questo percorso più indiretto nel determinare il
cambiamento, devono essere più attenti nel creare una narrazione in un
momento in cui le campagne di resistenza stanno costantemente
conquistando slancio e presentano nuove sfide a coloro che sono al potere.
Nel suo libro del 2001 “Doing Democracy” [Praticare la democrazia], Bill
Moyer, un addestratore veterano dei movimenti sociali, sottolinea
l’importanza delle “azioni condotte con sociodrammi” che “rivelano
chiaramente al pubblico come i detentori del potere violano i valori
ampiamente condivisi dalla società”. Mediante manifestazioni di
resistenza ben pianificate – che vanno da marce e picchetti creativi a
boicottaggi e altre forme di non collaborazione fino a interventi più
conflittuali come sit-in e occupazioni – i movimenti si impegnano in un
processo di “politica come teatro” che, nelle parole di Moyer, “creano una
crisi sociale pubblica che trasforma un problema sociale in un problema
pubblico critico”.
Il tipo di proposte limitate che sono utili nei negoziati politici dietro le
quinte non sono di solito il genere di rivendicazioni che ispira un
‘sociodramma’ efficace. Commentando a proposito di questo tema, il noto
organizzatore della New Left [Nuova sinistra] e attivista anti-Vietnam
Tom Hayden sostiene che i nuovi movimenti non sorgono sulla base di
interessi limitati o di ideologie astratte, ma sono mossi da un genere
specifico di temi carichi di simboli, cioè “ferite morali che impongono una
risposta morale”. Nel suo libro “The Long Sixties” [I lunghi anni sessanta]
Hayden cita numerosi esempi di tali ferite. Includono la desegregazione
dei locali pubblici per il movimento dei diritti civili, il diritto di
volantinaggio per il movimento per la libertà di espressione di Berkeley e
la denuncia da parte del movimento dei lavoratori agricoli della “zappa dal
manico corto”, un attrezzo divenuto emblematico dello sfruttamento dei
lavoratori immigrati perché li costringeva a un insostenibile lavoro piegati
nei campi.
Per certi versi questi temi rivoltano sottosopra il parametro della
“realizzabilità”. “Le rivendicazioni non erano semplicemente di tipo
materiale, che potevano essere risolte con leggeri aggiustamenti dello
status quo”, scrive Hayden. Ponevano, invece, sfide uniche ai gruppi al
potere. “Desegregare un locale pubblico avviava un processo diretto alla
desegregazione di istituzioni più vaste; permettere il volantinaggio agli
studenti legittimava la voce in capitolo degli studenti nelle decisioni;
vietare la zappa dal manico corto significava accettare la
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Forse non sorprendentemente il contrasto tra rivendicazioni simboliche e
strumentali può creare conflitti tra attivisti provenienti da tradizioni
organizzative diverse.
Saul Alinsky era scettico sullle azioni che producevano soltanto “vittorie
morali” e derideva le dimostrazioni simboliche che considerava mere
trovate di propaganda. Ed Chambers, subentrato ad Alinsky nella
Industrial Areas Foundation, ha condiviso i dubbi del suo mentore
riguardo alle mobilitazioni di massa. Nel suo libro “Root for Radicals”
[Radici per radicali] Chambers scrive: “I movimenti degli anni 1960 e
1970 – il movimento per i diritti civili, il movimento contro la guerra, il
movimento delle donne – erano vivaci, spettacolari e attraenti”. Tuttavia
nella loro dedizione a “temi romantici”, ritiene Chambers, erano troppo
concentrati sull’attirare l’attenzione dei media piuttosto che nell’esigere
conquiste strumentali. “I membri di questi movimenti si concentravano
spesso su vittorie morali simboliche come mettere fiori nelle canne dei
fucili dei membri della Guardia Nazionale, imbarazzando un politico per
un momento o due, o facendo arrabbiare razzisti bianchi”, scrive. “Spesso
evitavano ogni riflessione sul fatto che le vittorie morali conducessero o
meno a qualche cambiamento reale”.
Ai suoi tempi Gandhi subiva critiche simili. Tuttavia l’impatto di
campagne come la sua marcia verso il mare avrebbe offerto una
formidabile confutazione di esse.
Difficile non ridere
Il satyagraha del sale – o campagna di resistenza nonviolenta avviata dalla
marcia di Gandhi – è un esempio significativo dell’uso di confronti
progressivi, militanti e disarmati per suscitare sostegno pubblico e attuare
un cambiamento. E’ anche un caso in cui l’uso di rivendicazioni
simboliche, almeno inizialmente, ha suscitato ridicolo e costernazione.
Quando venne incaricato di scegliere un obiettivo per la disobbedienza
civile, la scelta di Gandhi fu assurda. Almeno quella fu la reazione
comune alla sua fissazione sulla legge del sale come punto chiave su cui
basare la sfida del Congresso Nazionale Indiano al dominio britannico.
Deridendo l’enfasi posta sul sale, The Statesman scrisse: “E’ difficile non
ridere, e immaginiamo che sarà questo l’umore della maggior parte degli
indiani pensanti”.
Nel 1930 gli organizzatori concentrati sulla strumentalità all’interno del
Congresso Nazionale Indiano erano interessati a questioni costituzionali,
se l’India avrebbe acquistato maggior autonomia conquistando lo status di
dominion e quali passi in direzione di tale soluzione avrebbero concesso i
britannici. Le leggi sul sale erano, al massimo, una preoccupazione
minore, non certo ai primi posti nella loro lista di rivendicazioni. Il
biografo Geoffrey Ashe sostiene che, in tale contesto, la scelta del sale da
parte di Gandhi come base per una campagna fu “la più bizzarra e più
brillante sfida politica dei tempi moderni”.
Fu brillante perché la violazione della legge sul sale era carica di
significato simbolico. “Prossimo all’aria e all’acqua”, sostenne Gandhi, “
il sale è forse la maggiore necessità della vita”. Era una semplice merce
che tutti erano costretti ad acquistare e che il governo tassava. Fin dai
tempi dell’impero del Gran Mogol il controllo dello stato sul sale era una
realtà odiata. Il fatto che agli indiani non fosse permesso di raccogliere il
sale dai depositi naturali o di setacciarlo dal mare era una chiara
illustrazione di come una potenza straniera stesse traendo ingiusti profitti
dal popolo e dalle risorse naturali del subcontinente.
Poiché la tassa colpiva tutti, il malcontento era avvertito universalmente. Il
fatto che gravava più pesantemente sui poveri accresceva l’indignazione.
Il prezzo del sale applicato dal governo, scrive Ashe, “includeva
un’imposta, non grande ma sufficiente a costare a un lavoratore con
famiglia fino a due settimane di salario l’anno”. Era una ferita morale da
manuale. E il popolo rispose rapidamente all’attacco di Gandhi contro di
essa.
In effetti, quelli che avevano ridicolizzato la campagna ebbero presto
motivo di smettere di ridere. In ciascun villaggio attraversato dai
satyagrahi essi attiravano grandi folle, fino a 30.000 persone, che si
radunavano per vedere i pellegrini pregare e sentire Gandhi parlare della
necessità di autogoverno. Come scrive la storica Judith Brown, Gandhi
“capì intuitivamente che la resistenza civile era in molti modi un esercizio
di teatro politico, dove il pubblico era importante quanto gli attori”. Dopo
la processione, centinaia di indiani che lavoravano in posti amministrativi
locali del governo imperiale diedero le dimissioni.
Dopo che la marcia ebbe raggiunto il mare e iniziò la disobbedienza, la
campagna raggiunse una dimensione impressionante. In tutto il paese
gruppi molto numerosi di dissidenti cominciarono a setacciare il sale e a
scavarlo dai depositi naturali. Il Congresso Nazionale Indiano creò un
proprio deposito del sale e gruppi di attivisti organizzati guidarono
irruzioni nonviolente nelle saline governative, bloccando strade e ingressi
con i loro corpi, nel tentativo di bloccare la produzione. Articoli di stampa
sui maltrattamenti e i ricoveri in ospedale che ne seguirono furono diffusi
in tutto il mondo.
Presto la disobbedienza si estese a includere rimostranze locali e a
intraprendere altri atti di non collaborazione. Milioni aderirono al
boicottaggio di abbigliamento e liquori britannici, un crescente numero di
funzionari di paese si dimise e, in alcune province, i contadini si
rifiutarono di pagare le imposte fondiarie. In forme sempre più varie la
disobbedienza di massa fece presa in un vasto territorio. E nonostante gli
energici tentativi di repressione delle autorità britanniche, continuò mese
dopo mese.
Identificare temi che potessero “attrarre vasto sostegno e conservare la
coesione del movimento”, osserva la Brown, non era “un compito
semplice in un paese dove c’erano simili differenze regionali, religiose e
socioeconomiche”. E tuttavia il sale fu precisamente all’altezza delle
aspettative. Motilal Nehru, padre del futuro primo ministro, osservò con
ammirazione: “La sola meraviglia è che non ci abbia pensato nessun
altro”.
Oltre il patto
Se la scelta del sale come rivendicazione era stata controversa, lo stesso fu
il modo in cui Gandhi concluse la campagna. Giudicando secondo
parametri strumentali la soluzione del satyagraha del sale fu una
delusione. Agli inizi del 1931 la campagna si era riverberata in tutto il
paese e tuttavia stava perdendo slancio. La repressione aveva preteso il
suo pedaggio, gran parte della dirigenza del Congresso era stata arrestata e
i disobbedienti fiscali le cui proprietà erano state sequestrate dal governo
stavano affrontando significative difficoltà finanziarie. Politici moderati e
membri della comunità degli affari che sostenevano il Congresso
Nazionale Indiano si appellarono a Gandhi per una soluzione. Anche molti
militanti dell’organizzazione concordavano sul fatto che era il caso di
dialogare.
Conseguentemente Gandhi accettò negoziati con Lord Irwin nel febbraio
1931 e il 5 marzo i due annunciarono un patto. Sulla carta, hanno
sostenuto molti storici, fu una doccia fredda. I termini chiave dell’accordo
non apparivano certo favorevoli al Congresso Nazionale Indiano: in
cambio della sospensione della disobbedienza civile sarebbero stati
rilasciati i dimostranti in carcere, le accuse a loro carico sarebbero state
archiviate e, con alcune eccezioni, il governo avrebbe cancellato le
ordinanze repressive di polizia che aveva imposto durante il satyagraha.
Le autorità avrebbero restituito le sanzioni incassate dal governo per la
resistenza fiscale e le proprietà sequestrate che non erano state ancora
vendute a terzi. E agli attivisti sarebbe stato consentito di continuare un
boicottaggio pacifico del vestiario britannico.
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Tuttavia il patto rimandava a colloqui successivi la discussione di
questioni riguardanti l’indipendenza, con i britannici che non si
impegnavano ad allentare la loro presa sul potere. (Gandhi avrebbe
partecipato in seguito nel 1931 a una tavola rotonda a Londra per
proseguire i negoziati, ma tale incontro fece pochi progressi). Il governo si
rifiutò di condurre un’inchiesta sul comportamento della polizia durante la
campagna di proteste, cosa che era stata richiesta con fermezza dagli
attivisti del Congresso Nazionale Indiano. Infine, cosa forse più
sconcertante, la stessa Legge del Sale sarebbe rimasta in vigore, con la
concessione che ai poveri delle aree costiere sarebbe stato consentito di
produrre sale in quantità limitate per uso personale.
Alcuni dei politici più vicini a Gandhi si sentirono estremamente sgomenti
per i termini dell’accordo e una varietà di storici ha aderito alla loro
valutazione che la campagna aveva mancato di conseguire i propri
obiettivi. A posteriori è certamente legittimo discutere se Gandhi concesse
troppo nei negoziati. Al tempo stesso giudicare l’accordo soltanto in
termini strumentali significa non coglierne l’impatto più vasto.
Rivendicare una vittoria simbolica
Se non guardando alle conquiste graduali a breve termine, come fa a
misurare il proprio successo una campagna che impiega rivendicazioni o
tattiche simboliche?
Nel caso di mobilitazioni di massa che trainano una lotta ci sono due
essenziali metri per giudicare il successo. Poiché l’obiettivo a lungo
termine del movimento consiste nell’indirizzare l’opinione pubblica su un
tema, la prima misura è se una data campagna ha conquistato maggior
sostegno popolare per una causa del movimento. La seconda misura è se
una campagna costruisce il potenziale per il movimento per crescere
ulteriormente. Se un’iniziativa consente agli attivisti di lottare un altro
giorno da una posizione di maggior forza – con più adesioni, maggiori
risorse, rafforzata legittimazione e un arsenale tattico ampliato – gli
organizzatori possono sostenere in modo convincente di aver avuto
successo, indipendentemente dal fatto che la campagna abbia conseguito
progressi significativi in sedute negoziali a porte chiuse.
In tutta la sua carriera come negoziatore Gandhi ha sottolineato
l’importanza di essere disponibili a compromessi su ciò che non è
essenziale. Come osserva Joan Bondurant nel suo perspicace studio sui
principi del satyagraha, uno dei suoi principi politici era la “riduzione
delle rivendicazioni a un minimo coerente con la verità”. Il patto con
Irwin, riteneva Gandhi, gli offriva tale minimo, consentendo al movimento
di chiudere la campagna in modo dignitoso e di prepararsi alla lotta futura.
Per Gandhi il consenso del vicerè a consentire eccezioni alla legge del
sale, anche se limitate, rappresentava un trionfo cruciale, di principio.
Inoltre egli aveva costretto i britannici a negoziare alla pari, un precedente
vitale che si sarebbe esteso a successivi colloqui sull’indipendenza.
A modo loro molti avversari di Gandhi hanno concordato sul significato di
queste concessioni, considerando il patto un passo falso di durature
conseguenze per le potenze imperiali. Come scrive Ashe, la burocrazia
britannica a Delhi “sempre, da allora … si è lamentata per la mossa di
Irwin considerandola un errore fatale da cui il Raj non si riprese mai”. In
un discorso oggi famigerato Winston Churchill, un difensore di spicco
dell’Impero Britannico, dichiarò di essere “allarmato e anche nauseato nel
vedere il signor Gandhi … marciare seminudo sugli scalini del palazzo del
vicerè … per trattare su basi di parità con il rappresentante del ReImperatore”. La mossa, affermò, aveva consentito a Gandhi – un uomo
che egli considerava un “fanatico” e un “fachiro” – di uscire di prigione e
di “[emergere] sulla scena come vincitore trionfante”.
Mentre gli addetti ai lavori avevano idee diverse sul risultato della
campagna, il vasto pubblico era molto meno ambiguo. Subhas Chandra
Bose, uno dei radicali del Congresso Nazionale Indiano che era scettico
riguardo al patto di Gandhi, dovette rivedere il suo giudizio quando
constatò la reazione nelle campagne. Come racconta Ashe, quando Bose
viaggiò con Gandhi da Bombay a Delhi “vide ovazioni quali non aveva
mai visto in precedenza”. Bose riconobbe la rivalsa. “Il Mahatma aveva
giudicato correttamente”, prosegue Ashe. “Secondo ogni regola della
politica aveva subito uno scacco. Ma agli occhi del popolo il semplice
fatto che l’Inglese fosse stato indotto a negoziare invece di impartire
ordini superava ogni altro dettaglio.”
Nella sua autorevole biografia di Gandhi del 1950, letta diffusamente
ancor oggi, Louis Fischer offre una visione molto spettacolare dell’eredità
della Marcia del Sale: “L’India era a quel punto libera”, scrive.
“Tecnicamente, legalmente, nulla era cambiato. L’India era ancora una
colonia britannica.” E tuttavia dopo il satyagraha del sale “era inevitabile
che la Gran Bretagna dovesse un giorno rifiutarsi di dominare l’India e
che l’India un giorno si sarebbe rifiutata di essere dominata”.
Storici successivi hanno cercato di offrire resoconti più sfumati del
contributo di Gandhi all’indipendenza dell’India, prendendo le distanze da
una prima generazione di biografie agiografiche che indicavano
acriticamente Gandhi come il “padre di una nazione”. Scrivendo nel 2009,
Judith Brown cita una varietà di pressioni sociali ed economiche che
contribuirono alla partenza della Gran Bretagna dall’India, in particolare
le svolte geopolitiche che accompagnarono la seconda guerra mondiale.
Ciò nonostante ella riconosce che stimoli come la Marcia del Sale furono
cruciali, svolgendo ruoli centrali nel costruire l’organizzazione e la
legittimazione popolare del Congresso Nazionale Indiano. Anche se le
sole manifestazioni di protesta di massa non cacciarono gli imperialisti,
esse modificarono profondamente il paesaggio politico. La resistenza
civile, scrive la Brown, “fu una parte cruciale del contesto in cui i
britannici dovettero prendere decisioni su quando e come lasciare l’India.”
Come avrebbe fatto Martin Luther King Jr. circa tre decenni dopo, Gandhi
accettò una soluzione che aveva un valore strumentale limitato ma che
consentì al movimento di proclamare una vittoria simbolica e di emergere
in una posizione di forza. La vittoria di Gandhi nel 1931 non fu una
vittoria finale, né lo fu quella di King nel 1963. I movimenti sociali oggi
continuano a combattere lotte contro razzismo, discriminazione,
sfruttamento economico e aggressione imperiale. Ma, se vogliono,
possono farlo aiutati dal potente esempio di predecessori che convertirono
una vittoria morale in un cambiamento duraturo.
Lo spirito della resistenza è vivo www.znetitaly.org
Fonte: http://zcomm.org/znetarticle/how-did-gandhi-win/
Originale: Waging Nonviolence traduzione di Giuseppe Volpe
Revisione a cura del Centro Studi Sereno Regis
– 9 ottobre 2014
http://znetitaly.altervista.org/art/16036
(fonte: Centro Studi Sereno Regis)
link: http://serenoregis.org/2014/10/19/come-fece-gandhi-a-vincere-mark-engler-epaul-engler/
Pace
Pacifismo istituzionale italiano: maglia nera del
pianeta: Intervista a Patrick Boylan
Alla Manifestazione nazionale "Facciamo insieme un passo di pace"
(Firenze, 21-9-2014) è andato come osservatore il nostro Patrick Boylan.
Invece di chiedergli un resoconto scritto, abbiamo voluto intervistarlo, in
modo che, parlando a tu per tu e a titolo personale, egli potesse esprimersi
più liberamente. Non ha avuto peli sulla lingua (25 settembre 2014).
REDAZIONE: Sei andato come osservatore, a titolo personale, alla
Manifestazione nazionale Facciamo insieme un passo di pace tenutasi
domenica scorsa (21-9-2014) a Firenze, nel magnifico piazzale
Michelangelo che sovrasta la città. L'iniziativa è stata indetta dalla Rete
della Pace, dalla Rete Italiana per il Disarmo, da Sbilanciamoci e dal
Tavolo Interventi Civili di Pace per “dare voce a chi resiste e si oppone in
9
modo nonviolento alle guerre, alle pulizie etniche, alle politiche di guerra,
ai regimi dittatoriali, al razzismo, all’apartheid.” Che impressione ti ha
fatto?
PATRICK BOYLAN: Terrificante. Un'enorme dispiegamento di mezzi per
incanalare nel nulla l'angoscia che provocano nella gente le guerre sempre
più vicine a noi: in Afghanistan, in Siria e in Iraq, in Ucraina, in Libia...
Tranne per gli interventi sulla Palestina, l'evento sembrava costruito per
smorzare le angosce, senza proporre azioni di contestazione – ad esempio,
atti di disubbidienza civile che obbligano i manovratori delle guerre ad
uscire allo scoperto.
Confesso che, da statunitense, mi sono assai stupito che gli USA non siano
stati quasi mai nominati – un primato per una manifestazione contro la
guerra nella nostra epoca. Ma non sono stati nominati, o solo raramente,
nemmeno i governi presenti e passati italiani e degli altri paesi europei.
Eppure le truppe USA ed europee occupano ancora l'Afghanistan, no?
L'aviazione USA ed europea ha devastato con le bombe la Libia ieri e
ricomincia a farlo ora in Iraq e in Siria, no? Sappiamo che il conflitto in
Ucraina è stato innescato da un golpe armato a Kiev preparato nelle
caserme NATO della Polonia, dove venivano addestrate milizie neonazisti
ucraine. Quindi sono stati gli USA e gli europei ad innescare il conflitto in
Ucraina, no?
Ma non si direbbe, a sentire i discorsi dal palco di domenica scorsa. I
conflitti appena elencati sarebbero allora da considerarsi eventi tragici
apparentemente senza autori. Guerre scatenate senza colpe, per
autogenesi. Eventi rievocati per suscitare la commozione, ma non la
mobilitazione.
REDAZIONE: E quale sarebbe un esempio di mobilitazione alla quale il
Comitato Organizzatore di domenica avrebbe potuto chiamare la gente in
piazza?
PATRICK BOYLAN: Avrebbe potuto proporre alla piazza di chiedere ai
ministri Mogherini e Pinotti di bloccare gli invii delle armi italiani in Siria
e a Kiev. Di censurare la CIA e la NATO per il loro golpe in Ucraina e di
ritirare l'ambasciatore italiano da Kiev. Di risarcire finalmente la Libia per
i bombardamenti illegali italiani nel 2012, anche con lo scopo di
scoraggiare azioni simili in futuro. Di condannare il Presidente Obama per
il suo uso illegale dei droni e quindi di chiudere la sua base droni a
Sigonella. Di ritirare subito le truppe italiane dall'Afghanistan e di uscire
dalla Coalizione, sotto la guida degli USA, che si appresta a condurre una
“lunga guerra” in Iraq, cioè, a rioccuparlo.
REDAZIONE: Quindi, a Firenze, niente rivendicazioni – almeno, dal
palco?
PATRICK BOYLAN: Solo quando si è parlato della Palestina, gli
intervenuti hanno osato fare nomi e cognomi e proporre azioni di
contestazioni concrete – per denunciare i governanti israeliani presenti e
passati di aggressione imperialista in Palestina, e per denunciare l'Italia di
connivenza nel concedere a Israele armamenti e suolo nazionale per i suoi
esercizi militari. Questo spezzone della manifestazione di domenica ha
fatto dunque un passo in avanti verso la giusta direzione, per quanto sia
rimasto troppo reticente sulle origini ideologiche del conflitto israelopalestinese. Semmai lo spezzone poteva essere criticato – ma solo
ironicamente, s'intende – per il suo grande successo come spettacolo – con
selezioni musicali, letture di poesie, video interviste, tutte svolte con molta
professionalità – al punto che il momento di denuncia si è trasformato in
momento di intrattenimento e la gente è andata via, contenta dello
spettacolo, ma senza consegne precise da mettere in pratica l'indomani per
realizzare l'ampio elenco delle proposte.
Anche gli altri spezzoni di “Un passo di Pace”, quelli che riguardavano le
altre guerre nel mondo, hanno mancato di dare al pubblico consegne
precise, da mettere subito in pratica. Hanno mancato persino d'indicare le
controparti da contestare. Eppure i mandanti di quelle guerre hanno precisi
nomi e cognomi, che vanno individuati e detti.
UN DISCORSO SENZA PELI SULLA LINGUA ... SUL CONFLITTO
IN UCRAINA
REDAZIONE: Allora vuoi togliere i peli dalla lingua e dirci qualche nome
e qualche fatto tu?
PATRICK BOYLAN: Certo. Ad esempio, quel fatto grosso che ho
nominato prima. Oggi, in Europa, c'è un governo arrivato al potere tramite
un golpe neonazista – un golpe pilotato dalla sottosegretaria statunitense
Nuland e dal senatore McCain, il falco che dirige molte delle operazioni di
destabilizzazione degli USA. Si tratta del governo ucraino del golpista
Jacenjuk e del suo successore Porošenko. Un governo che, da sei mesi,
d'intesa con Washington, bombarda le case dei propri cittadini nelle città
dell'est, con la scusa che bisogna “stanare gli indipendentisti” – come gli
israeliani che bombardano le case a Gaza, uccidendo soprattutto civili,
“per stanare Hamas”. Del resto, come Israele, il governo di Kiev definisce
i suoi avversari meri “terroristi” (anche chi è intervenuto dal palco di
Firenze ha usato questo termine offensivo per indicare gli indipendentisti).
Ora, mentre ci sono state alcune – seppure troppe poche – proteste ufficiali
in Europa contro la barbarie di Tel Aviv, non c'è stata nessuna protesta
ufficiale europea contro la barbarie di Kiev. Il motivo? Semplice. I governi
europei sono stati complici nel golpe – fino al collo – ed ora sono
favorevoli all'uso dei mezzi militari contro i civili del Donbass, dal
momento che quei civili vengono considerati dei burattini di Putin. Mentre
essi non lo sono affatto e comunque bombardare i civili rimane un crimine
di guerra.
Ma ve lo immaginate se, in Italia, gli indipendentisti veneti, sostenuti da
un'Austria nostalgica del suo impero perduto, avessero preso le armi e
occupato piazza San Marco? Ve lo immaginate se il governo italiano, per
stanarli, avesse autorizzato il bombardamento di Venezia, ammazzando
civili a frotte e distruggendo metà della città? Sarebbe successo il
finimondo, perché non è così che si pone fine ad un moto indipendentista,
almeno in Europa. Certo, Donetsk non ha i tesori d'arte che ha la città di
Venezia; ma, come Venezia, ha comunque delle vite umane che vanno
pure salvaguardate. E tuttavia, domenica scorsa a Firenze, non c'è stata
neanche una sola parola di condanna per i bombardamenti dei civili che
continuano ancora nel cuore dell'Europa, nonostante la tregua – ieri sera la
città è stata colpita di nuovo, più volte. Nessuna contestazione dei Ministri
Mogherini e Pinotti che continuano a fornire aiuti militari al governo di
Kiev. Nessuna proposta di manifestazione davanti ai loro ministeri.
C'è stata solo una condanna della Russia che avrebbe “sconfinato” in
Ucraina a sostegno degli indipendentisti.
REDAZIONE: Beh, sconfinare nel territorio di un altro stato sovrano è
illegale secondo il diritto internazionale; la condanna mi sembra doverosa.
PATRICK BOYLAN: Sicuramente: e se lo sconfinamento fosse provato,
sarebbe certamente una illegalità da punire. E severamente. Solo che, con
tutta la loro tecnologia avanzata, la NATO ha saputo offrire ai giornali
solo foto fatte da una ditta esterna che non indicano nemmeno le
coordinate GPS; quindi senza valore di prova.
Comunque, tagliamo corto: supponiamo che le accuse di sconfinamento
siano vere: probabilmente è così, anche se non ci sono le prove. Il punto
vero rimane comunque un altro. Gli Stati Uniti, l'Italia, la Francia, il
Regno Unito ritengono di avere titolo per rimproverare alla Russia di aver
“sconfinato” alcuni chilometri nell'Ucraina dell'est. Non ti sembra
ipocrita, questo? Di palese malafede?
PATRICK BOYLAN: Ma mi faccia il piacere! L'Italia e i suoi alleati
“sconfinano” da tredici anni in Afghanistan – e non occorrono le prove, lo
ammettono! Anzi, l'Italia e i suoi alleati hanno fatto di più. Hanno fatto
proprio ciò che accusano Putin di voler fare in Ucraina (ma che non fa):
ossia, hanno invaso ed ora occupano l'intero paese. Come hanno invaso e
occupato l'intero Iraq per undici anni, senza alcun mandato ONU, prima di
essere costretti ad andarsene. Ed ora si preparano la rivincita: con la scusa
dell'ISIS, progettano di “sconfinare” di nuovo per occupare l'Iraq e forse
“sconfinare” per occupare anche la Siria. Sono proprio questi i paesi che
puntano ora il dito e che condannano lo sconfinamento della Russia in
Ucraina – che altro non è che il tentativo di recuperare un pezzo di quanto
l'Occidente le ha sottratto con il golpe NATO, illegale, del 21 febbraio
2014. (E' illegale perché la carta dell'ONU proibisce colpi di Stato in paesi
terzi e perché i Patti Fondativi del 1997 collocano l'Ucraina fuori dalle
alleanze militari, ivi compresa la NATO.)
REDAZIONE: Beh, due torti non fanno una ragione. Se Putin ha
sconfinato, va punito – l'hai detto tu.
PATRICK BOYLAN: E lo riconfermo. Mandiamo dunque Putin davanti al
Tribunale Penale dell'Aia, e al più presto! Lasciamo che i giudici decidono
se le prove fotografiche siano attendibili o meno. Sei d'accordo su questo,
anche tu?
REDAZIONE: Sì...
PATRICK BOYLAN: Ma dopo Bush. E dopo Cheney, Rumsfeldt, Rice,
ecc. E dopo Obama con i suoi droni che “sconfinano” in Algeria e nello
Yemen ecc. e ammazzano pure e le sue forze speciali che “sconfinano” in
una trentina di paesi, soprattutto africani, per fare azioni clandestine. E
dopo Renzi, Hollande e Cameron che hanno rinnovato la presenza delle
loro truppe sconfinanti in Afghanistan, di cui molti rimarranno fino a
chissà quando. E dopo i Presidenti del Consiglio italiano, francese,
britannico nel 2012: loro hanno “sconfinato” in Libia, non solo con
bombardieri ma anche con forze speciali terrestre, con i pezzi d'artiglieria,
veicoli blindati – l'ONU ha autorizzato l'interdizione al volo, non i
bombardamenti o le truppe sul terreno.
Quindi tutti in galera! E i più colpevoli per primi, secondo chi ha
sconfinato di più e fatto più danni. Sei d'accordo?
REDAZIONE: Beh...
PATRICK BOYLAN: Ma concludiamo questo discorso sull'Ucraina.
Scusatemi se l'ho fatta lunga, ma ho voluto darvi un esempio di ciò che io
chiamo "DISCORSI CHIARI". Per illustrare una maniera di parlare che,
domenica scorsa alla manifestazione per la pace, si è sentito molto poco.
Infatti, di tutto quello che ho appena detto non c'è stato neanche un
accenno. Gli organizzatori hanno fatto commuovere il pubblico per le
sofferenze inflitte dalla guerra in Ucraina, ma senza fornire gli elementi
per capirne le cause. O meglio, attribuendo tutta la colpa a Putin. Così il
pubblico è andato via come è arrivato, senza sospettare minimamente le
responsabilità occidentali – cioè, le loro. Gente anestetizzata, dunque, che
la nostra Rete NoWar di Roma non potrebbe mai mobilitare. Se diamo
loro un volantino “contro il golpe NATO nel cuore dell'Europa” ci
guardano come marziani e sbuffano: “Ma che vogliono questi qui?
Esagerati!!”
REDAZIONE: Quindi stai dicendo che, alla manifestazione “Un passo di
Pace”, si è parlato della guerra soprattutto in astratto, come se non
riguardasse le decisioni concrete del governo italiano e dei suoi alleati.
L'unico governo a peccare sarebbe stato quello russo.
PATRICK BOYLAN: In linea di massima, sì, con l'eccezione del conflitto
israelo-palestinese, che ho appena menzionato.
REDAZIONE: E perché?
Do un altro esempio: alla manifestazione si è accennato agli orrori
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dell'ISIS ma, di nuovo, come se fosse un fenomeno che nascesse dal nulla.
Nessuno ha condannato gli Stati Uniti per aver creato l'ISIS per rovesciare
il regime siriano. Eppure ci sono le foto del capo dell'ISIS in trattativa con
il senatore McCain.
DISCORSI AMBIGUI: DECIDERE SUGLI F35 SENZA CHIEDERSI A
COSA SERVONO
REDAZIONE: Quindi l'impressione ricavata dalla manifestazione è che
l'amico americano e il governo amico italiano non avrebbero
responsabilità per le guerre nel mondo. O per la crescente militarizzazione
della nostra società. E' così?
PATRICK BOYLAN: Si. Fatta eccezione per alcuni interventi (ma erano
pochi) che hanno chiamato in causa il governo Renzi– segnatamente per la
sua scelta di confermare l'acquisto degli F35.
Solo che la questione degli F35 è stata trattata come se fosse un problema
meramente contabile. Gli F35 costerebbero troppo in un tempo di crisi,
ecco il problema. Come dire, se costassero meno, allora l'Italia potrebbe
pure acquistarli per bombardare e sottomettere altri paesi, non ci sarebbero
obiezioni.
Invece la vera obiezione – che qualcuno ha anche mosso, ma in sordina –
è l'uso per il quale questi velivoli sono destinati. Vengono acquistati per
poter attaccare all'estero (molti saranno attrezzati per i soli portaerei), non
per difendere il suolo italiano. Mentre la Costituzione italiana proibisce le
guerre di attacco. Vengono acquistati per portare bombe atomiche, in
violazione dei patti di non proliferazione – un ritorno alle angosce della
Guerra Fredda e al rischio dell'annientamento reciproco totale, dovuto a
qualche errore umano.
Quindi impostando la discussione sugli F35 solo in termini contabili, gli
intervenuti si sono esonerati dal discutere ciò che dovrebbero essere le
finalità dell'aeronautica italiana, complessivamente. Nel 2012,
l'aeronautica italiana ha compiuto più di 400 bombardamenti della Libia:
era forse un'azione meno cruenta e meno anticostituzionale perché svolta
con i vecchi F16 anziché con i nuovi F35? Quei bombardamenti hanno
ridotto la Libia, una volta fiorente, in rovine e la popolazione nella
miseria. “Ma è stato necessario per cacciare il crudele dittatore Gheddafi e
dare la democrazia al popolo” dicevano e continuano a dire il governo e i
mass media, per coprire il vero scopo dei bombardamenti, ossia
“ricacciare la Libia nel medioevo” per poter appropriarsi del suo petrolio a
prezzi stracciati. Infatti, l'Occidente non pensa più a creare in Libia le basi
per la democrazia che aveva promesso: alle ultime elezioni è andato a
votare solo il 18% della popolazione. Piuttosto che il voto, la gente vuole
il pane, quello che l'aviazione militare nostra ha tolto loro per chissà
quanto tempo ancora.
REDAZIONE: Possiamo almeno sperare che avranno entrambe le cose in
futuro?
PATRICK BOYLAN: Ne dubito, almeno fin quando durerà il petrolio.
Ma vogliamo smettere di parlare dei costi degli F35 e parlare di questo,
per favore? Cioè, dell'uso dell'aviazione italiana per bombardare e
sottomettere altri paesi? Non sarebbe un tema degno per un incontro di
pacifisti? Niente da fare: il tema delle guerre di aggressione italiane e dei
suoi alleati– e della devastazione che producono e che hanno prodotto,
come in Libia– non è all'ordine del giorno. Come i pacifisti del 2012
hanno dato il loro silenzio assenso alla distruzione della Libia, i pacifisti
di oggi (molti dei quali sono gli stessi) continuano a dare il loro silenzio
assenso alla sua putrefazione. Nessuna protesta nel 2012, nessun
pentimento nel 2014.
Ora l'Italia entra in una nuova Coalizione a guida USA che si accinge a
“salvare” gli iracheni e i siriani. Dio mio! Proprio loro, i bombaroli della
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Libia! Ancora una volta a voler “salvare” un paese con i loro missili
Tomahawk e le loro bombe Hellfire! Ci sarebbe da gridare dai tetti!! Ma
alla Manifestazione per la pace di Firenze, neanche una parola.
REDAZIONE: Quindi stai dicendo che quello che tu chiami il pacifismo
istituzionale – m'immagino che tu ti riferisca alle associazione che hanno
organizzato la manifestazione di domenica scorsa – funzionerebbe come
appannaggio del governo. Come un MinCulPop per la pace.
PATRICK BOYLAN: Diciamo che queste organizzazioni dipendono dal
governo per i loro finanziamenti e quindi tendono a tenerselo buono. A
volte lo contestano ma entro limiti abbastanza stretti. Pertanto alla
manifestazione di Firenze, come dicevo prima, il pacifismo istituzionale
non ha voluto contestare il governo Renzi per aver rinnovato la presenza
militare italiana in Afghanistan e per aver annunciato che intende
prolungare quella presenza anche dopo il 2014 col pretesto di effettuare
solo addestramenti. Sono 13 anni che questo martoriato paese subisce le
nostre bombe e i nostri rastrellamenti da gestapo. Ma nessuno protesta più.
Nemmeno ad una manifestazione per la pace.
Con una eccezione: a Firenze domenica scorsa c'è stato il bellissimo
intervento di Cecilia Strada di Emergency – degna figlia di suo padre. Il
suo intervento è stato un raggio di luce nel buio. Schietto ma profondo, ha
esaminato il significato della guerra anche in Afghanistan,
puntualizzandone le responsabilità. Non a caso gli organizzatori le hanno
tolto la parola, “per ragioni di tempo”, prima che potesse finire – un chiaro
riconoscimento del valore di quanto stava dicendo. E poi c'è stato anche
Alex Zanotelli che vi ha fatto qualche accenno, più discreto ma efficace. E
nient'altro.
DISCORSI INGANNEVOLI: SOSTENERE LA GUERRA... IN NOME
DELLA PACE
REDAZIONE: Quindi quando dici che il pacifismo istituzionale contesta
sì il governo “ma entro limiti abbastanza stretti”, intendi dire “quasi per
nulla.”
PATRICK BOYLAN: Diciamo relativamente poco. Ti do un altro
esempio.
Alla manifestazione di Firenze il governo Renzi non è stato contestato
neppure per la sua adesione al Gruppo di Londra, la combriccola che
organizza le forniture di armi ai guerriglieri jihadisti della Siria. Eppure il
programma di “Un Passo di Pace” – l'hai ricordato tu all'inizio – proclama
di voler sostenere solo chi “si oppone in modo nonviolento ai regimi
dittatoriali.”
Solo che, nel caso della Siria, l'Occidente non ha mai voluto sostenere
l'opposizione nonviolenta, come il Coordinamento democratico siriano,
perché troppo di sinistra. Se arrivasse al potere sarebbe, per l'Occidente,
troppo poco accomodante. Quindi l'Occidente ha preferito incitare i
giovani a prendere le armi – “per difendere i manifestanti” – sperando così
di poter determinare, attraverso la fornitura selettiva delle armi,
l'egemonia di una fazione dei ribelli sugli altri, quello più filo-Occidentale.
Che orrore, dunque, vedere apparire sul palco di “Un Passo di Pace”
l'individuo che il Comitato Organizzatore ha designato per parlare della
Siria. Si tratta di un esponente siriano che gira l'Italia da tre anni, a tenere
comizi – anche presso circoli pacifisti – per convincere gli italiani che
l'unico modo per rovesciare il presidente siriano Assad è con le armi. E
quindi che bisogna fornirle. Egli cerca poi di rimuovere le reticenze dei
pacifisti raccontando gli orrori commessi da Assad, in primis le uccisioni
dei manifestanti siriani in piazza.
Ma – un momento – non era il presidente al-Sisi dell'Egitto che, un anno
fa, ha fatto uccidere 1000 manifestanti in piazza in un colpo solo, un
record in assoluto, di tutti i tempi, nel medio oriente? E che poi ha fatto
condannare a morte 600 imputati in un processo lampo durato un giorno?
Anche questo un record in assoluto. Non importa, per l'oratore sembrava
contare solo la rimozione di Assad, costi quel che costi. E si capisce
perché. Mentre al-Sisi ha accettato la NATO nel suo paese, Assad lo rifiuta
e, anzi, ospita le navi russe. Non solo, ma costruisce gasdotti con l'Iran che
competano con quelli statunitensi e israeliani. Fornisce armi a Hezbollah.
Per l'oratore siriano, dunque, e sicuramente per chi sponsorizza
eventualmente le sue tournée di propaganda, è Assad, non al-Sisi, il capo
di stato cruento che va rimosso, senza indugio e con le armi.
Per fortuna, la platea, capendo la strumentalizzazione dell'intervento antiAssad, ha protestato, costringendo l'oratore a tagliare corto. Ma
l'ambiguità della scelta del Comitato organizzatore rimane un dato di fatto.
REDAZIONE: Ma perché, secondo te, con tutto quello che sta succedendo
in Siria ora, il Comitato ha fatto venire quell'individuo ad una
manifestazione per la pace?
PATRICK BOYLAN: Dovresti chiedere a loro. Se io dovessi azzardare
un'ipotesi, direi che è perché in questo momento, Mogherini e Pinotti
stanno trattando nuove consegne di armi italiane ai guerriglieri in Siria,
quindi serve erigere una cortina fumogena per coprire questo malaffare.
Discorsi anti-Assad, che lo descrivono come un mostro da eliminare a tutti
i costi, servono all'uopo, stroncano sul nascere qualsiasi protesta da parte
dei pacifisti. Perciò, con l'invito di quell'individuo, il Comitato
organizzatore ha forse voluto – dico forse – dare una mano al “governo
amico”.
REDAZIONE: Quindi una manifestazione per la pace ma tutta imperniata
sulla difesa della politica estera italiana – in Ucraina, in Afghanistan, in
Iraq, in Libia, in Siria...
PATRICK BOYLAN: Qualche critica occasionale c'è stata pure, ma il
senso globale dell'evento è stato quello. Sai, i ceti dominanti – quelli che
traggono profitti dalle guerre e accrescono il proprio potere subordinando
la politica estera italiana a quella guerrafondaia statunitense – hanno
comunque bisogno di mantenere un certo consenso nel paese. Devono
governare le angosce che le loro guerre creano. E quindi a loro serve un
movimento per la pace che faccia sfogare l'emotività della gente ma senza
proporre azioni concrete di contestazione delle scelte governative.
REDAZIONE: Ma allora, se la pensi così, perché non sei intervenuto tu
con un discorso che proponesse azioni di contestazione da intraprendere?
PATRICK BOYLAN: Non sono stato invitato a parlare e non erano
previsti interventi liberi dal pubblico – anzi, c'erano recinzioni e gorilla
per impedire che il pubblico potesse avvicinarsi al palco. E' stata la prima
volta che io ho visto una cosa simile ad una manifestazione di pacifisti per
pacifisti.
Comunque ho distribuito, a molti dei partecipanti, un volantino con il
discorso che avrei potuto fare. Quindi se l'hanno letto, avranno sentito
un'altra campana. Il volantino è diviso in tre parti. Ognuna descrive un
tema in poche righe, poi indica un link che devi digitare nel tuo browser
per vedere il resto.
REDAZIONE: E quali sono i tre temi?
PATRICK BOYLAN: Il primo è l'annuncio dell'iniziativa recente di un
noto attivista per la pace negli Stati Uniti – e un amico mio – David
Swanson. Egli ha lanciato otto azioni concrete per contrastare la
propaganda guerrafondaia dei governi e dei mass media e mi ha chiesto di
farle conoscere anche in Italia.
Il secondo è un esempio di ciò che io considero un discorso chiaro sulle
guerre e sulla pace. Ho appena accusato la manifestazione di Firenze di
eccessiva genericità. Ebbene, do un esempio di come gli intervenuti
avrebbero potuto parlare – nella fattispecie, sulla questione ISIS – se non
avessero avuto peli sulla lingua.
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Il terzo tema è: “Perché sembra sempre più difficile opporsi alle guerre?”
Elenca le diverse strategie che il potere usa per far sembrare inutile la
lotta, per confonderci le idee, per sfiancarci. Ad esempio, la stessa
manifestazione “Un Passo di Pace” – se i miei giudizi sono fondati, ma
bisogna discuterli ovviamente – è un esempio di meccanismo di
sfiancamento. Invece di incanalare l'emotività dei partecipanti verso
sbocchi contestatari, la manifestazione ha promosso un commozione
collettiva che si è risolta poi nel nulla. E poi ha mandato tutti a casa,
rassegnati. A lungo andare questo sfianca.
REDAZIONE: E' possibile vedere questo volantino, per avere i tre link?
PATRICK BOYLAN: Sì, si può vedere digitando nel proprio browser
http://boylan.it/info/0 . Attenzione, alla fine c'è lo zero, non una “o”.
Note: Per il volantino distribuito alla manifestazione "Passo di Pace":
http://boylan.it/info/0
(Alla fine c'è lo zero, non una “o”)
(fonte: Sinistra in rete)
link:
http://www.sinistrainrete.info/index.php?
option=com_content&view=article&id=4102
Notizie dal mondo
Cina
Occupying Movement in Hong Kong: alcuni
antefatti (di Mee Kam Ng)
Cari amici,
avete avuto l’occasione di vedere alcune informazioni su Hong Kong e vi
sarete domandati che cosa sta accadendo. I seguenti paragrafi forniscono
alcuni antefatti ai quali fare riferimento e io spero che vogliate unirvi alla
popolazione di HK nella lotta per un futuro più democratico.
Gli abitanti di HK sono conosciuti per il pragmatismo e i comportamenti
orientati a far soldi nella vita. Perché così tanti abitanti di HK hanno scelto
di scendere in strada in modo pacifico per esprimere il loro punto di vista?
Io spero che quanto segue possa darvi una idea di ciò che è accaduto
recentemente in HK .
I migliori auguri
Mee Kam Ng, 29 Settembre, 2014
Radici storiche
HK è stato descritto da Lord Palmerston, Primo ministro britannico di
allora, una “roccia arida e inabitata” quando fu ceduta al Regno Unito
dopo la sconfitta della Cina nella prima guerra dell’oppio nel 1841. Dopo
la sconfitta della Cina nella seconda guerra dell’oppio, la Penisola del
Kowloon fu ceduta in base al Primo Accordo di Pechino nel 1860. Nel
1898, il Governo Britannico ottenne di estendere il proprio controllo su i
“Nuovi Territori” attraverso un affitto di 99 anni e questo provocò proteste
e azioni difensive da parte della popolazione “indigena”.
Prima della fine della Seconda Guerra mondiale ed il ritorno delle forze
armate britanniche dopo l’occupazione dei Giapponesi di Hong Kong
( 1941-45), la Colonia britannica ha avuto una lunga tradizione
“rivoluzionaria”. Potreste essere stupiti … la tradizione era ispirata dal
Partito Comunista!
In un libro ora proibito in Cina “ Pioneering Voices of History”, prima
della loro presa del potere nei primi anni del 1940, i “guru” del Partito
Comunista furono i critici più agguerriti della legge del partito unico del
Partito Nazionalista ed i più accaniti sostenitori della democrazia
attraverso il suffragio universale del popolo! In effetti, la base delle rivolte
per rovesciare la Dinastia Qing è stata HK ed il suo leader, Dr. Sun Yat
Sen, una figura politica insigne in Taiwan come anche nella Cina
continentale, si era formato in HK ed aveva anche iniziato la sua carriera
rivoluzionaria qui. Nella lotta contro l’imperialismo gli abitanti di HK si
erano uniti nella lotta con quelli della Cina Continentale: gli scioperi
Guangdong-Hong Kong del 1925-26 è un esempio emblematico. E per il
momento, HK è probabilmente l’unico posto su territorio cinese dove si
può commemorare il massacro del 4 di giugno ( piazza Tianenmen).
può essere realizzata con il metodo del suffragio universale ; dopo
l’elezione del Governatore centrale con il suffragio universale, l’elezione
del Consiglio Legislativo dello HKSAR può essere realizzata con il
metodo di eleggere tutti i componenti con il suffragio universale” ( Annex
1 della Decisione del Comitato Permanete del National People’s Congress
(NPCSC)).
Una causa più profonda degli attuali movimenti va ricercata nelle radici
culturali di come gli intellettuali cinesi considerano il loro ruolo nello
sviluppo della società. Gli intellettuali hanno una naturale predisposizione
a “ rimproverare coloro che sono al potere” , a dire la verità al potere.
Mencius ( un santo cinese che è vissuto attorno al 250 e 150 prima di
Cristo) aveva raccomandato agli intellettuali di non “ essere tentati dal
denaro o dalla carriera, lasciarsi spaventare dalla povertà e difficoltà, e
neppure arrendersi al potere ed alla forza poiché essi dovrebbero essere la
coscienza della società”.
Suffragio Universale del Governatore Centrale nel 2017?
Sulla base della Basic Law e l’interpretazione della NPCSC nel 2004, gli
emendamenti alla elezione del Governatore centrale CE ( Chief Executive)
e alla formazione del Consiglio Legislativo (LegCo) debbono essere
sottoposti a un “ procedimento in cinque fasi”:
1)
Il ritorno di HK allo Stato Cinese e la “Basic Law”
2)
HK è ritornata allo stato cinese nel 1997. Molti anni prima erano iniziati i
colloqui Cino-Britannici: una dichiarazione congiunta era stata firmata nel
1984 e la mini-costituzione della Regione Amministrativa Speciale di HK
( HK Special Administration Region – HKSAR), la “ BASIC LAW”, era
stata adottata nel 1990 e divenne effettiva nel 1997. Sulla base della
dichiarazione congiunta , HK sarebbe dovuta ritornare allo stato cinese in
base alla originale politica di “ Un Paese Due Sistemi” per creare un ponte
fra il regime socialista della Cina continentale e le forme di vita capitalista
di HK.
3)
4)
5)
A quel tempo, molti abitanti di HK, che ne ebbero la possibilità,
lasciarono il territorio. Al principio degli anni ’90 e per alcuni anni l’esodo
arrivò ad essere di più di 50.000 persone all’anno. Questo fu uno dei
motivi per il Governo di costruire una nuova università ( The HK
University of Science and Technology) e di elevare le scuole politecniche
a Università. Paradossalmente, sono stati gli attuali democratici che hanno
appoggiato il ritorno di HK allo stato cinese, nutrendo la visione di
ritornare alla madre patria e di praticare la democrazia in HK.
Forse la diaspora dei “ricchi” abitanti di HK ha portato alla non dichiarata
decisione del Governo Centrale di privilegiare gli interessi dei capitalisti
dopo il 1997. Ma queste politiche hanno portato ad un peggioramento
della polarizzazione sociale in HK.
Ma torniamo alla “Basic Law”. La legge fondamentale stabilisce come
dovrebbero essere formati la Camera legislativa e l’Esecutivo nella
Regione amministrativa speciale. L’Esecutivo ( o Governatore centrale ) è
stato nominato ed eletto da un Comitato elettivo, la cui composizione è
cresciuta dagli originali 400 componenti del 1996, a 800 nel 2002 e a 1200
nel 2012. Sebbene sembri che il Comitato elettivo comprenda
rappresentanti di tutti i settori della società, l’accordo di fatto ha dato il
diritto di eleggere il Governatore centrale solamente ad un numero
limitato di persone, perché i rappresentanti non sono democraticamente
eletti. Non solo la composizione del Comitato elettivo è discutibile, ma
solamente circa 200.000 cittadini ( fra oltre 7 milioni e cioè lo 0,05% dei
potenziali elettori) hanno avuto il diritto di partecipare alla elezione dei
loro rappresentanti nel Comitato Elettivo nell’ultimo turno elettorale del
2012.
Il CE fa un rapporto al Comitato Permanente del National
People’s Congress ( NPCSC) , per invitarlo a decidere se è
necessario fare emendamenti al metodo di selezione/formazione;
il NPCSC decide se siano necessari emendamenti al metodo di
selezione/formazione;
se il NPCSC decide che emendamenti possano essere fatti, il
Governo centrale della HKSAR presenta una risoluzione al
LegCo ( Consiglio Legislativo) sugli emendamenti da apportare
per scegliere il CE e la formazione del LegCo ( Consiglio
Legislativo). Questi emendamenti debbono essere approvati da
una maggioranza di 2/3 di tutti i componenti del Consiglio
Legislativo;
il CE approva la risoluzione approvata dal Consiglio
Legislativo;
il CE presenta la proposta di emendamenti al NPCSC per la sua
approvazione.
Si tratta di “ HKSAR, 2013, Metodi per la Selezione del CE nel 2017 e
per la formazione del Consiglio Legislativo in 2016, pp. 5-6).
Come indicato nel documento di consultazione del 2013, “prima di
iniziare formalmente la “Prima fase”, il Governo del HKSAR vorrebbe
dare il via ad una consultazione su questioni relative ai metodi per
selezionare il CE nel 2017 e per formare il LegCo nel 2016….” (P.7)
Nello stesso periodo un movimento denominato “Occupy Central with
Love and Peace (OCLP)” è stato varato da un professore di legge
nell’Università di HK nel gennaio del 2013. Con una serie di dialoghi e
deliberazioni sul suffragio universale, il Movimento ha realizzato un
referendum fra tutti i cittadini su un sistema elettorale dello stesso valore
degli standard internazionali. Più di 700.000 persone hanno partecipato al
referendum. Il Movimento sostiene che se la proposta del governo non è
all’altezza degli standard internazionali , saranno intraprese azioni di
disobbedienza civile ( Occupy Central).
Allo stesso tempo , il campo dei Pro-Cina hanno anche loro organizzato
un altro referendum per raccogliere firme contro il movimento “Occupy
Central”. Tutto questo dibattito ha portato a una seria divisione sociale in
HK. Dato che oltre 150 persone al giorno sono immigrate in HK dalla
Cina Continentale ( circa 50.000 all’anno), qualcuno potrebbe pensare che
ci siano differenze significative nelle visioni politiche fra i “nativi” ed i
“nuovi” cittadini di HK.
La decisione del NPCSC sulla struttura delle elezioni di HK del 2017
Nel 2007, il Governo della Regione Amministrativa Speciale di HK ha
pubblicato un “libro verde” sullo sviluppo costituzionale e, dopo una
consultazione, lo ha sottoposto al Comitato Permanente del “National
People’s Congress” ( Parlamento della Cina popolare). Questo ha
promulgato in data 29 Dicembre 2007 la Decisione sulle questioni sui
metodi per selezionare il Governatore Centrale della HKSAR e per
formare il Consiglio Legislativo della HKSAR nel 2012 e sulle questioni
relative al Suffragio universale. La decisione è stata:
“ L’elezione del quinto Governatore centrale della HKSAR nell’anno 2017
13
In data 31 agosto 2014, il Comitato Permanente del NPC ha annunciato la
sua decisione sulle norme del “suffragio universale” del Chief Executive
(CE) ( Governatore centrale), come segue:
1.
2.
A far data dal 2017 , la selezione del CE della HKSAR può
essere realizzata con il metodo del suffragio universale;
quando la selezione del CE della HKSAR sarà realizzata con il
metodo del suffragio universale:
•
Dovrà essere formato un comitato largamente
•
•
•
rappresentativo dei cittadini con funzione di scegliere i
candidati per la carica di CE. Le disposizioni circa il
numero dei componenti, composizione e formazione del
Comitato di nomina saranno fatte sulla base del numero dei
componenti , e sulla base della composizione e metodo di
formazione del Comitato Elettorale per il Quarto Chief
Executive.
Il Comitato di nomina dovrà indicare da due a tre candidati
per la funzione del CE sulla base delle leggi democratiche.
Ciascun candidato dovrà avere il sostegno di più della metà
dei componenti del comitato di nomina.
Tutti gli elettori aventi diritto possono votare nelle elezioni
del CE ed eleggere uno dei candidati per la carica di CE in
accordo alla legge.
Il CE, eletto, selezionato attraverso il suffragio universale,
dovrà essere investito formalmente dal Governo centrale
del Popolo cinese.
Per molti cittadini di HK, questa è una “falsa” democrazia, sebbene i
Governi Centrale e della HKSAR sostengano che questo è un gran passo
verso la democrazia se confrontato alle attuali procedure.
People Power!
Mentre il Movimento OCLP è stato iniziato da tre adulti, il movimento
che si sta sviluppando negli ultimi giorni è guidato, organizzato e
alimentato dalle generazioni più giovani in HK. La combinazione di
energia e motivazione di un gruppo di studenti alcuni dei quali non hanno
ancora raggiunto l’età per votare e la promozione di pace e amore
nell’esercitare la disobbedienza civile ha contribuito allo sviluppo della
“rivoluzione degli ombrelli” in HK ( ombrelli per proteggersi dagli spietati
lacrimogeni della polizia).
Sebbene io non mi sia iscritta al Movimento OCLP , ho deciso di
esercitare il mio potere come un osservatore. Io sono stata testimone di
come la polizia abbia bloccato molte strade che portavano ai luoghi del
centro della protesta; azione che ha portato le persone a invadere le strade.
Io sono stata testimone di come pacifici cittadini e studenti abbiano
dovuto sostenere più volte gli attacchi con lacrimogeni. Sono stata
testimone di come i giovani abbiano esercitato il massimo controllo anche
di fronte agli attacchi ed abbiano risposto solo con le lacrime e rinnovata
determinazione di tornare sul posto, per essere là dove la loro “voce” può
essere “vista/sentita”.
Please Support Us!
Non mi è possibile inondarvi con tutti i dettagli ma spero che questa mia
nota via dia alcuni antefatti su ciò che sta avvenendo in Hong Kong.
Sappiate che NON si sta realizzando una rivolta e che noi NON ci
meritiamo di essere trattati come rivoltosi. Questo è un movimento
totalmente pacifico – ogni possibile azione motivata dalla rabbia è stata
scoraggiata discutendone fra i partecipanti. Noi vogliamo avere la
possibilità di dire la nostra su come viene amministrata la nostra città e
vogliamo che il Governo lo sappia.
Come educatrice, io sono molto orgogliosa degli studenti e delle
generazioni più giovani. Mentre HK potrebbe essere nei suoi momenti più
cupi, per merito di questi giovani una luce sembra che stia nascendo.
Molte persone hanno cominciato ad “occupare” varie parti della città. Se
avete qualche esperienza da poter condividere con noi, vi prego di farmelo
sapere. Prego sosteneteci nelle forme che ritenete più adeguate.
Mee Kam Ng
29 Settembre, 2014
(fonte: Centro Studi Sereno Regis)
link: http://serenoregis.org/2014/10/02/occupying-movement-in-hong-kong-alcuni-
14
antefatti-mee-kam-ng/
Iraq
IRAQ-SIRIA. Kobane allo stremo, scaricata (di
Chiara Cruciati)
Lo Stato Islamico controlla oltre un terzo della città. Obama: «I raid non
bastano». Ankara: «Folle pensare che interverremo da soli». Ancora
scontri tra polizia turca e manifestanti curdi: 25 le vittime totali.
I miliziani dello Stato Islamico entrano a Kobane con i carri armati.
Un’ulteriore prova di forza, se mai fosse stata necessaria. E mentre la città
curda nel nord della Siria è ad un passo dalla caduta, Washington e Londra
fanno notare – a chi non se ne fosse accorto – che i raid aerei non bastano
e la Turchia sottolinea che è irrealistico pensare che possa intervenire via
terra da sola.
Ormai le milizie di al-Baghdadi controllano oltre un terzo della comunità
al confine turco, dopo tre settimane di assedio, oltre 400 morti e 160mila
profughi: «L’Isis ha in mano oltre un terzo di Kobane – fa sapere
l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani – Tutta la parte est, una piccola
parte a nord est e un’altra a sud est». Secondo le milizie curde sul posto,
nella notte i jihadisti hanno occupato altri due distretti della città.
Circondata e invasa su un fianco, mentre proseguono gli scontri casa per
casa con i combattenti curdi rimasti a difesa della città. Continuano anche
i bombardamenti aerei della coalizione, ma servono a ben poco. E gli Stati
uniti lo sanno bene. Ieri il portavoce del Pentagono, il maggiore John
Kirby, lo ha candidamente ammesso: «Dobbiamo prepararci
all’eventualità che altri villaggi e città saranno presi dall’Isis. Kobane
potrebbe essere presa. Dobbiamo riconoscerlo. Stiamo facendo quel che
possiamo dal cielo per cercare di fermare l’avanzata dell’Isis. Ma la
potenza aerea da sola non è abbastanza a salvare la città».
Sarebbe necessario un intervento di terra, vista l’estrema adattabilità
dell’Isis al cambio di strategie militari occidentali. Obama, che non
intende inviare neanche un marine come ha ricordato Kirby, fa pressioni
sulla Turchia: attacca tu. È una corsa allo scaribarile, figlia delle divisioni
interne allo stesso fronte anti-Isis, che ad oggi facilita solo lo Stato Islamico. Alle richieste statunitensi la Turchia, sempre più timorosa di rafforzare indirettamente la resistenza curda (Pkk in primis), risponde con un
«no, grazie»: «È irrealistico aspettarsi che la Turchia guiderà
un’operazione di guerra da sola», ha detto ieri il ministro degli Esteri
Cavusoglu durante la visita ad Ankara del segretario generale Nato, Jens
Stoltenberg.
La dichiarazione giunge mentre proseguono le proteste nel paese da parte
della comunità curda, a sud, nella capitale Ankara e a Istanbul: nella notte
tra mercoledì e ieri, nonostante il coprifuoco imposto nelle città curde a
sud est, gli scontri tra polizia e manifestanti hanno provocato altre vittime,
facendo salire il bilancio totale a 25. Cento poliziotti ieri sono entrati nel
campus dell’università di Ankara e hanno disperso gli studenti che protestavano: lacrimogeni, idranti e 25 arrestati, tra cui 5 professori.
Si torna allora a puntare sulle opposizioni moderate al presidente Assad: il
Pentagono lamenta l’assenza di «un partner capace e volenteroso in Siria»
e ventila l’ipotesi di usare come truppe di terra miliziani del posto, forse
quei 5mila che la Casa Bianca addestrerà ed armerà secondo il piano
approvato dal Congresso il mese scorso. Ma ci vorranno ancora dai tre ai
cinque mesi soltanto per procedure e protocolli e i dubbi restano: finora
molte delle armi inviate ai gruppi moderati anti-Assad sono transitate per
diverse vie all’Isis.
Dall’altra parte del confine le truppe di terra dovrebbero essere quelle irachene, ma la poca preparazione e l’avversione delle comunità sunnite per
una forza esclusivamente sciita si traducono in scarsa efficacia sul terreno.
I settarismi interni sono il maggiore ostacolo che il governo al-Abadi è
costretto ad affrontare: ieri l’ennesimo attentato ha ucciso 12 persone e ne
ha ferite 33. Una bomba è esplosa vicino ad un café a Sadr City, distretto
sciita di Baghdad e roccaforte del leader religioso Moqdata al-Sadr.
Dalla Siria giungono invece notizie sul frate francescano Hanna Jallouf e i
venti fedeli fatti prigionieri domenica scorsa dal Fronte al-Nusra, gruppo
qaedista anti-Assad e neo-alleato dell’Isis. Sono stati tutti rilasciati per
essere posti agli arresti domiciliari nel convento nel villaggio di Qunyeh, a
nord ovest. I domiciliari sarebbero stati comminati da una corte islamica
locale, perché – riporta la Custodia di Terra Santa – padre Jallouf è accusato di cooperazione con Damasco.
Nena News
Pubblicato su Il Manifesto
(fonte: Nena - agenzia stampa vicino oriente)
link: http://nena-news.it/iraq-siria-kobane-allo-stremo-scaricata/
Libia
LIBIA: i risvolti internazionali della guerra civile
(di Francesca La Bella)
Il Paese, diviso a metà con due governi incapaci di imporsi come governi
nazionali, acquista sempre più rilevanza per la regione nord-africana e
medio-orientale coinvolgendo in varia misura Europa e i paesi limitrofi, in
particolar modo Egitto e Algeria.
16 morti e 15 feriti negli scontri tra milizie islamiche e le forze del
generale Khalifa Haftar a Bengasi. Una cronaca asciutta e significativa
dell’ennesima giornata di scontri in terra libica. Il bollettino di una guerra
civile che, con il passare dei mesi, acquista sempre più rilevanza per tutta
la regione nord-africana e medio-orientale. Da molto tempo ormai gli
interessi in campo hanno travalicato i confini del Paese nord-africano
coinvolgendo in varia misura l’Europa e i Paesi limitrofi, in particolar
modo Egitto e Algeria e, ad oggi, la risoluzione della questione libica
sembra centrale per la stabilità delle due sponde del Mediterraneo.
La crisi interna sembra, però, ben lontana dall’epilogo. Il Paese risulta
sostanzialmente diviso a metà con due Governi, uno guidato da al-Thani
che opera tra Tobruk e Bayda ed uno guidato da al-Hasi diviso tra
Misurata e Tripoli, entrambi apparentemente incapaci di imporsi come
Governi nazionali e di controllare in maniera efficace il territorio sotto la
loro ufficiale competenza. A questi, però, è necessario aggiungere le
fazioni interne ai due schieramenti e la galassia di gruppi di varia entità
numerica che operano nel Paese. La frammentazione della società libica e
la difficoltà di ricomposizione diventano così ancor più evidenti.
Alla luce di questo non stupisce che il tentativo di mediazione operato
dall’inviato speciale dell’Onu, Bernardino Leon, a Ghadames, oasi vicino
al confine algerino, non abbia raggiunto dei risultati significativi.
L’incontro che ha visto la partecipazione di dodici deputati del Parlamento
ufficiale e di altri dodici provenienti da Misurata, affiancati nei lavori da
Leon e da rappresentanti di Malta e Gran Bretagna, si è, infatti, concluso
in un nulla di fatto più a causa degli assenti che dei presenti. La non
partecipazione di Fajr Libya (Alba della Libia), coalizione islamista che
sostiene al-Hasi e che raggruppa varie milizie tra cui la Libya Shield
Force, ha, infatti, fortemente indebolito l’iniziativa diplomatica di
Ghadames lasciando la situazione sostanzialmente inalterata.
Parallelamente, risulta rilevante l’assenza di Ansar al Sharia, movimento
islamico che ambisce alla creazione di uno stato islamico basato sulla
Sharia, principale attore della lotta contro l’ex ufficiale dell’esercito libico
Khalifa Haftar e in un primo tempo sostenitrice di al-Hasi che, in seguito,
si è distanziata a causa delle posizioni “troppo filo-occidentali” imputate
al Governo di Misurata.
In questo contesto di alleanze a geometrie variabili, di attentati, di
rapimenti [è notizia di questi giorni la liberazione di un ostaggio inglese,
15
David Bolan, dopo quattro mesi di prigionia, ndr] e di scontri sempre più
violenti si innesta la nuova iniziativa internazionale guidata dai vicini
regionali. A seguito della conferenza di Madrid dello scorso settembre
durante la quale ventuno Paesi dell’area mediterranea si sono incontrati
per confrontarsi sulla questione libica, oltre all’iniziativa di Ghadames, si
è resa palese la volontà di Egitto ed Algeria di avere un ruolo attivo nella
questione.
Se l’azione egiziana sembra, però, isolata in quanto maggiormente intesa
alla difesa dei propri confini ed al tentativo di contenimento di forze che
potrebbero dare sostegno alla Fratellanza Musulmana all’interno del
Paese, l’azione algerina potrebbe essere accolta con maggiore favore dai
diversi attori. Mentre l’Egitto viene accusato di aver bombardato la Libia a
fine agosto [non è stato confermato da fonti ufficiali, ndr] ed è notizia di
pochi giorni fa l’offerta di addestramento alle milizie ufficiali libiche per
“aiutare il governo del Paese vicino” ad “arginare una situazione di
crescente anarchia”, l’Algeria si propone, con il supporto della Tunisia, di
portare le diverse parti in campo ad un tavolo negoziale per evitare
l’intervento militare esterno.
In questo senso la proposta algerina che punta più su un processo
ricompositivo interno alla società libica sostenuto da agenti esterni che su
un intervento internazionale diretto, ha già raccolto diversi favori, tra i
quali spicca l’endorcement iraniano. Per bocca della portavoce del
Ministro degli Esteri, Marziyeh Afkham, Teheran ha, infatti, dato il suo
appoggio all’iniziativa algerina, sottolineando come solo attraverso il
dialogo tra i diversi gruppi politici libici si possa giungere ad una
soluzione duratura.
L’attenzione per la questione libica ha, anche per l’Algeria, molto più di
un significato esclusivamente umanitario. Una maggiore stabilità in Libia
significherebbe limitare la capacità di trovare rifugio in quel territorio dei
ribelli del Mali. Se da un lato questo garantirebbe una minore permeabilità
dei confini algerini limitando anche l’azione dei movimenti islamisti
interni, dall’altro questo consentirebbe la tutela delle imprese
internazionali, perlopiù francesi, che molto hanno investito sulla sicurezza
del territorio algerino.
In un momento in cui le forze islamiste sono al centro del dibattito
internazionale a causa dell’azione dello Stato Islamico in Siria e Iraq, la
soluzione della questione libica viene considerata prioritaria, soprattutto
per i Paesi nord-africani. A causa delle interconnessioni tra questi
movimenti, la questione medio-orientale e quella libica risultano
strettamente collegate e, in questo senso, la rinnovata intraprendenza dei
Paesi dell’area dovrà essere letta più in questa direzione che come una
reazione al deteriorarsi della situazione interna alla Libia.
Nena News
(fonte: Nena - agenzia stampa vicino oriente)
link: http://nena-news.it/libia-risvolti-internazionali-della-guerra-civile/
Palestina e Israele
Israele scarica Abu Mazen: "E' peggio di Arafat".
Altre 2610 case per coloni (di Michele Giorgio)
Il presidente palestinese, un tempo portato in palmo di mano dai governi
israeliani, ora è visto come un nemico, un personaggio ostile da boicottare
e isolare. Ieri mentre Obama e Netanyahu si incontravano alla Casa
Bianca, Israele ha annunciato un progetto per la costruzione di altre case
per i coloni.
Barack Obama e Benyamin Netanyahu si sono incontrati ieri alla Casa
Bianca per la prima volta in sette mesi. Un’occasione importante che
Israele ha celebrato annunciando nelle stesse ore un progetto per la
costruzione di 2610 case, in gran parte nella colonia di Givat Hamatos.
Progetto che hanno condannato anche gli Stati Uniti.
Dopo l’abituale riaffermazione della stretta alleanza che unisce Stati uniti
e Israele, il presidente americano ha sottolineato che è importante
«cambiare lo status quo a Gaza» e trovare la strada per «promuovere la
pace con i palestinesi». Netanyahu ha replicato di essere impegnato a
favore della soluzione dei due Stati (Israele e Palestina) ma, a proposito di
eventuali trattative, ha detto che «esistono interessi comuni tra Israele e
(alcuni) paesi arabi…abbiamo bisogno di questo per promuovere la pace».
Neanche una parola per il suo «partner» di negoziato, il presidente
dell’Anp e dell’Olp Abu Mazen (nella foto reuters), proprio come era
avvenuto a inizio settimana quando il premier israeliano ha pronunciato il
suo discorso annuale davanti all’Assemblea generale delle Nazioni Unite
senza peraltro avanzare alcuna idea o proposta di rilancio delle trattative.
Netanyahu e il suo governo stanno scaricando Abu Mazen e hanno avviato
una campagna di demolizione dell’uomo che pure per anni è stato
considerato da Tel Aviv l’unico leader palestinese in grado di raggiungere
un accordo di pace, accettando tutte le condizioni di Israele, contro la
stesse aspirazioni del suo popolo.
Yuval Steinitz non è un ministro qualsiasi del governo israeliano. È
responsabile per gli affari strategici ed è considerato molto vicino al
premier Netanyahu. Lunedì scorso, durante una conferenza sulla recente
offensiva militare «Margine Protettivo» contro Gaza tenuta al Centro
Begin-Sadat per gli studi strategici, Steinitz ha rivolto ad Abu Mazen un
attacco durissimo, senza precedenti. «Abu Mazen è un nemico peggiore di
Yasser Arafat», ha affermato facendo un paragone tra il presidente
palestinese e il suo (illustre) precedessore morto dieci anni fa per una
misteriosa malattia dopo essere rimasto confinato per anni nel suo ufficio
di Ramallah (la Muqata) per ordine di Israele. Secondo Steinitz, Abu
Mazen addirittura «nega l’esistenza dello Stato ebraico e il diritto del
popolo ebraico ad avere un proprio Stato. Per Abu Mazen non ci sono
ebrei. Egli è disposto a riconoscere solo la religione ebraica», ha detto il
ministro in riferimento al rifiuto, sino ad oggi, del presidente palestinese
di riconoscere Israele come «Stato del popolo ebraico» (i palestinesi
temono che tale riconoscimento di uno Stato rivendicato su base etnicoreligiosa, finisca per danneggiare la minoranza araba in Israele e per
affossare il diritto al ritorno per i profughi).
Arafat era stato accusato da Israele di aver ordinato o approvato
«operazioni terroristiche». Per Steinitz Abu Mazen avrebbe fatto di peggio
perché, pur condannato il terrorismo, ha rivelato una inspiegabile
incapacità a smantellare le organizzazioni terroristiche. «Negli ultimi nove
anni, con Abu Mazen presidente – ha notato il ministro israeliano – i
palestinesi di Gaza hanno lanciato 16.000 razzi contro Israele. Attacchi
terroristici sono stati eseguiti contro gli israeliani, oltre al rapimento e
l’uccisione di tre ragazzi ebrei in Cisgiordania a giugno». Steinitz ha
concluso con due importanti affermazioni: gli attentati in Israele sono
diminuiti solo grazie all’azione dell’esercito (di occupazione, ndr) e gli
accordi di Oslo siglati 21 anni fa sono stati un «colossale fallimento» per
gli interessi israeliani.
Parole importanti arrivate in anticipo sull’avvertimento lanciato ieri da
Abu Mazen durante un incontro con un gruppo di giornalisti: se gli Stati
Uniti useranno il veto per bloccare l’iniziativa palestinese al Consiglio di
Sicurezza delle Nazioni unite per il ritiro entro tre anni di soldati e coloni
israeliani dai Territori occupati, i palestinesi reagiranno interrompendo la
(tanto contestata) cooperazione di sicurezza con Israele.
Tra i palestinesi si tende ad escludere un tale passo da parte di Abu Mazen.
Allo stesso tempo le parole del presidente dell’Anp potrebbero spingere il
governo israeliano ad ordinare un maggiore presidio delle forze militari in
Cisgiordania, se non anche la rioccupazione di gran parte delle «zone A»
dove l’Anp esercita, almeno sulla carta, la piena autorità, come
probabilmente desiderano diversi ministri israeliani. Steinitz, ad esempio,
ha ammesso di aver premuto sul governo per prendere il controllo della
Striscia di Gaza ma la sua proposta non è stata accettata dalla maggioranza
del gabinetto.
Nena News
(fonte: Nena - agenzia stampa vicino oriente)
link: http://nena-news.it/israele-scarica-abu-mazen-e-peggio-di-arafat-altre-2610-
16
case-per-coloni/
Dopo ‘Margine protettivo’: quale futuro per
Palestina e Israele? (di Richard Falk)
L’operazione militare israeliana di 50 giorni che ha ucciso 2.100
palestinesi, ne ha feriti 11.000 e ha indubbiamente traumatizzato l’intera
popolazione di Gaza di 1.700.000 persone, ha ucciso anche 70 israeliani,
65 dei quali erano soldati. Questo recente violento scontro è finito senza
una chiara vittoria per l’una o l’altra parte.
Malgrado questo, Israele e Hamas stanno entrambi insistendo che è stata
ottenuta la ‘vittoria’. Israele fa notare i risultati materiali, cioè i tunnel e i
depositi di missili che sono stati distrutti, le uccisioni di obiettivi presi di
mira, e il complessivo indebolimento della capacità di Hamas di lanciare
un attacco. Hamas, da parte sua, rivendica risultati politici, essendo
diventata molto più forte politicamente e psicologicamente sia a Gaza sia
in Cisgiordania, rispetto all’inizio dei combattimenti, avendo rifiutato di
cedere riguardo alla fondamentale richiesta di ‘demilitarizzazione’ di Gaza
e avendo anche appannato ulteriormente la reputazione internazionale di
Israele.
La Commissione dell’ONU per i Diritti Umani ha fatto quello che per loro
è un passo eccezionale: nominare una commissione di inchiesta per
indagare sulle accuse di crimini di guerra. Il fatto che William Schabas, un
famoso esperto di legge penale internazionale, specialmente riguardo al
crimine di genocidio, sia stato scelto per presiedere l’inchiesta è di grande
significato simbolico e potenzialmente di grande rilevanza per l’attuale
lotta per la legittimità che viene combattuta con successo dal popolo
palestinese. Qualcuno l’ha definita ‘Goldstone 2.0’ in riferimento alla
precedente iniziativa di indagine di alta visibilità della Campagna per i
Diritti Umani (HRC) suggerita dall’operazione militare israeliana contro
Gaza del 2008-2009 che aveva scioccato il mondo per la sua ferocia e per
il disprezzo delle leggi internazionali di guerra. Al contrario di Richard
Goldstone che era un dilettante riguardo alla legge internazionale ed era
allineato ideologicamente con il sionismo, Schabas è un massimo esperto
accademico, senza alcuna inibizione ideologica nota, e con la forza di
carattere di rispettare i previsti risultati e le raccomandazioni del rapporto
che produrrà l’inchiesta.
Come in precedenza, gli Stati Uniti useranno la loro forza geopolitica per
proteggere Israele da censura, critiche, e, soprattutto, dalla sua
responsabilità. Questa deplorevole limitazione riguardo all’applicazione
della legge internazionale, non significa che lo sforzo di Schabas manchi
di significato. Il risultato politico di precedenti lotte anti-coloniali è stato
controllato dalla parte che vince la guerra di legittimità per il controllo dei
‘piani alti’ della legge e della moralità internazionale.
Questo terreno simbolico è così importante dato che rafforza la resistenza
di coloro che cercano la liberazione per portare i pesi della lotta e rinforza
il movimento di solidarietà globale che fornisce un appoggio
fondamentale. In questo senso, il Rapporto Goldstone ha esercitato
un’importante influenza nel delegittimare la periodica vasta distruzione a
Gaza, specialmente gli usi enormemente sproporzionati della forza contro
una popolazione civile totalmente vulnerabile e essenzialmente indifesa e
intrappolata.
Il risultato più impressionante di questo recentissimo attacco violento da
parte di Israele che sembra meno un esempio di ‘guerra’ che di ‘massacro
orchestrato’, è stranamente ironico visto da una prospettiva israeliana. La
ricerca spietata di Israele di una vittoria militare ha avuto l’effetto di
rendere Hamas più popolare e legittimo di quanto fosse mai stato, non
soltanto a Gaza, ma ancora di più in Cisgiordania. L’operazione militare di
Israele ha minato gravemente le rivendicazioni già contestate dell’Autorità
Palestinese di essere l’autentico rappresentante delle aspirazioni del
popolo palestinese. La spiegazione migliore di questo esito è che i
palestinesi nel loro insieme preferiscono l’opposizione di Hamas, per
quanta sofferenza produca, rispetto al passivo adattamento dell’AP alla
volontà dell’occupante e dell’oppressore.
Da parte sua Israele ha segnalato un rifiuto meno mascherato di avviarsi
verso una pace negoziata nelle attuali circostanze. Il Primo ministro
Netanyahu ha detto ancora una volta ai palestinesi che devono scegliere
tra la ‘pace e Hamas,’ senza dire che il suo uso della parola ‘pace’ l’ha resa
indistinguibile dalla parola ‘resa’. Netanyahu ha ripetuto la sua spesso
proclamata posizione: Israele non negozierà mai con un’organizzazione
terrorista che si è impegnata nella sua distruzione. Piantando un altro
chiodo in quella che sembra la bara della soluzione dei due stati, Israele ha
annunciato la più grossa confisca di terra per l’espansione degli
insediamenti in più di 20 anni, prendendo quasi 1000 acri di terreno
pubblico vicino a Betlemme che va aggiunto al piccolo insediamento di
Gvaot vicino al blocco di Etzion a sud di Gerusalemme. Alcuni si
chiedono: “Perché adesso?”, invece che fare la domanda più intuitiva:
“Perché non adesso?”
Partendo da queste prospettive, il vero impatto della carneficina di Gaza
può essere meno la devastazione fisica e la catastrofe umanitaria, i danni
imminenti di malattie epidemiche, e di 12 miliardi di danni che verranno
superati fra 20 anni, rispetto agli effetti politici. E’ come la sospensione
della diplomazia inter-governativa come mezzo di risoluzione del
conflitto. Anche l’AP che cerca la sua riabilitazione politica, parla ora di
chiedere all’ONU che stabilisca una tabella triennale per il ritiro di Israele
dalla Cisgiordania. Sta anche minacciando di ricorrere alla Corte penale
internazionale perché autorizzi un’indagine sulle accuse che di per sé
l’occupazione della Cisgiordania implichi l’aver compiuto crimini contro
l’umanità.
In base a queste prospettive, la situazione sembra disperata. Le prospettive
palestinesi di avere un proprio loro stato, che è stato per anni la speranza
dei moderati di entrambe le parti, ora sembra irrilevante. Soltanto il
modello dei due stati, in qualunque modo venga varato, potrebbe
conciliare di nuovo le pretese contrastanti del Sionismo israeliano e del
nazionalismo palestinese. Naturalmente, i critici palestinesi si chiedevano
sempre di più se il Sionismo fosse conforme ai diritti umani della
minoranza palestinese e delle sue grandi comunità di profughi e di esiliati,
e tendeva a considerare il risultato dei due stati come un trionfo del
progetto sionista e una sconfitta ‘ricoperta di zucchero’ per le aspirazioni
nazionali palestinesi. Ora ‘i giochi sono finiti’ per la soluzione dei due
stati, e la vera lotta si sta svolgendo più chiaramente tra versioni in
competizione di una soluzione con un solo stato.
Che cosa possiamo aspettarci? Perfino un cessate il fuoco sostenibile che
permetta agli abitanti di Gaza di riprendersi in qualche modo dalla
spaventosa traversia di un crudele regime di punizione collettiva sembra
improbabile che duri molto a lungo nell’attuale atmosfera. C’è ogni
motivo di supporlo data la frustrazione di Israele per il fallimento del suo
attacco per schiacciare Hamas e per il rifiuto di Hamas di accettare senza
atti di opposizione le dure realtà del suo continuo soggiogamento.
E tuttavia ci sono barlumi di luce nei cieli oscurati. L’ostinatezza
dell’opposizione palestinese unita alla robustezza di un movimento
crescente di solidarietà globale è probabile che eserciti una pressione che
si sta intensificando sul pubblico israeliano e su alcuni dei suoi capi
perché rivedano le loro scelte per il futuro, e da un punto di vista
israeliano prima avverrà e meglio sarà. La campagna BDS (Boicottaggio,
Disinvestimento e Sanzioni) sta guadagnando spinta politica e morale ogni
giorno. Il tipo di movimento internazionale nonviolento che
inaspettatamente ha contribuito a provocare il crollo improvviso del
regime di apartheid in Sudafrica, sembra come se potesse a un certo punto
spingere gli israeliani a riconsiderare se un accordo non sia nell’interesse
di Israele, anche se richiede il ripensare a quella che è l’essenza della
realtà di ‘una patria ebraica’, e anche se non raggiunge una riconciliazione
completa. Come indica l’esperienza in Sudafrica e anche in Irlanda del
Nord, la parte che prevale in campo militare, non riconosce la pressione
politica che aumenta, fino a quando non sarà pronta a un patto con il suo
nemico, cosa che sarebbe sembrata inconcepibile soltanto poco prima che
venisse fatto.
Attualmente l’esito della lotta israelo-palestinese è oscuro. Dalla
prospettiva territoriale sembra che Israele sia sul punto di vincere, ma da
una prospettiva di lotta per la legittimità i palestinesi stanno avendo la
meglio. Il flusso della storia fin dalla fine della II Guerra mondiale fa
pensare a un futuro di speranza per i palestinesi, e tuttavia la forza
geopolitica di Israele può essere in grado di resistere alla pressione di
riconoscere il fondamentale diritto palestinese di autodeterminazione.
Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
www.znetitaly.org
17
Fonte: http://zcomm.org/znet/article/after-protective-edge-what-future-forpalestine-and-israel
Originale: Richardfalk.com Traduzione di Maria Chiara Starace
22 settembre 2014 http://znetitaly.altervista.org/art/15906
(fonte: Centro Studi Sereno Regis)
link: http://serenoregis.org/2014/09/27/dopo-margine-protettivo-quale-futuro-perpalestina-e-israele-richard-falk/
Siria
Quali giustificazioni per l'attacco contro l'Isis in
Siria? Un'analisi di diritto internazionale (di Vito
Todeschini)
La rilevanza dell’escalation militare richiede un’analisi di come essa possa
inquadrarsi alla luce del diritto internazionale: le norme internazionali che
regolano l’uso della forza, le giustificazioni alla base delle azioni militari
in Siria contro lo SI e le problematiche giuridiche che queste ultime
sollevano.
Il 23 settembre 2014 gli Stati Uniti hanno iniziato la campagna di
bombardamenti contro le postazioni dello Stato Islamico (SI) in Siria con
il supporto di alcuni Stati arabi. La rilevanza di questa nuova escalation
militare richiede un’analisi di come essa possa inquadrarsi alla luce del
diritto internazionale. In questo articolo mi propongo di chiarire tre
questioni: le norme internazionali che regolano l’uso della forza, le
giustificazioni alla base delle azioni militari in Siria contro lo SI e le
problematiche giuridiche che queste ultime sollevano. Va da sé che
l’analisi proposta non intende sostenere o giustificare tali azioni, ma
solamente offrire a scopo divulgativo una lettura della questione alla luce
del diritto internazionale.
Come è regolato l’uso della forza a livello internazionale?
L’articolo 2, paragrafo 4, della Carta delle Nazioni Unite (Carta ONU)
pone un divieto generale agli Stati di utilizzare la forza armata in modo
unilaterale. A questo divieto fanno da contrappunto tre eccezioni: la
legittima difesa contro un attacco armato (articolo 51 Carta ONU);
l’autorizzazione da parte del Consiglio di Sicurezza (articoli 39-42 Carta
ONU) - ad es. il caso della Libia; il consenso prestato da uno Stato alla
conduzione di azioni militari straniere sul proprio territorio - ad es. i
recenti bombardamenti compiuti dagli Stati Uniti in Iraq contro lo SI. Al
di fuori di tali eccezioni - ed esclusi i casi di uso minimo della forza per
salvare propri connazionali all’estero - l’uso unilaterale della forza armata
da parte di uno Stato viola il divieto posto dalla Carta ONU, e nei casi più
gravi può qualificarsi come un atto di aggressione.
Quali giustificazioni possono avanzarsi per colpire lo SI in Siria?
Consideriamo le citate eccezioni al divieto dell’uso della forza. Una di
queste può subito escludersi: l’autorizzazione da parte del Consiglio di
sicurezza dell’ONU. Come è ben noto Russia e Cina hanno minacciato più
volte di utilizzare il proprio potere di veto per bloccare l’adozione di
risoluzioni che autorizzino azioni militari in Siria. Ripensamenti, seppur
possibili, rimangano per ora improbabili. Vanno quindi considerate le altre
due opzioni.
Primo: il consenso. Per attaccare lo SI in territorio siriano gli Stati Uniti
devono ottenere il consenso del governo di Bashar al-Assad. Tale
necessità deriva sia dal divieto dell’uso della forza di cui sopra, sia dal
principio di sovranità degli Stati e di non-interferenza nella sovranità
altrui. Assad ha recentemente affermato che non intende acconsentire ad
azioni militari straniere sul proprio territorio che non siano concordate con
il governo siriano. Gli Stati Uniti, dal proprio canto, rifiutano di
coordinare le proprie azioni militari con quello che è considerato un
nemico politico. Assad potrebbe però prestare il proprio consenso in
segreto mantenendo un’opposizione di facciata - un’ipotesi non troppo
lontana dalla realtà. Gli Stati Uniti hanno infatti reso noto che
l’ambasciatore siriano presso l’ONU è stato avvertito dei bombardamenti
contro lo SI prima che questi avvenissero. L’assenza di aperte proteste o di
reazioni militari da parte siriana farebbe pensare che il consenso, in
qualche modo, sia stato negoziato e ottenuto. Per quanto realistiche,
tuttavia, queste rimangono solamente delle ipotesi. Un esplicito consenso
da parte di Assad ad azioni militari americane non è ancora stato
apertamente concesso.
Legittima difesa contro lo SI?
In mancanza del consenso da parte dello Stato siriano l’unica opzione sul
tavolo è invocare le legittima difesa. Ai sensi dell’articolo 51 della Carta
ONU la legittima difesa può essere sia individuale - uno Stato può usare la
forza armata direttamente contro lo Stato aggressore - che collettiva - lo
Stato vittima può chiedere a uno o più Stati di intervenire in proprio
soccorso. Il diritto internazionale prescrive determinati requisiti affinché la
forza armata possa utilizzarsi in legittima difesa: 1) uno stato deve essere
vittima di un attacco armato - il quale consiste in un uso della forza di una
certa gravità e intensità, nonché su determinata scala; 2) l’attacco armato
deve essere imminente; 3) l’uso della forza in risposta all’attacco armato
deve essere necessario - lo Stato vittima deve trovarsi nella condizione per
cui l’uso della forza armata è l’unica alternativa possibile - e
proporzionato - l’uso della forza è ammesso nella misura in cui è teso a
neutralizzare l’attacco in atto e ad evitare che ne vengano condotti di
ulteriori. Come e da chi potrebbe essere invocata la legittima difesa
nell’attuale situazione siriana?
Per invocare la legittima difesa individuale gli Stati Uniti dovrebbero
essere essi stessi vittima di un attacco armato da parte dello SI. Ciò finora
non è accaduto, ragion per cui questa non può costituire un’alternativa
valida per utilizzare la forza.
Non rimane che la legittima difesa collettiva, la quale è esattamente la
giustificazione di diritto internazionale che la rappresentante degli Stati
Uniti presso il Consiglio di sicurezza, Samantha Power, ha offerto in una
lettera ufficiale al Segretario dell’ONU Ban Ki-moon. In tale lettera gli
Stati Uniti affermano che l’Iraq ha esplicitamente richiesto il loro
intervento per porre fine agli attacchi armati dello SI; e che l’azione
militare americana si rende necessaria a causa dell’incapacità del governo
di Assad di fronteggiare in maniera efficace il gruppo islamista. Questa
possibilità potrebbe essere in linea con il diritto internazionale. Tuttavia,
essendo l’aggressore un gruppo armato situato nel territorio di uno Stato
sovrano, un ulteriore elemento è indispensabile: la dimostrazione che lo
Stato da cui ha origine l’attacco armato sia non intenzionato (unwilling) o
incapace (unable) di porre fine a tali attacchi. Nel nostro caso: che il
governo di Assad si mostri non intenzionato o incapace di fermare lo SI. A
parte la difficoltà nei fatti di dare una chiara dimostrazione di ciò, va detto
che tale unwilling/unable test - come viene definito dagli studiosi di diritto
internazionale - trova solo parziale consenso tra gli Stati e tra i giuristi. I
rischi in seno a tale teoria sono evidenti: uno Stato potrebbe in qualsiasi
momento affermare la necessità di usare la forza contro un gruppo armato
presente nel territorio di un altro Stato, sulla base di una supposta non
volontà o incapacità del governo di quest’ultimo di neutralizzare il gruppo
in questione. In assenza di un’oggettiva valutazione delle circostanze tale
teoria potrebbe ben offrire il destro ad abusi del diritto alla legittima difesa
da parte di alcuni Stati.
Non è un caso che i partner occidentali degli Stati Uniti nella lotta contro
lo SI - Francia, Regno Unito, Paesi Bassi, Australia e Danimarca intendano almeno per il momento limitare il proprio appoggio militare al
territorio iracheno, avendo esplicitamente affermato che non esistono basi
giuridiche certe per condurre attacchi in Siria. Ragionamenti di natura
politica a parte, se la suddetta teoria trovasse maggior consenso vi sarebbe
meno riluttanza a giustificare azioni militari in territorio siriano. In
mancanza di valide alternative, tutavia, gli Stati Uniti hanno deciso di
basarsi su tale unwilling/unable test, forse anche nella speranza che
invocare questa teoria nell’attuale situazione siriana possa far sì che essa
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venga accettata da altri Stati e che nel tempo si consolidi in una norma
giuridica internazionale.
Conclusioni
Il diritto internazionale prescrive un divieto generale dell’uso della forza,
fatta eccezione in casi di autorizzazione del Consiglio di sicurezza
dell’ONU, di consenso da parte dello Stato sul cui territorio dovrebbe aver
luogo l’intervento militare, e della legittima difesa individuale o collettiva.
Allo stato attuale i bombardamenti statunitensi delle roccaforti dello SI in
Siria possono trovare due giustificazioni. Una ufficiosa: il consenso
prestato dal governo di Assad, che però potrebbe essere ritirato in qualsiasi
momento e che sicuramente pone forti limiti all’azione americana. L’altra
ufficiale: la legittima difesa collettiva in aiuto del governo iracheno.
Trattandosi di attacchi armati provenienti da un gruppo armato situato in
territorio straniero, tuttavia, quest’ultima opzione poggia necessariamente
su una teoria - detta unwilling/unable test - non del tutto consolidata e
accettata in diritto internazionale, la quale non offre una base giuridica
particolarmente solida.
Una nota finale: varie fonti riportano la notizia che in Siria gli Stati Uniti
non si sono limitati ad attaccare lo SI. Uno dei bersagli dei
bombardamenti sarebbe il gruppo Khorasan - finora sconosciuto al grande
pubblico - apparentemente affiliato ad Al-Qaida. Al riguardo la citata
lettera di Power indirizzata al segretario ONU si limita ad affermare che
tale gruppo “costituisce una minaccia terroristica per gli Stati Uniti e i loro
alleati”. Mentre vengono offerte ampie giustificazioni per gli attacchi
contro lo SI, non sembra esservi la stessa esigenza per ciò che riguarda il
misconosciuto gruppo Khorasan. A quanto pare gli Stati Uniti intendono
giustificare l’uso della forza in base al legame del gruppo con al Qaeda,
con cui gli Stati Uniti affermano di essere in guerra e per cui già esiste
un’autorizzazione del Congresso americano ad usare la forza. In sostanza,
considerandosi parte di un conflitto armato con al Qaeda sin dal 2001, gli
Stati Uniti non reputano necessarie nuove giustificazioni per utilizzare la
forza armata contro gruppi ad essa affiliati o associati. Tale ragionamento
è però basato più sul diritto costituzionale americano che sul diritto
internazionale, e le azioni contro il gruppo Khorasan potrebbero risultare
illegali alla luce del diritto internazionale - così come le azioni militari
contro lo SI poggiano per ora su basi giuridiche non particolarmente
solide. Il rispetto della legalità internazionale non è un fattore secondario
ai fini della creazione di un ambiente politico adatto a sconfiggere lo SI.
Gli strateghi e i politici statunitensi dovrebbero tenerlo bene a mente.
* Vito Todeschini è dottorando in diritto internazionale presso l’Università
di Aarhus, Danimarca. Nelle sue ricerche si occupa di diritto dei conflitti
armati, diritti umani, diritto internazionale penale e uso della forza
internazionale. Può essere contattato all’indirizzo: [email protected]
Riferimenti
 Jennifer Daskal, Ashley Deeks and Ryan Goodman, Strikes in Syria:
The International Law Framework, Just Security, 24 September 2014
(http://justsecurity.org/15479/strikes-syria-international-lawframework-daskal-deeks-goodman/);
 Letter by theUS Representative to the UN, Samantha Power, to
Secretary-General Ban Ki-moon concerning the international law
justification
for
the
US
use
of
force
in
Syria
(http://justsecurity.org/15436/war-powers-resolution-article-51letters-force-syria-isil-khorasan-group/);
 Milena Sterio, The Legality of ISIS Air Strikes Under International
Law,
IntLawGrrls,
12
September
2014
(http://ilg2.org/2014/09/12/the-legality-of-isis-air-strikes-underinternational-law/);
 Ashley Deeks, Narrowing Down the U.S. International Legal Theory
for ISIS Strikes in Syria,Lawfare, 12 September 2014
(http://www.lawfareblog.com/2014/09/narrowing-down-the-u-s-
international-legal-theory-for-isis-strikes-in-syria/);
 Lorenzo Gradoni, Gli obblighi erga omnes, l’idioma dell’egemone e
la ricerca del diritto. Ancora sull’intervento contro l’ISIS e oltre,
SIDIBlog, 24 settembre 2014 (http://www.sidi-isil.org/sidiblog/?
p=1085#more-1085);
 Paolo Picone, Considerazioni sull’intervento militare statunitense
contro l’Isis, SIDIBlog, 5 settembre 2014 (http://www.sidiisil.org/sidiblog/?p=1070).
(fonte: Nena - agenzia stampa vicino oriente)
link:
http://nena-news.it/quali-giustificazioni-per-lattacco-contro-lisis-siriaunanalisi-di-diritto-internazionale/
Appelli
Appello: maggiore protezione per le persone senza
una nazionalità (di European Network on
Statelessness)
Sono oltre 10 milioni gli apolidi nel mondo.
Di questi, la metà sono bambini che nascono senza cittadinanza.
La mancanza di registrazione delle nascite, in combinazione con altri
fattori, quali lo spostamento, la migrazione, la discriminazione nei
confronti delle minoranze, possono portare un bambino a nascere senza
cittadinanza e a essere considerato come un cittadino senza Stato.
Non avere nazionalità significa vivere in un limbo legale: vuol dire non
avere accesso o avere un accesso limitato a servizi necessari per garantire i
propri diritti, dalla scuola, al lavoro, all’assistenza sanitaria all’acquisto di
una casa o alla semplice apertura di un conto corrente bancario.
In Europa si contano 600.000 apolidi: sono diverse le storie di chi vive
qui da anni - spesso ci è nato - ma viene rinchiuso nei CIE e vi rimane
perché non è cittadino di nessun altro Stato.
C’e’ molto ancora da fare per far uscire dall’invisibilità e riportare i diritti
degli apolidi alla luce.
Se ne parlerà a Roma il prossimo 10 ottobre, in un incontro promosso
dalla Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti
umani del Senato, UNHCR e CIR, in cui interverrà l'avv. Giulia Perin
dell'ASGI.
Oltre 5 mila persone hanno già firmato una petizione che l' European
Network on Statelessness consegnerà il 14 ottobre 2014 ai leader europei
per chiedere una maggiore protezione per le persone senza una
nazionalità.
L’ASGI, da sempre attiva a favore dei diritti degli apolidi, sostiene questa
campagna sviluppata dall’European Network on Statelessness (ENS) .
Leggi le storie che abbiamo raccolto nell'ultimo rapporto pubblicato
dall'ENS.
(fonte: Associazione Studi Giuridici sull'Immigrazione)
link: http://www.statelessness.eu/ora-e-il-momento-di-agire-per-apolidia
Recensioni/Segnalazioni
Libri
Urlare non serve a nulla: Gestire i conflitti con i figli
per farsi ascoltare e guidarli nella crescita, di
Daniele Novara (di Centro PsicoPedagogico per
l'educazione e la gestione dei conflitti)
Dall’autore del bestseller Litigare fa bene, le strategie più efficaci per farsi
comprendere dai propri figli in modo da renderli maturi e autonomi.
Non è mai stato facile farsi ascoltare dai figli, e lo stress e la mancanza di
tempo delle nostre vite acuiscono il problema.
Molti genitori si trovano quindi ad alzare sovente la voce, non solo perché
troppo aggressivi e impositivi, ma molto spesso per la ragione contraria: il
tentativo impossibile di mettersi sullo stesso piano dei figli, tentativo che
mostra sempre la propria inefficacia e di
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conseguenza genera altro stress, frustrazione e, infine, urla.
Daniele Novara, uno dei maggiori pedagogisti italiani e massimo esperto
di conflitti interpersonali, raccoglie in questo libro riflessioni e indicazioni
pratiche per spiegare come imparare a controllare le proprie reazioni
emotive e riuscire, con la giusta organizzazione, a farsi ascoltare
efficacemente e gestire nel modo migliore i conflitti che quotidianamente
si generano con i figli.
Partendo dal racconto di storie vere raccolte nel suo lavoro di sostegno ai
genitori, dai capricci dei piccoli ai dubbi sull’uso delle punizioni, dalla
divisione dei ruoli tra madre e padre alle tipiche discussioni della prima
adolescenza, l’autore mostra la strada per un’educazione basata su regole
chiare, organizzazione e una buona comunicazione, che mette i genitori in
grado di aiutare i figli a crescere, sviluppando tutte le loro risorse.
L'uscita in libreria e' prevista per l'8 ottobre 2014
link: http://www.cppp.it/urlare_non_serve_a_nulla.html
Associazioni
Ciao Aldo (di ANPI Massa)
All’età di 92 anni ci ha lasciato il Partigiano Combattente Aldo
TORNABONI “Riccione”.
Uomo semplice e leale, stimato e rispettato da tutti amici e avversari,
durante la Resistenza e la Lotta di Liberazione, all’età di 23 anni, dopo
l’Otto Settembre e dopo essere rimasto illeso dall’affondamento della sua
nave durante il servizio militare nella Marina, fu tra quei giovani che
diedero vita alle prime formazioni di ribelli e bande partigiane ed entrò a
far parte dei Patrioti Apuani, Gruppo “Minuto”, V° Compagnia, operante
sul Monte Brugiana
Nella sua semplicità e modestia, ha incarnato e testimoniato per tutta la
vita gli ideali dell’Antifascismo, della Resistenza, della difesa della
Libertà, della Democrazia, della Pace e della Costituzione.
In questi ultimi due anni Aldo, così anziano, è stato molto presente nella
vita dell’Associazione partecipando con entusiasmo alle cerimonie ed
anche tutte le nostre iniziative: manifestazioni, incontri, presentazioni di
film e libri. In tal senso siamo davvero felici di aver contribuito a rendere
più lieve questo ultimo periodo della sua vita.
L’ANPI di Massa, nell’esprimere alla Figlie e a tutta la famiglia il
cordoglio della Sezione, invita gli antifascisti, i cittadini, i partigiani e i
propri iscritti, a partecipare ai funerali, in programma per Martedì 21
Ottobre 2014 alle ore 15,30, con partenza dall'abitazione in via Ricortola
n.82 Marina di Massa , per la Chiesa Parrocchiale del Casone.
Massa 20 Ottobre 2014
La Sezione ANPI di Massa
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2164