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UGO VIGNUZZI - PATRIZIA BERTINI MALGARINI IL ROMANESCO NEL GIALLO ALL’ITALIANA Come abbiamo già avuto occasione 1 di rilevare, la presenza del dialetto nel giallo in Italia 2 si collega alla volontà/necessità di una rappresentazione quanto più possibile se non vera almeno verosimile di ambienti e situazioni connotati localisticamente; ed è quindi interpretabile, dal punto di vista delle discussioni sui tratti fondativi del genere (discussioni che hanno una lunga tradizione), come una marca di realismo: ovvero, per dirla nei termini del dibattito novecentesco sul rapporto letteratura italiana e dialetto, di una presenza di solito programmaticamente naturalistica: il ricorso alla marcatezza dialettale (o quanto meno a elementi localistici) è rintracciabile non episodicamente già dagli anni ’30, cioè agli inizi del genere in Italia (nonostante si fosse nel pieno della lotta alla ‘‘malerba dialettale’’). In questa prospettiva la città di Roma ha avuto un ruolo di primissimo piano, quando si pensi che il primo romanzo di autore italiano a essere pubblicato nella collana I Libri Gialli della Mondadori, Il Sette Bello 3, dello scrittore savonese Alessandro Varaldo, si dipana nella Roma borghese degli anni del Primo Dopoguerra; in esso l’impiego di forme del romanesco (ma non solo) perfettamente si inserisce nel tratteggio di un ambiente tutto sommato ‘‘bonario’’ come appunto quello del pro1 Il presente saggio riproduce, con alcune integrazioni, quanto già apparso nella miscellanea in onore di Muzio Mazzocchi Alemanni pubblicata dal Centro Studi Giuseppe Gioachino Belli (v. VIGNUZZI e BERTINI MALGARINI 2009): ringraziamo per avercelo liberalmente concesso il curatore F. Onorati e l’editore C. Vaccaro. 2 Si veda al riguardo quanto osservato da BERTINI MALGARINI e VIGNUZZI 2009a, pp. 77-78 (e cfr. anche BERTINI MALGARINI e VIGNUZZI 2008a, e, con aggiornamenti e integrazioni, BERTINI MALGARINI e VIGNUZZI 2008b); al rapporto tra scrittura noir e dialetto è stata dedicata anche la relazione all’VIII Convegno Internazionale dell’ASLI, Storia della lingua italiana e dialettologia (Palermo 29-31 ottobre 2009), in stampa negli Atti. 3 VARALDO 1931. 176 UGO VIGNUZZI - PATRIZIA BERTINI MALGARINI tagonista, il romano commissario Ascanio Bonichi. Il dialetto in esso caratterizza di regola il parlato di personaggi appartenenti agli strati inferiori, come la portinaia sora Lalla, e spesso malviventi o persone implicate in loschi affari, come il delinquentuccio di quartiere Michelino 4 (cioè Nino er Boja) 5: La sora Lalla avea l’indignazione lagrimosa. – Povero sor Giovanni, incapace di far male a una mosca! È una signorina, sor commissario mio, ma una signorina di quelle tranquille, me capischi! Non de queste sfarfallone del giorno d’oggi che te vanno con li giovinotti come noi del mio tempo s’andava a li esercizi spirituali! Me capischi? E chi può essere quel malandrino puzzone 6 che ce l’aveva col sor Giovanni? – Lei ne sa niente, sora Lalla? – Io? E che ho da sapere io, sor commissario mio, che non vado nemmeno al cinematografo! Sempre qua drento so io! (Varaldo 1931, 90). E Nino er boja, nell’interrogatorio (pp. 112-115) introdotto dal commissario Bonichi con la battuta «Michelino mio ... come va che ... hai avuto la sciocca idea di portare un coltellaccio da cucina? Ti sei messo forse a fare il macellaretto?», dichiara «È un cortello di certo amico mio!» che «Fa lo sterratore nelle bonifiche, fa»; successivamente, a una domanda su un altro personaggio, replica: Stava con noi amichi, a un posto ove si beve bene, a Piazza della Pigna, e ci aveva la sua mezza foietta di quello meno caro. Poi s’alzò che ciondolava e l’amichi fanno: quello là, dicheno, va a restà sotto un autobusse: accompagnamolo a casa. E difilato lo cercammo e lo trovai ner vicoletto dietro la Ritonna. E ancora, nel dialogo sul suo alibi: – Dove sei stato? – E che so? Dal tabaccaro, al caffè espresso... [...] 4 PISTELLI 2006, p. 171. Che si caratterizza sin dalla prima battuta, al momento dell’arresto: «Aoh! Che si fa?», VARALDO 1931, p. 102. Per aoh!, interiezione presente sporadicamente in Belli ma registrata da Chiappini (1933), v. D’ACHILLE 1995, p. 38, n. 7. 6 Per puzzone il NDELI, s. puzzo, data il valore di ‘persona spregevole, disonesta’ [...], o più specificamente di ‘‘poco di buono’’, al 1942 (Migl. App., con rinvio anche a MENARINI 1955, pp. 156-157): «Puzzone e puzzonata sono vc. romanesche: [...] puzzone, in G. Zanazzo, F. Chiappini e Trilussa». 5 IL ROMANESCO NEL GIALLO ALL’ITALIANA 177 Il commissario [...] riprese: – C’è forse un caffè o un tabaccaro al Lungotevere dei Mellini? ... – Me pare de sı̀ per il tabaccaro verso Marianna Dionigi, ma in quanto al caffè ce n’è a volerne e di buoni. Non siamo certo di fronte a una scrittura che trascriva un dialetto ‘‘autenticamente’’ popolare, ma piuttosto a una prosa che si accontenta di inserimenti vernacolari quali marche localistiche e d’ambiente: spie lessicali romanissime come macellaretto 7, cortello, tabaccaro 8, o foietta 9, alle quali si accompagnano sul piano morfologico amichi 10 o dicheno 11 e poco altro, e su quello sintattico-testuale una struttura tipica già del ‘‘fusto’’ (bullo) romanesco fin dal Peresio quale il «parlar foderato» 12 (o ‘‘struttura-eco’’), Fa lo sterratore nelle bonifiche, fa – oppure fatismi popolari, quasi tic, come il me capischi della sora Lalla. Analoghe considerazioni valgono per un successivo interrogatorio alla nostra portinaia: – Sora Lalla – e la voce del Bonichi si fece sonora – lei ricorda, vero? che un giorno, uno o due prima del ferimento di Giovanni Révere, un signore venne a cercarlo a casa sua? – Ma che signore me dichi? Nino er boja! Era di domenica, sor commissario, e ritornavo dalla messa a San Giovacchino... (Varaldo 1931, 124). 7 «Hanno uno status particolare i suffissi caratteristici -aro, -arolo [...], i quali, applicandosi per lo più a basi lessicali italiane, risalgono i livelli del continuum con notevole facilità: inoltre alcune formazioni con -aro tendono a diffondersi nella stessa lingua comune» (TRIFONE 2008, p. 110; v. anche D’ACHILLE e GIOVANARDI 2001, pp. 181-183). 8 La forma è attestata in Zanazzo (RAVARO 1994). 9 In un brano descrittivo foglietta, -e (VARALDO 1931, p. 68). 10 Nel romanesco belliano «il plurale dei nomi in -co è costantemente -chi: amichi, medichi» (TRIFONE 1992, p. 67). Si veda ancora, nella risposta di Nino, sempre durante l’interrogatorio, a Bonichi, «Hai pranzato in una pizzeria di via Lucrezio Caro, e molto dopo le nove stavi alla Sala Regia. | – Vero, sor commissario, che una sera ho pranzato con gli amichi a quella pizzeria, dal sor Checco» (VARALDO 1931, p. 115; con | segnaliamo gli a capo dell’originale); per pizzeria cfr. nel NDELI, s. pizza, la citazione dal Dizionario moderno di Panzini del 1918, «il negozio ove si confeziona e mangia la pizza, e altre ghiottonerie napoletane, come la mozzarella, le pagnottelle imbottite con le alici, etc. (Roma)». 11 Tra le varietà dell’odierno repertorio romano, «All’estremità bassa [...] si colloca quel tipo di romanesco che gli stessi abitanti della città chiamano talvolta romanaccio, riferendosi non tanto alla varietà in blocco quanto ad alcune sue componenti più volgari [...]. Elenco sinteticamente una serie di tratti dialettali attribuibili a questo strato ...: desinenze verbali del presente [...] -eno» (TRIFONE 2008, pp. 99-100; la forma dicheno è già del repertorio dei fenomeni fono-morfologici più caratteristici del romanesco belliano, cfr. TRIFONE 1992, p. 67 e 2008, p. 80). 12 V. BRUSCHI 1987, p. 193; cfr. anche TRIFONE 1992, p. 259 s. Struttura «a cornice», con rinvio, a p. 59, alla segnalazione del fenomeno nell’Avvertimento dell’autore a chi legge premesso da G. Berneri al Meo Patacca (1695). 178 UGO VIGNUZZI - PATRIZIA BERTINI MALGARINI Notevole che poche righe dopo, il brigadiere Santini, rivolgendosi a Nino, osservi «Scommetto, Michelino, che per la mattina di domenica 9 marzo ci hai sotto mano un alibi»; il contesto è italiano, ma del tipo che è stato definito ‘‘de Roma’’ 13, e infatti averci / avecce ritorna in una battuta interamente in dialetto 14 di un altro personaggio ‘‘losco’’, lo chauffeur della Principessa (che parla, come nota Varaldo, «nel pittoresco dialetto monticiano»): – E so’ signori! Manco p’er mignolo der piede sinistro! [...] Nun te lo crede! Quando sic! c’hanno fra le gambe ’no scocciatore de campagna, un poveraccio de burino, me lo rifilano a me, come se questa fusse la dipennenza d’un albergo. [...] Aspetta, che voio vedé se c’è la lingua della vecchia. [...] C’è... maledetti li... (Varaldo 1931, 174). Sullo stesso registro (e sullo stesso tono topico) il ‘‘parlato’’ sostanzialmente romanesco di Paoletto, il «vecchio brigante» di Ronciglione: – Chi è? – Sono io, amichi, sono Paoletto. [...] Che ve ne andate? [...] Accidenti a li signori! Quando arriva lo spilungone, il sor conte dai baffi alla francese, che me pare Lamoriciero, il povero Paoletto l’ha da andar fuori che si deve parlar de affari de stato. Accidenti a li signori! Voi siete amichi 15 almeno! (Varaldo 1931, 231); al quale, ubriaco, per dare l’ultimo tocco di colore, Varaldo fa cantare qualche verso di uno ‘‘stornello’’ da briganti, E aridamme li tromboni, | rivoio li giocarelli, | pe’ anda’ co Gasperoni... (Varaldo 1931, 232) 16. 13 Da U. Vignuzzi nel 1994: v. da ultimo TRIFONE 2008, pp. 104 e 106-107. E v. ancora «Per fortuna l’amico di Gasperoni ci aveva il rimedio, l’acquavite dei vicini, che Dio conservi!» (VARALDO 1931, p. 229). Sul «ci attualizzante» in romanesco si veda TRIFONE 1992, p. 245; per il costrutto nella storia linguistica italiana, D’ACHILLE 1990, pp. 261-275 (e già ROHLFS 1966-1969, §§ 899 e anche 541); per il problema della resa grafica, SERIANNI 2006, pp. 6-7 (che rileva: «Solo in un romanzo e in generale nella letteratura creativa (teatro ecc.) il proposito di aderire all’oralità, quanto meno nella riproduzione di battute di dialogo, può richiedere una traduzione grafica. Le possibilità sono tre, nessuna soddisfacente. Giovanni Verga scriveva ci ho [...] Qualcuno si spinge a rappresentare graficamente l’elisione [...]. Altri adottano senz’altro la grafia univerbata [...]»; nella nostra stampa si oscilla, come si è visto, tra ci hai, ci aveva e c’hanno). 15 Anche il brigadiere Santini, mascherato, parlando con Paoletto, usa amichi (ibid.). 16 Per notizie sul brigante sonninese Antonio Gasparoni (o Gasbarroni o Gasperone), entrato nella memoria popolare in partic. nell’Alto Lazio per la sua lunga detenzione a Civita Castellana, v. O. DEL FRATE 2005, p. 156 e cfr. p. 120 (e anche pp. 184, 186, 217, consultato in rete, http://www.scribd.com, il 15.07.2009). 14 IL ROMANESCO NEL GIALLO ALL’ITALIANA 179 Il proposito di una resa ‘‘realistica’’, sempre sub specie linguistica, della Roma del Primo Dopoguerra 17 suggerisce a Varaldo anche inserti di altri dialetti, sia pure circoscritti e sempre tra il bozzettistico e il garbatamente comico; e ciò non a caso con militari, dal sottufficiale di sicura provenienza meridionale («Abbiamo passato il guaio, come dice il sergente dell’aiutante maggiore», Varaldo 1931, 53-4) al generale, naturalmente, piemontese («– Dunque per sabato saran finite le manovre, generale? – Son pa manovre, principessa, sono esercitazioni tattiche di presidio...» Varaldo 1931, 214; «– Bei territori di caccia, generale! [...] – Cuntacc! Meglio che l’esercitazione tattica» Varaldo 1931, 218, e ancora 219 e 236; nella stessa pagina, «Questo è l’ordine di servizio! Cerea 18 maggiore, le dame non possono aspettare!») 19. La valutazione della presenza dialettale in Varaldo non può per altro prescindere dall’esame complessivo del tessuto della lingua del Sette Bello, segnata da un’inverosimile stratificazione ‘‘indigesta’’. Si vedano a titolo di minima esemplificazione 20 i passi seguenti: «La sorpresa del decorativo cameriere fece salire il mercurio fino a rottura del vetro dello stupore, quando sentı̀ alla pacifica porta del suo padrone pronunciar le gelate parole» (Varaldo 1931, 75); «sensazione [...] che fu spezzata all’improvviso da un prèmito leggero delle dita femminili sul dorso della mia mano» (Varaldo 1931, 192); «Mi ricacciai in casa e la zia Livia mi trovò in cucina, chiusa la finestra del poggiolo, intenta a una cogoma sul fuoco» (Varaldo 1931, 264). 17 Non si potranno non tener presenti in questa prospettiva, pur nella loro sobrietà, le battute che si scambiano Ascanio Bonichi e il pittore Giacomo Serra nell’Epilogo, quasi a esplicitare la ‘‘poetica’’ del romanzo: «Legga, e poi completi la narrazione. Manca soltanto lei. [...] C’è da raccogliere le fila e da narrare quel che accadde al ritorno in Roma. Se non erro, lei soltanto fu testimone di tutto. Caro Bonichi, fra i commissari di polizia ci furono persino dei poeti simbolisti, fra gli ufficiali di terra e di mare dei romanzieri, ma fra i pittori! Sa che cosa ha detto qualcuno che la sapeva lunga? Il pittore, che vuole fare il letterato, perde il senso del colore. – Ma non si tratta di fare il letterato, caro lei, si tratta di narrare alla buona, per farsi leggere» (VARALDO 1931, pp. 251-252). 18 Cerea già alla p. 235, e poi a p. 238. 19 «Contàc’, inter. (piemontese, anche contag’). ‘Imprecazione popolare, ma anche solo forte esclamazione’ [...] Letteralmente ‘contagio’, cioè la ‘peste’ [...] G. FALDELLA [...] uno splendido contacc! Da soldato piemontese» (CORTELAZZO e MARCATO 1998, s.v. che riportano anche una citazione da V. Imbriani); Cerèa «‘Forma di saluto e di commiato’ è espressione tipicamente piemontese, usata solo alla terza persona singolare e plurale [...]. Si tratta verosimilmente di un’alterazione di signoria» (ibid., s.v.). In ZALLI 1830 le forme sono cosı̀ spiegate: «Cerèa, sorta di saluto, e vale buon giorno a vostra signoria», «Contag! [...] interiezione, canchero! saetta! al malanno!»; v. pure «Pa, particella negativa, non, nè, neppure». 20 Rinviamo per questi aspetti a P. BERTINI MALGARINI e U. VIGNUZZI, ‘‘Non mi pigli per il gomito, Principessa!’’, esclamò il palicaro... L’impasto linguistico nel ‘‘Sette bello’’ di A. Varaldo, in stampa in Perugia in giallo 2009. 180 UGO VIGNUZZI - PATRIZIA BERTINI MALGARINI Non è un caso che il primo giallo che utilizzi in maniera diffusa l’ingrediente del dialetto sia ambientato a Roma: di fatto (ce lo ha insegnato Tullio De Mauro) 21, Roma, sul piano storico-linguistico ha costituito sempre una realtà ‘‘avanzata’’, socialmente e culturalmente, nei processi di stratificazione del repertorio, ma anche e ben più dopo il 1970 nella formazione di varietà intermedie, tra quello che oggi potremmo definire ‘‘italiano de Roma’’ e il dialetto ‘‘ripulito’’, forse popolano ma non plebeo. La tendenza, come ha rilevato sempre De Mauro, è di lunga durata; senza entrare nel merito di una quantificazione in termini di macrodiacronia 22, certamente la sua persistenza è riscontrabile per tutto il ’900 e oltre, sia pure nelle forme mutate esaminate egregiamente da P. Trifone, P. D’Achille e C. Giovanardi. È quello che ci è piaciuto chiamare per queste scritture di genere ‘‘effetto Roma’’: infatti proprio a Roma sono legati alcuni dei giallisti linguisticamente più interessanti di questi ultimi anni. Naturalmente una riflessione linguistica sulla scrittura gialla più recente non può prescindere dall’impatto che il ‘‘ciclone’’ Andrea Camilleri ha avuto nei territori di questa scrittura in Italia: dalla metà degli anni ’90, auspice e complice ‘‘il meticciato’’ linguistico dello scrittore portoempedoclino, nella cucina del giallo all’italiana il sapore della spezia dialettale, vernacolare o italianizzata, è diventato se non necessario, certo sempre più frequente. Con lo scrittore siciliano il genere esce dai suoi recinti tradizionali e guadagna schiere sempre più vaste di lettori, andando ad occupare il posto di una narrativa ‘‘popolare’’ in senso postmoderno. Il caso Camilleri è tuttavia fin troppo noto e indagato per proporne ulteriori approfondimenti (e noi stessi abbiamo del resto di recente contribuito ad alcuni di questi): qui circoscriviamo il nostro discorso alla linea romana, perché ci permette di mettere in risalto proprio gli elementi di novità della presenza dialettale e delle sue trasfigurazioni nel continuum linguistico cittadino e nelle sue rappresentazioni letterarie, sia pure di un genere che programmaticamente non può prescindere dagli agganci con la realtà, ma che non sa e non vuole neanche rinunziare a una agnizione letteraria nobile (con Gadda che resta sempre sullo sfondo...). È una letterarietà che non si perita di platealmente esibirsi: cosı̀ il Commissario Gigi Marè di Mario Quattrucci fin dal cognome 23 si aggancia alla tradizione di poesia in romanesco, sia pure declinata nelle 21 V. almeno DE MAURO 1989. Si vedano in primissima istanza ERNST 1970, e gli studi raccolti in SERIANNI 1989. 23 Nella prima apparizione (in QUATTRUCCI 1999) il commissario si chiamava Giulio (con un possibile richiamo simenoniano), ma già in QUATTRUCCI 2001 assume il nome di Gigi (come anche nella rielaborazione del primo romanzo, QUATTRUCCI 2006). 22 IL ROMANESCO NEL GIALLO ALL’ITALIANA 181 forme della neodialettalità tardonovecentesca, con l’‘‘indimenticabile’’ Mauro Marè; e in omaggio appunto a Marè il romanzo Troppi morti, Commissario Maré si chiude con il verso «tutte le strade nascheno e pporteno novunque» (Quattrucci 2003, 322); cosı̀ i titoli dei romanzi di Giovanni Ricciardi, I gatti lo sapranno e Ci saranno altre voci (Ricciardi 2008 e 2009), pur fortemente congruenti al plot narrativo, sono versi di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (in quest’ultimo romanzo, per di più, l’omaggio a Pavese giunge a far trascrivere in un postit la frase conclusiva del Mestiere di vivere, che diventa indizio importante per la ricostruzione del supposto delitto, Ricciardi 2009, 79 e 101). In Quattrucci la scelta per il dialetto è senz’altro pervasiva, e si inscrive consapevolmente nella volontà di rappresentare in qualche modo la babele linguistica della città di Roma 24, con un plurilinguismo dialettale che di norma si concentra però nelle parti dialogiche. Al riguardo si potrà leggere, in È normale, commissario Marè, quella che potremmo definire una dichiarazione di poetica nella quale gli elementi chiave sono proprio in romanesco: Mi sembrerebbe di tradire il lettore... e soprattutto me stesso... se non calassi la vita dei personaggi ner callarone gigante indo’ bolle e ribolle la vita de tutti... o se non li facessi muovere, se preferisci, sulla scena politica e storica in cui ci muoviamo realmente noi vivi. Anche se spesso nascondo, maschero... je do de metafora, faccio un’allegoria (Quattrucci 2001, 97-98). Sulla linea dell’intertestualità, si potrà almeno osservare che callaro (da cui callarone) è parola-rima (anzi, chiusa della prima quartina) del sonetto Er tempo appunto di M. Marè 25 nel quale, come ha dimostrato Massimiliano Mancini (2007, 224), «è facilissimo leggere ... la trascrizione d’Er caffettiere fisolofo». E in questa città polimorfica trovano spazio, oltre all’ovvio romanesco, più o meno marcato, altre voci dialettali (o regionali): ecco allora, nelle prime pagine del romanzo, gli scambi dialogici tra il commissario e i suoi vecchi collaboratori, il napoletano Gennaro Zocchi e il romano Mario Pompili, ciascuno con la sua caratterizzazione diatopica: 24 È lo stesso Quattrucci a dichiarare che Gadda è «il preferito» del commissario Marè («Perché gli tornano in mente quelle parole, quel ricordo gaddiano dal grande pasticcio, dallo gliommero ingarbugliato e insoluto pensato e descritto dal gran lombardo suo preferito», QUATTRUCCI 2003, p. 261). 25 Ora in MARÈ 2003, p. 67 (datato 15 novembre 1977, dalla raccolta Ossi de persica). Sulla lingua di Marè v. GIOVANARDI 2007. 182 UGO VIGNUZZI - PATRIZIA BERTINI MALGARINI Marè fu sorpreso dal tono serio e preoccupato di Mario Pompili. – Commissà, – gli disse con voce grave, – le possiamo rubbà mezz’oretta? – È successo qualcosa? – No, commissà, a noi gnente, ma pò succede a quarcuno... e ce pare una questione che lei dovrebbe sapé. ... – Occhéi commissà. Grazie. Famo all’Oasi [...] – Li spaghetti alla pescatora, qua, so’ sempre la cosa più bòna, – disse Pompili [...] – C’è un segreto, – disse il commissario [...] – Nu segrete? – si meravigliò Zocchi. – E dicitencélle pur’ a nnui, commissà. – No... – rivelò Marè [...] – No!? – dissero quasi in coro Zocchi e Pompili, mentre Sı̀lipo, che il commissario s’era portato ‘‘pe’ sta’ tutti insieme’’, rideva sotto i baffi (Quattrucci 2001, 19-20); e, poco oltre, è ancora Zocchi («che come ogni buon napoletano, diceva lui, del raccontare faceva un’arte e un piacere») ad alternare e mescolare italiano, italiano colloquiale, e dialetto 26. Analogo mixing (ma col romanesco) per Pompili: Noi, commissà, [...] semo rimasti zitti. [...] Ma io non ho capito ’sto Servidio che c’entrava co’ la scomparsa del figlio. E nun ho capito nemmeno se st’amico è uno bravo o è un fijo de mignotta, perché l’ingegnere parla tutto pulito, è pure dell’Alta Italia, ma fa troppi giri de parole [...]. (Quattrucci 2001, 20-21). 26 «A noi ci hanno chiamato per scoprire da dove venivano certi furti, e poi il padrone ci ha chiesto di ritrovargli il nipote. Ma mentre stavamo cercando chille piezze ’e strunze ecco che il nonno ci presenta ’na facenna strana [...] o nonne ’e chille strunze [...] tene ’na fabbrica di aeroplani da diporto poco fuori da Roma. Da tempo si verificavano furti e furtarelli, proprio nella fabbrica, e i soci si sono sentiti sfruguliare e ci hanno chiamato a noi». In altri romanzi, scomparsi i due personaggi che gli facevano ‘‘da spalla’’, è Gaetano Silipo a caratterizzarsi per la parlata napoletana: si veda a es., «se ci stava nu brave guagliune quello era Arigliano: trasparente come un cristallo di Boemia, commissà. E qua dentro rivali non ne teneva. A via Gallia, invece, ci andava perché ci teneva la ragazza, tale Annichiarico Chiara. [...] Però lei è sposata. Co nu traffichine che viaggia in gioielli e, dice lei, sta in affari [...], ma di che affari si tratta dice ca nunn ’o ssape. [...] lei sperava di divorziare, ma teneva scante [...], teneva paura, e pe mo’ s’arrangiavene. [...] spesso il marito sa ..., ’o mmarito sape. E quando a sapere è uno come quello ... [...] | – Dunque secondo te potrebbe essere stato lui? | – Potrebbe, ma come ci azzecca col maniaco? | – Già: come ci azzecca? Nun ciazzecca gnente, Gaetà! Ma qua nun c’entra gnente co’ gnente..., e stamo sempre a carissimo amico. In ogni modo controlla l’alibi del painetto, del guappo» (QUATTRUCCI 2003, pp. 198-199). IL ROMANESCO NEL GIALLO ALL’ITALIANA 183 E alla fine del brano persino il commissario 27 si lascia andare a un me pareva!, «assecondando il duetto nell’aria e nel tono» 28 (più oltre se ne uscirà di fronte all’interlocutore partenopeo con non te mettere scuorne!). Nel séguito, anche l’industriale Vittorio Italo Manieri, dopo una partita di tennis, al bar del circolo (Quattrucci 2001, 118-121) impiega locuzioni quali «se vuoi fa’ i soldi veri», «Cià tutte le possibilità», «devo sta’ bòno» che, tenuto conto del contesto, rendono bene quell’‘‘italiano de Roma’’ cui abbiamo già accennato 29. Di particolare interesse, sempre sul piano dell’analisi del plurilinguismo ‘‘mimetico’’ di Quattrucci, il parlato del giudice Nicastro, caratterizzato sin dai primi romanzi dall’uso di sicilianismi meno o più tipizzati, sicilianismi che però da ultimo (Quattrucci 2009) arrivano a scopertamente richiamare la lingua camilleriana dell’epopea di Montalbano, traendo da essa proprio quelle parole e quelle formule a tutti più note: – Strana persona – disse Nicastro mentre uscivano sulla piazza – Lo conosceva? [...] Ah, vedo che non demorde – disse ridendo il Pi Emme – Sempre convinto che tra frati e diavoli la distanza non è poi molta? [...] Non è che il diavolo entrò pure in do vostro convento, ah? – sicilianizzò il Pi Emme Nicastro. (Quattrucci 2003, 40-41); – Per me spaghetti chi vvongoli – disse Nicastro [...] – Va bene, va bene, ho capito. Del resto si sa che u presepiu ’un ti piace. – Nun mi piaci mancu ppi nenti, anzi... Ma adesso concentriamoci sul fatto. E si concentrò sugli antipasti [...] – Come va l’inchiesta, don Marè? 27 Il commissario Marè, come ci dice l’autore, non è però ‘‘romano de Roma’’: «il commissario [...] guardava ‘‘co’j’occi abbottati’’, come dicevano al suo paese... e cioè con occhi sgranati e sporgenti...» (QUATTRUCCI 2001, p. 107: al suo paese... la Velletri di Quattrucci? (la forma òcci è quasi un blasone popolare per il velletrano). 28 E la sorella, quando va al paese la domenica, gli prepara il tradizionalissimo pranzo romano dei giorni di festa: «tagliatelle col sugo d’involtini e regaglie, pollo in casseruola... anzi in cazzarola... involtini, misticanza di vigna col pesto d’alici... E una bella crostata... E un ricco marsala» (QUATTRUCCI 2001, p. 18; per regaglie già nel romanesco belliano cfr. VIGNUZZI 2005, p. 113). 29 La polifonia vernacolare è arricchita da quello che si potrebbe definire ‘‘paracispatano’’ del guardaportone Pasetto (QUATTRUCCI 2001, p. 144), dal toscano del vescovo («il Monsignore Eccellenza parlava [...] una lingua robusta, col suo bellissimo accento toscano») di Cavita di Castello (QUATTRUCCI 2001, pp. 124-129); e poi, in Troppi morti cit., dal marchigiano (QUATTRUCCI 2003, pp. 251-253) e dal veneto (QUATTRUCCI 2003, p. 243): siamo comunque, vale la pena di rilevarlo, di fronte a forme fortemente tipizzate (cosı̀ come il ‘‘nome di battaglia’’ di un finto mafioso, in realtà un poliziotto infiltrato, è U Vappu, QUATTRUCCI 2003, pp. 21, 300). 184 UGO VIGNUZZI - PATRIZIA BERTINI MALGARINI – Come il resto: merda [...] A meno che tu non porti notizie dal Pi Emme De Caetani... – Qualcuna, ma non mi pare ca ti ponno sèrviri. E mancu piàciri [...] Questa piattaforma, insomma stu machiniari, stu complotto, s’è venuto a intrecciare, macari ppi cumminazioni macari no, con l’omicidio Sacchi, ma De Caetani non può spingere sull’omicidio perché è dietro a questa storia e agli affaracci dei protagonisti. Capisti? C’è in ballo molto più di un omicidio, e il Piemme li vuole incastrare per le cose grandi. – Allora aspetteremo altri vent’anni. Anzi all’infinito! – Nun ni saccio nenti, Marè. In ogni modo questo è il messaggio che ti manda De Caetani. Ti l’a vı́riri tu, se ancora ti spercia... Insomma: se ancora ti va. [...] – Informa De Caetani, perché non so in mano a chi è finito il caso. – Minchia! – esclamò Nicastro. (Quattrucci e Vitali 2008, 222-225); – Auro? Sei tu? – E chi ho da esse? – rispose il giudice Nicastro in una stramba imitazione con accento siciliano del famoso selvaggio del romano Pascarella. – Sei a Roma? – Veramente a Lavinio, dai genitori di Giuliana. E tu...? Macari a menzaustu ti mitti a rùmpiri i cabbasisi? 30 – [...] avevo bisogno, ma se proprio non puoi, se te ne stai stravaccato sotto la vampa d’agosto co’ un cocommero mezzo litro e na gazzosa, e nun voi move un dito per n’amico... [...] Te lo ricordi il vescovo Di Carlo? – I pensi che mu potia scurdari? Certo che me lo ricordo (Quattrucci 2009, 133) 31. Ancora ‘‘effetto Roma’’ per Massimo Mongai, scrittore di fantascienza 32 prestato (passato) al giallo, che ambienta i suoi racconti alla Garbatella, uno dei quartieri un tempo più autenticamente popolari della città 33. Una città e un quartiere però nei quali la contemporaneità è segnata in primo luogo dalla molteplicità delle etnie; e allora il protago30 E v. pure p. 136 «rompendogli i cabbasisi». Nelle pagine successive «Salutami il vescovo. E Anna Carla, che poverazza appresso a tia starà [...]. Puru u prufissuri? [...] Divertiti, i nun fari cugghiunarie ... [...] Almeno cosı̀ disse iddu» (QUATTRUCCI 2009, pp. 134-135). E v. ancora «Nicastro non andò mai, perché ‘‘si scantava’’ di vederlo sofferente e ammalato in un ‘‘funno di letto’’» (QUATTRUCCI 2009, p. 186). 32 Non nuovo alle ‘‘invenzioni’’ linguistiche, già col ‘‘linguaggio alieno’’ di MONGAI 1997 (cfr. http://www.liberliber.it/biblioteca/m/mongai, cons. 28.07.2009), vincitore del Premio Urania dello stesso anno. 33 Si veda la descrizione della Garbatella, Il luogo del delitto, premessa al romanzo (MONGAI 2007, pp. 7-13). 31 IL ROMANESCO NEL GIALLO ALL’ITALIANA 185 nista non è un commissario nostrano, ma un extracomunitario (professore universitario nel suo paese, trasferitosi a Roma e poi caduto nell’alcolismo e divenuto barbone) immigrato dall’Etiopia, che significativamente ha il nome di Ras Tafari, cioè quello del grande imperatore Hailé Selassié (cui si ispira il movimento giamaicano, ma diffuso in tutto il mondo, dei rastafariani o rasta 34), e Diredawa, un cognome che oltre a ricordare una importante città etiopica è anche quello di una nota via romana del quartiere africano. Racconta una Roma ‘‘altra’’ Mongai e lo fa inventando un canone romanzesco tutto personale, costruendo narrazioni di grande impatto emotivo per le quali si potrebbe persino parlare di ‘‘giallo sociale’’, se non fosse davvero superfluo aggiungere un’altra alle tante etichette che circolano su noir e dintorni. Sembra guardare al modello del realismo in senso stretto, plasmando minuziosamente personaggi che ambiscono ad una delle caratteristiche dei grandi romanzi realisti, alla tipicità: queste osservazioni di E. Mondello 2008, 20-21 sono senz’altro pertinenti anche per le scelte linguistiche. La ricerca di una tipicità o almeno di una tipizzazione coerentemente realistica porta infatti Massimo Mongai a caratterizzare il parlato dei suoi personaggi più autenticamente popolari, anzi popolani, del suo quartiere ancor oggi archetipico della romaneschità 35 – còlti con raffinata e divertita perizia nei momenti di più risentita marcatezza emotiva – con fenomenologie diastraticamente e diafasicamente ‘‘basse’’. La spia più acuta ne è senz’altro la registrazione della cosiddetta ‘‘legge Porena’’, un altro importante tratto nuovo, il dileguo di l scempia negli articoli, nelle preposizioni articolate, nei pronomi personali, nel dimostrativo quello: a mojje ‘la moglie’, daa tera ‘dalla terra’ o ‘della terra’, nu mmoo dı̀ ‘non me lo dire’, eccaa ‘eccola’, quee bbestie ‘quelle bestie’ (Trifone 2008, 100), che nel romanzo La memoria di Ras Tafari Diredawa (Mongai 2007a) si riscontra nelle parole di un oste di San Lorenzo (romanescamente disincantate ma alla fine anche bonarie), quando Tafari non trova il portafoglio per pagare il bicchiere di vino che ha ordinato, 34 MONGAI 2007a, pp. 97-98. Basterà ricordare solo la fortunatissima serie televisiva dei Cesaroni, ambientata a Roma proprio alla Garbatella. 35 186 UGO VIGNUZZI - PATRIZIA BERTINI MALGARINI – ...mbe’? Neno, ’nte crederai mica che t’o do agratise? – Disse ironico l’oste. [...] – Lei ha ragione, mi voglia scusare. Ho scordato il portafogli, mi scusi... | Si girò e uscı̀, spiazzando l’oste, che ci rimase perfino male. | – Oh, vabbe’, ma si ioo dovevo da dà, io davo eccheccazzo...» Mongai 2007a, 79; e ancora alle pp. 164-165, nelle battute della cuoca della parrocchia, sora Eulalia, «Tu cio’o vedi? [...] E daje! Ce lo so 36 [...] Cio’o vedi ’nvecchio babbione che de notte ammazza la sora Eurosia? [...] ché pe’ caso me lo dichi? [...] E nun cio’o sò...» (a p. 119 «– Eh, se fa presto a dı̀ ma drento a quaa famija troppe ne giravano de corna»). E ancora, nel secondo romanzo, Mongai, Ras Tafari Diredawa e il fiore reciso. Un assassino alla FAO, ’nciivolemo (Mongai 2007b, 27) e «... e ’n fiasco d’ojo nun cioo mettemo? – che era una tipica espressione della sora Eulalia. Che voleva dire: tutto qui?» (Mongai 2007b, 87). La marcatezza diatopica trova conferme nella scelta di forme bandiera del romanesco odierno, come fatismi del tipo di maddecché («Pregiudizio razzista? Maddeché? Aho, mica so negri, so polacchi!», Mongai 2007a, 116-117; «C’era chi diceva: poveracci. E chi rispondeva ‘‘maddeché? So’ assassini, ebbbasta’’, con tre b, secondo l’uso romano», Mongai 2007a, 181), oppure il già ricordato ce lo so, sai ecc.; ’na parolona de gnente nel secondo romanzo della serie (Mongai 2007b, 161). Lo strato dialettale è talmente pervasivo da affiorare talvolta persino (sia pure spesso in chiave giocosa o comunque ammiccante) nel narrato autoriale 37: «Il quartiere, che si stava riempendo dopo le vacanze, era in subbuglio; i polacchi in quel periodo erano visti male in tutta Roma per altri piccoli fatti analoghi e i media ci appozzavano» (Mongai 2007a,116) 38; e, alla fine della Memoria, persino Tafari parla in romanesco con Eulalia: – Ma che me stai a fa l’indovinelli? Chiese esasperato a sua volta con un forte accento romano che ormai, a forza di parlarle e di starle vicino, gli si attaccava quando parlava con Eulalia. 36 Ce lo so, cioo so per ‘lo so’ sono registrati da P. Trifone tra i tratti di «quel tipo di romanesco che gli stessi abitanti della città chiamano talvolta romanaccio» (2008, pp. 109-110). 37 Cfr. anche, nel Fiore reciso, «Cafuni quella mattina [...] aveva deciso che avrebbe passato la giornata a mettere in ordine: le sue idee, i suoi appunti, le cartuccielle» (MONGAI 2007b, p. 198). 38 Per appozzà v. RAVARO 1994 ‘‘Attingere, immergere, prendere a piene mani’’ con ess. da Fefè e Roberti. Avvertiamo una volta per tutte che il corsivo, qui come negli altri passi citati, è del testo. Meriterebbe per altro un approfondimento la questione della resa grafica del romanesco nei due romanzi di Mongai (anche in presenza di forti oscillazioni), nel quadro delle discussioni sulla rappresentazione dei fenomeni più recenti (e non solo) di questo dialetto. IL ROMANESCO NEL GIALLO ALL’ITALIANA 187 – A Tafà, essù, e quann’è che un prete nun po’ parlà? No quanno nun vole, quando ‘‘non può’’... E Tafari capı̀. (Mongai 2007a, 159) 39. Nel Fiore reciso Mongai offre infine un bellissimo esempio di romanesco parlato da una polacca: Anja, una delle cameriere polacche della trattoria, rispose al telefono... Rispose e poi lo chiamò, con un forte accento romano mescolato ai suoni slavi delle sue corde vocali già impostate. Ahò, Tafa’, te vuonno a te... [...] Ogni volta Tafari si sorprendeva dell’accento di Anja. (Mongai 2007b, 47). Nel 2008 è apparso I gatti lo sapranno. Le indagini del commissario Ponzetti, opera prima di Giovanni Ricciardi (Riccardi 2008), nel quale all’ambientazione nel pieno centro della città, fra i rioni Esquilino e Monti, corrisponde l’attenzione per la caratterizzazione linguistica, in particolare nel parlato del suo braccio destro, l’ispettore Mario Iannotta: A commissa’: so’ sempre uguali. Puro le facce incartapecorite che pare che l’hanno staccate dai ritratti. So’ peggio de li poliziotti. Ha da sentı̀ che popò de discorsi, mentre che salgheno e scenneno da quii scaloni de marmo che quanno ce passi pare de stà drento a la metro nell’ora de punta. Alta filosofia, dotto’: ‘‘ahò’’, ‘‘vabbè’’, ‘‘namo a pijà ’n caffè’’: tutto er santo giorno. Ieri, poi, parlaveno de religgione e de politica, che è tutto dire, dotto’. Uno diceva: ‘‘Puro questa ce mancava, che er sindaco se mette a fa’ da baciapile ar papa’’. ‘‘Eppoi, ’sto papa’’, je faceva n’artro, ‘‘me pare ’n po’ ’ngrugnato. Quello de prima sı̀ ch’era ’n santo!’’. ‘‘Però’’, ariprese dopo ’na pausa, ‘‘pure er polacco quann’era vivo nun me stava sempre simpatico’’. ‘‘Ma a questo je piaciono li gatti’’, diceva un terzo che deve da abbità da ’ste parti: ‘‘sta’ a vede’ che ’n giorno o l’artro viene lui a Sant’Eusebbio a dà ’na benedita all’animali’’. ‘‘See, mò ch’è papa’’, concluse er primo, ‘‘te pare che se porta li gatti in Vaticano, co’ quer popò de stoffe e de merletti che ce stanno?’’ (Ricciardi 2008, 45-46). E addirittura un capitolo si avvia sul romanesco fin dal titolo (e più oltre c’è di nuovo la Legge Porena): 27. Le ‘‘indaggini’’ di Iannotta. «A dotto’, cose crucche! Cose da prima paggina, che già lo vedo Costanzo che ce fa la predica sur ‘‘Messaggero’’ [...] e ce rompe li cojoni pe’ invitacce a cazzeggià sur palco der Parioli...». 39 CHILLE A Tafà ancora in MONGAI 2007a, pp. 30 e 73; per l’a allocutivo si veda D’A1995. 188 UGO VIGNUZZI - PATRIZIA BERTINI MALGARINI «Ancora co’ ‘sto ‘‘Messaggero’’. [...] Che c’è, Iannotta? Rapido, per favore...». «A dotto’, ma lo sa che la rumena ha fregato ’e lettere da casa de Alex e me l’ha portate sur tavolo ieri sera?». Ricciardi 2008, 119. Nel luglio 2009 è apparsa per lo stesso editore la seconda avventura del commissario Ottavio Ponzetti, Ci saranno altre voci (Ricciardi 2009), nel quale l’autore propone, per bocca del suo commissario, una dotta disquisizione sulla transcodifica nel romanesco sepoffà dello slogan elettorale di Obama yes, we can: In una parola, a Iannotta non gli andava giù quel ‘‘si può fare’’ che il Walter aveva inventato per lanciare la rincorsa al Cavaliere. Impressione in realtà distorta dalla romaneschizzazione dello slogan. In effetti a Roma, quando dici sepoffà, puoi dire molte cose: tutto dipende da come intoni l’espressione. Può essere squillante, decisa, accompagnata da una stretta di mano, e l’accordo è fatto, ma è versione inusuale e piuttosto rara. Può essere meditabonda, distaccata e liberatoria, come a dire che in fondo non si ha nulla in contrario e non c’è niente da perdere: tanto vale provare, se poi va male facciamo finta di aver scherzato. Può essere infine una maniera spiccia e distratta per liquidare qualcuno: dici sepoffà, pensi ‘‘tanto nun se fa’’ e te ne vai contento di non avere detto in faccia un no a un amico. Considerate le tre versioni, la mia sintesi del pensiero iannottiano era che, dato lo slogan, ‘‘er sindaco’’ aveva avuto fin dall’inizio il 33 per cento a favore e il 66 contro. Detto da lui, era ‘‘come fasse un autogol in rovesciata e annasse a pijà l’applausi dell’altra curva’’. Tanto valeva restà sindaco, ‘‘come Totti, che nun s’è mai cercato gloria a n’altra parte e resta re, pure se sbaja tutto’’. Certo, spiegargli che lo slogan non era invenzione di Veltroni, ma l’aveva copiato di peso dalla battaglia americana per le presidenziali, era arduo. Glielo accennai senza insistere troppo, per evitare difficili contorsioni didattiche. A presto, a quando ci vediamo, informati, ciao. Non si poteva andare avanti cosı̀, bisognava affrettare il trasferimento. Pensai di chiamare un amico in alte sfere, ma era giorno di conta elettorale e non mi avrebbe risposto. O mi avrebbe detto: sepoffà, che pronunciato al telefono senza accompagnamento gestuale e decodificazione dello sguardo era come tornare al punto di partenza senza passare dal VIA» (pp. 27-28); fino a «Nun se preoccupi, dotto’. Ies uicchén!» «Ies che?» «Mo’ je spiego. ...» (Ricciardi 2009, 43). L’affresco linguistico cittadino si arricchisce di una lingua ‘‘meticcia’’ italiano-castigliana della colf peruviana dei Parioli interrogata dal commissario («Segnor Ponzetti, no se arrabia. La chica tiene ragione. IL ROMANESCO NEL GIALLO ALL’ITALIANA 189 Es una segnorita, no se può seguire tratandola como una nigna...» Ricciardi 2009, 106), ma anche (al polo diastraticamente opposto) dello studente di architettura che la figlia del commissario ha conosciuto a Barcellona e che, a Roma per l’Erasmus, frequenta la casa di Ponzetti come fidanzatino della figlia («Fila perfecto, comissarrio. Lei dovrı̀a fare el novelista, no el polizioto. Y ahora, estiamo seguri che el culpable es Folco!» Ricciardi 2009, 190); ma nella risposta del commissario a quest’ultima battuta il tentativo di adeguamento è certamente giocoso: «E invece, manco por suegno!» (Ricciardi 2009, 190). La stessa attenzione per la marcatezza localistica, non a Roma ma non troppo distante, si ritrova, fin dal titolo, in Chi ha ’mmazzato er sumaro giù l’orto. Come fu che Cèncio divenne detective, di Giacomo E. Carretto (2009), un vero e proprio ‘‘giallo paesano’’ le cui vicende si svolgono a Tiniano, inesistente paesetto della Bassa Maremma o Maremma Romana. «Solo il dialetto, impiegato per i dialoghi, è quello reale di Tarquinia, la medievale Corneto, mentre la canzonetta che apre il racconto viene da Monte Romano» 40 (Carretto 2009, 7); in appendice al volume si fornisce un Vocabolarietto 41 (Carretto 2009, 157-162): Cominciò Meco, dicendo, ‘‘Ma se po’ dà che tutt’insieme so’ arivate ’ste casine?’’ ... ma il Conte non sentı̀ o non ci fece caso, ‘‘Tutte fregnacce, mèjjo fa’ fianco co’ le maccherone’’ (Carretto 2009, 23); fece salire anche il cagnetto (‘‘piàna su’’, gli disse, e quello capı̀ subito, saltando in macchina) (Carretto 2009, 79); ‘‘E mica solo lu’’, aggiunse la Carciofolara, ‘‘puro 40 «chi ha ’mmazzato er sumaro giù l’orto | chi lo ’mmazzò | era bello er sumaro giù l’orto | chi lo ’mmazzò | l’ho comprato alla fiera a Bracciano | tre anni fa | era bello er sumaro giù l’orto | chi l’ha ’mmazzato chi lo ’mmazzò?» (CARRETTO 2009, p. 11). Monte Romano è un paese a pochi km a nord-est di Tarquinia, verso Viterbo. Per un manipolo di poesie dialettali, più cornetane che tarquiniesi, si veda il sito www.carretto.net (cons. il 29/1/2010). 41 Alle pp. 157-162, in epigrafe al quale si richiama B. BLASI, Il dialetto cornetano, «con note grammaticali e un vocabolario, pubblicato dalla Società Tarquiniense d’Arte e Storia nel suo Bollettino 1987, con le appendici apparse nei bollettini del 1984, 1986, 1987, 1998, 1990, 1991, 1992, 1993, 1998» (CARRETTO 2009, p. 157). Il Vocabolarietto offre sia osservazioni grafico-fonetiche (p. es. «Fijje – i figli e le figlie. A volte si specifica, le fijje maschie o le fijje femmine; si tratta della zona famosa per il pl. masch. in -e. La trascrizione esatta della pronuncia tarquiniense sarebbe fie, e cosı̀ fio, fii, fia. Tuttavia si è preferito scegliere la forma con due jj, più adatta al dialetto romanesco e ad altre varianti dialettali dell’Alto Lazio, perché più familiare ai lettori, spesso impiegata anche nel riportare frasi in tarquiniese») sia glosse etimologiche (a es. «’Ngringato – appeso, attaccatto, dedito a qualcosa anche in senso figurato. Deriva da in ghingheri, detto per persona vistosamente elegante, in cui i ghingheri sono gli ornamenti appesi o attaccati, delle donne»), ma anche frasi come Mò vengono bone le bròccole «frase che indica qualcosa per realizzare la quale è troppo tardi». 190 UGO VIGNUZZI - PATRIZIA BERTINI MALGARINI er Barone e’ l Capoccetta, ’l sor Titta, ’l zi’ Toto...’n corpo ar mèjjo... ce se ’ntignavano a dàjje ’l tempello, a cojjonàllo davante a tutte...’’ (Carretto 2009, 130). A incrementare ulteriormente la mimesi linguistica, largamente pervasivo l’influsso del romanesco (più o meno ‘‘coloniale’’), soprattutto nei giovani (tipico il personaggio del ragazzo biondo col suo gergo giovanile): ‘‘Na gnocca... quellà sı̀ che m’acchiappa, m’ha sbroccato’’ [...] ‘‘È ’na sdraiona, ma si nun vo’ me rimbarza’’ ... ‘‘me ne vado, è ’na cùjja’’ (Carretto 2009, 73) 42; anche il Pirata aveva parlato della cava e di una mappa misteriosa [...] e perfino il Biondo era stato ad ascoltare in silenzio le sue parole: ‘‘[...] me pozzino! Ve dico che ce so’, l’ho viste, la Signora Bianca e la Nera, e chissà che vonno... lo sapete... si sòrtano fora, quarcosa ha da succede...’’ (Carretto 2009, 81). I semi sparsi dell’attenzione originaria alla variazione linguistica necessitata dal ‘‘realismo’’ del genere per effetto del calderone gigante della realtà romana del secolo XX, e anche sulla scia della svolta camilleriana, hanno prodotto numerosi tangibili frutti: un commedione delle lingue, non solo come plurilinguismo orizzontale ma pure e soprattutto come continuum con addensamenti sull’asse verticale (sino alle varietà rustiche o a quelle marginali di contatto degli immigrati). All’interno di questo ribollente continuum, quello che i nostri testi, con sempre maggiore evidenza, mettono in luce, è il trionfo, e la conseguente consacrazione scritta, dell’italiano de Roma come forma intermedia dello spazio linguistico romano. E non sarà casuale allora che proprio la narrativa gialla sia arrivata a offrire persuasivamente in pochi anni una cosı̀ vasta campionatura di una varietà tanto interessante quanto dai contorni cosı̀ labili ed elusivi. BIBLIOGRAFIA ANGIOLINI 1897 = F. 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