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Notiziario settimanale n. 505 del 24/10/2014 versione stampa Questa versione stampabile del notiziario settimanale contiene, in forma integrale, gli articoli più significativi pubblicati nella versione on-line, che è consultabile sul sito dell'Accademia Apuana della Pace 24/10/2014: Settimana internazionale per il disarmo. 27/10/2014: Giornata ecumenica del dialogo cristiano-islamico. Nel conflitto l’altro mi obbliga a considerarlo, mi invita a vedere un altro punto di vista che non sia il mio, amplia il mio campo di comprensione del mondo. La felicità non dipende dalle circostanze piacevoli o spiacevoli, ma dal nostro atteggiamento di fronte a queste circostanze Isabelle Filliozat Indice generale Evidenza...........................................................1 Sulla Perugia-Assisi. La non-adesione del Movimento Nonviolento (di Movimento Nonviolento)........................................................................... 1 Lavoro e diritti: partecipa anche tu alla manifestazione a Roma del 25 ottobre (di CGIL Massa-Carrara)............................................................... 2 ONU: “Kobane, una nuova Srebrenica” (di Roberto Prinzi)...................... 2 La pagina dell'AAdP.......................................3 Romagnano - a scuola per confrontare modelli di città (di Periferie al Centro)....................................................................................................... 3 Approfondimenti.............................................4 I nuovi processi di privatizzazione e finanziarizzazione dei beni comuni (di Forum Italiano dei Movimenti per l'Acqua )......................................... 4 La voce del padrone (di Umberto Romagnoli)........................................... 4 Come fece Gandhi a vincere? (di Mark Engler, Paul Engler) .....................6 Pacifismo istituzionale italiano: maglia nera del pianeta: Intervista a Patrick Boylan........................................................................................... 9 Notizie dal mondo......................................... 12 Occupying Movement in Hong Kong: alcuni antefatti (di Mee Kam Ng) 12 IRAQ-SIRIA. Kobane allo stremo, scaricata (di Chiara Cruciati)............14 LIBIA: i risvolti internazionali della guerra civile (di Francesca La Bella) ................................................................................................................. 15 Israele scarica Abu Mazen: "E' peggio di Arafat". Altre 2610 case per coloni (di Michele Giorgio)...................................................................... 15 Dopo ‘Margine protettivo’: quale futuro per Palestina e Israele? (di Richard Falk)........................................................................................... 16 Quali giustificazioni per l'attacco contro l'Isis in Siria? Un'analisi di diritto internazionale (di Vito Todeschini).......................................................... 17 Appelli............................................................19 Appello: maggiore protezione per le persone senza una nazionalità (di European Network on Statelessness)........................................................ 19 Recensioni/Segnalazioni............................... 19 Urlare non serve a nulla: Gestire i conflitti con i figli per farsi ascoltare e guidarli nella crescita, di Daniele Novara (di Centro PsicoPedagogico per l'educazione e la gestione dei conflitti).................................................... 19 Associazioni................................................... 19 Ciao Aldo (di ANPI Massa)..................................................................... 19 1 Evidenza Sulla Perugia-Assisi. La Movimento Nonviolento Nonviolento) non-adesione del (di Movimento ...Per tutte queste ragioni il Movimento Nonviolento (fondato da Aldo Capitini) – nella consapevolezza che la Marcia della Pace, patrimonio collettivo del movimento, per la forza della sua storia, l'evocazione, la suggestione, e lo spirito che richiama dovrebbe essere una "Assemblea in cammino", "aperta" e di "tutti" - ritiene che non vi siano le condizioni per poter aderire alla Perugia-Assisi del 2014... La prima Marcia della Pace Perugia-Assisi del 1961 ha partorito il Movimento Nonviolento, l'una e l'altro voluti da Aldo Capitini. La Marcia come presentazione del programma, il Movimento come strumento attuativo. Marcia e Movimento, insieme, per la nonviolenza organizzata. La nostra storia, dunque, si intreccia con quella delle marce della pace, dalle prime organizzate proprio dal Movimento Nonviolento fino a quelle promosse dalla Tavola per la pace, passando per quelle che contestammo perchè troppo ambigue sul tema dell'opposizione alla guerra. Fu proprio per questo che nel 2000 organizzammo autonomamente, insieme al MIR, la Marcia nonviolenta Perugia-Assisi "Mai più eserciti e guerre". Nel 2011, cinquantesimo anniversario della prima edizione della marcia di Capitini, fummo co-promotori della "Marcia per la pace e la fratellanza dei popoli", per cercare di ritrovarne lo spirito originale. Fu una grande manifestazione popolare nella quale riuscimmo ad introdurre il tema politico del disarmo e la valorizzazione della campagna NO-F35. Dopo quella esperienza chiedemmo alla Tavola della Pace un incontro di valutazione e riflessione sul se e come procedere con le marce PerugiaAssisi, per non cadere, dopo 50 anni, nella ritualità e nella celebrazione fine a se stessa, a scapito dei contenuti. Non è mai arrivata alcuna risposta, ma anzi la Tavola stessa è implosa. Le sue principali organizzazioni, contestandone la conduzione monocratica, la poca trasparenza e la non chiarezza nel rapporto con le Istituzioni locali che la Marcia sostengono anche finanziariamente, hanno preso atto che l'esperienza della Tavola si era conclusa ed hanno dato vita alla Rete della Pace, per dotarsi di un'organizzazione autonoma, democratica ed indipendente. La riflessione collettiva sulla Marcia dunque non è mai avvenuta, per contro con un anno di anticipo siamo venuti a sapere della convocazione di nuova Perugia-Assisi nel 2014, indetta a nome della ormai ex Tavola e di altre improvvisate sigle, indipendentemente dal contesto internazionale nella quale viene "cadere" e dai percorsi di elaborazione politica collettiva del "popolo della pace". Titolo, contenuti e documento della Marcia sono stati comunicati come un dato di fatto. A tutti si chiede solo di aderire e partecipare. La gestione, l'organizzazione, l'immagine della Marcia sono in mano al cosiddetto "comitato promotore" con una modalità, quanto meno, privatistica. L'Appello per la Perugia-Assisi – la cui stesura non è stata condivisa con alcuna delle organizzazioni associative, culturali, sindacali, che da sempre animano la Marcia della Pace - è del tutto generico e superficiale, e non tiene conto del ritorno violento della guerra come continuazione della politica con altri mezzi in Palestina ed Israele, in Siria, in Iraq, in Libia, in Afghanistan, Ucraina, Congo, Nigeria e nelle decine di altre zone del mondo, di fronte al quale la comunità internazionale è impotente o complice, come il nostro Paese che continua a vendere armi a tutte le parti in conflitto. Né tiente conto del percorso organizzativo e politico del "popolo della pace" che ha visto – anche come onda lunga della marcia del 2011 - una plurale convergenza nell'Arena di Pace e Disarmo dello scorso 25 aprile, dove è stata lanciata la Campagna per la Legge di inziativa popolare per il Disarmo e la Difesa civile, non armata e nonviolenta, come azione politica unitaria. Con l'Arena di Pace e Disarmo e con la Campagna che partirà il prossimo 4 novembre il movimento per la pace ha fatto un salto di qualità sul piano degli obiettivi specifici, delle alleanze tra il mondo del disarmo, del servizio civile, del volontariato, tra forze laiche e religiose, dei processi di condivisione delle pratiche, della capacità organizzativa e di autonomia economica, senza dover dipendere da finanziamenti pubblici. Oggi il movimento per la pace non può essere riportato alla genericità degli slogan retorici, buoni per ogni stagione, ma che non spostano in avanti il processo di disarmo e di costruzione delle alternative alla guerra, alle armi ed agli eserciti, strumenti che l'alimentano e la rendono possibile. La Marcia, come scriveva Aldo Capitini, non può essere "fine a se stessa", la Marcia è un mezzo nonviolento di azione: tra i requisiti fondamentali vi è quello di dover proporre obiettivi politici specifici e chiari, "onde che vanno lontano", che impegnino responsabilmente ciascuno dei marciatori. Nel frattempo, il cartello delle Reti con le quali abbiamo dato vita ad Arena di Pace (Rete della Pace, Rete Disarmo, Tavolo interventi cvili di pace, Sbilanciamoci!) hanno organizzato una manifestazione che si è svolta domenica 21 settembre a Firenze, come risposta urgente e straordinaria alla crisi internazionale in atto (Palestina e Israele, Siria, Iraq, Libia, Afghanistan e Ucraina) e per fare tutti insieme un passo di Pace. E' stata un'iniziativa necessaria, adeguata, tempestiva, che ha raccolto un comune sentire. Un passo di maturità e di unità. Vi abbiamo partecipato attivamente, fin dalla sua organizzazione, con la nostra aggiunta nonviolenta: la proposta della Campagna per la Difesa civile, non armata e nonviolenta, che inizierà il prossimo 4 novembre ( www.difesacivilenonviolenta.org ) Queste sono le scadenze che ci vedranno impegnati nei prossimi mesi. Movimento Nonviolento Fonte: http://nonviolenti.org/cms/news/398/238/Sulla-Perugia-Assisi-Lanon-adesione-del-Movimento-Nonviolento/ via Spagna, 8 www.azionenonviolenta.it www.nonviolenti.org via Spagna, 8 37123 Verona ottobre 2014 (segnalato da: AAdP) link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2162 Lavoro e diritti: partecipa anche tu alla manifestazione a Roma del 25 ottobre (di CGIL Massa-Carrara) Il 25 ottobre noi saremo con quel popolo che porterà in piazza, a Roma, la nostra stessa idea di lavoro. Per noi il lavoro che non c'è è la vera priorità e quello che ci aspettiamo dal Governo è che produca politiche in grado di moltiplicare le occasioni di lavoro e di proteggere il lavoro che c'è. Per noi il lavoro è la vera ricchezza di un Paese e chi lavora non è uno strumento usa e getta ma un protagonista attivo e pensante, che esprime se stesso nel processo produttivo a cui partecipa. Per noi il lavoro non si crea modificando le regole che lo tutelano ma facendo rispettare le leggi che ci sono, in modo che gli imprenditori onesti non subiscano la concorrenza di chi agisce in modo scorretto, di chi 2 corrompe, di chi evade o di chi incentiva il lavoro nero. Per noi il lavoro precario deve essere superato davvero, eliminando quei vantaggi che in questi anni hanno spinto le imprese ad utilizzare le forme contrattuali più penalizzanti per chi lavora. Non siamo disponibili a rassegnarci all'idea che rinunciare ai propri diritti e alla propria dignità sia necessario per risollevarsi dalla crisi, Dalla crisi si esce se si recupera una vera coesione sociale, se si batte l'evasione, se si modernizza davvero il Paese investendo nella banda larga, nella formazione dei giovani e dei meno giovani, nei servizi alla persona, nella difesa del suolo e dell'ambiente, nei beni culturali che sono la ricchezza dell'Italia: noi che abbiamo questa idea di Paese non pensiamo che la via giusta per realizzarla sia comprimere ancora i diritti dei lavoratori e puntare a dividere il mondo del lavoro. Porre al centro del dibattito la questione della libertà di licenziare senza che i giudici se ne immischino non è certo un messaggio che va nella direzione della ricerca della coesione sociale. Se l'Europa fin qui ha proposto ricette che non hanno fatto che prolungare la crisi, dobbiamo avere la forza di proporre ricette diverse. In Europa sono già molti quelli che fanno le nostre stesse valutazioni e comprendono che si deve cambiare politica. Dobbiamo diventare maggioranza nel Paese e nel continente perché ne va del nostro futuro. Per questi motivi scenderemo in piazza a fianco della CGIL, nella quale riconosciamo uno dei soggetti che possono contribuire alla crescita dal basso di un progetto per il Paese davvero moderno e solidale. link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2160 ONU: “Kobane, una nuova Srebrenica” (di Roberto Prinzi) L’inviato delle Nazioni Unite Staffan de Mistura lancia l’allarme per la cittadina siriana, un terzo della quale è ormai saldamente nelle mani dello Stato Islamico. Da Baghdad, intanto, il Ministro dell’Elettricità iracheno lancia l’allarme: “l’80% della provincia di Anbar è controllata dai jihadisti”. “Tutti dovrebbero fare il massimo per fermare l’Isil a Kobane la cui caduta [in mano ai fondamentalisti islamici] potrebbe causare una nuova Srebrenica. Spero che non vedremo teste decapitate. Molti potrebbero morire”. E’ preoccupato Staffan de Mistura, l’inviato speciale Onu per la Siria e non lo nasconde. Del resto come dargli torto: lo Stato islamico (Is) controlla un terzo (c’è chi dice esagerando metà) della cittadina siriana a confine con la Turchia e se la situazione dovesse continuare così (ovvero niente cibo e munizioni per la resistenza curda), l’Is dovrebbe occuparla interamente nei prossimi giorni. A monte della crisi rappresentata da Kobane c’è la profonda divisione all’interno della coalizione anti-Isis, di cui, meno di un mese fa, il Presidente Usa Obama (e una gran parte della stampa occidentale compiacente) esaltava l’unità di intenti e definiva un “successo”. Ora però i sorrisi di Parigi che avevano benedetto lo schieramento anti-Isis, lasciano il posto a dubbi e a rabbia (malcelata). Innanzitutto verso l’alleata Turchia. Ankara è riluttante a intervenire e si limita ad osservare nella confinante Suruc l’andamento della mattanza in corso a pochi chilometri dal suo territorio. E’ un’occasione troppo ghiotta per le autorità turche per assestare un colpo ai curdi del YPG, alleati con il Pkk, i “terroristi” con cui Ankara da due anni ha iniziato (un finto) processo di pace. Ma l’assedio jihadista di Kobane rappresenta anche una occasione unica per il Presidente turco Erdogan per ricattare la comunità internazionale condizionando un suo intervento anti-Is alla caduta del nemico Assad in Siria. Proposta che, al momento, ha incontrato pochi consensi. Ma anche a Washington si ripropone il dibattito che aveva preceduto l’inizio dei bombardamenti tra Obama e alcuni esponenti della Difesa. Il pomo della discordia era se inviare o meno “truppe sul terreno” (“boots on the ground”) nei due paesi mediorientali. Il Presidente, Nobel per la Pace e che ha costruito la sua elezione sul ritiro statunitense dall’Iraq, aveva rassicurato i cittadini americani promettendo una campagna militare diversa da quella in Afghanistan (2001) e Iraq (2003). “Liberare” sì il territorio iracheno, ma con “zero rischi” seguendo un modello ben collaudato da Washington in Somalia e nel sud del Yemen basato su droni e arei da guerra. Alcuni esponenti militari, invece, avevano aperto timidamente ad una possibilità di invio di reparti di terra. Le parole di due giorni fa del portavoce del Pentagono, il maggiore John Kirbi, saranno pertanto sembrate a molti un déjà vu: “stiamo facendo il massimo dal cielo per cercare di fermare l’avanzata dell’Is. Ma la potenza aerea da sola non basta per salvare la città”. Un’analisi giusta, ma che ha il grosso limite di essere limitata alla cittadina siriana. E i raid in Iraq e in altre aree della Siria, andrebbe chiesto a Kirbi, stanno producendo risultati positivi? L’Is sta davvero retrocedendo? La cronaca di chi paga sulla propria pelle l’occupazione jihadista e la guerra occidentale nei due paesi arabi ci racconta di un terribile fiasco occidentale di cui Kobane è solo l’esempio mediatico più appariscente. Ma se Kobane cade, la prima responsabile è la Turchia. “Il governo turco non sta facendo passare rifornimenti attraverso il confine e [i combattenti curdi] sono privi di armi e di cibo. Ecco perché lo Stato Islamico guadagna sempre più territorio” ha dichiarato al britannico The Guardian l’attivista locale Mustafa ‘Abdi. “Quando i raid attaccano i fondamentalisti islamici e ne uccidono cinque, loro [i jihadisti] ne mandano altri 50”. In questo contesto è facile comprendere la preoccupazione (tardiva) dell’inviato Onu per la Siria. De Mistura ha detto ieri che tra i 500 e i 700 civili sono intrappolati a Kobane mentre 10.000-13.000 lo sono al confine. “Vi ricordate Srebrenica [città bosnica dove nel luglio 1995 furono uccisi 8.000 musulmani da parte delle truppe serbo-bosniache del Generale Ratko Mladic appoggiate dai paramilitari di Raznatovic, ndr]. Noi non abbiamo dimenticato e, probabilmente, non perdoneremo mai noi stessi per quanto accadde. Quando c’è una minaccia imminente che grava sui civili non possiamo tacere”. Come se il dramma siriano fosse limitato alla cittadina di Kobane, come se le altre Srebrenica siriane di tre anni e mezzo di guerra civile non esistessero. Infuriano senza sosta i combattimenti nella cittadina. Il Capo del consiglio locale Anwar Muslim, ha affermato ieri che i jihadisti controllano solo un terzo della città (la zona est), ma che attentatori suicidi si stanno spingendo nel centro per infliggere più danni possibili alle difese curde. I rumori dei colpi di arma da fuoco, di mortaio e granate arrivano sempre più nitidi alle orecchie degli abitanti di Suruc dall’altra parte del confine. Ma i carri armati di Ankara continuano a restare immobili appollaiati sulle colline, mentre i soldati turchi si danno un gran da fare ma solo per reprimere i curdi e i rifugiati sfuggiti all’inferno di Kobane. Il comando centrale statunitense ha ieri reso noto di aver condotto nove raid aerei a Kobane tra giovedì e venerdì. Sei di questi hanno distrutto un carro armato, una mitragliatrice pesante e una postazione dello Stato Islamico. Gli altri tre hanno colpito la zona settentrionale della città e avrebbero distrutto due edifici occupati dai jihadisti. Ai bombardamenti avrebbero partecipato anche gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita secondo quanto riporta il comunicato del Comando centrale statunitense. Risultati modesti se paragonati ai successi dei fondamentalisti islamici. Ieri il Ministro dell’Elettricità iracheno, Qassem al-Fahdawi, ha rivelato che ormai l’Is controlla l’80% della provincia occidentale irachena di Anbar e che, se dovesse conquistare anche Ramadi, minaccerebbe la capitale Baghdad. “Anbar ha bisogno di un maggiore sostegno sia via aria che via terra – ha detto al-Fahawi che ha poi aggiunto allarmato – l’esercito e la polizia hanno perso il controllo di Ramadi”. Ramadi, solo una delle tante Kobane che non fanno notizia sulla stampa occidentale, uno dei tanti esempi del fallimento della “guerra al terrorismo” lanciata da Usa e Unione Europea post 11 settembre. Ma si muore, e tanto, anche in Turchia. In seguito alle proteste contro l’immobilismo del governo turco in Siria, Ankara ha ucciso negli ultimi 3 giorni 31 manifestanti (per le autorità locali “terroristi”) ferendone 360 e arrestandone più di mille. E pensare che tre anni e mezzo fa l’allora Premier turco Erdogan dava lezioni di democrazia al Presidente siriano alAsad e lo bacchettava perché aveva ucciso dei propri cittadini. Di fronte ad una imminente mattanza di civili, dinanzi alle bandiere nere dell’Is che sempre più colorano lo skyline di Kobane, si staglia la dignità del popolo curdo che da solo resiste strenuamente all’avanzata dell’Is difendendo il proprio territorio fino all’ultimo proiettile. Nonostante la capitolazione sia sempre più vicina. Nena News (fonte: Centro Studi Sereno Regis) link: http://nena-news.it/onu-kobane-una-nuova-srebrenica/ La pagina dell'AAdP Romagnano - a scuola per confrontare modelli di città (di Periferie al Centro) Sabato 18 ottobre, all'Istituto Comprensivo Massa 6 di Romagnano, nell'ambito del Convegno "Periferie al centro - Esperienze e progetti per far vivere un quartiere", promosso da AadP e da una rete di Associazioni, si è aperta una interessante riflessione intorno ad alcune tematiche di fondo. Il primo dei relatori, Nicola Solimano, Coordinatore delle attività della Fondazione Michelucci di Firenze, ha indicato come presupposto indispensabile il riflettere sulla nostra idea di periferia e di città, in un contesto di continui e profondi mutamenti urbanistici, amministrativi, socio-culturali, perché da ciò derivano le azioni e i progetti di intervento. Il secondo ospite, Renato Bergamin, Direttore della Fondazione Cascina Roccafranca di Torino, ha illustrato l'interessante esperienza che da sette anni si è sviluppata nel Quartiere Mirafiori attraverso un intelligente uso di fondi europei ed una proficua collaborazione tra Comune e soggetti privati: un modello di gestione flessibile e partecipata in cui centrale è la promozione di forme di cittadinanza attiva e di autosostenibilità economica. Non esistono certo modelli universali esportabili: ogni territorio ha le sue specificità e le sue criticità; siamo anche tutti consapevoli delle ristrettezze economiche imposte dalla prolungata crisi. Il Sindaco Alessandro Volpi e l'Assessore al Bilancio e al Patrimonio Giovanni Rutili, che hanno voluto essere presenti all'evento, hanno richiamato dunque all'attenzione il dato di realtà di una Amministrazione che sente di dover prioritariamente affrontare il problema del dissesto idro-geologico e dell'emergenza abitativa, a fronte dell'annuale incertezza di risorse su cui può contare. Rutili ha anche voluto ricordare come il Comune, pur con passi lenti, si mostri tuttavia sensibile a dare riposta alla esigenza di spazi pubblici e alla salvaguardia di quelli esistenti (ivi incluso il locale del Centro di Aggregazione di Castagnara). Approcci dunque inconciliabili? Auspichiamo che non sia così. Il dibattito, che non poteva certo essere approfondito nel breve arco di un pomeriggio, ha fatto piuttosto emergere la complessità di una problematica che chiede studio, confronto, pluralità di interventi. Possono forse essere scissi ed affrontati separatamente temi quali l'assetto urbanistico, la sicurezza del territorio, la vivibilità di una citta che si riscopra spazio sociale e luogo di incontri e relazioni significative? La loro interconnessione è stata riconosciuta da tutti gli intervenuti. A nostro avviso non è possibile porre in secondo piano le criticità sociali del territorio ed aspettare che a loro volta queste diventino emergenze (anche se i fatti dello scorso Natale ci dicono che siamo già in emergenza). La soluzione può venire perciò solo da progetti articolati e diversificati, prodotti dalla sinergia dell'Amministrazione, delle Associazioni, dei cittadini: una città da ricostruire insieme, con una discussione dialettica capace di generare non sterile antagonismo, ma piuttosto una cooperazione aperta e fattiva. link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2163 Approfondimenti sarebbero spinti alla cessione delle loro quote al mercato azionario per poter usufruire delle somme derivanti dalla vendita, che il Governo pensa bene di sottrarre alle tenaglie del patto di stabilità. Ciò si configura come una vera e propria finanziarizzazione dei beni comuni. I nuovi processi di privatizzazione e finanziarizzazione dei beni comuni (di Forum Italiano dei Movimenti per l'Acqua ) I tempi previsti per l'attuazione di questo piano saranno abbastanza brevi e il tutto dovrà conlcudersi con l'approvazione della legge di stabilità nel mese di novembre. Beni comuni E' possibile affermare che il piano attraverso il quale il Governo intende rilanciare con forza il processo di privatizzazione e finanziarizzazione dei beni comuni seguirà tre assi fondamentali, già indicati nel DEF (Documento di Economia e Finanza 2014): a) cessione di quote statali delle grandi aziende; b) razionalizzazione delle aziende partecipate dagli enti locali, seguendo lo slogan "riduzione da 8.000 a 1.000"; c) dismissione del patrimonio pubblico. Per quanto concerne i servizi pubblici locali e, quindi, anche il servizio idrico l'attacco passerà attarverso tre strumenti: il piano sulla "spending review" prevede aggregazioni e fusioni individuando sostanzialmente dei poli aggregativi nelle grandi multiutilities. Per favorire tali processi Cassa Depositi e Prestiti ha annunciato di mettere a disposizione 500 milioni di € divenendo dunque uno degli attori protagonisti. A riguardo il Governo ha messo in campo una rinnovata strategia comunicativa che si ammanta della propaganda di riduzione degli sprechi e dei costi della politica mediante lo slogan “riduzione delle aziende da 8.000 a 1.000”. il decreto "Sblocca Italia" costruisce un piano complessivo di aggressione ai beni comuni tramite il rilancio delle grandi opere, misure per favorire la dismissione del patrimonio pubblico, l'incenerimento dei rifiuti, nuove perforazioni per la ricerca di idrocarburi e la costruzione di gasdotti, oltre a semplificare e deregolamentare la procedura delle bonifiche. • inoltre, contiene delle norme che, modificando profondamente la disciplina riguardante la gestione dell'acqua, mirano di fatto alla privatizzazione del servizio idrico. • In particolare l'articolo 7 modifica quella parte del Testo Unico Ambientale (D. lgs 152/2006) che riguarda la gestione del servizio idrico integrato. Tre appaiono le modifche più pericolose: • modifica del principio cardine su cui si basava la disciplina, ovvero passaggio da "unitarietà della gestione" a "unicità della gestione"; • imposizione progressiva del gestore unico per ogni ambito territoriale che sarà scelto tra chi già gestisce il servizio per almeno il 25 % della popolazione che insiste su quel territorio, ovvero le grandi aziende e/o multiutilities; • imposizione al gestore che subentra di corrispondere al gestore uscente un valore di rimborso definito secondo i criteri stabiliti dall’AEEGSI, ciò rischia di rendere più onerosi e quindi difficoltosi i processi di ripubblicizzazione (ad es. caso di Reggio Emilia). Anche questo provvedimento, quindi, appare ispirarsi agli stessi principi della "spending review", ovvero individuare dei poli aggregativi nelle grandi aziende e multiutilities. Ciò si configura come un primo passaggio propedeutico alla piena realizzazione del piano di privatizzazione e finanziarizzazione dell'acqua e dei beni comuni che il Governo sembra voler definire compiutamente con la legge di stabilità. • La legge di Stabilità, che dovrà essere presentata entro il 15 Ottobre, in cui probabilmente verranno inserite quelle norme volte a imporre agli Enti Locali la collocazione in borsa delle azioni delle aziende che gestiscono servizi pubblici, oltre a quelle che costringono alla loro fusione e accorpamento secondo le prescrizioni previste dal piano sulla “spending review”. Si arriverebbe, addirittura, a costruire un vero e proprio ricatto nei confronti degli Enti Locali i quali, oramai strangolati dai tagli, 4 Infatti, al Governo italiano vengono imposte le solite ricette che passano attraverso riforme strutturali. Riforme che si basano sempre sugli stessi principi: deregolamentazione, riduzione dei diritti, privatizzazioni e in generale allargamento della sfera d'intervento del privato a scapito di quella pubblica. Da ciò deriva che il Governo attuale, entro il termine dei sei mesi di presidenza di turno dell'UE, quindi entro fine anno, deve necessariamente portare qualcosa al tavolo della trattativa europea. Per questo ragioni sta accelerando sulle riforme istituzionali, su quelle che riguardano il mondo del lavoro, la scuola, il rilancio delle privatizzazioni e più in generale una rinnovata mercificazione del territorio e dei beni comuni. link: http://www.acquabenecomune.org/raccoltafirme/index.php? option=com_content&view=article&id=2866 Lavoro ed occupazione La voce del padrone (di Umberto Romagnoli) Anche in Italia ha successo l’opinione secondo cui il rilancio dell’economia non può non presupporre un arretramento della legalità nei luoghi di lavoro e la reintegra del lavoratore ingiustamente licenziato ne è, per l’appunto, parte integrante. Un’autorevole storiografia attribuisce al diritto del lavoro un ruolo di pedagogia di massa sostenendo, non a torto, che avrebbe educato moltitudini di artigiani spiazzati dall’avvento della grande manifattura, e di contadini non più del tutto contadini, all’idea che la cosa più giudiziosa che si potesse fare era quella di smetterla di rincorrere il sentimento di giustizia offeso dalle forme di dipendenza imposte dal capitalismo moderno all’interno di luoghi di produzione estranei agli schemi cognitivi sedimentati nella memoria collettiva delle precedenti generazioni. Piuttosto, conveniva inventarsi il modo di attrezzarsi per lottare contro la diseguaglianza ridicolizzata da George Orwell: rispetto al suo dipendente il datore di lavoro è “più” eguale. Sia nel momento in cui stipula il contratto sia nella fase di esecuzione del rapporto che ne scaturisce. Per questo, l’orizzonte di senso in cui si è sviluppato il diritto del lavoro del ‘900 era segnato dalla condivisione di un’esigenza propria dei più spaesati e riluttanti protagonisti della rivoluzione industriale: quella di attenuare gli effetti della strutturale asimmetria che è all’origine di una supremazia di fatto nemica del principio di eguaglianza caro alla cultura giuridica (non solo) liberal-democratica. Adesso, invece, i neo-liberisti non possono sentirne parlare senza farsi prendere dalle vertigini. Infatti, pur glorificando l’autonomia negoziale dei privati come simbolo ed insieme veicolo di libertà, vorrebbero persuaderci che il ritorno ad un decisionismo padronale il meno condizionato possibile, e dunque la negazione della stessa contrattualità, finirà per giovare allo stesso lavoratore. “Questa”, scrivono gli autori del preambolo di una importante legge spagnola del 2012, “è una riforma nella quale ci guadagnano tutti perché si propone di soddisfare di più e meglio i legittimi interessi di tutti”. Sarà per questo, allora, che concede all’imprenditore la possibilità di amministrare unilateralmente il rapporto di lavoro e, nel presupposto pudicamente inespresso che il contratto vincola soltanto il dipendente, di adattarne le clausole alla situazione aziendale. Insomma, l’imprenditore ha facoltà di introdurre modifiche sostanziali delle condizioni di lavoro anche se contrattualmente non previste né prevedibili nel momento costitutivo del rapporto. Ciò che conta è che siano utili a preservare od aumentare la produttività aziendale e, soprattutto, che siano decise da lui. Le decisioni possono essere adottate in una quantità di materie approssimativamente individuate dalla legge. Dai sistemi retributivi alla mobilità funzionale e geografica, alla distribuzione dell’orario di lavoro. Vero è che l’interessato può impugnare la decisione e il giudice ordinare il ripristino della condizione ingiustificatamente cambiata per iniziativa della controparte. Ma si può tranquillamente scommettere che il suo dissenso non lo manifesterà mai. Né nella forma di un ricorso al giudice, dato che i licenziamenti per cause aziendali sono facilitati da regole più permissive di quelle preesistenti, né nella forma di dimissioni, furbescamente scoraggiate da un importo dell’indennità significativamente inferiore a quello dell’indennità spettante in caso di licenziamento illegittimo (20 giorni di salario, anziché 33, per anno di anzianità). Se la decisione ha carattere individuale, la sua esecutività è subordinata alla previa comunicazione al diretto interessato; se ha carattere collettivo, per diventare esecutiva, deve essere preceduta da un “periodo di consultas” con la rappresentanza sindacale legalmente esistente o, qualora non esista come accade di solito nelle piccole imprese, con una rappresentanza ad hoc formata da tre dipendenti “democraticamente eletti” (?) dalle maestranze o designati dai sindacati più rappresentativi, fermo restando che in mancanza di accordo la decisione produrrà gli effetti voluti. Non sembra peraltro che la prassi delle modifiche collettive a base consensuale possa diffondersi. Infatti, l’intesa raggiunta equivale ad una presunzione iuris et de iure della sussistenza della causa giustificativa della modifica e dunque preclude ogni eventuale reclamo. Come dire che, candido come una colomba e astuto come un serpente, il legislatore ha tracciato un modello regolativo che non pone limiti al dominio delle ragioni economiche, tecniche, organizzative e produttive evocate ad ogni piè sospinto come un mantra. Non si è nemmeno accorto che in questa maniera ha finito per decretare la morte del contratto che istituisce il rapporto di lavoro. Dopotutto, non c’è contratto esente dal rischio di circostanze sopravvenute che, diverse dall’evento che rende impossibile l’adempimento, sono pur tuttavia inconciliabili con la rappresentazione della realtà che ogni contraente si è fatta allorché ha pattuito le sue obbligazioni. Sennonché, alla domanda “chi sopporta il rischio che l’esecuzione del contratto di lavoro non corrisponda alle aspettative?” il legislatore risponde affidandosi interamente all’autodeterminazione del datore di lavoro. Ecco perché, in presenza di un corpus di regole speciali che, come quelle descritte, sono plasmate sul principio della irresistibilità delle esigenze oggettive dell’impresa interpretate discrezionalmente dall’imprenditore non si può non rimpiangere l’equilibrio della tutela offerta dal diritto comune dei contratti. Come fanno i codici civili di tutti i paesi, anche quello vigente in Spagna dispone che l’adempimento dei contratti non può essere lasciato al loro arbitrio. Un’ulteriore, vistosa eccezione al diritto comune consiste infatti nella facoltà di sospendere l’efficacia del contratto di lavoro o di ridurre le ore lavorate “mandando in mobilità”, diremmo noi, i dipendenti in caso sia di ristrutturazione tecnico-organizzativa che di congiuntura di mercato negativa provocata da “perdidas actuales” od anche solo “previstas”, col consenso collettivo (se c’è) e comunque senza alcuna autorizzazione amministrativa. Vero è che la decisione imprenditoriale è oggetto di trattative e di un eventuale accordo collettivo con una rappresentanza sindacale (anche ad hoc) blindato dall’inoppugnabilità amenoché non sia viziato da frode o dolo. In sua mancanza, comunque, sarà notificata all’autorità pubblica competente che, a sua volta, la comunicherà all’ente tenuto all’erogazione del sussidio. Peraltro, l’autonomia negoziale non è strapazzata soltanto quando si esprime a livello individuale. Infatti, nemmeno l’autonomia negoziale collettiva gode di rispetto. Anzi, il suo risveglio dopo il lungo sonno franchista è stato turbato da una irruzione paragonabile a quella realizzata con l’art. 8 della legge italiana del 2011, ma (se possibile) ancora più devastante. Infatti, il legislatore non si limita a celebrare l’apologia della contrattazione di prossimità. Dopo avere sponsorizzato la derogabilità del 5 contratto collettivo di livello superiore ad opera della contrattazione aziendale, che potrà avviarsi e concludersi “in qualunque momento” anche in assenza di clausole di rinvio in un gran numero di materie, disciplina accuratamente l’iniziativa datoriale (motivata con le medesime ragioni che giustificano i licenziamenti collettivi) per disapplicare il contratto collettivo nella cui sfera di efficacia rientra l’impresa sull’orlo di una crisi, magari solamente presunta. Un nuovo contratto rideterminerà le condizioni di lavoro al termine di “un periodo di consultas”. In mancanza, le condizioni di lavoro le fisserà il lodo pronunciato da un arbitrato obbligatorio. Ah, cosa non si farebbe per meritarsi la fiducia dei mercati! Se gli Stati debitori dell’UE andassero a scuola, non ci sarebbero dubbi: il titolo di primo della classe lo assegnerebbero alla Spagna. Il complesso meccanismo che disarciona sindacati cui si chiede di contrattare pur sapendo che potrebbe essere tempo buttato ha le proprietà delle riforme “strutturali” nell’accezione chiarita da Wolfgang Streeck: anch’esso infatti è preordinato allo scopo di aggirare, marginalizzare, eliminare i soggetti “di ogni ordine e grado”, in primis il sindacato, che si oppongano alle dinamiche del mercato. Di sicuro, il corposo disposto normativo è in odore d’incostituzionalità e difatti impressiona negativamente l’impacciato argomentare dell’attuale Tribunal Costitucional che, in larghissima maggioranza composto da giudici designati dalla destra parlamentare, ha respinto i primi ricorsi con l’impassibilità del testimone che guarda bastonare un cane che sta affogando. Ad ogni modo, non oso ipotizzare che anche questo problematico snodo della riforma spagnola sia l’innovazione capace di produrre un effetto-imitazione anche in un paese come il nostro paese, dove i mass media sono indulgenti (o disinformati) a tal segno di lodare in maniera sperticata il “modello spagnolo”. So soltanto che la riforma piace in primo luogo perché enfatizza l’idea che il licenziamento per motivi inerenti alle esigenze aziendali non è valutabile come l’extrema ratio cui è dato ricorrere in circostanze di particolare gravità, bensì come una modalità di ordinaria gestione aziendale. Inoltre, piace perché riduce in misura significativa il costo dell’estinzione del contratto di lavoro disapprovata in sede giudiziaria. Adesso, il costo si avvicina alla media europea: non più 45 giorni di salario per anno di servizio con un massimo di 42 mensilità, bensì 33 giorni con un massimo di 24 mensilità. A questo punto, si capisce bene perché i duellanti del dibattito che si è riacceso sull’art. 18 dello statuto riformato dalla legge Fornero-Monti del 2012 si soffermino sulle regole appena sunteggiate. Il fatto è che anche in Italia ha successo l’opinione secondo cui il rilancio dell’economia non può non presupporre un arretramento della legalità nei luoghi di lavoro e la reintegra del lavoratore ingiustamente licenziato ne è, per l’appunto, parte integrante. Anzi, ne è il pilastro. Tant’è che, nella vastissima area produttiva in cui è assente, la quotidianità del rapporto di lavoro è caratterizzata dalla sospensione di fatto della tutela legale, perché a fronte del rischio di perdere facilmente il posto di lavoro chi lo occupa è disposto a considerare come un male minore il sacrificio di tutti (o quasi) gli altri suoi diritti. Pertanto, togliendo ogni legittimità alla pretesa del datore di lavoro di comportarsi da padrone assoluto del posto di lavoro, la reintegra costituisce la conseguenza più acuminata del rifiuto di assegnare sistematicamente la prevalenza delle esigenze aziendali sull’interesse del dipendente alla continuità del rapporto. Con buona pace dell’enfasi del legislatore spagnolo, la loro oggettività non è un a-priori scientifico, bensì il risultato di un calcolo di convenienza e dunque di un giudizio sulla qualità degli interessi in conflitto. Un giudizio che, per definizione, non è neutrale se può pronunciarlo soltanto uno degli interessati. Esso non può spettare che ad un soggetto imparziale. Come è, per definizione, è il giudice, con o senza toga. La riproduzione di questo articolo è autorizzata a condizione che sia citata la fonte: www.sbilanciamoci.info. (fonte: Sbilanciamoci Info) link: http://sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/La-voce-del-padrone-26469 Nonviolenza Come fece Gandhi a vincere? (di Mark Engler, Paul Engler) La storia ricorda la Marcia del Sale di Mohandas Gandhi come uno dei grandi episodi della resistenza del secolo scorso e come una campagna che sferrò un colpo decisivo all’imperialismo britannico. Nella prima mattinata del 12 marzo 1930 Gandhi, accompagnato da un gruppo addestrato di 78 seguaci del suo ashram, iniziò una marcia di più di 200 miglia verso il mare. Tre settimane e mezzo dopo, circondato da una folla di migliaia di persone, Gandhi pose piede sulla riva dell’oceano, si avvicinò a una piana fangosa dove l’acqua, evaporando, aveva lasciato un sottile strato di sedimenti e raccolse un pugno di sale. L’atto di Gandhi infrangeva una legge del Raj britannico che imponeva agli indiani di acquistare il sale dal governo e vietava loro di raccoglierlo da sé. La sua infrazione avviò una campagna di disobbedienza di massa che dilagò in tutto il paese, determinando sino a 100.000 arresti. In una famosa citazione pubblicata dal Guardian di Manchester, l’onorato poeta Rabindranath Tagore descrisse l’impatto trasformativo della campagna: “Quelli che vivono in Inghilterra, molto lontano dall’Oriente, hanno ora dovuto rendersi conto che l’Europa ha perso del tutto il suo precedente prestigio in Asia”. Per i dominatori assenti di Londra era “una grande sconfitta morale”. E tuttavia, a giudicare da ciò che Gandhi ottenne al tavolo del negoziato alla conclusione della campagna, ci si può fare un’idea molto diversa del satyagraha del sale. Valutando l’accordo raggiunto nel 1931 tra Gandhi e lord Irwin, il viceré dell’India, gli analisti Peter Ackerman e Christopher Kruegler hanno sostenuto che “la campagna fu un fallimento” e “una vittoria britannica” e che sarebbe ragionevole ritenere che Gandhi abbia “dato via il bottino”. Queste conclusioni hanno un lungo precedente. Quando fu annunciato per la prima volta il patto con Irwin, i membri del Congresso Nazionale Indiano, l’organizzazione di Gandhi, ne furono amaramente delusi. Il futuro primo ministro Jawaharal Nehru, profondamente depresso, scrisse di sentire nel suo cuore “un grande vuoto, come se qualcosa di prezioso fosse scomparso, quasi al di là di ogni possibilità di recupero”. Che la Marcia del Sale possa essere considerata contemporaneamente un progresso epocale per la causa dell’indipendenza dell’India e una campagna abborracciata che produsse scarsi risultati tangibili sembra un paradosso sconcertante. Ma ancor più strano è il fatto che tale esito non è unico nel mondo dei movimenti sociali. La storica campagna di Martin Luther King a Birmingham, Alabama, nel 1963 ebbe esiti analogamente incongrui. Da un lato determinò un accordo che mancò di molto lo scopo di desegregare la città, un accordo che deluse gli attivisti locali che volevano più che solo cambiamenti minori in pochi negozi del centro; al tempo stesso Birmingham è considerata come uno dei motori chiave del movimento per i diritti civili, avendo fatto forse più di ogni altra campagna per far arrivare alla storica Legge sui Diritti Civili del 1964. Quest’apparente contraddizione merita di essere esaminata. Più significativamente illustra come le mobilitazioni di massa mosse da uno slancio promuovano il cambiamento in modi che sconcertano quando siano valutati in base ai presupposti e pregiudizi della politica prevalente. Dall’inizio alla fine – sia nel modo in cui strutturò le rivendicazioni della Marcia del Sale sia nel modo in cui portò a termine la sua campagna – Gandhi confuse gli attori politici più convenzionali della sua era. Tuttavia i movimenti che egli guidò scossero profondamente le strutture dell’imperialismo britannico. Per quelli che cercano di comprendere i movimenti sociali di oggi e per quelli che desiderano amplificarli, restano rilevanti come non mai le domande su come valutare il successo di una campagna e su quando sia appropriato dichiarare vittoria. Per loro Gandhi può ancora avere qualcosa di utile e d’inatteso da dire. 6 L’approccio strumentale Capire la Marcia del Sale e le sue lezioni per l’oggi richiede di fare un passo indietro per considerare alcune delle domande su come i movimenti sociali realizzano il cambiamento. Nel contesto appropriato, si può affermare che le azioni di Gandhi furono esempi brillanti dell’uso delle rivendicazioni simboliche e delle vittorie simboliche. Ma che cosa implicano questi concetti? Tutte le azioni, campagne e rivendicazioni di protesta hanno dimensioni sia strumentali sia simboliche. Tipi diversi di organizzazione politica, tuttavia, le combinano in proporzioni diverse. Nella politica convenzionale le rivendicazioni sono principalmente strumentali, mirate a conseguire un risultato specifico e concreto nell’ambito di un sistema. In questo modello i gruppi d’interesse premono per politiche che avvantaggiao la loro base. Le rivendicazioni sono scelte con cura in base a ciò che sarebbe possibile ottenere, dati i confini del paesaggio politico esistente. Una volta che è avviata una pressione per una rivendicazione strumentale, i promotori tentano di far leva sul potere del proprio gruppo per ottenere una concessione o un compromesso che soddisfi le loro necessità. Se riescono a soddisfare i propri membri, vincono. Anche se operano principalmente all’esterno del regno della politica elettorale, i sindacati e le organizzazioni a base comunitaria della linea di Saul Alinsky (attivista e scrittore statunitense noto per la sua attività di organizzatore di comunità e autore del noto volume Rules for Radicals, NdT) – gruppi basati sulla costruzione di strutture istituzionali di lungo termine – affrontano le rivendicazioni in modo principalmente strumentale. Come spiega il giornalista e organizzatore Rinku Sen, Alinsky ha stabilito una norma duratura di organizzazione comunitaria che afferma che “la realizzabilità è di primaria importanza nello scegliere i temi” e che i gruppi comunitari dovrebbero concentrarsi su “cambiamenti immediati, concreti”. Un esempio famoso nel mondo dell’organizzazione comunitaria è la richiesta di un semaforo in un incrocio identificato come pericoloso dai residenti del quartiere. Ma questa è soltanto una delle opzioni. Gruppi di tipo Alinsky possono tentare di ottenere personale migliore in uffici locali di servizi sociali, di por fine alla discriminazione di un particolare quartiere da parte di banche e compagnie assicurative, o di ottenere un nuovo percorso degli autobus per assicurare trasporti affidabili a un’area mal servita. Gruppi ambientalisti potrebbero premere per un divieto di una specifica sostanza chimica nota come tossica per la natura. Un sindacato potrebbe avviare una lotta per ottenere miglioramenti per un particolare gruppo di dipendenti in un luogo di lavoro o per affrontare un problema di pianificazione. Conseguendo faticosamente vittorie modeste e pragmatiche su tali temi questi gruppi migliorano la vita e rafforzano le proprie strutture organizzative. La speranza è che, col tempo, piccole conquiste si sommino fino a diventare riforme sostanziali. Il cambiamento sociale è ottenuto lentamente e costantemente. La svolta simbolica Nel caso di mobilitazioni di massa che trainano una lotta, compresa la Marcia del Sale, le campagne funzionano in modo diverso. Gli attivisti dei movimenti di massa devono progettare azioni e scegliere rivendicazioni che si inseriscano in principi più vasti, creando una narrativa del significato morale della loro lotta. Qui la cosa più importante a proposito di una rivendicazione non è il suo potenziale impatto sulle politiche o la sua realizzabilità a un tavolo negoziale. Quanto più critiche sono le proprietà simboliche, tanto maggiore una rivendicazione è utile nel drammatizzare per il pubblico la necessità urgente di rimediare a un’ingiustizia. regolamentazione del luogo di lavoro”. Come i politici convenzionali e gli organizzatori focalizzati sulle strutture, quelli che cercano di costruire movimenti di protesta hanno anch’essi obiettivi strategici e potrebbero cercare di affrontare specifiche rivendicazioni come parte delle loro campagne. Ma il loro approccio complessivo è più indiretto. Questi attivisti non sono necessariamente concentrati su riforme che si possano ottenere facilmente nel contesto politico esistente. I movimenti che trainano una lotta, invece, mirano a modificare il clima politico nel suo complesso, cambiando le percezioni di ciò che è possibile e realistico ottenere. Lo fanno indirizzando l’opinione pubblica su un certo tema e attivando una base di sostenitori in continua espansione. Nei casi più ambiziosi, essi assumono temi che potrebbero essere considerati politicamente inimmaginabili – il suffragio delle donne, i diritti civili, la fine di una guerra, la caduta di un regime dittatoriale, il riconoscimento giuridico delle coppie omosessuali – e li trasformano in questioni politiche irrinunciabili. I negoziati su specifiche proposte politiche sono importanti, ma arrivano al momento finale di un movimento, una volta che l’opinione pubblica abbia compiuto una svolta e i detentori del potere si diano da fare per cercare di reagire alle proteste suscitate dalle mobilitazioni degli attivisti. Nelle prime fasi, mentre i movimenti guadagnano vigore, la misura chiave di una rivendicazione non è la sua praticabilità strumentale, bensì la sua capacità di trovare eco nel pubblico e suscitare simpatia per una causa, su una scala molto vasta. In altre parole il simbolico prende il sopravvento sullo strumentale. Una varietà di pensatori ha commentato il modo in cui i movimenti di massa, poiché seguono questo percorso più indiretto nel determinare il cambiamento, devono essere più attenti nel creare una narrazione in un momento in cui le campagne di resistenza stanno costantemente conquistando slancio e presentano nuove sfide a coloro che sono al potere. Nel suo libro del 2001 “Doing Democracy” [Praticare la democrazia], Bill Moyer, un addestratore veterano dei movimenti sociali, sottolinea l’importanza delle “azioni condotte con sociodrammi” che “rivelano chiaramente al pubblico come i detentori del potere violano i valori ampiamente condivisi dalla società”. Mediante manifestazioni di resistenza ben pianificate – che vanno da marce e picchetti creativi a boicottaggi e altre forme di non collaborazione fino a interventi più conflittuali come sit-in e occupazioni – i movimenti si impegnano in un processo di “politica come teatro” che, nelle parole di Moyer, “creano una crisi sociale pubblica che trasforma un problema sociale in un problema pubblico critico”. Il tipo di proposte limitate che sono utili nei negoziati politici dietro le quinte non sono di solito il genere di rivendicazioni che ispira un ‘sociodramma’ efficace. Commentando a proposito di questo tema, il noto organizzatore della New Left [Nuova sinistra] e attivista anti-Vietnam Tom Hayden sostiene che i nuovi movimenti non sorgono sulla base di interessi limitati o di ideologie astratte, ma sono mossi da un genere specifico di temi carichi di simboli, cioè “ferite morali che impongono una risposta morale”. Nel suo libro “The Long Sixties” [I lunghi anni sessanta] Hayden cita numerosi esempi di tali ferite. Includono la desegregazione dei locali pubblici per il movimento dei diritti civili, il diritto di volantinaggio per il movimento per la libertà di espressione di Berkeley e la denuncia da parte del movimento dei lavoratori agricoli della “zappa dal manico corto”, un attrezzo divenuto emblematico dello sfruttamento dei lavoratori immigrati perché li costringeva a un insostenibile lavoro piegati nei campi. Per certi versi questi temi rivoltano sottosopra il parametro della “realizzabilità”. “Le rivendicazioni non erano semplicemente di tipo materiale, che potevano essere risolte con leggeri aggiustamenti dello status quo”, scrive Hayden. Ponevano, invece, sfide uniche ai gruppi al potere. “Desegregare un locale pubblico avviava un processo diretto alla desegregazione di istituzioni più vaste; permettere il volantinaggio agli studenti legittimava la voce in capitolo degli studenti nelle decisioni; vietare la zappa dal manico corto significava accettare la 7 Forse non sorprendentemente il contrasto tra rivendicazioni simboliche e strumentali può creare conflitti tra attivisti provenienti da tradizioni organizzative diverse. Saul Alinsky era scettico sullle azioni che producevano soltanto “vittorie morali” e derideva le dimostrazioni simboliche che considerava mere trovate di propaganda. Ed Chambers, subentrato ad Alinsky nella Industrial Areas Foundation, ha condiviso i dubbi del suo mentore riguardo alle mobilitazioni di massa. Nel suo libro “Root for Radicals” [Radici per radicali] Chambers scrive: “I movimenti degli anni 1960 e 1970 – il movimento per i diritti civili, il movimento contro la guerra, il movimento delle donne – erano vivaci, spettacolari e attraenti”. Tuttavia nella loro dedizione a “temi romantici”, ritiene Chambers, erano troppo concentrati sull’attirare l’attenzione dei media piuttosto che nell’esigere conquiste strumentali. “I membri di questi movimenti si concentravano spesso su vittorie morali simboliche come mettere fiori nelle canne dei fucili dei membri della Guardia Nazionale, imbarazzando un politico per un momento o due, o facendo arrabbiare razzisti bianchi”, scrive. “Spesso evitavano ogni riflessione sul fatto che le vittorie morali conducessero o meno a qualche cambiamento reale”. Ai suoi tempi Gandhi subiva critiche simili. Tuttavia l’impatto di campagne come la sua marcia verso il mare avrebbe offerto una formidabile confutazione di esse. Difficile non ridere Il satyagraha del sale – o campagna di resistenza nonviolenta avviata dalla marcia di Gandhi – è un esempio significativo dell’uso di confronti progressivi, militanti e disarmati per suscitare sostegno pubblico e attuare un cambiamento. E’ anche un caso in cui l’uso di rivendicazioni simboliche, almeno inizialmente, ha suscitato ridicolo e costernazione. Quando venne incaricato di scegliere un obiettivo per la disobbedienza civile, la scelta di Gandhi fu assurda. Almeno quella fu la reazione comune alla sua fissazione sulla legge del sale come punto chiave su cui basare la sfida del Congresso Nazionale Indiano al dominio britannico. Deridendo l’enfasi posta sul sale, The Statesman scrisse: “E’ difficile non ridere, e immaginiamo che sarà questo l’umore della maggior parte degli indiani pensanti”. Nel 1930 gli organizzatori concentrati sulla strumentalità all’interno del Congresso Nazionale Indiano erano interessati a questioni costituzionali, se l’India avrebbe acquistato maggior autonomia conquistando lo status di dominion e quali passi in direzione di tale soluzione avrebbero concesso i britannici. Le leggi sul sale erano, al massimo, una preoccupazione minore, non certo ai primi posti nella loro lista di rivendicazioni. Il biografo Geoffrey Ashe sostiene che, in tale contesto, la scelta del sale da parte di Gandhi come base per una campagna fu “la più bizzarra e più brillante sfida politica dei tempi moderni”. Fu brillante perché la violazione della legge sul sale era carica di significato simbolico. “Prossimo all’aria e all’acqua”, sostenne Gandhi, “ il sale è forse la maggiore necessità della vita”. Era una semplice merce che tutti erano costretti ad acquistare e che il governo tassava. Fin dai tempi dell’impero del Gran Mogol il controllo dello stato sul sale era una realtà odiata. Il fatto che agli indiani non fosse permesso di raccogliere il sale dai depositi naturali o di setacciarlo dal mare era una chiara illustrazione di come una potenza straniera stesse traendo ingiusti profitti dal popolo e dalle risorse naturali del subcontinente. Poiché la tassa colpiva tutti, il malcontento era avvertito universalmente. Il fatto che gravava più pesantemente sui poveri accresceva l’indignazione. Il prezzo del sale applicato dal governo, scrive Ashe, “includeva un’imposta, non grande ma sufficiente a costare a un lavoratore con famiglia fino a due settimane di salario l’anno”. Era una ferita morale da manuale. E il popolo rispose rapidamente all’attacco di Gandhi contro di essa. In effetti, quelli che avevano ridicolizzato la campagna ebbero presto motivo di smettere di ridere. In ciascun villaggio attraversato dai satyagrahi essi attiravano grandi folle, fino a 30.000 persone, che si radunavano per vedere i pellegrini pregare e sentire Gandhi parlare della necessità di autogoverno. Come scrive la storica Judith Brown, Gandhi “capì intuitivamente che la resistenza civile era in molti modi un esercizio di teatro politico, dove il pubblico era importante quanto gli attori”. Dopo la processione, centinaia di indiani che lavoravano in posti amministrativi locali del governo imperiale diedero le dimissioni. Dopo che la marcia ebbe raggiunto il mare e iniziò la disobbedienza, la campagna raggiunse una dimensione impressionante. In tutto il paese gruppi molto numerosi di dissidenti cominciarono a setacciare il sale e a scavarlo dai depositi naturali. Il Congresso Nazionale Indiano creò un proprio deposito del sale e gruppi di attivisti organizzati guidarono irruzioni nonviolente nelle saline governative, bloccando strade e ingressi con i loro corpi, nel tentativo di bloccare la produzione. Articoli di stampa sui maltrattamenti e i ricoveri in ospedale che ne seguirono furono diffusi in tutto il mondo. Presto la disobbedienza si estese a includere rimostranze locali e a intraprendere altri atti di non collaborazione. Milioni aderirono al boicottaggio di abbigliamento e liquori britannici, un crescente numero di funzionari di paese si dimise e, in alcune province, i contadini si rifiutarono di pagare le imposte fondiarie. In forme sempre più varie la disobbedienza di massa fece presa in un vasto territorio. E nonostante gli energici tentativi di repressione delle autorità britanniche, continuò mese dopo mese. Identificare temi che potessero “attrarre vasto sostegno e conservare la coesione del movimento”, osserva la Brown, non era “un compito semplice in un paese dove c’erano simili differenze regionali, religiose e socioeconomiche”. E tuttavia il sale fu precisamente all’altezza delle aspettative. Motilal Nehru, padre del futuro primo ministro, osservò con ammirazione: “La sola meraviglia è che non ci abbia pensato nessun altro”. Oltre il patto Se la scelta del sale come rivendicazione era stata controversa, lo stesso fu il modo in cui Gandhi concluse la campagna. Giudicando secondo parametri strumentali la soluzione del satyagraha del sale fu una delusione. Agli inizi del 1931 la campagna si era riverberata in tutto il paese e tuttavia stava perdendo slancio. La repressione aveva preteso il suo pedaggio, gran parte della dirigenza del Congresso era stata arrestata e i disobbedienti fiscali le cui proprietà erano state sequestrate dal governo stavano affrontando significative difficoltà finanziarie. Politici moderati e membri della comunità degli affari che sostenevano il Congresso Nazionale Indiano si appellarono a Gandhi per una soluzione. Anche molti militanti dell’organizzazione concordavano sul fatto che era il caso di dialogare. Conseguentemente Gandhi accettò negoziati con Lord Irwin nel febbraio 1931 e il 5 marzo i due annunciarono un patto. Sulla carta, hanno sostenuto molti storici, fu una doccia fredda. I termini chiave dell’accordo non apparivano certo favorevoli al Congresso Nazionale Indiano: in cambio della sospensione della disobbedienza civile sarebbero stati rilasciati i dimostranti in carcere, le accuse a loro carico sarebbero state archiviate e, con alcune eccezioni, il governo avrebbe cancellato le ordinanze repressive di polizia che aveva imposto durante il satyagraha. Le autorità avrebbero restituito le sanzioni incassate dal governo per la resistenza fiscale e le proprietà sequestrate che non erano state ancora vendute a terzi. E agli attivisti sarebbe stato consentito di continuare un boicottaggio pacifico del vestiario britannico. 8 Tuttavia il patto rimandava a colloqui successivi la discussione di questioni riguardanti l’indipendenza, con i britannici che non si impegnavano ad allentare la loro presa sul potere. (Gandhi avrebbe partecipato in seguito nel 1931 a una tavola rotonda a Londra per proseguire i negoziati, ma tale incontro fece pochi progressi). Il governo si rifiutò di condurre un’inchiesta sul comportamento della polizia durante la campagna di proteste, cosa che era stata richiesta con fermezza dagli attivisti del Congresso Nazionale Indiano. Infine, cosa forse più sconcertante, la stessa Legge del Sale sarebbe rimasta in vigore, con la concessione che ai poveri delle aree costiere sarebbe stato consentito di produrre sale in quantità limitate per uso personale. Alcuni dei politici più vicini a Gandhi si sentirono estremamente sgomenti per i termini dell’accordo e una varietà di storici ha aderito alla loro valutazione che la campagna aveva mancato di conseguire i propri obiettivi. A posteriori è certamente legittimo discutere se Gandhi concesse troppo nei negoziati. Al tempo stesso giudicare l’accordo soltanto in termini strumentali significa non coglierne l’impatto più vasto. Rivendicare una vittoria simbolica Se non guardando alle conquiste graduali a breve termine, come fa a misurare il proprio successo una campagna che impiega rivendicazioni o tattiche simboliche? Nel caso di mobilitazioni di massa che trainano una lotta ci sono due essenziali metri per giudicare il successo. Poiché l’obiettivo a lungo termine del movimento consiste nell’indirizzare l’opinione pubblica su un tema, la prima misura è se una data campagna ha conquistato maggior sostegno popolare per una causa del movimento. La seconda misura è se una campagna costruisce il potenziale per il movimento per crescere ulteriormente. Se un’iniziativa consente agli attivisti di lottare un altro giorno da una posizione di maggior forza – con più adesioni, maggiori risorse, rafforzata legittimazione e un arsenale tattico ampliato – gli organizzatori possono sostenere in modo convincente di aver avuto successo, indipendentemente dal fatto che la campagna abbia conseguito progressi significativi in sedute negoziali a porte chiuse. In tutta la sua carriera come negoziatore Gandhi ha sottolineato l’importanza di essere disponibili a compromessi su ciò che non è essenziale. Come osserva Joan Bondurant nel suo perspicace studio sui principi del satyagraha, uno dei suoi principi politici era la “riduzione delle rivendicazioni a un minimo coerente con la verità”. Il patto con Irwin, riteneva Gandhi, gli offriva tale minimo, consentendo al movimento di chiudere la campagna in modo dignitoso e di prepararsi alla lotta futura. Per Gandhi il consenso del vicerè a consentire eccezioni alla legge del sale, anche se limitate, rappresentava un trionfo cruciale, di principio. Inoltre egli aveva costretto i britannici a negoziare alla pari, un precedente vitale che si sarebbe esteso a successivi colloqui sull’indipendenza. A modo loro molti avversari di Gandhi hanno concordato sul significato di queste concessioni, considerando il patto un passo falso di durature conseguenze per le potenze imperiali. Come scrive Ashe, la burocrazia britannica a Delhi “sempre, da allora … si è lamentata per la mossa di Irwin considerandola un errore fatale da cui il Raj non si riprese mai”. In un discorso oggi famigerato Winston Churchill, un difensore di spicco dell’Impero Britannico, dichiarò di essere “allarmato e anche nauseato nel vedere il signor Gandhi … marciare seminudo sugli scalini del palazzo del vicerè … per trattare su basi di parità con il rappresentante del ReImperatore”. La mossa, affermò, aveva consentito a Gandhi – un uomo che egli considerava un “fanatico” e un “fachiro” – di uscire di prigione e di “[emergere] sulla scena come vincitore trionfante”. Mentre gli addetti ai lavori avevano idee diverse sul risultato della campagna, il vasto pubblico era molto meno ambiguo. Subhas Chandra Bose, uno dei radicali del Congresso Nazionale Indiano che era scettico riguardo al patto di Gandhi, dovette rivedere il suo giudizio quando constatò la reazione nelle campagne. Come racconta Ashe, quando Bose viaggiò con Gandhi da Bombay a Delhi “vide ovazioni quali non aveva mai visto in precedenza”. Bose riconobbe la rivalsa. “Il Mahatma aveva giudicato correttamente”, prosegue Ashe. “Secondo ogni regola della politica aveva subito uno scacco. Ma agli occhi del popolo il semplice fatto che l’Inglese fosse stato indotto a negoziare invece di impartire ordini superava ogni altro dettaglio.” Nella sua autorevole biografia di Gandhi del 1950, letta diffusamente ancor oggi, Louis Fischer offre una visione molto spettacolare dell’eredità della Marcia del Sale: “L’India era a quel punto libera”, scrive. “Tecnicamente, legalmente, nulla era cambiato. L’India era ancora una colonia britannica.” E tuttavia dopo il satyagraha del sale “era inevitabile che la Gran Bretagna dovesse un giorno rifiutarsi di dominare l’India e che l’India un giorno si sarebbe rifiutata di essere dominata”. Storici successivi hanno cercato di offrire resoconti più sfumati del contributo di Gandhi all’indipendenza dell’India, prendendo le distanze da una prima generazione di biografie agiografiche che indicavano acriticamente Gandhi come il “padre di una nazione”. Scrivendo nel 2009, Judith Brown cita una varietà di pressioni sociali ed economiche che contribuirono alla partenza della Gran Bretagna dall’India, in particolare le svolte geopolitiche che accompagnarono la seconda guerra mondiale. Ciò nonostante ella riconosce che stimoli come la Marcia del Sale furono cruciali, svolgendo ruoli centrali nel costruire l’organizzazione e la legittimazione popolare del Congresso Nazionale Indiano. Anche se le sole manifestazioni di protesta di massa non cacciarono gli imperialisti, esse modificarono profondamente il paesaggio politico. La resistenza civile, scrive la Brown, “fu una parte cruciale del contesto in cui i britannici dovettero prendere decisioni su quando e come lasciare l’India.” Come avrebbe fatto Martin Luther King Jr. circa tre decenni dopo, Gandhi accettò una soluzione che aveva un valore strumentale limitato ma che consentì al movimento di proclamare una vittoria simbolica e di emergere in una posizione di forza. La vittoria di Gandhi nel 1931 non fu una vittoria finale, né lo fu quella di King nel 1963. I movimenti sociali oggi continuano a combattere lotte contro razzismo, discriminazione, sfruttamento economico e aggressione imperiale. Ma, se vogliono, possono farlo aiutati dal potente esempio di predecessori che convertirono una vittoria morale in un cambiamento duraturo. Lo spirito della resistenza è vivo www.znetitaly.org Fonte: http://zcomm.org/znetarticle/how-did-gandhi-win/ Originale: Waging Nonviolence traduzione di Giuseppe Volpe Revisione a cura del Centro Studi Sereno Regis – 9 ottobre 2014 http://znetitaly.altervista.org/art/16036 (fonte: Centro Studi Sereno Regis) link: http://serenoregis.org/2014/10/19/come-fece-gandhi-a-vincere-mark-engler-epaul-engler/ Pace Pacifismo istituzionale italiano: maglia nera del pianeta: Intervista a Patrick Boylan Alla Manifestazione nazionale "Facciamo insieme un passo di pace" (Firenze, 21-9-2014) è andato come osservatore il nostro Patrick Boylan. Invece di chiedergli un resoconto scritto, abbiamo voluto intervistarlo, in modo che, parlando a tu per tu e a titolo personale, egli potesse esprimersi più liberamente. Non ha avuto peli sulla lingua (25 settembre 2014). REDAZIONE: Sei andato come osservatore, a titolo personale, alla Manifestazione nazionale Facciamo insieme un passo di pace tenutasi domenica scorsa (21-9-2014) a Firenze, nel magnifico piazzale Michelangelo che sovrasta la città. L'iniziativa è stata indetta dalla Rete della Pace, dalla Rete Italiana per il Disarmo, da Sbilanciamoci e dal Tavolo Interventi Civili di Pace per “dare voce a chi resiste e si oppone in 9 modo nonviolento alle guerre, alle pulizie etniche, alle politiche di guerra, ai regimi dittatoriali, al razzismo, all’apartheid.” Che impressione ti ha fatto? PATRICK BOYLAN: Terrificante. Un'enorme dispiegamento di mezzi per incanalare nel nulla l'angoscia che provocano nella gente le guerre sempre più vicine a noi: in Afghanistan, in Siria e in Iraq, in Ucraina, in Libia... Tranne per gli interventi sulla Palestina, l'evento sembrava costruito per smorzare le angosce, senza proporre azioni di contestazione – ad esempio, atti di disubbidienza civile che obbligano i manovratori delle guerre ad uscire allo scoperto. Confesso che, da statunitense, mi sono assai stupito che gli USA non siano stati quasi mai nominati – un primato per una manifestazione contro la guerra nella nostra epoca. Ma non sono stati nominati, o solo raramente, nemmeno i governi presenti e passati italiani e degli altri paesi europei. Eppure le truppe USA ed europee occupano ancora l'Afghanistan, no? L'aviazione USA ed europea ha devastato con le bombe la Libia ieri e ricomincia a farlo ora in Iraq e in Siria, no? Sappiamo che il conflitto in Ucraina è stato innescato da un golpe armato a Kiev preparato nelle caserme NATO della Polonia, dove venivano addestrate milizie neonazisti ucraine. Quindi sono stati gli USA e gli europei ad innescare il conflitto in Ucraina, no? Ma non si direbbe, a sentire i discorsi dal palco di domenica scorsa. I conflitti appena elencati sarebbero allora da considerarsi eventi tragici apparentemente senza autori. Guerre scatenate senza colpe, per autogenesi. Eventi rievocati per suscitare la commozione, ma non la mobilitazione. REDAZIONE: E quale sarebbe un esempio di mobilitazione alla quale il Comitato Organizzatore di domenica avrebbe potuto chiamare la gente in piazza? PATRICK BOYLAN: Avrebbe potuto proporre alla piazza di chiedere ai ministri Mogherini e Pinotti di bloccare gli invii delle armi italiani in Siria e a Kiev. Di censurare la CIA e la NATO per il loro golpe in Ucraina e di ritirare l'ambasciatore italiano da Kiev. Di risarcire finalmente la Libia per i bombardamenti illegali italiani nel 2012, anche con lo scopo di scoraggiare azioni simili in futuro. Di condannare il Presidente Obama per il suo uso illegale dei droni e quindi di chiudere la sua base droni a Sigonella. Di ritirare subito le truppe italiane dall'Afghanistan e di uscire dalla Coalizione, sotto la guida degli USA, che si appresta a condurre una “lunga guerra” in Iraq, cioè, a rioccuparlo. REDAZIONE: Quindi, a Firenze, niente rivendicazioni – almeno, dal palco? PATRICK BOYLAN: Solo quando si è parlato della Palestina, gli intervenuti hanno osato fare nomi e cognomi e proporre azioni di contestazioni concrete – per denunciare i governanti israeliani presenti e passati di aggressione imperialista in Palestina, e per denunciare l'Italia di connivenza nel concedere a Israele armamenti e suolo nazionale per i suoi esercizi militari. Questo spezzone della manifestazione di domenica ha fatto dunque un passo in avanti verso la giusta direzione, per quanto sia rimasto troppo reticente sulle origini ideologiche del conflitto israelopalestinese. Semmai lo spezzone poteva essere criticato – ma solo ironicamente, s'intende – per il suo grande successo come spettacolo – con selezioni musicali, letture di poesie, video interviste, tutte svolte con molta professionalità – al punto che il momento di denuncia si è trasformato in momento di intrattenimento e la gente è andata via, contenta dello spettacolo, ma senza consegne precise da mettere in pratica l'indomani per realizzare l'ampio elenco delle proposte. Anche gli altri spezzoni di “Un passo di Pace”, quelli che riguardavano le altre guerre nel mondo, hanno mancato di dare al pubblico consegne precise, da mettere subito in pratica. Hanno mancato persino d'indicare le controparti da contestare. Eppure i mandanti di quelle guerre hanno precisi nomi e cognomi, che vanno individuati e detti. UN DISCORSO SENZA PELI SULLA LINGUA ... SUL CONFLITTO IN UCRAINA REDAZIONE: Allora vuoi togliere i peli dalla lingua e dirci qualche nome e qualche fatto tu? PATRICK BOYLAN: Certo. Ad esempio, quel fatto grosso che ho nominato prima. Oggi, in Europa, c'è un governo arrivato al potere tramite un golpe neonazista – un golpe pilotato dalla sottosegretaria statunitense Nuland e dal senatore McCain, il falco che dirige molte delle operazioni di destabilizzazione degli USA. Si tratta del governo ucraino del golpista Jacenjuk e del suo successore Porošenko. Un governo che, da sei mesi, d'intesa con Washington, bombarda le case dei propri cittadini nelle città dell'est, con la scusa che bisogna “stanare gli indipendentisti” – come gli israeliani che bombardano le case a Gaza, uccidendo soprattutto civili, “per stanare Hamas”. Del resto, come Israele, il governo di Kiev definisce i suoi avversari meri “terroristi” (anche chi è intervenuto dal palco di Firenze ha usato questo termine offensivo per indicare gli indipendentisti). Ora, mentre ci sono state alcune – seppure troppe poche – proteste ufficiali in Europa contro la barbarie di Tel Aviv, non c'è stata nessuna protesta ufficiale europea contro la barbarie di Kiev. Il motivo? Semplice. I governi europei sono stati complici nel golpe – fino al collo – ed ora sono favorevoli all'uso dei mezzi militari contro i civili del Donbass, dal momento che quei civili vengono considerati dei burattini di Putin. Mentre essi non lo sono affatto e comunque bombardare i civili rimane un crimine di guerra. Ma ve lo immaginate se, in Italia, gli indipendentisti veneti, sostenuti da un'Austria nostalgica del suo impero perduto, avessero preso le armi e occupato piazza San Marco? Ve lo immaginate se il governo italiano, per stanarli, avesse autorizzato il bombardamento di Venezia, ammazzando civili a frotte e distruggendo metà della città? Sarebbe successo il finimondo, perché non è così che si pone fine ad un moto indipendentista, almeno in Europa. Certo, Donetsk non ha i tesori d'arte che ha la città di Venezia; ma, come Venezia, ha comunque delle vite umane che vanno pure salvaguardate. E tuttavia, domenica scorsa a Firenze, non c'è stata neanche una sola parola di condanna per i bombardamenti dei civili che continuano ancora nel cuore dell'Europa, nonostante la tregua – ieri sera la città è stata colpita di nuovo, più volte. Nessuna contestazione dei Ministri Mogherini e Pinotti che continuano a fornire aiuti militari al governo di Kiev. Nessuna proposta di manifestazione davanti ai loro ministeri. C'è stata solo una condanna della Russia che avrebbe “sconfinato” in Ucraina a sostegno degli indipendentisti. REDAZIONE: Beh, sconfinare nel territorio di un altro stato sovrano è illegale secondo il diritto internazionale; la condanna mi sembra doverosa. PATRICK BOYLAN: Sicuramente: e se lo sconfinamento fosse provato, sarebbe certamente una illegalità da punire. E severamente. Solo che, con tutta la loro tecnologia avanzata, la NATO ha saputo offrire ai giornali solo foto fatte da una ditta esterna che non indicano nemmeno le coordinate GPS; quindi senza valore di prova. Comunque, tagliamo corto: supponiamo che le accuse di sconfinamento siano vere: probabilmente è così, anche se non ci sono le prove. Il punto vero rimane comunque un altro. Gli Stati Uniti, l'Italia, la Francia, il Regno Unito ritengono di avere titolo per rimproverare alla Russia di aver “sconfinato” alcuni chilometri nell'Ucraina dell'est. Non ti sembra ipocrita, questo? Di palese malafede? PATRICK BOYLAN: Ma mi faccia il piacere! L'Italia e i suoi alleati “sconfinano” da tredici anni in Afghanistan – e non occorrono le prove, lo ammettono! Anzi, l'Italia e i suoi alleati hanno fatto di più. Hanno fatto proprio ciò che accusano Putin di voler fare in Ucraina (ma che non fa): ossia, hanno invaso ed ora occupano l'intero paese. Come hanno invaso e occupato l'intero Iraq per undici anni, senza alcun mandato ONU, prima di essere costretti ad andarsene. Ed ora si preparano la rivincita: con la scusa dell'ISIS, progettano di “sconfinare” di nuovo per occupare l'Iraq e forse “sconfinare” per occupare anche la Siria. Sono proprio questi i paesi che puntano ora il dito e che condannano lo sconfinamento della Russia in Ucraina – che altro non è che il tentativo di recuperare un pezzo di quanto l'Occidente le ha sottratto con il golpe NATO, illegale, del 21 febbraio 2014. (E' illegale perché la carta dell'ONU proibisce colpi di Stato in paesi terzi e perché i Patti Fondativi del 1997 collocano l'Ucraina fuori dalle alleanze militari, ivi compresa la NATO.) REDAZIONE: Beh, due torti non fanno una ragione. Se Putin ha sconfinato, va punito – l'hai detto tu. PATRICK BOYLAN: E lo riconfermo. Mandiamo dunque Putin davanti al Tribunale Penale dell'Aia, e al più presto! Lasciamo che i giudici decidono se le prove fotografiche siano attendibili o meno. Sei d'accordo su questo, anche tu? REDAZIONE: Sì... PATRICK BOYLAN: Ma dopo Bush. E dopo Cheney, Rumsfeldt, Rice, ecc. E dopo Obama con i suoi droni che “sconfinano” in Algeria e nello Yemen ecc. e ammazzano pure e le sue forze speciali che “sconfinano” in una trentina di paesi, soprattutto africani, per fare azioni clandestine. E dopo Renzi, Hollande e Cameron che hanno rinnovato la presenza delle loro truppe sconfinanti in Afghanistan, di cui molti rimarranno fino a chissà quando. E dopo i Presidenti del Consiglio italiano, francese, britannico nel 2012: loro hanno “sconfinato” in Libia, non solo con bombardieri ma anche con forze speciali terrestre, con i pezzi d'artiglieria, veicoli blindati – l'ONU ha autorizzato l'interdizione al volo, non i bombardamenti o le truppe sul terreno. Quindi tutti in galera! E i più colpevoli per primi, secondo chi ha sconfinato di più e fatto più danni. Sei d'accordo? REDAZIONE: Beh... PATRICK BOYLAN: Ma concludiamo questo discorso sull'Ucraina. Scusatemi se l'ho fatta lunga, ma ho voluto darvi un esempio di ciò che io chiamo "DISCORSI CHIARI". Per illustrare una maniera di parlare che, domenica scorsa alla manifestazione per la pace, si è sentito molto poco. Infatti, di tutto quello che ho appena detto non c'è stato neanche un accenno. Gli organizzatori hanno fatto commuovere il pubblico per le sofferenze inflitte dalla guerra in Ucraina, ma senza fornire gli elementi per capirne le cause. O meglio, attribuendo tutta la colpa a Putin. Così il pubblico è andato via come è arrivato, senza sospettare minimamente le responsabilità occidentali – cioè, le loro. Gente anestetizzata, dunque, che la nostra Rete NoWar di Roma non potrebbe mai mobilitare. Se diamo loro un volantino “contro il golpe NATO nel cuore dell'Europa” ci guardano come marziani e sbuffano: “Ma che vogliono questi qui? Esagerati!!” REDAZIONE: Quindi stai dicendo che, alla manifestazione “Un passo di Pace”, si è parlato della guerra soprattutto in astratto, come se non riguardasse le decisioni concrete del governo italiano e dei suoi alleati. L'unico governo a peccare sarebbe stato quello russo. PATRICK BOYLAN: In linea di massima, sì, con l'eccezione del conflitto israelo-palestinese, che ho appena menzionato. REDAZIONE: E perché? Do un altro esempio: alla manifestazione si è accennato agli orrori 10 dell'ISIS ma, di nuovo, come se fosse un fenomeno che nascesse dal nulla. Nessuno ha condannato gli Stati Uniti per aver creato l'ISIS per rovesciare il regime siriano. Eppure ci sono le foto del capo dell'ISIS in trattativa con il senatore McCain. DISCORSI AMBIGUI: DECIDERE SUGLI F35 SENZA CHIEDERSI A COSA SERVONO REDAZIONE: Quindi l'impressione ricavata dalla manifestazione è che l'amico americano e il governo amico italiano non avrebbero responsabilità per le guerre nel mondo. O per la crescente militarizzazione della nostra società. E' così? PATRICK BOYLAN: Si. Fatta eccezione per alcuni interventi (ma erano pochi) che hanno chiamato in causa il governo Renzi– segnatamente per la sua scelta di confermare l'acquisto degli F35. Solo che la questione degli F35 è stata trattata come se fosse un problema meramente contabile. Gli F35 costerebbero troppo in un tempo di crisi, ecco il problema. Come dire, se costassero meno, allora l'Italia potrebbe pure acquistarli per bombardare e sottomettere altri paesi, non ci sarebbero obiezioni. Invece la vera obiezione – che qualcuno ha anche mosso, ma in sordina – è l'uso per il quale questi velivoli sono destinati. Vengono acquistati per poter attaccare all'estero (molti saranno attrezzati per i soli portaerei), non per difendere il suolo italiano. Mentre la Costituzione italiana proibisce le guerre di attacco. Vengono acquistati per portare bombe atomiche, in violazione dei patti di non proliferazione – un ritorno alle angosce della Guerra Fredda e al rischio dell'annientamento reciproco totale, dovuto a qualche errore umano. Quindi impostando la discussione sugli F35 solo in termini contabili, gli intervenuti si sono esonerati dal discutere ciò che dovrebbero essere le finalità dell'aeronautica italiana, complessivamente. Nel 2012, l'aeronautica italiana ha compiuto più di 400 bombardamenti della Libia: era forse un'azione meno cruenta e meno anticostituzionale perché svolta con i vecchi F16 anziché con i nuovi F35? Quei bombardamenti hanno ridotto la Libia, una volta fiorente, in rovine e la popolazione nella miseria. “Ma è stato necessario per cacciare il crudele dittatore Gheddafi e dare la democrazia al popolo” dicevano e continuano a dire il governo e i mass media, per coprire il vero scopo dei bombardamenti, ossia “ricacciare la Libia nel medioevo” per poter appropriarsi del suo petrolio a prezzi stracciati. Infatti, l'Occidente non pensa più a creare in Libia le basi per la democrazia che aveva promesso: alle ultime elezioni è andato a votare solo il 18% della popolazione. Piuttosto che il voto, la gente vuole il pane, quello che l'aviazione militare nostra ha tolto loro per chissà quanto tempo ancora. REDAZIONE: Possiamo almeno sperare che avranno entrambe le cose in futuro? PATRICK BOYLAN: Ne dubito, almeno fin quando durerà il petrolio. Ma vogliamo smettere di parlare dei costi degli F35 e parlare di questo, per favore? Cioè, dell'uso dell'aviazione italiana per bombardare e sottomettere altri paesi? Non sarebbe un tema degno per un incontro di pacifisti? Niente da fare: il tema delle guerre di aggressione italiane e dei suoi alleati– e della devastazione che producono e che hanno prodotto, come in Libia– non è all'ordine del giorno. Come i pacifisti del 2012 hanno dato il loro silenzio assenso alla distruzione della Libia, i pacifisti di oggi (molti dei quali sono gli stessi) continuano a dare il loro silenzio assenso alla sua putrefazione. Nessuna protesta nel 2012, nessun pentimento nel 2014. Ora l'Italia entra in una nuova Coalizione a guida USA che si accinge a “salvare” gli iracheni e i siriani. Dio mio! Proprio loro, i bombaroli della 11 Libia! Ancora una volta a voler “salvare” un paese con i loro missili Tomahawk e le loro bombe Hellfire! Ci sarebbe da gridare dai tetti!! Ma alla Manifestazione per la pace di Firenze, neanche una parola. REDAZIONE: Quindi stai dicendo che quello che tu chiami il pacifismo istituzionale – m'immagino che tu ti riferisca alle associazione che hanno organizzato la manifestazione di domenica scorsa – funzionerebbe come appannaggio del governo. Come un MinCulPop per la pace. PATRICK BOYLAN: Diciamo che queste organizzazioni dipendono dal governo per i loro finanziamenti e quindi tendono a tenerselo buono. A volte lo contestano ma entro limiti abbastanza stretti. Pertanto alla manifestazione di Firenze, come dicevo prima, il pacifismo istituzionale non ha voluto contestare il governo Renzi per aver rinnovato la presenza militare italiana in Afghanistan e per aver annunciato che intende prolungare quella presenza anche dopo il 2014 col pretesto di effettuare solo addestramenti. Sono 13 anni che questo martoriato paese subisce le nostre bombe e i nostri rastrellamenti da gestapo. Ma nessuno protesta più. Nemmeno ad una manifestazione per la pace. Con una eccezione: a Firenze domenica scorsa c'è stato il bellissimo intervento di Cecilia Strada di Emergency – degna figlia di suo padre. Il suo intervento è stato un raggio di luce nel buio. Schietto ma profondo, ha esaminato il significato della guerra anche in Afghanistan, puntualizzandone le responsabilità. Non a caso gli organizzatori le hanno tolto la parola, “per ragioni di tempo”, prima che potesse finire – un chiaro riconoscimento del valore di quanto stava dicendo. E poi c'è stato anche Alex Zanotelli che vi ha fatto qualche accenno, più discreto ma efficace. E nient'altro. DISCORSI INGANNEVOLI: SOSTENERE LA GUERRA... IN NOME DELLA PACE REDAZIONE: Quindi quando dici che il pacifismo istituzionale contesta sì il governo “ma entro limiti abbastanza stretti”, intendi dire “quasi per nulla.” PATRICK BOYLAN: Diciamo relativamente poco. Ti do un altro esempio. Alla manifestazione di Firenze il governo Renzi non è stato contestato neppure per la sua adesione al Gruppo di Londra, la combriccola che organizza le forniture di armi ai guerriglieri jihadisti della Siria. Eppure il programma di “Un Passo di Pace” – l'hai ricordato tu all'inizio – proclama di voler sostenere solo chi “si oppone in modo nonviolento ai regimi dittatoriali.” Solo che, nel caso della Siria, l'Occidente non ha mai voluto sostenere l'opposizione nonviolenta, come il Coordinamento democratico siriano, perché troppo di sinistra. Se arrivasse al potere sarebbe, per l'Occidente, troppo poco accomodante. Quindi l'Occidente ha preferito incitare i giovani a prendere le armi – “per difendere i manifestanti” – sperando così di poter determinare, attraverso la fornitura selettiva delle armi, l'egemonia di una fazione dei ribelli sugli altri, quello più filo-Occidentale. Che orrore, dunque, vedere apparire sul palco di “Un Passo di Pace” l'individuo che il Comitato Organizzatore ha designato per parlare della Siria. Si tratta di un esponente siriano che gira l'Italia da tre anni, a tenere comizi – anche presso circoli pacifisti – per convincere gli italiani che l'unico modo per rovesciare il presidente siriano Assad è con le armi. E quindi che bisogna fornirle. Egli cerca poi di rimuovere le reticenze dei pacifisti raccontando gli orrori commessi da Assad, in primis le uccisioni dei manifestanti siriani in piazza. Ma – un momento – non era il presidente al-Sisi dell'Egitto che, un anno fa, ha fatto uccidere 1000 manifestanti in piazza in un colpo solo, un record in assoluto, di tutti i tempi, nel medio oriente? E che poi ha fatto condannare a morte 600 imputati in un processo lampo durato un giorno? Anche questo un record in assoluto. Non importa, per l'oratore sembrava contare solo la rimozione di Assad, costi quel che costi. E si capisce perché. Mentre al-Sisi ha accettato la NATO nel suo paese, Assad lo rifiuta e, anzi, ospita le navi russe. Non solo, ma costruisce gasdotti con l'Iran che competano con quelli statunitensi e israeliani. Fornisce armi a Hezbollah. Per l'oratore siriano, dunque, e sicuramente per chi sponsorizza eventualmente le sue tournée di propaganda, è Assad, non al-Sisi, il capo di stato cruento che va rimosso, senza indugio e con le armi. Per fortuna, la platea, capendo la strumentalizzazione dell'intervento antiAssad, ha protestato, costringendo l'oratore a tagliare corto. Ma l'ambiguità della scelta del Comitato organizzatore rimane un dato di fatto. REDAZIONE: Ma perché, secondo te, con tutto quello che sta succedendo in Siria ora, il Comitato ha fatto venire quell'individuo ad una manifestazione per la pace? PATRICK BOYLAN: Dovresti chiedere a loro. Se io dovessi azzardare un'ipotesi, direi che è perché in questo momento, Mogherini e Pinotti stanno trattando nuove consegne di armi italiane ai guerriglieri in Siria, quindi serve erigere una cortina fumogena per coprire questo malaffare. Discorsi anti-Assad, che lo descrivono come un mostro da eliminare a tutti i costi, servono all'uopo, stroncano sul nascere qualsiasi protesta da parte dei pacifisti. Perciò, con l'invito di quell'individuo, il Comitato organizzatore ha forse voluto – dico forse – dare una mano al “governo amico”. REDAZIONE: Quindi una manifestazione per la pace ma tutta imperniata sulla difesa della politica estera italiana – in Ucraina, in Afghanistan, in Iraq, in Libia, in Siria... PATRICK BOYLAN: Qualche critica occasionale c'è stata pure, ma il senso globale dell'evento è stato quello. Sai, i ceti dominanti – quelli che traggono profitti dalle guerre e accrescono il proprio potere subordinando la politica estera italiana a quella guerrafondaia statunitense – hanno comunque bisogno di mantenere un certo consenso nel paese. Devono governare le angosce che le loro guerre creano. E quindi a loro serve un movimento per la pace che faccia sfogare l'emotività della gente ma senza proporre azioni concrete di contestazione delle scelte governative. REDAZIONE: Ma allora, se la pensi così, perché non sei intervenuto tu con un discorso che proponesse azioni di contestazione da intraprendere? PATRICK BOYLAN: Non sono stato invitato a parlare e non erano previsti interventi liberi dal pubblico – anzi, c'erano recinzioni e gorilla per impedire che il pubblico potesse avvicinarsi al palco. E' stata la prima volta che io ho visto una cosa simile ad una manifestazione di pacifisti per pacifisti. Comunque ho distribuito, a molti dei partecipanti, un volantino con il discorso che avrei potuto fare. Quindi se l'hanno letto, avranno sentito un'altra campana. Il volantino è diviso in tre parti. Ognuna descrive un tema in poche righe, poi indica un link che devi digitare nel tuo browser per vedere il resto. REDAZIONE: E quali sono i tre temi? PATRICK BOYLAN: Il primo è l'annuncio dell'iniziativa recente di un noto attivista per la pace negli Stati Uniti – e un amico mio – David Swanson. Egli ha lanciato otto azioni concrete per contrastare la propaganda guerrafondaia dei governi e dei mass media e mi ha chiesto di farle conoscere anche in Italia. Il secondo è un esempio di ciò che io considero un discorso chiaro sulle guerre e sulla pace. Ho appena accusato la manifestazione di Firenze di eccessiva genericità. Ebbene, do un esempio di come gli intervenuti avrebbero potuto parlare – nella fattispecie, sulla questione ISIS – se non avessero avuto peli sulla lingua. 12 Il terzo tema è: “Perché sembra sempre più difficile opporsi alle guerre?” Elenca le diverse strategie che il potere usa per far sembrare inutile la lotta, per confonderci le idee, per sfiancarci. Ad esempio, la stessa manifestazione “Un Passo di Pace” – se i miei giudizi sono fondati, ma bisogna discuterli ovviamente – è un esempio di meccanismo di sfiancamento. Invece di incanalare l'emotività dei partecipanti verso sbocchi contestatari, la manifestazione ha promosso un commozione collettiva che si è risolta poi nel nulla. E poi ha mandato tutti a casa, rassegnati. A lungo andare questo sfianca. REDAZIONE: E' possibile vedere questo volantino, per avere i tre link? PATRICK BOYLAN: Sì, si può vedere digitando nel proprio browser http://boylan.it/info/0 . Attenzione, alla fine c'è lo zero, non una “o”. Note: Per il volantino distribuito alla manifestazione "Passo di Pace": http://boylan.it/info/0 (Alla fine c'è lo zero, non una “o”) (fonte: Sinistra in rete) link: http://www.sinistrainrete.info/index.php? option=com_content&view=article&id=4102 Notizie dal mondo Cina Occupying Movement in Hong Kong: alcuni antefatti (di Mee Kam Ng) Cari amici, avete avuto l’occasione di vedere alcune informazioni su Hong Kong e vi sarete domandati che cosa sta accadendo. I seguenti paragrafi forniscono alcuni antefatti ai quali fare riferimento e io spero che vogliate unirvi alla popolazione di HK nella lotta per un futuro più democratico. Gli abitanti di HK sono conosciuti per il pragmatismo e i comportamenti orientati a far soldi nella vita. Perché così tanti abitanti di HK hanno scelto di scendere in strada in modo pacifico per esprimere il loro punto di vista? Io spero che quanto segue possa darvi una idea di ciò che è accaduto recentemente in HK . I migliori auguri Mee Kam Ng, 29 Settembre, 2014 Radici storiche HK è stato descritto da Lord Palmerston, Primo ministro britannico di allora, una “roccia arida e inabitata” quando fu ceduta al Regno Unito dopo la sconfitta della Cina nella prima guerra dell’oppio nel 1841. Dopo la sconfitta della Cina nella seconda guerra dell’oppio, la Penisola del Kowloon fu ceduta in base al Primo Accordo di Pechino nel 1860. Nel 1898, il Governo Britannico ottenne di estendere il proprio controllo su i “Nuovi Territori” attraverso un affitto di 99 anni e questo provocò proteste e azioni difensive da parte della popolazione “indigena”. Prima della fine della Seconda Guerra mondiale ed il ritorno delle forze armate britanniche dopo l’occupazione dei Giapponesi di Hong Kong ( 1941-45), la Colonia britannica ha avuto una lunga tradizione “rivoluzionaria”. Potreste essere stupiti … la tradizione era ispirata dal Partito Comunista! In un libro ora proibito in Cina “ Pioneering Voices of History”, prima della loro presa del potere nei primi anni del 1940, i “guru” del Partito Comunista furono i critici più agguerriti della legge del partito unico del Partito Nazionalista ed i più accaniti sostenitori della democrazia attraverso il suffragio universale del popolo! In effetti, la base delle rivolte per rovesciare la Dinastia Qing è stata HK ed il suo leader, Dr. Sun Yat Sen, una figura politica insigne in Taiwan come anche nella Cina continentale, si era formato in HK ed aveva anche iniziato la sua carriera rivoluzionaria qui. Nella lotta contro l’imperialismo gli abitanti di HK si erano uniti nella lotta con quelli della Cina Continentale: gli scioperi Guangdong-Hong Kong del 1925-26 è un esempio emblematico. E per il momento, HK è probabilmente l’unico posto su territorio cinese dove si può commemorare il massacro del 4 di giugno ( piazza Tianenmen). può essere realizzata con il metodo del suffragio universale ; dopo l’elezione del Governatore centrale con il suffragio universale, l’elezione del Consiglio Legislativo dello HKSAR può essere realizzata con il metodo di eleggere tutti i componenti con il suffragio universale” ( Annex 1 della Decisione del Comitato Permanete del National People’s Congress (NPCSC)). Una causa più profonda degli attuali movimenti va ricercata nelle radici culturali di come gli intellettuali cinesi considerano il loro ruolo nello sviluppo della società. Gli intellettuali hanno una naturale predisposizione a “ rimproverare coloro che sono al potere” , a dire la verità al potere. Mencius ( un santo cinese che è vissuto attorno al 250 e 150 prima di Cristo) aveva raccomandato agli intellettuali di non “ essere tentati dal denaro o dalla carriera, lasciarsi spaventare dalla povertà e difficoltà, e neppure arrendersi al potere ed alla forza poiché essi dovrebbero essere la coscienza della società”. Suffragio Universale del Governatore Centrale nel 2017? Sulla base della Basic Law e l’interpretazione della NPCSC nel 2004, gli emendamenti alla elezione del Governatore centrale CE ( Chief Executive) e alla formazione del Consiglio Legislativo (LegCo) debbono essere sottoposti a un “ procedimento in cinque fasi”: 1) Il ritorno di HK allo Stato Cinese e la “Basic Law” 2) HK è ritornata allo stato cinese nel 1997. Molti anni prima erano iniziati i colloqui Cino-Britannici: una dichiarazione congiunta era stata firmata nel 1984 e la mini-costituzione della Regione Amministrativa Speciale di HK ( HK Special Administration Region – HKSAR), la “ BASIC LAW”, era stata adottata nel 1990 e divenne effettiva nel 1997. Sulla base della dichiarazione congiunta , HK sarebbe dovuta ritornare allo stato cinese in base alla originale politica di “ Un Paese Due Sistemi” per creare un ponte fra il regime socialista della Cina continentale e le forme di vita capitalista di HK. 3) 4) 5) A quel tempo, molti abitanti di HK, che ne ebbero la possibilità, lasciarono il territorio. Al principio degli anni ’90 e per alcuni anni l’esodo arrivò ad essere di più di 50.000 persone all’anno. Questo fu uno dei motivi per il Governo di costruire una nuova università ( The HK University of Science and Technology) e di elevare le scuole politecniche a Università. Paradossalmente, sono stati gli attuali democratici che hanno appoggiato il ritorno di HK allo stato cinese, nutrendo la visione di ritornare alla madre patria e di praticare la democrazia in HK. Forse la diaspora dei “ricchi” abitanti di HK ha portato alla non dichiarata decisione del Governo Centrale di privilegiare gli interessi dei capitalisti dopo il 1997. Ma queste politiche hanno portato ad un peggioramento della polarizzazione sociale in HK. Ma torniamo alla “Basic Law”. La legge fondamentale stabilisce come dovrebbero essere formati la Camera legislativa e l’Esecutivo nella Regione amministrativa speciale. L’Esecutivo ( o Governatore centrale ) è stato nominato ed eletto da un Comitato elettivo, la cui composizione è cresciuta dagli originali 400 componenti del 1996, a 800 nel 2002 e a 1200 nel 2012. Sebbene sembri che il Comitato elettivo comprenda rappresentanti di tutti i settori della società, l’accordo di fatto ha dato il diritto di eleggere il Governatore centrale solamente ad un numero limitato di persone, perché i rappresentanti non sono democraticamente eletti. Non solo la composizione del Comitato elettivo è discutibile, ma solamente circa 200.000 cittadini ( fra oltre 7 milioni e cioè lo 0,05% dei potenziali elettori) hanno avuto il diritto di partecipare alla elezione dei loro rappresentanti nel Comitato Elettivo nell’ultimo turno elettorale del 2012. Il CE fa un rapporto al Comitato Permanente del National People’s Congress ( NPCSC) , per invitarlo a decidere se è necessario fare emendamenti al metodo di selezione/formazione; il NPCSC decide se siano necessari emendamenti al metodo di selezione/formazione; se il NPCSC decide che emendamenti possano essere fatti, il Governo centrale della HKSAR presenta una risoluzione al LegCo ( Consiglio Legislativo) sugli emendamenti da apportare per scegliere il CE e la formazione del LegCo ( Consiglio Legislativo). Questi emendamenti debbono essere approvati da una maggioranza di 2/3 di tutti i componenti del Consiglio Legislativo; il CE approva la risoluzione approvata dal Consiglio Legislativo; il CE presenta la proposta di emendamenti al NPCSC per la sua approvazione. Si tratta di “ HKSAR, 2013, Metodi per la Selezione del CE nel 2017 e per la formazione del Consiglio Legislativo in 2016, pp. 5-6). Come indicato nel documento di consultazione del 2013, “prima di iniziare formalmente la “Prima fase”, il Governo del HKSAR vorrebbe dare il via ad una consultazione su questioni relative ai metodi per selezionare il CE nel 2017 e per formare il LegCo nel 2016….” (P.7) Nello stesso periodo un movimento denominato “Occupy Central with Love and Peace (OCLP)” è stato varato da un professore di legge nell’Università di HK nel gennaio del 2013. Con una serie di dialoghi e deliberazioni sul suffragio universale, il Movimento ha realizzato un referendum fra tutti i cittadini su un sistema elettorale dello stesso valore degli standard internazionali. Più di 700.000 persone hanno partecipato al referendum. Il Movimento sostiene che se la proposta del governo non è all’altezza degli standard internazionali , saranno intraprese azioni di disobbedienza civile ( Occupy Central). Allo stesso tempo , il campo dei Pro-Cina hanno anche loro organizzato un altro referendum per raccogliere firme contro il movimento “Occupy Central”. Tutto questo dibattito ha portato a una seria divisione sociale in HK. Dato che oltre 150 persone al giorno sono immigrate in HK dalla Cina Continentale ( circa 50.000 all’anno), qualcuno potrebbe pensare che ci siano differenze significative nelle visioni politiche fra i “nativi” ed i “nuovi” cittadini di HK. La decisione del NPCSC sulla struttura delle elezioni di HK del 2017 Nel 2007, il Governo della Regione Amministrativa Speciale di HK ha pubblicato un “libro verde” sullo sviluppo costituzionale e, dopo una consultazione, lo ha sottoposto al Comitato Permanente del “National People’s Congress” ( Parlamento della Cina popolare). Questo ha promulgato in data 29 Dicembre 2007 la Decisione sulle questioni sui metodi per selezionare il Governatore Centrale della HKSAR e per formare il Consiglio Legislativo della HKSAR nel 2012 e sulle questioni relative al Suffragio universale. La decisione è stata: “ L’elezione del quinto Governatore centrale della HKSAR nell’anno 2017 13 In data 31 agosto 2014, il Comitato Permanente del NPC ha annunciato la sua decisione sulle norme del “suffragio universale” del Chief Executive (CE) ( Governatore centrale), come segue: 1. 2. A far data dal 2017 , la selezione del CE della HKSAR può essere realizzata con il metodo del suffragio universale; quando la selezione del CE della HKSAR sarà realizzata con il metodo del suffragio universale: • Dovrà essere formato un comitato largamente • • • rappresentativo dei cittadini con funzione di scegliere i candidati per la carica di CE. Le disposizioni circa il numero dei componenti, composizione e formazione del Comitato di nomina saranno fatte sulla base del numero dei componenti , e sulla base della composizione e metodo di formazione del Comitato Elettorale per il Quarto Chief Executive. Il Comitato di nomina dovrà indicare da due a tre candidati per la funzione del CE sulla base delle leggi democratiche. Ciascun candidato dovrà avere il sostegno di più della metà dei componenti del comitato di nomina. Tutti gli elettori aventi diritto possono votare nelle elezioni del CE ed eleggere uno dei candidati per la carica di CE in accordo alla legge. Il CE, eletto, selezionato attraverso il suffragio universale, dovrà essere investito formalmente dal Governo centrale del Popolo cinese. Per molti cittadini di HK, questa è una “falsa” democrazia, sebbene i Governi Centrale e della HKSAR sostengano che questo è un gran passo verso la democrazia se confrontato alle attuali procedure. People Power! Mentre il Movimento OCLP è stato iniziato da tre adulti, il movimento che si sta sviluppando negli ultimi giorni è guidato, organizzato e alimentato dalle generazioni più giovani in HK. La combinazione di energia e motivazione di un gruppo di studenti alcuni dei quali non hanno ancora raggiunto l’età per votare e la promozione di pace e amore nell’esercitare la disobbedienza civile ha contribuito allo sviluppo della “rivoluzione degli ombrelli” in HK ( ombrelli per proteggersi dagli spietati lacrimogeni della polizia). Sebbene io non mi sia iscritta al Movimento OCLP , ho deciso di esercitare il mio potere come un osservatore. Io sono stata testimone di come la polizia abbia bloccato molte strade che portavano ai luoghi del centro della protesta; azione che ha portato le persone a invadere le strade. Io sono stata testimone di come pacifici cittadini e studenti abbiano dovuto sostenere più volte gli attacchi con lacrimogeni. Sono stata testimone di come i giovani abbiano esercitato il massimo controllo anche di fronte agli attacchi ed abbiano risposto solo con le lacrime e rinnovata determinazione di tornare sul posto, per essere là dove la loro “voce” può essere “vista/sentita”. Please Support Us! Non mi è possibile inondarvi con tutti i dettagli ma spero che questa mia nota via dia alcuni antefatti su ciò che sta avvenendo in Hong Kong. Sappiate che NON si sta realizzando una rivolta e che noi NON ci meritiamo di essere trattati come rivoltosi. Questo è un movimento totalmente pacifico – ogni possibile azione motivata dalla rabbia è stata scoraggiata discutendone fra i partecipanti. Noi vogliamo avere la possibilità di dire la nostra su come viene amministrata la nostra città e vogliamo che il Governo lo sappia. Come educatrice, io sono molto orgogliosa degli studenti e delle generazioni più giovani. Mentre HK potrebbe essere nei suoi momenti più cupi, per merito di questi giovani una luce sembra che stia nascendo. Molte persone hanno cominciato ad “occupare” varie parti della città. Se avete qualche esperienza da poter condividere con noi, vi prego di farmelo sapere. Prego sosteneteci nelle forme che ritenete più adeguate. Mee Kam Ng 29 Settembre, 2014 (fonte: Centro Studi Sereno Regis) link: http://serenoregis.org/2014/10/02/occupying-movement-in-hong-kong-alcuni- 14 antefatti-mee-kam-ng/ Iraq IRAQ-SIRIA. Kobane allo stremo, scaricata (di Chiara Cruciati) Lo Stato Islamico controlla oltre un terzo della città. Obama: «I raid non bastano». Ankara: «Folle pensare che interverremo da soli». Ancora scontri tra polizia turca e manifestanti curdi: 25 le vittime totali. I miliziani dello Stato Islamico entrano a Kobane con i carri armati. Un’ulteriore prova di forza, se mai fosse stata necessaria. E mentre la città curda nel nord della Siria è ad un passo dalla caduta, Washington e Londra fanno notare – a chi non se ne fosse accorto – che i raid aerei non bastano e la Turchia sottolinea che è irrealistico pensare che possa intervenire via terra da sola. Ormai le milizie di al-Baghdadi controllano oltre un terzo della comunità al confine turco, dopo tre settimane di assedio, oltre 400 morti e 160mila profughi: «L’Isis ha in mano oltre un terzo di Kobane – fa sapere l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani – Tutta la parte est, una piccola parte a nord est e un’altra a sud est». Secondo le milizie curde sul posto, nella notte i jihadisti hanno occupato altri due distretti della città. Circondata e invasa su un fianco, mentre proseguono gli scontri casa per casa con i combattenti curdi rimasti a difesa della città. Continuano anche i bombardamenti aerei della coalizione, ma servono a ben poco. E gli Stati uniti lo sanno bene. Ieri il portavoce del Pentagono, il maggiore John Kirby, lo ha candidamente ammesso: «Dobbiamo prepararci all’eventualità che altri villaggi e città saranno presi dall’Isis. Kobane potrebbe essere presa. Dobbiamo riconoscerlo. Stiamo facendo quel che possiamo dal cielo per cercare di fermare l’avanzata dell’Isis. Ma la potenza aerea da sola non è abbastanza a salvare la città». Sarebbe necessario un intervento di terra, vista l’estrema adattabilità dell’Isis al cambio di strategie militari occidentali. Obama, che non intende inviare neanche un marine come ha ricordato Kirby, fa pressioni sulla Turchia: attacca tu. È una corsa allo scaribarile, figlia delle divisioni interne allo stesso fronte anti-Isis, che ad oggi facilita solo lo Stato Islamico. Alle richieste statunitensi la Turchia, sempre più timorosa di rafforzare indirettamente la resistenza curda (Pkk in primis), risponde con un «no, grazie»: «È irrealistico aspettarsi che la Turchia guiderà un’operazione di guerra da sola», ha detto ieri il ministro degli Esteri Cavusoglu durante la visita ad Ankara del segretario generale Nato, Jens Stoltenberg. La dichiarazione giunge mentre proseguono le proteste nel paese da parte della comunità curda, a sud, nella capitale Ankara e a Istanbul: nella notte tra mercoledì e ieri, nonostante il coprifuoco imposto nelle città curde a sud est, gli scontri tra polizia e manifestanti hanno provocato altre vittime, facendo salire il bilancio totale a 25. Cento poliziotti ieri sono entrati nel campus dell’università di Ankara e hanno disperso gli studenti che protestavano: lacrimogeni, idranti e 25 arrestati, tra cui 5 professori. Si torna allora a puntare sulle opposizioni moderate al presidente Assad: il Pentagono lamenta l’assenza di «un partner capace e volenteroso in Siria» e ventila l’ipotesi di usare come truppe di terra miliziani del posto, forse quei 5mila che la Casa Bianca addestrerà ed armerà secondo il piano approvato dal Congresso il mese scorso. Ma ci vorranno ancora dai tre ai cinque mesi soltanto per procedure e protocolli e i dubbi restano: finora molte delle armi inviate ai gruppi moderati anti-Assad sono transitate per diverse vie all’Isis. Dall’altra parte del confine le truppe di terra dovrebbero essere quelle irachene, ma la poca preparazione e l’avversione delle comunità sunnite per una forza esclusivamente sciita si traducono in scarsa efficacia sul terreno. I settarismi interni sono il maggiore ostacolo che il governo al-Abadi è costretto ad affrontare: ieri l’ennesimo attentato ha ucciso 12 persone e ne ha ferite 33. Una bomba è esplosa vicino ad un café a Sadr City, distretto sciita di Baghdad e roccaforte del leader religioso Moqdata al-Sadr. Dalla Siria giungono invece notizie sul frate francescano Hanna Jallouf e i venti fedeli fatti prigionieri domenica scorsa dal Fronte al-Nusra, gruppo qaedista anti-Assad e neo-alleato dell’Isis. Sono stati tutti rilasciati per essere posti agli arresti domiciliari nel convento nel villaggio di Qunyeh, a nord ovest. I domiciliari sarebbero stati comminati da una corte islamica locale, perché – riporta la Custodia di Terra Santa – padre Jallouf è accusato di cooperazione con Damasco. Nena News Pubblicato su Il Manifesto (fonte: Nena - agenzia stampa vicino oriente) link: http://nena-news.it/iraq-siria-kobane-allo-stremo-scaricata/ Libia LIBIA: i risvolti internazionali della guerra civile (di Francesca La Bella) Il Paese, diviso a metà con due governi incapaci di imporsi come governi nazionali, acquista sempre più rilevanza per la regione nord-africana e medio-orientale coinvolgendo in varia misura Europa e i paesi limitrofi, in particolar modo Egitto e Algeria. 16 morti e 15 feriti negli scontri tra milizie islamiche e le forze del generale Khalifa Haftar a Bengasi. Una cronaca asciutta e significativa dell’ennesima giornata di scontri in terra libica. Il bollettino di una guerra civile che, con il passare dei mesi, acquista sempre più rilevanza per tutta la regione nord-africana e medio-orientale. Da molto tempo ormai gli interessi in campo hanno travalicato i confini del Paese nord-africano coinvolgendo in varia misura l’Europa e i Paesi limitrofi, in particolar modo Egitto e Algeria e, ad oggi, la risoluzione della questione libica sembra centrale per la stabilità delle due sponde del Mediterraneo. La crisi interna sembra, però, ben lontana dall’epilogo. Il Paese risulta sostanzialmente diviso a metà con due Governi, uno guidato da al-Thani che opera tra Tobruk e Bayda ed uno guidato da al-Hasi diviso tra Misurata e Tripoli, entrambi apparentemente incapaci di imporsi come Governi nazionali e di controllare in maniera efficace il territorio sotto la loro ufficiale competenza. A questi, però, è necessario aggiungere le fazioni interne ai due schieramenti e la galassia di gruppi di varia entità numerica che operano nel Paese. La frammentazione della società libica e la difficoltà di ricomposizione diventano così ancor più evidenti. Alla luce di questo non stupisce che il tentativo di mediazione operato dall’inviato speciale dell’Onu, Bernardino Leon, a Ghadames, oasi vicino al confine algerino, non abbia raggiunto dei risultati significativi. L’incontro che ha visto la partecipazione di dodici deputati del Parlamento ufficiale e di altri dodici provenienti da Misurata, affiancati nei lavori da Leon e da rappresentanti di Malta e Gran Bretagna, si è, infatti, concluso in un nulla di fatto più a causa degli assenti che dei presenti. La non partecipazione di Fajr Libya (Alba della Libia), coalizione islamista che sostiene al-Hasi e che raggruppa varie milizie tra cui la Libya Shield Force, ha, infatti, fortemente indebolito l’iniziativa diplomatica di Ghadames lasciando la situazione sostanzialmente inalterata. Parallelamente, risulta rilevante l’assenza di Ansar al Sharia, movimento islamico che ambisce alla creazione di uno stato islamico basato sulla Sharia, principale attore della lotta contro l’ex ufficiale dell’esercito libico Khalifa Haftar e in un primo tempo sostenitrice di al-Hasi che, in seguito, si è distanziata a causa delle posizioni “troppo filo-occidentali” imputate al Governo di Misurata. In questo contesto di alleanze a geometrie variabili, di attentati, di rapimenti [è notizia di questi giorni la liberazione di un ostaggio inglese, 15 David Bolan, dopo quattro mesi di prigionia, ndr] e di scontri sempre più violenti si innesta la nuova iniziativa internazionale guidata dai vicini regionali. A seguito della conferenza di Madrid dello scorso settembre durante la quale ventuno Paesi dell’area mediterranea si sono incontrati per confrontarsi sulla questione libica, oltre all’iniziativa di Ghadames, si è resa palese la volontà di Egitto ed Algeria di avere un ruolo attivo nella questione. Se l’azione egiziana sembra, però, isolata in quanto maggiormente intesa alla difesa dei propri confini ed al tentativo di contenimento di forze che potrebbero dare sostegno alla Fratellanza Musulmana all’interno del Paese, l’azione algerina potrebbe essere accolta con maggiore favore dai diversi attori. Mentre l’Egitto viene accusato di aver bombardato la Libia a fine agosto [non è stato confermato da fonti ufficiali, ndr] ed è notizia di pochi giorni fa l’offerta di addestramento alle milizie ufficiali libiche per “aiutare il governo del Paese vicino” ad “arginare una situazione di crescente anarchia”, l’Algeria si propone, con il supporto della Tunisia, di portare le diverse parti in campo ad un tavolo negoziale per evitare l’intervento militare esterno. In questo senso la proposta algerina che punta più su un processo ricompositivo interno alla società libica sostenuto da agenti esterni che su un intervento internazionale diretto, ha già raccolto diversi favori, tra i quali spicca l’endorcement iraniano. Per bocca della portavoce del Ministro degli Esteri, Marziyeh Afkham, Teheran ha, infatti, dato il suo appoggio all’iniziativa algerina, sottolineando come solo attraverso il dialogo tra i diversi gruppi politici libici si possa giungere ad una soluzione duratura. L’attenzione per la questione libica ha, anche per l’Algeria, molto più di un significato esclusivamente umanitario. Una maggiore stabilità in Libia significherebbe limitare la capacità di trovare rifugio in quel territorio dei ribelli del Mali. Se da un lato questo garantirebbe una minore permeabilità dei confini algerini limitando anche l’azione dei movimenti islamisti interni, dall’altro questo consentirebbe la tutela delle imprese internazionali, perlopiù francesi, che molto hanno investito sulla sicurezza del territorio algerino. In un momento in cui le forze islamiste sono al centro del dibattito internazionale a causa dell’azione dello Stato Islamico in Siria e Iraq, la soluzione della questione libica viene considerata prioritaria, soprattutto per i Paesi nord-africani. A causa delle interconnessioni tra questi movimenti, la questione medio-orientale e quella libica risultano strettamente collegate e, in questo senso, la rinnovata intraprendenza dei Paesi dell’area dovrà essere letta più in questa direzione che come una reazione al deteriorarsi della situazione interna alla Libia. Nena News (fonte: Nena - agenzia stampa vicino oriente) link: http://nena-news.it/libia-risvolti-internazionali-della-guerra-civile/ Palestina e Israele Israele scarica Abu Mazen: "E' peggio di Arafat". Altre 2610 case per coloni (di Michele Giorgio) Il presidente palestinese, un tempo portato in palmo di mano dai governi israeliani, ora è visto come un nemico, un personaggio ostile da boicottare e isolare. Ieri mentre Obama e Netanyahu si incontravano alla Casa Bianca, Israele ha annunciato un progetto per la costruzione di altre case per i coloni. Barack Obama e Benyamin Netanyahu si sono incontrati ieri alla Casa Bianca per la prima volta in sette mesi. Un’occasione importante che Israele ha celebrato annunciando nelle stesse ore un progetto per la costruzione di 2610 case, in gran parte nella colonia di Givat Hamatos. Progetto che hanno condannato anche gli Stati Uniti. Dopo l’abituale riaffermazione della stretta alleanza che unisce Stati uniti e Israele, il presidente americano ha sottolineato che è importante «cambiare lo status quo a Gaza» e trovare la strada per «promuovere la pace con i palestinesi». Netanyahu ha replicato di essere impegnato a favore della soluzione dei due Stati (Israele e Palestina) ma, a proposito di eventuali trattative, ha detto che «esistono interessi comuni tra Israele e (alcuni) paesi arabi…abbiamo bisogno di questo per promuovere la pace». Neanche una parola per il suo «partner» di negoziato, il presidente dell’Anp e dell’Olp Abu Mazen (nella foto reuters), proprio come era avvenuto a inizio settimana quando il premier israeliano ha pronunciato il suo discorso annuale davanti all’Assemblea generale delle Nazioni Unite senza peraltro avanzare alcuna idea o proposta di rilancio delle trattative. Netanyahu e il suo governo stanno scaricando Abu Mazen e hanno avviato una campagna di demolizione dell’uomo che pure per anni è stato considerato da Tel Aviv l’unico leader palestinese in grado di raggiungere un accordo di pace, accettando tutte le condizioni di Israele, contro la stesse aspirazioni del suo popolo. Yuval Steinitz non è un ministro qualsiasi del governo israeliano. È responsabile per gli affari strategici ed è considerato molto vicino al premier Netanyahu. Lunedì scorso, durante una conferenza sulla recente offensiva militare «Margine Protettivo» contro Gaza tenuta al Centro Begin-Sadat per gli studi strategici, Steinitz ha rivolto ad Abu Mazen un attacco durissimo, senza precedenti. «Abu Mazen è un nemico peggiore di Yasser Arafat», ha affermato facendo un paragone tra il presidente palestinese e il suo (illustre) precedessore morto dieci anni fa per una misteriosa malattia dopo essere rimasto confinato per anni nel suo ufficio di Ramallah (la Muqata) per ordine di Israele. Secondo Steinitz, Abu Mazen addirittura «nega l’esistenza dello Stato ebraico e il diritto del popolo ebraico ad avere un proprio Stato. Per Abu Mazen non ci sono ebrei. Egli è disposto a riconoscere solo la religione ebraica», ha detto il ministro in riferimento al rifiuto, sino ad oggi, del presidente palestinese di riconoscere Israele come «Stato del popolo ebraico» (i palestinesi temono che tale riconoscimento di uno Stato rivendicato su base etnicoreligiosa, finisca per danneggiare la minoranza araba in Israele e per affossare il diritto al ritorno per i profughi). Arafat era stato accusato da Israele di aver ordinato o approvato «operazioni terroristiche». Per Steinitz Abu Mazen avrebbe fatto di peggio perché, pur condannato il terrorismo, ha rivelato una inspiegabile incapacità a smantellare le organizzazioni terroristiche. «Negli ultimi nove anni, con Abu Mazen presidente – ha notato il ministro israeliano – i palestinesi di Gaza hanno lanciato 16.000 razzi contro Israele. Attacchi terroristici sono stati eseguiti contro gli israeliani, oltre al rapimento e l’uccisione di tre ragazzi ebrei in Cisgiordania a giugno». Steinitz ha concluso con due importanti affermazioni: gli attentati in Israele sono diminuiti solo grazie all’azione dell’esercito (di occupazione, ndr) e gli accordi di Oslo siglati 21 anni fa sono stati un «colossale fallimento» per gli interessi israeliani. Parole importanti arrivate in anticipo sull’avvertimento lanciato ieri da Abu Mazen durante un incontro con un gruppo di giornalisti: se gli Stati Uniti useranno il veto per bloccare l’iniziativa palestinese al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite per il ritiro entro tre anni di soldati e coloni israeliani dai Territori occupati, i palestinesi reagiranno interrompendo la (tanto contestata) cooperazione di sicurezza con Israele. Tra i palestinesi si tende ad escludere un tale passo da parte di Abu Mazen. Allo stesso tempo le parole del presidente dell’Anp potrebbero spingere il governo israeliano ad ordinare un maggiore presidio delle forze militari in Cisgiordania, se non anche la rioccupazione di gran parte delle «zone A» dove l’Anp esercita, almeno sulla carta, la piena autorità, come probabilmente desiderano diversi ministri israeliani. Steinitz, ad esempio, ha ammesso di aver premuto sul governo per prendere il controllo della Striscia di Gaza ma la sua proposta non è stata accettata dalla maggioranza del gabinetto. Nena News (fonte: Nena - agenzia stampa vicino oriente) link: http://nena-news.it/israele-scarica-abu-mazen-e-peggio-di-arafat-altre-2610- 16 case-per-coloni/ Dopo ‘Margine protettivo’: quale futuro per Palestina e Israele? (di Richard Falk) L’operazione militare israeliana di 50 giorni che ha ucciso 2.100 palestinesi, ne ha feriti 11.000 e ha indubbiamente traumatizzato l’intera popolazione di Gaza di 1.700.000 persone, ha ucciso anche 70 israeliani, 65 dei quali erano soldati. Questo recente violento scontro è finito senza una chiara vittoria per l’una o l’altra parte. Malgrado questo, Israele e Hamas stanno entrambi insistendo che è stata ottenuta la ‘vittoria’. Israele fa notare i risultati materiali, cioè i tunnel e i depositi di missili che sono stati distrutti, le uccisioni di obiettivi presi di mira, e il complessivo indebolimento della capacità di Hamas di lanciare un attacco. Hamas, da parte sua, rivendica risultati politici, essendo diventata molto più forte politicamente e psicologicamente sia a Gaza sia in Cisgiordania, rispetto all’inizio dei combattimenti, avendo rifiutato di cedere riguardo alla fondamentale richiesta di ‘demilitarizzazione’ di Gaza e avendo anche appannato ulteriormente la reputazione internazionale di Israele. La Commissione dell’ONU per i Diritti Umani ha fatto quello che per loro è un passo eccezionale: nominare una commissione di inchiesta per indagare sulle accuse di crimini di guerra. Il fatto che William Schabas, un famoso esperto di legge penale internazionale, specialmente riguardo al crimine di genocidio, sia stato scelto per presiedere l’inchiesta è di grande significato simbolico e potenzialmente di grande rilevanza per l’attuale lotta per la legittimità che viene combattuta con successo dal popolo palestinese. Qualcuno l’ha definita ‘Goldstone 2.0’ in riferimento alla precedente iniziativa di indagine di alta visibilità della Campagna per i Diritti Umani (HRC) suggerita dall’operazione militare israeliana contro Gaza del 2008-2009 che aveva scioccato il mondo per la sua ferocia e per il disprezzo delle leggi internazionali di guerra. Al contrario di Richard Goldstone che era un dilettante riguardo alla legge internazionale ed era allineato ideologicamente con il sionismo, Schabas è un massimo esperto accademico, senza alcuna inibizione ideologica nota, e con la forza di carattere di rispettare i previsti risultati e le raccomandazioni del rapporto che produrrà l’inchiesta. Come in precedenza, gli Stati Uniti useranno la loro forza geopolitica per proteggere Israele da censura, critiche, e, soprattutto, dalla sua responsabilità. Questa deplorevole limitazione riguardo all’applicazione della legge internazionale, non significa che lo sforzo di Schabas manchi di significato. Il risultato politico di precedenti lotte anti-coloniali è stato controllato dalla parte che vince la guerra di legittimità per il controllo dei ‘piani alti’ della legge e della moralità internazionale. Questo terreno simbolico è così importante dato che rafforza la resistenza di coloro che cercano la liberazione per portare i pesi della lotta e rinforza il movimento di solidarietà globale che fornisce un appoggio fondamentale. In questo senso, il Rapporto Goldstone ha esercitato un’importante influenza nel delegittimare la periodica vasta distruzione a Gaza, specialmente gli usi enormemente sproporzionati della forza contro una popolazione civile totalmente vulnerabile e essenzialmente indifesa e intrappolata. Il risultato più impressionante di questo recentissimo attacco violento da parte di Israele che sembra meno un esempio di ‘guerra’ che di ‘massacro orchestrato’, è stranamente ironico visto da una prospettiva israeliana. La ricerca spietata di Israele di una vittoria militare ha avuto l’effetto di rendere Hamas più popolare e legittimo di quanto fosse mai stato, non soltanto a Gaza, ma ancora di più in Cisgiordania. L’operazione militare di Israele ha minato gravemente le rivendicazioni già contestate dell’Autorità Palestinese di essere l’autentico rappresentante delle aspirazioni del popolo palestinese. La spiegazione migliore di questo esito è che i palestinesi nel loro insieme preferiscono l’opposizione di Hamas, per quanta sofferenza produca, rispetto al passivo adattamento dell’AP alla volontà dell’occupante e dell’oppressore. Da parte sua Israele ha segnalato un rifiuto meno mascherato di avviarsi verso una pace negoziata nelle attuali circostanze. Il Primo ministro Netanyahu ha detto ancora una volta ai palestinesi che devono scegliere tra la ‘pace e Hamas,’ senza dire che il suo uso della parola ‘pace’ l’ha resa indistinguibile dalla parola ‘resa’. Netanyahu ha ripetuto la sua spesso proclamata posizione: Israele non negozierà mai con un’organizzazione terrorista che si è impegnata nella sua distruzione. Piantando un altro chiodo in quella che sembra la bara della soluzione dei due stati, Israele ha annunciato la più grossa confisca di terra per l’espansione degli insediamenti in più di 20 anni, prendendo quasi 1000 acri di terreno pubblico vicino a Betlemme che va aggiunto al piccolo insediamento di Gvaot vicino al blocco di Etzion a sud di Gerusalemme. Alcuni si chiedono: “Perché adesso?”, invece che fare la domanda più intuitiva: “Perché non adesso?” Partendo da queste prospettive, il vero impatto della carneficina di Gaza può essere meno la devastazione fisica e la catastrofe umanitaria, i danni imminenti di malattie epidemiche, e di 12 miliardi di danni che verranno superati fra 20 anni, rispetto agli effetti politici. E’ come la sospensione della diplomazia inter-governativa come mezzo di risoluzione del conflitto. Anche l’AP che cerca la sua riabilitazione politica, parla ora di chiedere all’ONU che stabilisca una tabella triennale per il ritiro di Israele dalla Cisgiordania. Sta anche minacciando di ricorrere alla Corte penale internazionale perché autorizzi un’indagine sulle accuse che di per sé l’occupazione della Cisgiordania implichi l’aver compiuto crimini contro l’umanità. In base a queste prospettive, la situazione sembra disperata. Le prospettive palestinesi di avere un proprio loro stato, che è stato per anni la speranza dei moderati di entrambe le parti, ora sembra irrilevante. Soltanto il modello dei due stati, in qualunque modo venga varato, potrebbe conciliare di nuovo le pretese contrastanti del Sionismo israeliano e del nazionalismo palestinese. Naturalmente, i critici palestinesi si chiedevano sempre di più se il Sionismo fosse conforme ai diritti umani della minoranza palestinese e delle sue grandi comunità di profughi e di esiliati, e tendeva a considerare il risultato dei due stati come un trionfo del progetto sionista e una sconfitta ‘ricoperta di zucchero’ per le aspirazioni nazionali palestinesi. Ora ‘i giochi sono finiti’ per la soluzione dei due stati, e la vera lotta si sta svolgendo più chiaramente tra versioni in competizione di una soluzione con un solo stato. Che cosa possiamo aspettarci? Perfino un cessate il fuoco sostenibile che permetta agli abitanti di Gaza di riprendersi in qualche modo dalla spaventosa traversia di un crudele regime di punizione collettiva sembra improbabile che duri molto a lungo nell’attuale atmosfera. C’è ogni motivo di supporlo data la frustrazione di Israele per il fallimento del suo attacco per schiacciare Hamas e per il rifiuto di Hamas di accettare senza atti di opposizione le dure realtà del suo continuo soggiogamento. E tuttavia ci sono barlumi di luce nei cieli oscurati. L’ostinatezza dell’opposizione palestinese unita alla robustezza di un movimento crescente di solidarietà globale è probabile che eserciti una pressione che si sta intensificando sul pubblico israeliano e su alcuni dei suoi capi perché rivedano le loro scelte per il futuro, e da un punto di vista israeliano prima avverrà e meglio sarà. La campagna BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni) sta guadagnando spinta politica e morale ogni giorno. Il tipo di movimento internazionale nonviolento che inaspettatamente ha contribuito a provocare il crollo improvviso del regime di apartheid in Sudafrica, sembra come se potesse a un certo punto spingere gli israeliani a riconsiderare se un accordo non sia nell’interesse di Israele, anche se richiede il ripensare a quella che è l’essenza della realtà di ‘una patria ebraica’, e anche se non raggiunge una riconciliazione completa. Come indica l’esperienza in Sudafrica e anche in Irlanda del Nord, la parte che prevale in campo militare, non riconosce la pressione politica che aumenta, fino a quando non sarà pronta a un patto con il suo nemico, cosa che sarebbe sembrata inconcepibile soltanto poco prima che venisse fatto. Attualmente l’esito della lotta israelo-palestinese è oscuro. Dalla prospettiva territoriale sembra che Israele sia sul punto di vincere, ma da una prospettiva di lotta per la legittimità i palestinesi stanno avendo la meglio. Il flusso della storia fin dalla fine della II Guerra mondiale fa pensare a un futuro di speranza per i palestinesi, e tuttavia la forza geopolitica di Israele può essere in grado di resistere alla pressione di riconoscere il fondamentale diritto palestinese di autodeterminazione. Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo www.znetitaly.org 17 Fonte: http://zcomm.org/znet/article/after-protective-edge-what-future-forpalestine-and-israel Originale: Richardfalk.com Traduzione di Maria Chiara Starace 22 settembre 2014 http://znetitaly.altervista.org/art/15906 (fonte: Centro Studi Sereno Regis) link: http://serenoregis.org/2014/09/27/dopo-margine-protettivo-quale-futuro-perpalestina-e-israele-richard-falk/ Siria Quali giustificazioni per l'attacco contro l'Isis in Siria? Un'analisi di diritto internazionale (di Vito Todeschini) La rilevanza dell’escalation militare richiede un’analisi di come essa possa inquadrarsi alla luce del diritto internazionale: le norme internazionali che regolano l’uso della forza, le giustificazioni alla base delle azioni militari in Siria contro lo SI e le problematiche giuridiche che queste ultime sollevano. Il 23 settembre 2014 gli Stati Uniti hanno iniziato la campagna di bombardamenti contro le postazioni dello Stato Islamico (SI) in Siria con il supporto di alcuni Stati arabi. La rilevanza di questa nuova escalation militare richiede un’analisi di come essa possa inquadrarsi alla luce del diritto internazionale. In questo articolo mi propongo di chiarire tre questioni: le norme internazionali che regolano l’uso della forza, le giustificazioni alla base delle azioni militari in Siria contro lo SI e le problematiche giuridiche che queste ultime sollevano. Va da sé che l’analisi proposta non intende sostenere o giustificare tali azioni, ma solamente offrire a scopo divulgativo una lettura della questione alla luce del diritto internazionale. Come è regolato l’uso della forza a livello internazionale? L’articolo 2, paragrafo 4, della Carta delle Nazioni Unite (Carta ONU) pone un divieto generale agli Stati di utilizzare la forza armata in modo unilaterale. A questo divieto fanno da contrappunto tre eccezioni: la legittima difesa contro un attacco armato (articolo 51 Carta ONU); l’autorizzazione da parte del Consiglio di Sicurezza (articoli 39-42 Carta ONU) - ad es. il caso della Libia; il consenso prestato da uno Stato alla conduzione di azioni militari straniere sul proprio territorio - ad es. i recenti bombardamenti compiuti dagli Stati Uniti in Iraq contro lo SI. Al di fuori di tali eccezioni - ed esclusi i casi di uso minimo della forza per salvare propri connazionali all’estero - l’uso unilaterale della forza armata da parte di uno Stato viola il divieto posto dalla Carta ONU, e nei casi più gravi può qualificarsi come un atto di aggressione. Quali giustificazioni possono avanzarsi per colpire lo SI in Siria? Consideriamo le citate eccezioni al divieto dell’uso della forza. Una di queste può subito escludersi: l’autorizzazione da parte del Consiglio di sicurezza dell’ONU. Come è ben noto Russia e Cina hanno minacciato più volte di utilizzare il proprio potere di veto per bloccare l’adozione di risoluzioni che autorizzino azioni militari in Siria. Ripensamenti, seppur possibili, rimangano per ora improbabili. Vanno quindi considerate le altre due opzioni. Primo: il consenso. Per attaccare lo SI in territorio siriano gli Stati Uniti devono ottenere il consenso del governo di Bashar al-Assad. Tale necessità deriva sia dal divieto dell’uso della forza di cui sopra, sia dal principio di sovranità degli Stati e di non-interferenza nella sovranità altrui. Assad ha recentemente affermato che non intende acconsentire ad azioni militari straniere sul proprio territorio che non siano concordate con il governo siriano. Gli Stati Uniti, dal proprio canto, rifiutano di coordinare le proprie azioni militari con quello che è considerato un nemico politico. Assad potrebbe però prestare il proprio consenso in segreto mantenendo un’opposizione di facciata - un’ipotesi non troppo lontana dalla realtà. Gli Stati Uniti hanno infatti reso noto che l’ambasciatore siriano presso l’ONU è stato avvertito dei bombardamenti contro lo SI prima che questi avvenissero. L’assenza di aperte proteste o di reazioni militari da parte siriana farebbe pensare che il consenso, in qualche modo, sia stato negoziato e ottenuto. Per quanto realistiche, tuttavia, queste rimangono solamente delle ipotesi. Un esplicito consenso da parte di Assad ad azioni militari americane non è ancora stato apertamente concesso. Legittima difesa contro lo SI? In mancanza del consenso da parte dello Stato siriano l’unica opzione sul tavolo è invocare le legittima difesa. Ai sensi dell’articolo 51 della Carta ONU la legittima difesa può essere sia individuale - uno Stato può usare la forza armata direttamente contro lo Stato aggressore - che collettiva - lo Stato vittima può chiedere a uno o più Stati di intervenire in proprio soccorso. Il diritto internazionale prescrive determinati requisiti affinché la forza armata possa utilizzarsi in legittima difesa: 1) uno stato deve essere vittima di un attacco armato - il quale consiste in un uso della forza di una certa gravità e intensità, nonché su determinata scala; 2) l’attacco armato deve essere imminente; 3) l’uso della forza in risposta all’attacco armato deve essere necessario - lo Stato vittima deve trovarsi nella condizione per cui l’uso della forza armata è l’unica alternativa possibile - e proporzionato - l’uso della forza è ammesso nella misura in cui è teso a neutralizzare l’attacco in atto e ad evitare che ne vengano condotti di ulteriori. Come e da chi potrebbe essere invocata la legittima difesa nell’attuale situazione siriana? Per invocare la legittima difesa individuale gli Stati Uniti dovrebbero essere essi stessi vittima di un attacco armato da parte dello SI. Ciò finora non è accaduto, ragion per cui questa non può costituire un’alternativa valida per utilizzare la forza. Non rimane che la legittima difesa collettiva, la quale è esattamente la giustificazione di diritto internazionale che la rappresentante degli Stati Uniti presso il Consiglio di sicurezza, Samantha Power, ha offerto in una lettera ufficiale al Segretario dell’ONU Ban Ki-moon. In tale lettera gli Stati Uniti affermano che l’Iraq ha esplicitamente richiesto il loro intervento per porre fine agli attacchi armati dello SI; e che l’azione militare americana si rende necessaria a causa dell’incapacità del governo di Assad di fronteggiare in maniera efficace il gruppo islamista. Questa possibilità potrebbe essere in linea con il diritto internazionale. Tuttavia, essendo l’aggressore un gruppo armato situato nel territorio di uno Stato sovrano, un ulteriore elemento è indispensabile: la dimostrazione che lo Stato da cui ha origine l’attacco armato sia non intenzionato (unwilling) o incapace (unable) di porre fine a tali attacchi. Nel nostro caso: che il governo di Assad si mostri non intenzionato o incapace di fermare lo SI. A parte la difficoltà nei fatti di dare una chiara dimostrazione di ciò, va detto che tale unwilling/unable test - come viene definito dagli studiosi di diritto internazionale - trova solo parziale consenso tra gli Stati e tra i giuristi. I rischi in seno a tale teoria sono evidenti: uno Stato potrebbe in qualsiasi momento affermare la necessità di usare la forza contro un gruppo armato presente nel territorio di un altro Stato, sulla base di una supposta non volontà o incapacità del governo di quest’ultimo di neutralizzare il gruppo in questione. In assenza di un’oggettiva valutazione delle circostanze tale teoria potrebbe ben offrire il destro ad abusi del diritto alla legittima difesa da parte di alcuni Stati. Non è un caso che i partner occidentali degli Stati Uniti nella lotta contro lo SI - Francia, Regno Unito, Paesi Bassi, Australia e Danimarca intendano almeno per il momento limitare il proprio appoggio militare al territorio iracheno, avendo esplicitamente affermato che non esistono basi giuridiche certe per condurre attacchi in Siria. Ragionamenti di natura politica a parte, se la suddetta teoria trovasse maggior consenso vi sarebbe meno riluttanza a giustificare azioni militari in territorio siriano. In mancanza di valide alternative, tutavia, gli Stati Uniti hanno deciso di basarsi su tale unwilling/unable test, forse anche nella speranza che invocare questa teoria nell’attuale situazione siriana possa far sì che essa 18 venga accettata da altri Stati e che nel tempo si consolidi in una norma giuridica internazionale. Conclusioni Il diritto internazionale prescrive un divieto generale dell’uso della forza, fatta eccezione in casi di autorizzazione del Consiglio di sicurezza dell’ONU, di consenso da parte dello Stato sul cui territorio dovrebbe aver luogo l’intervento militare, e della legittima difesa individuale o collettiva. Allo stato attuale i bombardamenti statunitensi delle roccaforti dello SI in Siria possono trovare due giustificazioni. Una ufficiosa: il consenso prestato dal governo di Assad, che però potrebbe essere ritirato in qualsiasi momento e che sicuramente pone forti limiti all’azione americana. L’altra ufficiale: la legittima difesa collettiva in aiuto del governo iracheno. Trattandosi di attacchi armati provenienti da un gruppo armato situato in territorio straniero, tuttavia, quest’ultima opzione poggia necessariamente su una teoria - detta unwilling/unable test - non del tutto consolidata e accettata in diritto internazionale, la quale non offre una base giuridica particolarmente solida. Una nota finale: varie fonti riportano la notizia che in Siria gli Stati Uniti non si sono limitati ad attaccare lo SI. Uno dei bersagli dei bombardamenti sarebbe il gruppo Khorasan - finora sconosciuto al grande pubblico - apparentemente affiliato ad Al-Qaida. Al riguardo la citata lettera di Power indirizzata al segretario ONU si limita ad affermare che tale gruppo “costituisce una minaccia terroristica per gli Stati Uniti e i loro alleati”. Mentre vengono offerte ampie giustificazioni per gli attacchi contro lo SI, non sembra esservi la stessa esigenza per ciò che riguarda il misconosciuto gruppo Khorasan. A quanto pare gli Stati Uniti intendono giustificare l’uso della forza in base al legame del gruppo con al Qaeda, con cui gli Stati Uniti affermano di essere in guerra e per cui già esiste un’autorizzazione del Congresso americano ad usare la forza. In sostanza, considerandosi parte di un conflitto armato con al Qaeda sin dal 2001, gli Stati Uniti non reputano necessarie nuove giustificazioni per utilizzare la forza armata contro gruppi ad essa affiliati o associati. Tale ragionamento è però basato più sul diritto costituzionale americano che sul diritto internazionale, e le azioni contro il gruppo Khorasan potrebbero risultare illegali alla luce del diritto internazionale - così come le azioni militari contro lo SI poggiano per ora su basi giuridiche non particolarmente solide. Il rispetto della legalità internazionale non è un fattore secondario ai fini della creazione di un ambiente politico adatto a sconfiggere lo SI. Gli strateghi e i politici statunitensi dovrebbero tenerlo bene a mente. * Vito Todeschini è dottorando in diritto internazionale presso l’Università di Aarhus, Danimarca. Nelle sue ricerche si occupa di diritto dei conflitti armati, diritti umani, diritto internazionale penale e uso della forza internazionale. Può essere contattato all’indirizzo: [email protected] Riferimenti Jennifer Daskal, Ashley Deeks and Ryan Goodman, Strikes in Syria: The International Law Framework, Just Security, 24 September 2014 (http://justsecurity.org/15479/strikes-syria-international-lawframework-daskal-deeks-goodman/); Letter by theUS Representative to the UN, Samantha Power, to Secretary-General Ban Ki-moon concerning the international law justification for the US use of force in Syria (http://justsecurity.org/15436/war-powers-resolution-article-51letters-force-syria-isil-khorasan-group/); Milena Sterio, The Legality of ISIS Air Strikes Under International Law, IntLawGrrls, 12 September 2014 (http://ilg2.org/2014/09/12/the-legality-of-isis-air-strikes-underinternational-law/); Ashley Deeks, Narrowing Down the U.S. International Legal Theory for ISIS Strikes in Syria,Lawfare, 12 September 2014 (http://www.lawfareblog.com/2014/09/narrowing-down-the-u-s- international-legal-theory-for-isis-strikes-in-syria/); Lorenzo Gradoni, Gli obblighi erga omnes, l’idioma dell’egemone e la ricerca del diritto. Ancora sull’intervento contro l’ISIS e oltre, SIDIBlog, 24 settembre 2014 (http://www.sidi-isil.org/sidiblog/? p=1085#more-1085); Paolo Picone, Considerazioni sull’intervento militare statunitense contro l’Isis, SIDIBlog, 5 settembre 2014 (http://www.sidiisil.org/sidiblog/?p=1070). (fonte: Nena - agenzia stampa vicino oriente) link: http://nena-news.it/quali-giustificazioni-per-lattacco-contro-lisis-siriaunanalisi-di-diritto-internazionale/ Appelli Appello: maggiore protezione per le persone senza una nazionalità (di European Network on Statelessness) Sono oltre 10 milioni gli apolidi nel mondo. Di questi, la metà sono bambini che nascono senza cittadinanza. La mancanza di registrazione delle nascite, in combinazione con altri fattori, quali lo spostamento, la migrazione, la discriminazione nei confronti delle minoranze, possono portare un bambino a nascere senza cittadinanza e a essere considerato come un cittadino senza Stato. Non avere nazionalità significa vivere in un limbo legale: vuol dire non avere accesso o avere un accesso limitato a servizi necessari per garantire i propri diritti, dalla scuola, al lavoro, all’assistenza sanitaria all’acquisto di una casa o alla semplice apertura di un conto corrente bancario. In Europa si contano 600.000 apolidi: sono diverse le storie di chi vive qui da anni - spesso ci è nato - ma viene rinchiuso nei CIE e vi rimane perché non è cittadino di nessun altro Stato. C’e’ molto ancora da fare per far uscire dall’invisibilità e riportare i diritti degli apolidi alla luce. Se ne parlerà a Roma il prossimo 10 ottobre, in un incontro promosso dalla Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato, UNHCR e CIR, in cui interverrà l'avv. Giulia Perin dell'ASGI. Oltre 5 mila persone hanno già firmato una petizione che l' European Network on Statelessness consegnerà il 14 ottobre 2014 ai leader europei per chiedere una maggiore protezione per le persone senza una nazionalità. L’ASGI, da sempre attiva a favore dei diritti degli apolidi, sostiene questa campagna sviluppata dall’European Network on Statelessness (ENS) . Leggi le storie che abbiamo raccolto nell'ultimo rapporto pubblicato dall'ENS. (fonte: Associazione Studi Giuridici sull'Immigrazione) link: http://www.statelessness.eu/ora-e-il-momento-di-agire-per-apolidia Recensioni/Segnalazioni Libri Urlare non serve a nulla: Gestire i conflitti con i figli per farsi ascoltare e guidarli nella crescita, di Daniele Novara (di Centro PsicoPedagogico per l'educazione e la gestione dei conflitti) Dall’autore del bestseller Litigare fa bene, le strategie più efficaci per farsi comprendere dai propri figli in modo da renderli maturi e autonomi. Non è mai stato facile farsi ascoltare dai figli, e lo stress e la mancanza di tempo delle nostre vite acuiscono il problema. Molti genitori si trovano quindi ad alzare sovente la voce, non solo perché troppo aggressivi e impositivi, ma molto spesso per la ragione contraria: il tentativo impossibile di mettersi sullo stesso piano dei figli, tentativo che mostra sempre la propria inefficacia e di 19 conseguenza genera altro stress, frustrazione e, infine, urla. Daniele Novara, uno dei maggiori pedagogisti italiani e massimo esperto di conflitti interpersonali, raccoglie in questo libro riflessioni e indicazioni pratiche per spiegare come imparare a controllare le proprie reazioni emotive e riuscire, con la giusta organizzazione, a farsi ascoltare efficacemente e gestire nel modo migliore i conflitti che quotidianamente si generano con i figli. Partendo dal racconto di storie vere raccolte nel suo lavoro di sostegno ai genitori, dai capricci dei piccoli ai dubbi sull’uso delle punizioni, dalla divisione dei ruoli tra madre e padre alle tipiche discussioni della prima adolescenza, l’autore mostra la strada per un’educazione basata su regole chiare, organizzazione e una buona comunicazione, che mette i genitori in grado di aiutare i figli a crescere, sviluppando tutte le loro risorse. L'uscita in libreria e' prevista per l'8 ottobre 2014 link: http://www.cppp.it/urlare_non_serve_a_nulla.html Associazioni Ciao Aldo (di ANPI Massa) All’età di 92 anni ci ha lasciato il Partigiano Combattente Aldo TORNABONI “Riccione”. Uomo semplice e leale, stimato e rispettato da tutti amici e avversari, durante la Resistenza e la Lotta di Liberazione, all’età di 23 anni, dopo l’Otto Settembre e dopo essere rimasto illeso dall’affondamento della sua nave durante il servizio militare nella Marina, fu tra quei giovani che diedero vita alle prime formazioni di ribelli e bande partigiane ed entrò a far parte dei Patrioti Apuani, Gruppo “Minuto”, V° Compagnia, operante sul Monte Brugiana Nella sua semplicità e modestia, ha incarnato e testimoniato per tutta la vita gli ideali dell’Antifascismo, della Resistenza, della difesa della Libertà, della Democrazia, della Pace e della Costituzione. In questi ultimi due anni Aldo, così anziano, è stato molto presente nella vita dell’Associazione partecipando con entusiasmo alle cerimonie ed anche tutte le nostre iniziative: manifestazioni, incontri, presentazioni di film e libri. In tal senso siamo davvero felici di aver contribuito a rendere più lieve questo ultimo periodo della sua vita. L’ANPI di Massa, nell’esprimere alla Figlie e a tutta la famiglia il cordoglio della Sezione, invita gli antifascisti, i cittadini, i partigiani e i propri iscritti, a partecipare ai funerali, in programma per Martedì 21 Ottobre 2014 alle ore 15,30, con partenza dall'abitazione in via Ricortola n.82 Marina di Massa , per la Chiesa Parrocchiale del Casone. Massa 20 Ottobre 2014 La Sezione ANPI di Massa link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2164