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Due libri sulla pace
IL MARGINE
2 FEBBRAIO 2003
Roberto Lambertini
3 Le bandiere dell’arcobaleno
María Zambrano
(con una nota di
Francesca Paoli)
8 I pericoli della pace
11 Quotidianità palestinese
Paolo Zannini
13 Carità e solidarietà
in alcuni Padri della Chiesa
Cristina Sagliocco
26 Un’istantanea del Novecento
Anna Schgraffer
29 Sviluppo, tecnologia e donne.
A proposito dell’attualità
di un libro di Vandana Shiva
Mentre andiamo in stampa...
L’aveva detto Ciampi, nel messaggio alle Camere, che ci voleva più equilibrio nel sistema dell’informazione italiana. Ora il Presidente è tornato a chiederlo, nel momento in cui
la rissa sulla Rai ha raggiunto livelli di indecenza istituzionale difficilmente immaginabili. Può essere considerata una piccola cosa rispetto ai problemi che affliggono il pianeta; eppure mai come in questi giorni sentiamo il bisogno di un’informazione libera ed
equilibrata. Non vorremmo peccare di esterofilia, ma abbiamo davvero l’impressione che
gli organi di informazione di altri paesi abbiano più equilibrio; il dibattito potrà anche
essere aspro, il confronto serrato, ma per lo meno la comprensione degli avvenimenti è
ancora consentita. Un amico americano ci manda l’editoriale di Thomas Friedman sul
“New York Times”, dove la critica a Bush – descritto come un avventato giocatore
d’azzardo, che disegna grandi scenari senza essere capace di realizzarli – è secca e senza appello: immaginate come un discorso del genere verrebbe scritto sui nostri organi di
stampa, e come verrebbe letto, dato che ogni cosa che viene scritta e letta da noi sembra
sia fatta per nascondere altre preoccupazioni.
Primo Mazzolari, Tu non uccidere, La Locusta. Queste riflessioni, scritte in piena guerra fredda e
sotto la minaccia nucleare delle due super-potenze dell’epoca, mantengono una freschezza profetica che anticipa il terreno alla Pacem in Terris e allo stesso dibattito conciliare sulla pace. I pensieri di Mazzolari evidenziano la semplicità di un comandamento: “tu non uccidere” che, “lasciato nella sua divina semplicità, sgomenta assai più di qualsiasi paurosa prospettiva atomica. È la
vera atomica che Dio ha posto nelle mani dei cristiani, i quali, se avessero fede quanto un granello di senape, avrebbero già costruito la città della pace”. Un libro che ravviva la speranza, incoraggia a non temere il futuro ma a costruirlo.
Valentino Salvoldi, Si può ancora essere pacifisti? Interrogativi dopo l’11 settembre, Ancora.
La prima vittima della guerra è la verità: si è confuso un attentato terroristico contro l’umanità,
non solo contro il popolo americano, con una dichiarazione di guerra. Non aver chiarito questo punto di svolta ha significato anche rinunciare nella ricerca della verità, formulare risposte
sbagliate, come la guerra preventiva, a problemi autentici, qual è il terrorismo internazionale.
Questo libro, che raccoglie i contributi di C.M. Martini, V. Colmegna, G. Zizola, R. Fabris, V.
Salvoldi, L. Lorenzetti, L. Bettazzi, G. Salvoldi, M. Toschi, A.T. Negri è una riflessione sul
significato e sulla validità di un pacifismo che, soprattutto oggi, deve fare i conti con nuovi e
terrificanti scenari di violenza, di guerre ancora sparse nel pianeta e di un terrorismo internazionale non ancora sconfitto. Un brillante sforzo di riflessione a più voci e a tutto campo: teologico, culturale, sociologico, pastorale. (Silvio Mengotto)
IL MARGINE
mensile dell’associazione
culturale Oscar A. Romero
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In redazione:
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Lucia Galvagni, Walter Nardon
(vice-direttore)
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Nicoletti, Vincenzo Passerini, Grazia Villa, Silvano Zucal.
Collaboratori: Carlo Ancona,
Dario Betti, Stefano Bombace, Luisa Broli, Vereno Brugiatelli,
Michele Covi, Marco Dalbosco,
Cornelia Dell’Eva, Michele Dorigatti, Michele Dossi, Eugen Galasso, Pierangelo Giovanetti, Giancarlo Giupponi, Paolo Grigolli, Tommaso La Rocca, Paolo Mantovan,
Gino Mazzoli, Milena Mariani Puerari, Pierluigi Mele, Rocco Parolini,
Nestore Pirillo, Gabriele Pirini,
Emanuele Rossi, Gianluca Salvatori, Flavio Santini, Sergio Setti,
Giorgio Tonini.
Progetto grafico: G. Stefanati.
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ASSOCIAZIONE
OSCAR ROMERO
Presidente: Alberto Conci
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Vicepresidente:
Paolo Marangon
Segretario: Alberto Ianes
«Siamo riusciti a riprendere questa immagine e, se la guardiamo, vediamo un puntino.
Questo qui. Questa é la nostra casa. Questo siamo noi. È su di esso che, ognuno che avete
sentito, ogni essere umano che sia mai vissuto, ha vissuto la sua vita. L’insieme di tutte le
nostre gioie e delle nostre sofferenze, migliaia di presuntuose religioni, ideologie e dottrine
economiche, ogni cacciatore e preda, ogni eroe e codardo, ogni creatore e distruttore di
civiltà, ogni re e contadino, ogni coppia di innamorati, ogni bambino speranzoso, ogni
madre e padre, ogni inventore ed esploratore, ogni portatore di insegnamento, ogni politico corrotto, ogni superstar, ogni leader supremo, ogni santo e peccatore nella storia della
nostra specie, ha vissuto su un granello di polvere, sospeso in un raggio di Sole.
La Terra è un minuscolo palcoscenico nella grande arena cosmica. Pensare ai fiumi di sangue versati da tutti quei generali ed imperatori che, così facendo, in gloria ed in trionfo hanno potuto diventare i temporanei padroni di una frazione di un puntino. Pensare alle crudeltà infinite perpetrate dagli abitanti di un angolo del puntino sugli abitanti degli altri
angoli neppure distinguibili del puntino. Quanto frequenti i loro malintesi, quanto bramosi di uccidere altri, quanto fervente il loro odio. Il nostro atteggiamento, la nostra presunta
importanza, l’illusione di occupare una qualche posizione di privilegio nell’Universo, è sfidata da questo puntino di luce fioca.
Il nostro pianeta è solo un solitario puntino nel grande inviluppo del buio cosmico. È stato
detto che, per questo, l’Astronomia è un’umiliante esperienza. E io posso aggiungere che è
un’esperienza che forma il carattere. Secondo me, forse non esiste una migliore dimostrazione dell’assurdità dell’orgoglio umano di questa lontana immagine del nostro piccolo
mondo. Per me, essa sottilinea la nostra responsabilità ad occuparci più benevolmente e
pietosamente degli altri ed a preservare con molta cura questo puntino di pallida luce azzurra, la sola dimora che abbiamo mai conosciuto».
2003 NUMERO 2
(CARL SAGAN, astronomo, contemplando l’immagine della Terra
ripresa dalla sonda Voyager dall’esterno del Sistema Solare)
Periodico mensile - Anno XXIII, n. 2, febbraio 2003 - Sped. in a.p. - art. 2 comma 20/c Legge 662/96 - Fil. di TN
Redazione e amministrazione: 38100 Trento, cas. post. 359 - Una copia € 1,60 - Abb. annuo € 16
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Mensile
dell’associazione
culturale
Oscar A. Romero
Anno XXIII
EDITORIALE
Le bandiere
dell’arcobaleno
ETICA
Carità e solidarietà
in alcuni Padri della Chiesa
DOCUMENTI
I pericoli della pace
LIBRI
Un’istantanea del Novecento
OLTREFRONTIERA
Quotidianità palestinese
AMBIENTE
Sviluppo, tecnologia e donne
Editoriale
Le bandiere dell’arcobaleno
ROBERTO LAMBERTINI
tamani, prima della fila al secondo semaforo, ho già visto una decina
di bandiere con i colori dell’arcobaleno. Nel nostro quartiere ha cominciato Carlo, che è della Confraternita del Santissimo e da anni si
occupa di un programma di adozioni a distanza con l’Etiopia. Poi la bandiera
è spuntata sul balcone di quell’altro, che ha messo su il gruppo di Commercio
Equo e Solidale; poi l’ha piantata il bimbo dei vicini, nel suo fazzolettino di
terra, accanto alla cuccia del gatto ed alle sue spade di plastica. Poi è comparsa al davanzale della finestra del vecchio amico che ama soprattutto la montagna, di alcuni suoi parenti, ed infine – per ora – è stato il turno del nonno che
sta nell’altra strada, che fino ad ora credevo si interessasse solo del giardino e
dei nipotini.
Avvicinandomi alla città, ovviamente, non so più collegare le bandiere ad
un volto ed a frammenti di storia: ce n’è una sul ristorante cinese, un’altra vicino al campo sportivo, una di carta, piccolina, l’ha perfino il custode del parcheggio dietro la stazione, quel ragazzo con l’accento inconfondibilmente albanese.
Dal treno, tante, tante altre, anche dalle finestre delle semivuote pensioni
di Riccione; negli stabilimenti balneari semideserti, accanto al vessillo rosso
del mare agitato; più a sud, qualcuno con il gusto del sovraccarico simbolico,
l’ha appesa all’ulivo del giardino di casa.
Infine, nel vento ancora freddo delle città marchigiane accoccolate sulle
colline, l’arcobaleno sventola perfino dalle finestre delle terziarie che gestiscono la libreria Padre Matteo Ricci, l’apostolo della Cina, le stesse finestre dalle
quali nelle sere di maggio si diffonde nel vicolo la nenia del Rosario.
S
Le preoccupazioni di una Curia
Non c’è che dire, questa idea di esporre la bandiera sta assumendo i tratti
di una vera e propria epidemia. Poco da stupirsi, quindi, se qualcuno ha co-
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minciato a preoccuparsi. Qualche zelante conoscitore dei regolamenti ha tentato per lo meno di salvare gli edifici pubblici. Qualcuno ha prontamente denunciato chi a quei regolamenti non si è attenuto. Qualche parroco, timoroso di
offendere la sensibilità politica di una parte del suo gregge, ha smorzato gli entusiasmi dei gruppi più vivaci.
Anche qualche Curia si preoccupa, paventa il rischio di esporre un simbolo che, agli occhi di qualcuno, è diventato “di sinistra”: evidentemente spaventa di più – ed è già significativo – di quello di dare l’impressione di non essere d’accordo con il Romano Pontefice. Qualche vescovo più sincero ed
immediato viene mandato dritto dritto nella trappola mediatica della stampa
illuminista e laica, già ormai anch’essa preoccupata di non poter dominare gli
avvenimenti con le sue solite categorie, ansiosa di poter – ancora una volta –
stracciarsi le vesti di fronte alla “roba da medioevo” che per definizione
pensano e fanno i cattolici. Nonostante la consumata abilità dei cronisti bolognesi del grande quotidiano liberal-democratico, nonostante le incertezze del
vescovo che prima prende le distanze dal simbolo della pace divenuto “di sinistra” (lasciando a tutti l’interrogativo se proprio si debba ammainare la bandiera perché una volta tanto la “sinistra ufficiale”, si perdoni la terminologia,
si è accodata), poi precisa la sua posizione, il polverone non viene fuori. Qualche giorno dopo, anche gli appartenenti a Comunione e Liberazione di Bologna dichiarano che, pur essendo “amici degli americani”, intendono “da amici” spiegare loro che questa è una guerra sbagliata. Perfino il mio arcivescovo,
noto per la sua vigilanza contro ogni rischio di inquinamento filantropico del
messaggio cristiano, questa volta ha temperato il suo famoso gusto della provocazione. Ha già spiegato, parlando il primo gennaio 2003, che il pacifismo
è uno dei modi in cui il “mondo dà la pace”. E se questo ha voluto dire, ovviamente, voler distinguere la pace di Cristo da qualsiasi umano “no alla guerra”, ha implicitamente riconosciuto al pacifismo una dignità di posizione politica, il cui rifiuto della violenza sarebbe tra l’altro del tutto condivisibile. Pur
affrettandosi a sconfessare duramente il movimento pacifista in quanto sarebbero inaccettabili certe forme di protesta (e chi non lo farebbe, pur cercando
di evitare di buttare il bambino con l’acqua sporca?), l’arcivescovo (per il quale, non dimentichiamolo, l’Anticristo sarà pacifista), perlomeno, non ha
preteso che per annunciare la “pace vera” i cristiani debbano necessariamente avvallare “la guerra di questo mondo”. Resta, invero l’interrogativo di perché mai il desiderio della pace, che abita in tanti cuori di buona volontà, non
possa essere considerato una se pur implicita, anonima ed imperfetta adesione a Colui che è la Pace; con buona probabilità, tuttavia, neppure da qui partirà la scomunica delle bandiere arcobaleno.
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Senso unico?
Non resta allora che lamentarsi che i pacifisti di oggi, cattolici compresi,
sono “a senso unico”. A ben vedere, questa accusa ricorrente ha qualcosa di
singolare anche nella formulazione linguistica. E come sarebbe mai un pacifismo a “doppio senso di marcia”? Comunque, questa critica si riduce molto
spesso alla più banale domanda/rinfaccio: “e dove eravate quando…?”: perché
non avete sfilato anche in altre occasioni, perché non siete scesi in piazza, mentre gli Hutu massacravano i Tutsi (e viceversa), perché non si è manifestato
contro l’intolleranza del governo sudanese, perché non ci si è opposti all’invasione siriana del Libano, e verrebbe di prolungare la lista all’infinito, un po’
provocatoriamente, chiedendo ai pacifisti di oggi “dove erano” al momento
dello sterminio “preventivo” degli Armeni da parte dei Turchi o della guerra anglo-boera.
Forse, quella del “senso unico” è una delle obiezioni che più tradiscono la
difficoltà ad argomentare in modo persuasivo: poiché si hanno poche controargomentazioni per l’oggi, non resta che cercare nelle pieghe del passato.
Come se si volesse, a forza di accuse di “anti-americanismo”, prima costringere il pacifista su posizioni radicalmente nonviolente per poi dire che sì, sarebbe bello, ma sono tutti ingenui, illusi, che oggettivamente “fanno il gioco di…”.
Come se il pacifismo non sia mai stato anche il rifiuto ad appoggiare una determinata guerra, voluta in un preciso contesto storico, con determinati fini e
contro un determinato avversario. E invece la fioritura delle bandiere viene dall’incontro, che si verifica oggi, tra chi osa ancora sperare in un mondo senza
più guerre e chi, più limitatamente, proprio non riesce a condividere questa
guerra annunciata e le sue ragioni.
A consolazione dei non-pacifisti di per sé a corto di argomenti accorrono
in fondo solo i “teatrini” della politica, con i giochi delle mozioni, gli opportunismi fin troppo smaccati, dove le divergenze sembrano più dettate dalla lotta
per la leadership nell’opposizione che non da un approccio serio alla questione. Un modesto contributo riescono a darlo anche i per altro lodevoli no-global, i quali, non contenti della fioritura epidemica di bandiere, non riescono a
sfuggire alla tentazione dell’antagonismo diretto, dello scontro fisico, seppur
non-violento; non che mi spaventi tanto la prospettiva di farmi la notte in treno
od in stazione perché la linea ferroviaria è bloccata da alcuni incatenati; piuttosto mi inquieta questa esigenza di “fuga in avanti”, quasi che la preoccupazione fondamentale sia di vedere “chi è disposto ad andare fino in fondo”, più
ancora che di raggiungere risultati effettivi, non solo d’immagine, più che di allargare un consenso e rafforzare una convergenza sempre più vasta.
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L’osservatorio dell’ambasciatore
Su Panorama di qualche settimana fa, in risposta ad una lettera scandalizzata di un lettore che diceva di non comprendere la posizione della Chiesa, tenera nei confronti di un dittatore che non aveva esitato a massacrare i bambini
curdi con i gas, con l’usuale lucida freddezza Sergio Romano spiegava (bontà
sua) che la Chiesa cattolica è un’istituzione umana, preoccupata di difendere i
suoi aderenti, e che si muove pensando agli arabi cristiani. Il fatto che questo
non possa che avvenire con un ricorso al linguaggio della giustizia conferisce
certo una patina di ipocrisia alla sua azione, ma non toglie nulla alla sua trasparenza razionale.
Così potrà ben sembrare dalle distanze siderali dalle quali il noto opinionista è solito far calare i suoi pareri. Potrebbe ben essere che in questa circostanza la Chiesa cattolica, con tutte le sue difficoltà, debolezze e contraddizioni, anche grazie alla sua diffusione trasversale rispetto alle contrapposizioni in
corso, proprio perché ha antenne (umane) in diversi angoli della terra, avverte
in modo più netto il carattere inaccettabile degli sviluppi annunciati. Più di altri coglie che questa leadership del mondo occidentale, che una dopo l’altra
propone guerre “chirurgiche”, dichiarate senza troppi rimorsi perché finora si
vincono in cielo prima ancora di cominciare, rivela, in realtà, una crudele impotenza ad affrontare in modo costruttivo le questioni autentiche. Dal suo osservatorio, ha visto molto bene che la teoria della guerra preventiva è un inquietante segno di disperazione, un voler colpire per primi prima che sia troppo
tardi, quando invece il crescere delle tensioni dovrebbe essere colto come un
invito ineludibile a reimpostare i problemi della distribuzione delle risorse e
della ricchezza sul consenso e lo sviluppo sostenibile invece che sul consumo
irresponsabile e sull’esproprio dei più deboli.
Verrebbe da osservare all’ambasciatore che è provvidenziale che gli interessi della Chiesa come istituzione terrena la abbiano resa consapevole di questi problemi molto di più dei signori della “comunicazione”, i quali, impegnati soltanto ad imporre i propri messaggi, hanno disimparato ad ascoltare, a
leggere i segni di un tempo che cambia.
tre guerre, passate ma anche future, come uno scontro tra Occidente ed Islam,
suggerendo che si tratti di un conflitto tra religioni. Non si può non dire no a
questo ennesimo tentativo di arruolare Dio nei propri eserciti mandandolo in
prima linea a morire perché trionfino i propri interessi economici e politici. A
questo tentato “deicidio”, gli uomini di fede contrappongono un modo di vivere la religione che sia fondamento di dialogo. E così il calunniato universalismo delle religioni, che secondo alcuni porterebbe necessariamente all’intolleranza, potrà mostrare di essere più adeguato al mondo divenuto globale dei
tanti piccoli egoismi locali e divenire uno dei terreni sui quali poter cominciare a ricostruire quanto anche questo conflitto, dovesse malauguratamente scoppiare, avrà tentato di distruggere.
Di ritorno ad un’ora ormai tarda, mi pare di scorgere la bandiera della
pace, agitata dal vento, sul campanile di una chiesa persa nelle campagne della Bassa, forse quella del convento delle Serve di Maria. Per quanto sia consapevole dei limiti della mia personale testimonianza di pace, è ormai ora che
penda anche da casa mia, ad esprimere con gli altri una speranza non urlata, casalinga come lo scompiglio del mio balcone, imbevuta di quotidiano ma non
per questo meno ferma. Una speranza diffusa e sommessa, che trova infine il
modo di venire alla luce con il messaggio insieme silenzioso ed eloquente dell’arcobaleno di stoffa.
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Tentato deicidio
L’opposizione alla guerra annunciata, tuttavia, non è solo protesta contro
una politica miope e rapace, ma anche segno del maturare faticoso, ma inequivocabile, del rifiuto di un gioco mortale in cui si tenta di gabellare questa ed al-
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Documenti
I pericoli della pace
MARÍA ZAMBRANO
essuno, oggi, oserebbe esprimere dubbi sulla guerra: nessuno, in
nome di nulla, può difendere questa causa. E, quindi, nessuno, tanto
meno, potrebbe esimersi dal deporre il proprio voto nell’urna invisibile che raccoglie le volontà umane, il proprio voto per la pace. Ma appare alquanto incerto sapere se questo voto per la pace in molti casi sia accompagnato dalla coscienza, o almeno dal presentimento, dei problemi profondi e seri
che lo “stato di pace” comporta.
Non solo non deve esserci la guerra, che sarebbe di certo l’ultima di tutta
una storia, ma si deve istituire la vita in vista della pace. E la pace è innanzitutto assenza di guerra, ma è qualcosa di più, molto di più, la pace è un modo
di vivere, un modo di abitare il pianeta, un modo di essere uomo; la condizione preliminare per realizzare l’uomo nella sua pienezza, poiché la creatura
umana è una promessa.
Entrare nello “stato di pace” significa oltrepassare una soglia: la soglia tra
la storia, tutta la storia che vi è stata finora e una storia nuova. Si tratta, insomma, di una vera e propria “rivoluzione”, il duplice compiersi di quel sogno della rivoluzione pacifica che tante grandi menti hanno sognato; duplice compiersi perché oltre a essere pacifica, quella rivoluzione dovrà avere per contenuto
appunto la pace.
Indietreggiare davanti a quella soglia non è possibile. “Essere o non essere”, vivere in pace o cessare di vivere è il problema. In questo caso la necessità
costringe alla morale. E per nostra vergogna, la pace viene imposta, innanzitutto, anziché dalle considerazioni della coscienza morale o dalla ripugnanza
del cuore di fronte agli orrori e allo stesso esistere della guerra, dalla certezza
che la guerra comporterebbe, e in breve tempo, la distruzione del mondo che
definiamo civile, del nostro mondo.
Ma questa condizione non è ancora lo stato di pace, finché sarà la guerra a determinare l’assenza della guerra. È semplicemente uno stato di nonguerra. Uno stato ambiguo e pericoloso. La storia ha dimostrato infatti che le
paure più fondate sono state cancellate in un minuto di pazzia. Il fatto che
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qualcosa non si verifichi per paura, e solo perché se ne prova paura, non significa che non possa verificarsi, non foss’altro perché l’uomo tende a liberarsi dalla paura e dimentica. La creatura umana può trovare ricetto nelle situazioni più assurde e pericolose, e ciò ha reso possibile tanto sublime
eroismo e anche tanto terrore e tanta abiezione, finché un giorno la catastrofe arriva implacabile.
E, d’altro canto, una situazione sostenuta solo dalla paura è priva di sostanza morale, di quella sostanza morale a cui l’uomo non può rinunciare, dal
momento che tanto ha provato e tanto prova a farlo ma senza riuscirvi.
E quindi non vi sarà stato di vera pace fino a quando non sorgerà una morale vigente ed efficace tutta rivolta alla pace, fino a quando tutte le energie assorbite dalle guerre non saranno messe in discussione, fino a quando l’eroismo
non troverà nuove strade, l’eroismo di coloro che basano sulla guerra il senso
della propria vita, fino a quando la violenza non sarà cancellata dagli usi correnti, fino a quando la pace non sarà diventata una vocazione, una passione, una
fede capace di ispirare e illuminare. Di sicuro alla nostra cultura occidentale
non mancano le fondamenta religiose e morali per tutto ciò.
María Zambrano, Peligros de la paz, in «Diario 16», 24 novembre 1990. In versione italiana: I pericoli della pace, a cura di Glauco Felici, in «Leggere», n. 13, 1991, p. 5.
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María Zambrano (1904-1991), “Signora della parola”, è una pensatrice spagnola
di singolare vitalità, che in modo sentito e deciso ha marcato momenti cruciali della storia novecentesca. Andalusa di origine, un’esistenza che attraversa quasi tutto il secolo e
che la vede costretta a respirare la tensione per la guerra civile ed il successivo terrore
disarmante, a causa della dittatura franchista. L’energica “Mujer Filosofo”, costretta
dalle circostanze, assume l’esilio, durato per lei 45 anni, come una vera e propria condizione di vita, sentendosi compromessa con il mondo, e per questo spinta da un’insaziabile volontà di riscatto e continua rinascita. Le sue parole, riflettendo uno spirito acceso e combattivo, mettono in luce lo spiccato ottimismo che la caratterizza. Ottimismo,
che rende piena, autentica ogni sua affermazione. Un sentimento profondo pervade anche questo testo, uno degli ultimi scritti prima di morire (7 febbraio 1991). Parole apparentemente rigide, dure, accusatorie, il cui intento non è tanto quello d’informare, o
di rimproverare, additando noi lettori, noi tutti. María Zambrano vuole penetrare l’animo di ognuno per scuoterlo, per smuoverlo, per distoglierlo da troppa fissità.
Chi vuole realizzare ideali irraggiungibili finisce con l’invischiarsi in mondi in
cui prevale, alternandosi, il nero o il bianco, mondi che, in questo modo, dividono, allontanano, immobilizzano ulteriormente. Mentre Zambrano ama le sfumature, ama il
movimento, ama le luci e le ombre, ama l’aurora, espressione massima di quello che è
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Oltrefrontiera
il lieve, delicato passaggio del tempo, “un’ora che non è figlia del giorno”. L’aurora è
data da chiaro-scuri che si compenetrano, plasmano e modificano i contorni di un quadro, il quadro della vita, ininterrottamente, mantenendo un filo conduttore, che eviti
brusche rotture o la nascita di concetti assoluti, fini a se stessi. Dire guerra e dire pace
è un po’ come dire nero e bianco. Ma guerra e pace non sono due facce della stessa medaglia, che non sarebbe altro che la nostra stessa vita. Vivere inseguendo uno schema
fisso, rinchiudendosi in una struttura rigida, non è vivere, bensì temere la vita. La paura di vivere non fa vivere, ma induce a programmare l’esistenza in modo piatto, e quel
che è peggio, fa pensare la vita a questa stessa maniera, cioè dominata da una guerra
da eliminare attraverso un’altra guerra, in vista della pace. Una proporzione perfetta,
uno straordinario gioco di prestigio, una vera magia quella capace di risolvere, per
mezzo di una logica banale, l’intricato dilemma: pace o guerra, guerra o pace. E Zambrano sostiene, è ovvio, la pace. Ma qui non si tratta di dire cosa ci piace, perché la risposta è certo scontata. Il vero messaggio, lo scossone che la pensatrice spagnola vuole dare è un altro, e lascio a lei ripetere le persuasive parole, indirizzate, allora, a chi si
tormentava per la guerra nel Golfo: “Non vi sarà stato di vera pace fino a quando la
pace non sarà diventata una vocazione, una passione, una fede capace di ispirare e di
illuminare”. La pace come vocazione, passione, fede che illumina; questo è, sì, ciò che
vorremmo. (Francesca Paoli)
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Quotidianità palestinese
(a cura dei volontari dell’associazione papa Giovanni XXIII)
l ponte della by-pass road che collega Israele al blocco degli insediamenti
di Gush Qatif (undici in tutto), che occupa gli ultimi 15 chilometri di costa
della Striscia di Gaza, sovrasta il check point di Abu Holi. Da lontano riusciamo a vederne la fila di lampioni gialli nel buio della notte. In attesa, di fronte alla torretta dei soldati israeliani, ci sono centinaia di palestinesi, accampati
intorno a fuochi d’emergenza. Parlano, dormono, pregano, tra i taxi gialli sommersi da valige di cartone, materassi, scatoloni, grosse buste chiuse con lo spago che ricordano quelle degli emigranti italiani del dopoguerra.
Sono le 10 di sera di giovedì 20 febbraio. Siamo qui al check point, dopo
avervi passato tutto il pomeriggio. La gente in attesa è diminuita. Molti sono
tornati indietro a cercare un letto di fortuna, in giornata si arrivava anche a 1500
persone. Il check point è chiuso dalle tre di pomeriggio di ieri, con un’interruzione notturna di un’ora, alle tre di notte, per far passare i pochi palestinesi che
ancora lavorano in Israele.
Molti degli accampati stanno tornando dal pellegrinaggio alla Mecca che
tradizionalmente si fa nei due mesi seguenti alla fine del Ramadan. Arrivano
dall’Arabia Saudita attraverso la frontiera di Rafah tra Egitto e territori Palestinesi Occupati, frontiera controllata dagli Israeliani che hanno demolito circa
600 abitazioni civili palestinesi negli ultimi due anni per creare una fascia di sicurezza larga circa 500 metri sul confine.
Nel pomeriggio abbiamo passeggiato tra le persone, cercando di comunicare in un misto di arabo e inglese da Totò e Peppino. Stanno aspettando anche
da tre giorni, con poco cibo e poca acqua. Alcuni ragazzini girano tra la gente
vendendo tè, noccioline e gomme americane per uno shekel (poco meno di venti centesimi di euro). Qualche persona si sente male, soprattutto donne anziane. (…) Stupisce la resistenza di questa gente. A ogni accenno di apertura del
check point è tutt’un fuggi fuggi precipitoso verso le macchine, felici che l’attesa sia finita, apparentemente senza rabbia per ciò che stanno subendo. Quando si accorgono che è un bluff tutto ricomincia a scorrere lentamente in un’aria di stanca rassegnazione.
Abu Holi è regolato da un semaforo, si transita in ambedue le direzioni ma
I
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Etica
mai contemporaneamente. Non ci sono regole né orari fissi, a volte il semaforo
può rimanere per ore fermo sul rosso. In realtà i semafori sono due, di fianco a
due torrette militari coperte dalla mimetica verde da cui spunta solo la canna del
mitragliatore dei soldati. Le torrette sono alle estremità di un tratto di strada lungo ottocento metri sopra la quale appunto passa la by-pass road dei coloni. Oggi
ad ostruire la strada c’era anche un tank. Passaporti in mano, alti sulla testa per
essere ben riconoscibili, ci siamo avviati pian piano verso i soldati, come sempre giovanissimi, per cercare di parlarci. Hanno fatto avvicinare solo una persona, e dall’aggressività delle prime domande “Perché stai qui e a fare che” sono
passati a “tante scuse, faremo il possibile per aprire ma questi sono gli ordini”.
Dall’altro ieri la Striscia di Gaza, nei suoi 43 chilometri di lunghezza, è
stata spezzata dall’IDF (Israeli Defence Force) in tre parti ermeticamente chiuse. La prima interruzione è sulla strada costiera (l’unica strada percorribile per
spostarsi da nord a sud e viceversa), all’altezza della colonia di Netzarim, appena fuori Gaza city. Una grossa buca è stata scavata con i bulldozer e i soldati sparano su chi tenta di passare. Il secondo blocco, quello di Abu Holi, isola
tutta l’area a sud, i distretti di Khan Yunis e Rafah. (…)
Intanto qui a Sud le ultime due notti le abbiamo passate in una snervante
attesa. Tutti si aspettano un attacco in grande stile da un momento all’altro. Un
responsabile di un’agenzia Onu ci ha informato che almeno una cinquantina di
tanks sono posizionati sulla Green Line alle nostre spalle e sulla strada costiera della colonia di fronte stanotte abbiamo notato un gran movimento di carri
armati. Qualche sparo e qualche esplosione fanno ormai parte della normalità.
Questa è la tragica quotidianità della Palestina occupata. Una quotidianità
che non fa notizia, che non è degna di entrare nell’agenda dei media occidentali.
È estremamente urgente una presenza internazionale al fianco della popolazione civile palestinese. “I volontari internazionali possono avere un ruolo
determinante in questa situazione. È essenziale che il maggior numero di persone sia consapevole della situazione di sofferenza ed umiliazione della popolazione civile palestinese, e venga in Palestina”, afferma Moustafa Barghouti,
fondatore dell’Upmrc (Union of Palestinian Medical Relief Committees) e
coordinatore del Gipp (Grassroots international protection for palestinians).
“Gli internazionali presenti in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza in questo
momento sono troppo pochi per garantire azioni efficaci per la protezione della popolazione civile. Israele e gli Usa non hanno accettato la richiesta di invio
di osservatori Onu nei Territori Occupati, per questo noi rivolgiamo un appello accorato ai cittadini dell’Unione Europea e a tutta l’opinione pubblica mondiale perché il popolo palestinese non sia lasciato solo”.
(www.operazionecolomba.org) ■
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Carità e solidarietà in alcuni
Padri della Chiesa
PAOLO ZANINI
Pubblichiamo il testo della relazione tenuta a Trento lo
scorso 21 dicembre da fr. Paolo Zannini, del Centro studi biblici “G. Vannucci” di Montefano (MC).
o intitolato questa mia conferenza Carità e solidarietà in alcuni Padri
della Chiesa perché non esiste un ‘pensiero unico’ dei Padri, come
solo una mentalità dogmatica può farci credere, dato che la parola
“Padri” indica autori che hanno scritto lungo otto secoli di storia con situazioni perciò molto diverse e appartenenti anche a culture molto diverse (greca, siriana, latina... tutte quelle che si affacciano sul mar Mediterraneo). Mi limiterò
pertanto nella mia riflessione ai soli Padri greci dei primi quattro secoli, perché
per essi ancora l’unica autorità era la Parola di Dio e ad essa unicamente si attenevano nella loro riflessione e nel loro agire; pertanto anche la riflessione sulla carità scaturì per la maggior parte di essi dalla rivelazione che Dio stesso ha
dato di sé: attesta infatti la prima lettera di Giovanni (4,8): “Dio è amore”. Tutta la prima riflessione patristica greca sulla carità si fonda sul riconoscimento
di questa identità divina da cui scaturisce, come rileva sempre san Giovanni, la
nostra carità: “Amiamoci gli uni gli altri perché l’amore è da Dio” (1 Gv 4,7).
Per questo l’autore della Lettera a Diogneto può affermare:
H
“Chi fra tutti gli uomini sapeva che cosa è Dio, prima che egli venisse? Vorrai accettare i discorsi vuoti e sciocchi dei filosofi degni di fede? Alcuni affermavano che
Dio è il fuoco, ove andranno essi chiamandolo Dio, altri dicevano che è l’acqua,
altri che è uno degli elementi da Dio creati. Certo, se qualche loro affermazione è
da accettare si potrebbe anche asserire che ciascuna di tutte le creature ugualmente manifesta Dio … Nessun uomo lo vide e lo conobbe, ma egli stesso si rivelò a
noi. Si rivelò mediante la fede, con la quale solo è concesso vedere Dio. Dio nostro Signore e creatore dell’universo, che ha fatto tutte le cose e le ha stabilite in
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ordine, non solo si mostrò amico degli uomini, ma anche magnanimo. Tale fu sempre e sarà: eccellente, buono, mite e veritiero, il solo buono” (8, 1-8).
Da questa identità di Dio non può che scaturire la vera identità anche dell’uomo: creato ad immagine di Dio, secondo l’espressione della Genesi, da cui
Origene nel III secolo ha sviluppato una interessantissima riflessione sul rapporto tra Dio e l’uomo, ripresa e sviluppata continuamente dai Padri greci. Così
continua l’autore della Lettera a Diogneto:
“Come non amerai colui che ti ha tanto amato? Ad amarLo [Dio] diventerai imitatore della Sua bontà e non ti meraviglierai se un uomo può diventare imitatore di
Dio: lo può volendolo lui [l’uomo]. Non si è felici nell’opprimere il prossimo, nel
voler ottenere più dei deboli, arricchirsi e tiranneggiare gli inferiori: in questo nessuno può imitare Dio, sono cose lontane dalla Sua grandezza! Ma chi prende su di
sé il peso del prossimo e in ciò che è superiore cerca di beneficare l’inferiore; chi,
dando a chi è in necessità ciò che ha ricevuto da Dio, è come un Dio per i beneficati, egli è imitatore di Dio” (10, 3-8).
primissimi Padri della Chiesa, morto martire. Nella sua Lettera alla Chiesa di
Smirne, dopo aver dedicato tre capitoli (2-5) a combattere i doceti, afferma in
modo categorico:
“Coloro poi che hanno opinioni diverse a riguardo della grazia di Gesù Cristo che
è venuta a noi, osservate come sono contrari al pensiero di Dio: non si curano della carità, né della vedova, né dell’orfano, né del tribolato, né di colui che è prigioniero o che è stato liberato, né di colui che ha fame o sete” (6,2).
Chi non ha compreso la logica dell’incarnazione o la nega, perché le sembra indegna di Dio, sarà refrattario alla carità e alla solidarietà. Negare la realtà
dell’incarnazione equivale a negare la presenza di Dio nel dolore umano. Nella seconda lettera di Giovanni si dichiara che chi non confessa che Gesù è venuto nella carne, è il seduttore e l’Anticristo: per Ignazio di Antiochia questo
equivarebbe a dire che chi non professa un’opzione reale per i poveri, è il seduttore e l’Anticristo.
Perfino i legislatori monastici come san Basilio (Padre cappadoce del IV
sec.) si sono spesso espressi contro uno spiritualismo devoto privo di solidarietà.
Logica dell’incarnazione e comandamento dell’amore
Anche il tema della “solidarietà” non ha nei Padri greci una connotazione
sociologica ma teologica. Il solidale per eccellenza è stato Cristo che, come ci
ricorda san Paolo nella lettera ai Filippesi, pur essendo Dio non tenne conto
della sua dignità, della sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini, cioè solidale in
tutto con la loro condizione di vita.
Non per nulla una delle prime eresie che hanno colpito la Chiesa fu proprio
il docetismo, che negava questa solidarietà di Dio con l’uomo e contro cui i Padri dell’epoca reagirono energicamente. I doceti affermavano un’incarnazione
non reale ma apparente, per cui Dio in Gesù Cristo della carne avrebbe solo fatto un vestito per farsi vedere, come un fantasma che smuove un lenzuolo; vestito di cui non partecipa affatto, che indossa nascendo e lascia inchiodare sulla croce, sfilandosi tranquillamente da esso senza essere affatto coinvolto da quegli
eventi che colpiscono quello che in fondo è qualcosa altro da sé. Questa visione
ha delle conseguenze gravissime: chi non crede come realmente vero che Gesù
è venuto nella nostra stessa carne (e, dunque, non in una carne celeste o apparente), difficilmente potrà credere nella presenza di Dio nei poveri, o nell’amore
di Dio per gli uomini. Spiritualismo devoto e mancanza di solidarietà, caratteristica di un atteggiamento anticristiano, sono, dunque, intimamente legati.
Contro questa duplice piaga si schiera sant’Ignazio di Antiochia, uno dei
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“Non si deve dire: ‘Ma io prego’ per giustificare la propria pigrizia, il proprio orrore della fatica. Si deve piuttosto approfittare del lavoro … Non solo. Oltre ad essere una necessaria disciplina del corpo, il lavoro è un’esigenza dell’amore verso
il prossimo: grazie alla mediazione del nostro servizio, Dio dona ai fratelli indigenti i mezzi della loro sopravvivenza” (Regole maggiori, 37).
“Se qualcuno sostiene di poter bastare a se stesso, di essere capace di arrivare alla
perfezione senza che alcuno lo aiuti, di riuscire da solo ad approfondire la scrittura, costui fa esattamente come chi vuole esercitare il mestiere del falegname senza toccare il legno … Amando gli uomini fino all’estremo il Signore non s’è limitato a insegnarci solo a parole: per dare un esempio preciso ed efficace dell’umiltà
nella perfezione dell’amore, s’è messo un grembiule ai fianchi ed ha lavato i piedi
ai discepoli. Tu, che vivi tutto solo con te stesso, a chi laverai i piedi? Dopo di chi
ti metterai come ultimo? A chi offrirai il tuo servizio fraterno? … Quelli che perseguono lo stesso fine se vivono insieme troveranno in questa convivenza molti
vantaggi … nella vita solitaria: quel che abbiamo non ci serve e quello che ci manca non possiamo procurarcelo. Sì, Dio ha voluto che noi siamo indispensabili gli
uni agli altri per essere uniti gli uni con gli altri. Del resto, il precetto di Cristo sull’amore non ci permette di occuparci soltanto di noi stessi: ‘l’amore non cerca il
proprio interesse (1 Cor 13,5)’. Invece, la vita solitaria cerca appunto questo: il
vantaggio del singolo. Un fine che è evidentemente l’opposto della legge dell’amore. Basta pensare a come Paolo ha osservato questa legge: egli ha cercato non
il tornaconto personale ma quello di molti altri, cioè la loro salvezza (cfr 1 Cor
10,33” (Regole maggiori, 7).
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Appare lontana chilometri anni luce questa concezione della perfezione
cristiana da quella che tanto spesso è stata inculcata: una perfezione da ricercare nel sottrarci a tutto per darci a Dio; san Basilio direbbe che ciò non ci consegna a Dio, nonostante la pietà, la devozione e le preghiere, ma al nostro egoismo, e aggiunge: “il Signore non vuole che il segno di riconoscimento dei suoi
discepoli consista nei miracoli, ma afferma: ‘Riconoscerà la gente che siete
miei seguaci dal vostro amore vicendevole’” (Regole maggiori, 3).
Questo malinteso concetto di onorare Dio solo in modo cultuale fu spesso rimproverato dai Padri greci, in particolare da san Giovanni Crisostomo, vescovo dal 397 della capitale dell’impero, Costantinopoli, esiliato due volte
(morì in esilio) proprio a causa della sua predicazione ed azione, ma che fu
chiamato “bocca d’oro” (Crisostomo) dalla Chiesa per la verità e la bellezza
nell’esporre il messaggio evangelico. Crisostomo espone con la massima chiarezza l’assurdità di onorare Dio solo con atti di culto in una celebre omelia sul
Vangelo di Matteo:
“Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non permettere che sia oggetto di disprezzo nelle
sue membra cioè nei poveri, privi di panni per coprirsi. Non onorarlo qui in chiesa
con stoffe di seta, mentre fuori lo trascuri quando soffre il freddo e la nudità. … Il
corpo di Cristo che sta sull’altare non ha bisogno di mantelli, ma di anime pure; mentre quello che sta fuori ha bisogno di molta cura. Impariamo dunque a pensare e a
onorare Cristo come egli vuole. Infatti l’onore più gradito che possiamo rendere a colui che vogliamo venerare è quello che lui stesso vuole, non quello escogitato da noi.
Anche Pietro credeva di onorarlo impedendo a lui di lavargli i piedi. Questo non era
onore, ma vera scortesia. Così anche tu rendigli quell’onore che egli ha comandato,
fa’ che i poveri beneficino delle tue ricchezze. Dio non ha bisogno di vasi d’oro, ma
di anime d’oro. Con questo non intendo certo proibirvi di fare doni alla chiesa. No.
Ma vi scongiuro di elargire, con questi e prima di questi, l’elemosina. Dio infatti accetta i doni alla sua casa terrena, ma gradisce molto di più il soccorso dato ai poveri. Nel primo caso ne ricava vantaggio solo chi offre, nel secondo invece anche chi
riceve. Là il dono potrebbe essere occasione di ostentazione; qui invece è elemosina
e amore. Che vantaggio può avere Cristo se la mensa del sacrificio è piena di vasi
d’oro, mentre poi muore di fame nella persona del povero? Prima sazia l’affamato,
e solo in seguito orna l’altare con quello che rimane. Gli offrirai un calice d’oro e non
gli darai un bicchiere d’acqua? Che bisogno c’è di adornare con veli d’oro il suo altare, se poi non gli offri il vestito necessario? Che guadagno ne ricava egli? Dimmi:
se vedessi uno privo del cibo necessario e, senza curartene, adornassi d’oro solo la
sua mensa, credi che ti ringrazierebbe o piuttosto non si infurierebbe contro di te? E
se vedessi uno coperto di stracci e intirizzito dal freddo, trascurando di vestirlo, gli
innalzassi colonne dorate, dicendo che lo fai in suo onore, non si riterrebbe forse di
essere beffeggiato e insultato in modo atroce?” (Omelia 50,3-4).
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Queste parole acquistano ancor più significato se pensiamo che san Giovanni Crisostomo non fu affatto uno di quelli che trascuravano la liturgia, visto
che la liturgia che tutte le comunità cristiane bizantine, cattoliche o ortodosse
che siano, celebrano da secoli porta il suo nome.
Il rischio però di pagine anche forti, come quella che ho appena letto, è che
ci diano l’impressione che i Padri greci ponessero l’accento più su un versante
dell’assistenzialismo (elemosina) che della solidarietà (condivisione). Non ci
potremmo fare idea più sbagliata; prendo a campione – ma ne potrei portare altre anche di altri autori – l’Omelia sulla parola del vangelo “Demolirò i miei
magazzini e ne costruirò di più grandi” (Lc 12,18) di san Basilio Magno, perché è certamente la più esplicita sul tema:
“Informati, uomo, su chi è colui che ti ha dato ciò che possiedi; rammenta chi sei,
che cosa è ciò che tu amministri, da chi lo hai ricevuto, perché sei stato scelto tu al
posto di altri. Sei stato costituito semplice servitore di Dio, amministratore di coloro che sono servi di Dio allo stesso modo di te. Non credere che tutto quanto sia
stato preparato unicamente per il tuo stomaco. Devi pensare che ciò che tieni tra le
mani è cosa altrui … e che di tutto ti verrà chiesto conto … ‘Che farò mai?’. Logico sarebbe rispondere ‘sazierò le persone affamate, aprirò le porte dei miei magazzini e inviterò tutti i bisognosi’. Pronuncerò questa magnifica frase: ‘voi tutti,
che necessitate di pane, venite a me’… Ma tu non facevi parte di questa categoria
di uomini … Ma guardatevi: non è ridicolo tutto ciò? Che decisioni si appresterà
mai a prendere, lui, che già ha un piede nella fossa! ‘Demolirò i miei magazzini e
ne costruirò di più grandi’ (Lc 12,18). E io gli direi: ‘Fai molto bene!’ Perché questi magazzini di iniquità sono degni di essere demoliti. Abbatti con le tue stesse
mani ciò che tu stesso hai edificato contro giustizia. Distruggi questi magazzini,
giacché mai sono serviti a soccorrere alcuno. Demolisci questa casa, culla dell’avarizia … Tu insisti: ‘Ma chi danneggio col tenere per me ciò che è mio?’. Vediamo meglio: che cosa è questo che tu dici essere tuo? Lo hai forse preso da qualche
parte, perché tu venissi con esso alla vita? Sarebbe come se a teatro uno, volendo
occupare per primo un posto a sedere, si mettesse a gettare fuori quelli che vogliono entrare dentro, appropriandosi così di ciò che è lì apposta perché tutti ne
possano disporre. Ed è appunto in questo modo che si diviene ricchi: in virtù del
solo fatto di essersi impadroniti per primi di ciò che è di tutti, ecco che allora se ne
viene ad acquistare anche la proprietà, a titolo di primi occupanti. Se ciascuno
prendesse per sé solo ciò che basta per le sue necessità, lasciando ciò che resta a
disposizione di quanti ne hanno bisogno, forse nessuno sarebbe ricco, ma neppure vi sarebbe qualcuno povero. Non sei forse uscito nudo dal grembo di tua madre?
E non dovrai forse tornare, sempre da nudo, nel seno della terra? Allora da dove
proviene ciò che possiedi? Perché se rispondi che viene dal caso, sei empio, dal
momento che non riconosci il Creatore e non lo ringrazi per quanto hai ricevuto.
Ma se confessi che tutto viene da Dio, dicci allora per quale ragione lo hai ricevu-
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to. Forse Dio è ingiusto, per il fatto che i mezzi necessari alla vita si trovano ripartiti in maniera ineguale? Per il fatto che tu sei ricco e l’altro povero? Non sarà invece piuttosto perché possiate venire entrambi coronati, tu per aver saputo dare e
lui per aver saputo essere paziente? Ma allora com’è possibile che tu creda di non
recare offesa ad alcuno, quando rinchiudi tutto quel che possiedi nelle viscere insaziabili della tua avarizia, e sono tanti e tanti coloro che tu defraudi? Avido è colui che non si contenta del necessario, e ladro è colui che toglie agli altri quanto è
loro. E tu non sei forse avido o ladro, nel momento in cui ti appropri di ciò che ti
fu dato soltanto perché tu lo amministrassi? Se diamo il nome di ladro a chi spoglia dei propri abiti uno che è vestito, daremo forse altro nome a chi non veste un
ignudo, pur potendolo fare? Il pane che tieni per te è quello dell’affamato; i vestiti che conservi nelle tue casse sono quelli dell’ignudo; la calzatura che imputridisce nella tua casa è di colui che va in giro scalzo. In sostanza: tu stai recando offesa a tutti coloro che potresti soccorrere”.
Non proprietari ma amministratori
La solidarietà e la condivisione sono dunque per i Padri greci il logico risultato dell’essere non proprietari ma amministratori dei beni della creazione
posti da Dio a beneficio di tutti e chi se li accaparra in forma privata e non solidale è un ladro e manca di carità, cioè dell’amore di Dio!
Di qui nasce un altro filone, anche questo molto comune fra i Padri greci,
quello delle omelie contro le ricchezze: eccone una ancora di san Basilio:
“Ma tu possiedi molte ricchezze: da dove ti vengono, allora? Presto detto: dal fatto
che tu hai preferito goderne da solo, anziché soccorrere, servendoti di esse, i molti.
Questo è chiarissimo. Pertanto, nella misura in cui tu abbondi di ricchezze, in questa stessa misura tu sei manchevole di carità. Se davvero amassi il tuo prossimo, da
tempo avresti pensato di disfarti di ciò che possiedi. La verità, tuttavia, è che i ricchi,
nella grande maggioranza dei casi, non si limitano a ricercare il possesso del denaro
semplicemente per l’acquisto di cibo e del vestiario; e questo perché il diavolo si dà
molto da fare nel suggerire loro infiniti pretesti per spendere: così che si va ricercando ciò che è inutile scambiandolo per ciò che è necessario, e niente mai basta a
soddisfare i bisogni delle loro fantasie. … Quando possiedi una bella somma, già vai
desiderandone un’altra uguale. Appena l’hai ottenuta, ecco che subito vai bramando
di raddoppiarla. E così via: ogni volta, ciò che aggiungi non sazia il tuo desiderio di
possesso, ma semplicemente accende di nuovo la tua avidità”.
Sono parole del IV secolo, ma che mantengono tutta la loro attualità allorché smascherano i meccanismi della nostra economia consumistica, dove i
bisogni vanno indotti perché si crei domanda e si possa moltiplicare all’infini-
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to l’offerta ed il profitto; poco importa se tutto questo è a scapito di una equa
distribuzione delle risorse! Occorre dunque non solo condividere i beni, ma
cambiare stile di vita perché questo sia possibile.
Invece con la scusa di soddisfare i propri bisogni, persone singole e società
intere accumulano ricchezza impedendo ad altri di soddisfare bisogni primari.
Però si considerano ugualmente persone pie:
“So di molti che digiunano, che recitano preghiere, che gemono e sospirano, che
praticano ogni forma di pietà che non supponga spesa, ma che non sganciano un
soldo per i bisognosi. A che servirà poi tutta questa pietà? Non per questo li si ammetterà nel regno dei cieli! … ed essi, se mai decidessero di disfarsene [= delle ricchezze], dovranno, in questo caso, rallegrarsene, non diversamente da chi restituisce beni altrui, e non esserne irritati, come invece farebbe colui che viene privato
di un bene proprio” (san Basilio, ibidem).
Se non si può parlare di comunismo nei Padri greci è perché a loro non interessa il problema della struttura sociale ma la dignità di ogni persona, anche
se, come abbiamo visto, non si sottraggono ad analisi di meccanismi sociali e
di strutture inique anche ecclesiali (vedi il rimprovero di san Giovanni Crisostomo per il fasto nelle Chiese). La solidarietà infatti non chiede solo che si
cambino le strutture inique e se ne immettano altre buone che automaticamente producano giustizia (se mai ne esisteranno), ma che ci si converta alla giustizia. Per questo è importante non solo ciò che si fa per gli altri ma come lo si
fa. Ascoltiamo al riguardo ancora san Giovanni Crisostomo:
“Non basta aiutare i poveri. Bisogna aiutarli con generosità e senza rammarico. E
non basta aiutarli senza rammarico. Bisogna aiutarli con gioia e letizia. Quando si
aiutano i poveri devono esserci queste due condizioni: generosità e contentezza. …
Se date con atteggiamento burbero, non siete misericordiosi ma duri e disumani.
Se la vostra faccia palesa un sentimento di contrarietà, non potete sollevare il fratello che in mezzo alle contrarietà ci vive” (Sulla lettera ai Romani, 21,1 ss.).
Questa attenzione dunque alla dignità del povero che non è l’oggetto della nostra elemosina, ma il soggetto di diritti lesi che noi solidarmente gli restituiamo, è un altro elemento caratteristico della predicazione dei Padri greci.
Stupenda a questo proposito è un’altra pagina del Crisostomo che affronta un
luogo comune ancora vivo nelle nostre città: quello della finzione dei mendicanti. Guardate come acutamente Crisostomo non smentisca il fenomeno, ma
ne tragga delle conclusioni assolutamente imprevedibili:
“È follia, è demenza riempire gli armadi di vestiti e guardare con indifferenza un
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essere umano, un essere fatto a immagine e somiglianza di Dio, che è nudo, trema
dal freddo, è quasi incapace di reggersi in piedi.
Voi dite: ‘ma quello lì finge di tremare e di non avere forza!’. E con ciò? Se quel
disgraziato recita una commedia, lo fa perché dibattuto fra la propria miseria e la
vostra crudeltà. Sì, voi siete crudeli e disumani: senza quelle simulazioni non aprireste il cuore alla misericordia. Se la necessità non lo costringesse, perché si comporterebbe in una maniera così avvilente per avere un tozzo di pane?
La finzione di un mendicante testimonia la vostra disumanità. Le sue preghiere, le
sue suppliche, i suoi lamenti, i suoi pianti, il suo vagare tutta la giornata per la città
non gli procuravano il minimo per campare. È forse questa la ragione per cui ha
pensato di recitare quella parte. Ma la vergogna, la colpa della sua finzione ricadono meno su di lui che su di voi. Lui infatti ha diritto alla pietà, trovandosi in tale
abisso di miseria. Voi invece meritate mille castighi avendolo costretto a tale abiezione” (Sulla lettera ai Romani, 21,5).
Uno dei primi codici di diritto canonico – ben diverso da quelli del secondo millennio – le “Costituzioni apostoliche”, un’opera canonico-liturgica della fine del IV secolo, mostra come tale zelo dei Padri che abbiamo citato (tutti
vescovi!) per le tematiche della carità e della solidarietà non fosse frutto solo
della loro inclinazione personale, ma di come era inteso il ruolo del vescovo
stesso.
“Che si verifichi dunque se questi sia irreprensibile negli affari secolari; poiché è
scritto ‘esaminate con cura colui che sarà scelto per il sacerdozio’. Che non sia irascibile, perché la Sapienza dice: ‘la collera perde anche i saggi’. Che egli sia compassionevole, generoso, amabile, perché il Signore dice: ‘Da questo tutti vi riconosceranno come miei discepoli, se vi amerete gli uni gli altri’. Che egli sia pronto
a donare, buono verso le vedove e gli stranieri, preveniente, servizievole, premuroso; che non abbia ad arrossire, che sappia chi merita di essere maggiormente preso in considerazione” (Cost. Ap. II,3-4,1).
“E sia il vescovo: non avido di guadagno … disposto a subire danno piuttosto che
a causarne, non desideroso di avere di più, non rapace, non spoliatore, non amico
dei ricchi, né sdegnoso dei poveri … non invischiato in affari del mondo, non compromesso nel dare garanzie o sostegno in cause finanziarie” (Cost. Ap. II,6,1).
“Che il vescovo sappia da chi deve accettare offerte e da chi le deve rifiutare. Deve
guardarsi in caso di donazione, dai trafficanti. Non c’è un trafficante, in pratica,
che sia immune da peccato. … Devi evitare gli sfruttatori della prostituzione … e
i ricattatori, gli ingordi di beni altrui … Ma anche quelli che fanno tribolare la vedova, opprimono l’orfano, riempiono d’innocenti le prigioni, o vergognosamente
abusano dei loro domestici con percosse – perfino – e privazione di cibo e duro lavoro da schiavi, o che sfruttano intere città; tu, o vescovo, evitali assieme alle loro
nauseanti donazioni” (Cost. Ap. IV,6,1-4).
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Gli ultimi della società, membri privilegiati della Chiesa
Il vescovo era dunque il primo garante della solidarietà con le persone
che vivevano in condizioni di esistenza svantaggiate. Basti pensare che questo
diritto canonico diviso in otto libri, dopo aver dedicato il secondo libro proprio
alla figura del vescovo, dedica i tre libri seguenti alla solidarietà da accordare
da parte di tutta la Chiesa, con in testa il suo vescovo, alle vedove, agli orfani e
ai martiri.
Queste tre categorie erano infatti, nei primi secoli del cristianesimo, tra i
problemi sociali più urgenti. Le vedove e gli orfani erano sprovvisti di protezione e per questo maltrattati e oppressi, senza che potessero in alcun modo difendersi. Proprio per questo fatto la comunità cristiana li considerava i suoi
membri privilegiati, e questo appariva senza dubbio in controtendenza rispetto
alla società che li emarginava. Uno dei più feroci beffeggiatori dei cristiani da
parte pagana, il retore Luciano, seppure per deridere descrive l’importanza delle vedove e degli orfani nei gruppi cristiani (Peregrin. 12), perché a nessuno poteva sfuggire in quanta poca considerazione fossero invece tenuti fuori dalle comunità.
D’altra parte in Grecia e a Roma la legislazione tutelava solo i diritti e gli
interessi dei bambini nati liberi e cittadini, per cui la situazione degli orfani era
particolarmente precaria. Sono le stesse fonti romane a dircelo. Il celebre scrittore Plinio il Giovane, che fu console in Asia Minore, si preoccupava per la sorte di questi bambini. In una sua lettera (Ep. X,65,71) all’imperatore Traiano domandava quale fosse lo stato giuridico e la cura da doversi adottare verso quei
fanciulli che, nati liberi, erano stati abbandonati e quindi raccolti ed allevati per
farne degli schiavi. Traiano (Ep. X,65,72), seguendo le leggi comuni, gli rispose che erano senza diritti, permettendo così gli abusi dei quali questi fanciulli
erano vittime. Per quanto ci possa oggi sembrare abominevole, solo la schiavitù e la prostituzione salvarono dalla morte un gran numero di fanciulli abbandonati.
Questa loro condizione era però così miserevole che finì per commuovere
anche alcuni pagani più sensibili. È il caso appunto di Plinio, che fece donazioni in favore di essi in diverse città, ed invitò i suoi amici a fare altrettanto,
spingendo perfino Traiano a cominciare un’assistenza molto limitata, ma che
fu certamente l’opera sociale più lodevole di questo imperatore. Tuttavia,
nonostante questi casi sporadici, i pagani vivevano nella più totale indifferenza
per la sorte miserevole degli orfani e delle vedove, come ci attesta questa
lucida descrizione di Clemente, un Padre del II secolo vissuto in Alessandria
d’Egitto:
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“Parecchie delle nostre donne son felici di passare la vita in compagnia di uomini
effeminati. Altre più sofisticate, si dilettano ad allevare animali come uccelli o pavoni. Ci giocano insieme, trovandoci piacere. Ma trascurano la vedova, che ovviamente vale assai più d’un cagnolino di razza. E disprezzano il vecchietto, che mi
sembra più degno d’amore d’una bestia. E non ospitano l’orfano, mentre allevano
pappagalli. O addirittura abbandonano per la strada i loro neonati, mentre accolgono in casa gli uccelli. Né danno da mangiare a chi ha fame, sebbene sia più bello delle scimmie e sappia dire qualcosa di più interessante degli usignoli” (Pedagogo 3,4).
Questo contesto sociologico ci permette di inquadrare meglio le disposizioni prese dai cristiani nella stessa epoca. Ad informarci sull’atteggiamento
dei cristiani nei riguardi degli orfani intervengono ancora le Costituzioni apostoliche che, come abbiamo visto, facevano del vescovo il responsabile soprattutto per la sua qualità di padre della comunità. Generalmente il vescovo affidava l’orfano ad una famiglia cristiana:
“Se un cristiano resta orfano, sia esso maschio o femmina, sarà bene che uno dei
fratelli privi di figli prenda con sé il bimbo come figlio e, se ha figli, prenda la bambina che, quando sarà giunto il momento, darà in sposa ad uno di essi” (Cost. Ap.
IV,1,1).
Così tutta la comunità si faceva carico del sostentamento e della crescita
di questi ragazzi, come anche del loro futuro inserimento nella società. Purtroppo anche a quell’epoca non tutti i cristiani sentivano questa esigenza di solidarietà, ed erano proprio quelli che avrebbero avuto meno problemi; sono
sempre i più agiati a rifiutare la condivisione. Ma ad essi la Chiesa e il vescovo ripetevano il detto ispirato a Levitico 26,16. “quello che non hanno mangiato i santi, verrà mangiato dagli Assiri”. Si legge infatti nelle “costituzioni apostoliche”:
“Ma se non ci sono delle persone disposte [ad adottare gli orfani] e uno, che preferisca piacere agli uomini, si vergogna, poiché è ricco, di prendersi cura dei derelitti, si darà pensiero dell’orfano il Padre degli orfani e Difensore delle vedove [Dio
= Salmo 67,6], e a quello toccherà uno che gli sperpererà tutto l’accumulo dell’avarizia e si avvererà a suo riguardo il detto: ‘quello che non hanno mangiato i santi, verrà mangiato dagli Assiri’, come anche dice Isaia: ‘la terra vostra al vostro cospetto la divoreranno gli stranieri’” (Cost. Ap. IV,1,2).
La comunità cristiana non poteva accettare che coloro che avevano ricevuto il battesimo non cambiassero mentalità anche nell’uso dei beni.
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Sulla solidarietà nei confronti degli orfani dei martiri abbiamo ovviamente numerosissime testimonianze. Ma la pagina forse più bella l’abbiamo da
Pergamo, nell’Asia minore, dove la folla, volendo piegare il coraggio di Agatonice, cercava di far presa su suoi sentimenti di madre ricordandole la condizione miserevole di orfani a cui avrebbe abbandonato i suoi figli se si fosse fatta martirizzare. Al console che le diceva: “abbi pietà di te stessa e dei tuoi figli,
come chiede la folla”, Agatonice rispose: “I miei figli, Dio veglia su di essi”
(Acta Carpi, Payli, Agathonicae, 6). Era certamente un’espressione di fede, ma
Agatonice sapeva anche che i fratelli e le sorelle di fede si sarebbero presi cura
dei suoi figli.
Un’altra categoria verso cui si esprimeva tutta la solidarietà delle prime
comunità cristiane erano le vedove. Per la legislazione romana, quando una
donna restava vedova finiva o sotto l’autorità della propria famiglia o di quella
del marito, e la sua situazione diveniva assai difficile perché le leggi favorivano i figli piuttosto che lei. La situazione di questa donna perciò, già difficile
quando era madre, si aggravava al raggiungimento della maggiore età da parte
dei figli perché questi venivano in possesso dei beni, e normalmente non si curavano affatto dei genitori anziani. Gli storici ci informano che ciò accadeva sia
tra i poveri che tra i ricchi.
Prendendosi carico di queste donne, la Chiesa esprimeva, al contrario della società, la propria umanità e il proprio senso sociale. Sono numerose le lettere e gli scritti che, in epoca patristica, raccomandavano con insistenza ai pastori e alle comunità di prendersi cura delle vedove. Le vedove occupavano un
posto d’onore nella comunità, tanto che san Policarpo ebbe a chiamarle “l’altare di Dio”, significando che esse vivevano delle offerte dei fedeli.
Un altro gruppo oggetto di grandissima sollecitudine e solidarietà nei primi quattro secoli del cristianesimo fu quello dei martiri. Per essi prescrivono le
Costituzioni Apostoliche:
“Se per il nome di Cristo, la fede e l’amore di Dio, un cristiano è condannato dagli empi ai giochi [del Circo], alle belve o [ai lavori forzati] nelle miniere, non abbandonatelo, ma del frutto del vostro lavoro e del vostro sudore, fategli avere di
che nutrirsi e di che pagare i soldati, perché trovi sollievo e sollecitudine e, per
quanto dipende da voi, il vostro amato fratello non sia schiacciato. Perché se qualcuno è condannato a causa del Nome del Signore Dio, è un santo martire, un fratello del Signore ... Perciò fedeli tutti, attraverso il vostro vescovo soccorrete i santi con i vostri beni e col frutto del vostro lavoro; colui che non ha niente, che
digiuni, metta da parte il nutrimento della giornata e la riservi per i santi; se qualcuno vive nell’abbondanza, che aiuti questi ultimi con doni più importanti, pro-
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porzionalmente alla sua fortuna; ma se può, vendendo tutti i suoi beni, liberi i santi dalla prigione, sarà beato e amico di Cristo … E se essi [i martiri] sono tali che
il Cristo stesso rende loro testimonianza davanti al Padre, voi non dovete avere vergogna di andarli a trovare in prigione; perché se lo farete ciò vi sarà contato come
martirio; in effetti, del martirio, essi ne fanno l’esperienza, ma per voi è nel vostro
ardore nell’associarvi al loro combattimento” (Cost. Ap. IV,1-5).
Sappiamo da varie fonti che queste non furono solo belle esortazioni di un
libro canonico, ma la realtà divenuta norma.
Lo stesso retore pagano Luciano, seppure beffardo, descrive i cristiani e le
cristiane che si affollavano vicino alle prigioni (Peregrin. 12), dove un loro fratello era rinchiuso, e ricorrevano a tutti gli espedienti per liberarlo. Pur facendo del sarcasmo, anche questo retore pagano fu costretto ad ammettere l’esistenza della fraternità e della solidarietà dei cristiani e le cure che si prestavano
a vicenda. Ma anche lo storico cristiano del IV secolo Eusebio di Cesarea ha
pagine commoventi sulla cura con la quale i fratelli, anche rischiando la vita, si
dedicavano completamente al servizio dei martiri durante la persecuzione del
203 (Storia Ecclesiastica, VI,3,4).
Nelle persecuzioni però non tutti i fedeli erano condannati a morte. Alcuni venivano inviati nelle miniere con una sorte di poco meno crudele della morte. La durata dei lavori forzati era di dieci anni. I condannati svolgevano un lavoro a catena con turni che si succedevano senza interruzioni, pari alla durata
dell’olio nelle lampade. Ciò significa che come minatori, stesi sul ventre all’interno delle gallerie, in un ambiente in cui l’aria era irrespirabile, questi
“martiri” lavoravano e soffrivano per dieci ore e più. In quelle circostanze, gli
altri cristiani non si accontentavano solo di innalzare al cielo preghiere per i
loro fratelli condannati alle miniere, ma cercavano di soccorrerli concretamente in vari modi.
Sappiamo ad esempio che la comunità di Roma, particolarmente sorvegliata e colpita da questo tipo di condanna, inviava aiuti per sollevare i loro fratelli da quelle pene: una lettera di Dionigi, vescovo di Corinto, lo attesta chiaramente (Storia Ecclesiastica IV,23,10). La Chiesa di Roma inoltre teneva
aggiornato il registro dei proscritti e inviava ad essi dei fratelli per rincuorarli e
cercare di alleggerire in qualche modo la durezza della loro condizione. Sappiamo così che papa Vittore, vescovo di Roma, si era annotato tutte le matricole dei suoi fedeli condannati ai lavori forzati nelle miniere della Sardegna e che
nel 190 riuscì anche ad ottenerne la liberazione. Questi credenti condannati alle
prigioni e alle miniere rappresentavano un peso ulteriore per comunità non be-
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nestanti e che pertanto faticavano per risparmiare i soldi necessari ad aiutare i
fratelli caduti in disgrazia ed eventualmente a liberarli. Perciò così le Costituzioni apostoliche si rivolgevano al vescovo:
“Dì al popolo che ti è stato affidato ciò che ha detto Salomone il saggio: ‘Onora il
Signore con il tuo giusto lavoro e offri a lui le primizie dei tuoi frutti di giustizia,
perché i tuoi granai si riempiranno di grano e i tuoi tini traboccheranno di vino’.
Nutri dunque e vesti gli indigenti grazie al giusto lavoro dei fedeli, e, come abbiamo detto più sopra, il denaro raccolto da essi, distribuiscilo e utilizzalo per il riscatto dei santi, per liberare gli schiavi, i deportati, i prigionieri, le vittime delle calunnie e quelli che sono condannati dai tiranni a causa del nome di Cristo e inviati
al circo e alla morte” (Cost. Ap. IV,9).
È interessante notare come la frase dei Proverbi che si riferiva alle offerte
delle primizie al Tempio per il Signore sia, per le Costituzioni Apostoliche, intesa ancora come offerta al Signore ma non a favore del Tempio, bensì dei fratelli in più grande necessità.
Un’ultima espressione di solidarietà, che riporto perché colpiva molto i
pagani, fu quella di tante comunità cristiane che non si limitavano a seppellire
i propri morti, ma compivano questo dovere nei posti dove si trovavano dei
morti senza sepoltura, vittime di calamità pubbliche o di naufragi. Un altro
scritto, il Testamento degli Apostoli, prescrive al diacono che vive in una città
della costa di percorrere “frequentemente il litorale per raccogliere colui che
potrebbe essere stato vittima di un naufragio, lo vesta e lo seppellisca” (I,34;
II,34).
*
Si potrebbe ancora parlare molto della carità e solidarietà nei Padri, ma mi
è sembrato sufficiente darvi un saggio per vedere come teoria e prassi si sposassero perfettamente; come l’attenzione e la preoccupazione delle comunità
fossero tutte per l’uomo e per la salvaguardia della sua dignità così spesso calpestata, eppure come tutto questo fosse fatto in nome di Dio e per servire Lui,
che altro non chiede che di essere servito nei fratelli.
■
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Libri
Un’istantanea del Novecento
CRISTINA SAGLIOCCO
al novembre del 1900 al giugno del 1901 Antonio Labriola dedicò il
suo corso di Filosofia della storia alla trattazione del secolo decimonono. E cercando un titolo capace di rappresentare le sue riflessioni disse ai suoi studenti: «istantanea della fin di secolo» (A. Labriola, La
concezione materialistica della storia, 1965, pp. 320). Mi permetto di ricordare questo saggio, poi lasciato incompleto per la morte dell’autore, nell’introdurre alcune riflessioni sul volume Approfondire il Novecento. Temi e problemi della storia contemporanea, uscito nel 2001 (ed. Carocci) e curato da
Fulvio De Giorgi. Oggetto di questo lavoro collettaneo è Approfondire il Novecento, rintracciando – come ben chiarisce il curatore – l’insegnamento di
questo secolo.
Per Labriola, in questo senso rappresentativo di un’epoca, il termine dal
quale far discendere una lettura dell’Ottocento era indubbiamente rappresentato dalla Rivoluzione francese. Spartiacque indiscusso quest’ultimo sia che vi si
individuasse l’inizio di una nuova era, come appunto in un Labriola, sia la fine
dell’epoca precedente, come in un Mazzini, sia un auspicabile punto di non ritorno come in tanti moderati del XIX secolo. Ebbene, uno snodo analogo sfugge sistematicamente ad ogni lettura del Novecento. Tutti i saggi contenuti nel
volume curato da De Giorgi, sia che si occupino della vita economica, dei problemi ambientali, della povertà nel mondo, dei totalitarismi e delle democrazie,
dei militari e degli armamenti, delle forme della politica, della coscienza morale, della storia dei generi, dei sistemi educativi, dei sentimenti e delle emozioni, della permanenza del cristianesimo o della Chiesa cattolica, nel trattare
l’ultimo secolo individuano una serie di cesure significative, ma mai totalizzanti: la Grande guerra, la crisi del 1929, la seconda guerra mondiale, la fine
delle dittature, il boom economico del dopoguerra, la fine dei regimi comunisti, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, e in fine la globalizzazione. Un “territorio”, dunque, per rimanere nella metafora di De Giorgi, che necessita di una «carta stradale, possibilmente aggiornata, che ci segnali i luoghi
e le vie principali» (Premessa, p. 13).
D
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Ogni saggio del volume segue percorsi specifici non necessariamente correlati tra loro se non per grandi linee. E ciò a ragione della complessità (termine di cui spesso si è abusato, ma indicativo di una realtà) dell’ultimo secolo. Il
lavoro di Carlo Bardini (Storia e sistemi della vita economica e della ricchezza, pp. 15-37), è concentrato sull’evoluzione delle condizioni della vita materiale, ed è teso a delinearne i ritmi, le cause e le differenze tra i vari paesi. Il
saggio di Marco Dalbosco (Ecostoria contemporanea, pp. 39-57) intende tracciare un profilo de «lo svolgersi delle relazioni tra gli avvenimenti della vita
umana e le vicende dell’ambiente» (p. 39). Sandro De Luca, invece (La povertà
nel mondo contemporaneo, pp. 59-81), sottopone, tra le altre cose, all’attenzione il legame che c’è tra la distribuzione della ricchezza e la democrazia, nel
suo riconoscimento dei diritti umani. Guido Formigoni (Totalitarismi e democrazie, pp. 83-109) individua nella «profonda crisi dei modelli istituzionali rappresentativi e liberali» dell’Ottocento (p. 87), una ragione dei continui scivolamenti in estremi contrapposti, alla ricerca di un equilibrio che deve fare i conti
con la crisi ormai evidente dello Stato nazionale moderno. Liviana Rocchi
(Il potere dei militari e degli armamenti, pp. 111-133), dal canto suo, propone
un excursus sul «predominio delle forze armate sulla società civile» (p. 111),
sottolineando le ragioni non solo economiche, ma anche storiche, sociali e culturali di questo fenomeno. Fulvio De Giorgi (Le forme della politica tra diritto economia ed etica, pp. 135-147) propone invece una riflessione sulla “colonizzazione” dell’uomo attuata da “prodotti” di umana fabbricazione, insistendo
sull’importanza di una scelta etica che salvaguardi i legami umani e sociali. Michele Nicoletti, nel suo saggio, si sofferma su La coscienza morale (pp. 149164) delineando i legami di questa con i mutamenti storici e culturali del Novecento. Una delle caratteristiche di tutto il volume emerge chiaramente nel
saggio di Grazia Villa ed Edoardo Volontè (Appunti per una storia dei generi
(maschile/femminile), pp. 165-179) in cui si ricercano gli elementi di continuità
a livello planetario, pur nelle differenze territoriali e culturali in relazione specifica alla distinzione dei generi. Nel saggio di Angelo Gaudio (Sistemi educativi, pp. 181-193) viene sottolineata l’importanza dell’alfabeto e/o degli “alfabeti” come strumento di accesso alla vita associata. Interessante anche la
prospettiva di Vinzia Fiorino (Sentimenti ed emozioni, pp. 195-208), tesa a sottrarre i sentimenti «all’atemporalità di una permanenza immobile» (p. 195) e
collocarli in uno spazio e in un tempo determinati e determinanti. Daria Gabusi (La permanenza del cristianesimo nell’età contemporanea, pp. 209-223) affronta le profonde trasformazioni (subite e sostenute) dal cristianesimo nell’ultimo secolo: dal processo di laicizzazione ottocentesca all’ecumenismo
contemporaneo. In fine, il lavoro di Paolo Marangon (La Chiesa cattolica con-
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Ambiente
temporanea, pp. 225-235) ripercorre le trasformazioni e le permanenze della
Chiesa cattolica nel mondo contemporaneo fino ad arrivare a quel grande evento che fu il Concilio Vaticano II.
Novità non trascurabile e decisamente apprezzabile del volume è lo sforzo di proporre, attraverso letture differenti, tematiche decisamente trascurate
dalla “storiografia ufficiale”. La politica non fa il mondo, non è rappresentazione e paradigma di una società che si vuol descrivere. Tanto più nel Novecento, dove cambiamenti repentini e spesso antitetici hanno dimostrato che la
politica è una specifica risposta ad uno specifico stato delle cose.
Scritto da uomini del Novecento, il volume è una panoramica che non intende essere esaustiva, ma neppure superficiale. L’attenzione dedicata ai sistemi educativi, alle emozioni ed ai sentimenti, all’ecostoria contemporanea e via
dicendo, mostra un intento propositivo mirante esplicitamente non solo a fotografare la fine del secolo, ma tesa a proporre una riflessione sullo stato attuale
delle cose. In cui la storia è intesa maestra di vita: in cui pensare, riflettere e
mettere ordine nel vissuto è considerato strumento per un’azione che faccia tesoro degli errori del tempo che fu, e che sia consapevole dei limiti e delle difficoltà incontrate, per proporsi intenzionata ad un superamento costruttivo del
passato.
Un secolo, il Novecento, caratterizzato dunque spesso dall’insicurezza e
dal disorientamento che si fa arroganza e presunzione per celare appunto un
sentimento d’impotenza. La risposta a questo stato di inguaribile insoddisfazione furono lotte successive contro ciò che via via veniva indicato come il colpevole. Le dittature, il capitalismo estremo, l’edonismo egoistico, l’ideale morale del combattente: tutti falsi antidoti, abiti che vengono dismessi non appena
sostituiti dal nuovo, dal moderno, dal più (apparentemente) vero. Ebbene, una
tesi del libro è che in tutto questo vorticoso succedersi di eventi è necessaria
un’operazione di consapevolezza e di onestà intellettuale; la necessità in sostanza di un impegno etico e sociale in quella che De Giorgi definisce l’epoca
dell’«edonismo egoistico».
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Sviluppo, tecnologia e donne
A proposito dell’attualità di un libro di Vandana Shiva
ANNA SCHGRAFFER
uando il pensiero non è dominato dalla paura e dalla diffidenza, ma
ispirato dalla compassione e illuminato dalla saggezza, allora possono nascere libri come quello di Vandana Shiva: Terra madre: sopravvivere allo sviluppo (UTET, Torino 2002, 232 pagine, euro 18,50).
L’edizione originale è del 1988 e apparve in Italia nel 1990, con il titolo
Sopravvivere allo sviluppo. A quell’epoca non ebbe molta fortuna, fu pubblicato da una casa editrice piuttosto marginale che doveva aveva qualche problema di distribuzione. Mi ricordo l’impressione di sorprendente contrasto fra la
superba statura intellettuale dell’autrice, il brillante livello politico del contenuto, e la pochezza della veste combinata con la scarsa reperibilità dell’edizione. Ecco il mondo alla rovescia, pensai: era come se ci avessero regalato un prezioso gioiello avvolto in carta di giornale.
Ora, a distanza di dodici anni, questo primo, importante saggio di Vandana Shiva viene ripubblicato con le dovute revisioni, che però sono poca cosa,
quasi che il tempo sia rimasto fermo, se non tornato indietro. Viene pubblicato
in veste più accurata da un editore tutt’altro che settoriale, UTET, e con un titolo che gli rende finalmente giustizia: Terra madre: sopravvivere allo sviluppo. A parte alcuni dati numerici, è rimasto sostanzialmente immutato, poiché
nell’arco di questi ultimi anni, di fronte al confermarsi di quelle valutazioni, c’è
più che mai bisogno delle idee e della lucida visione di cui è testimonianza.
Q
Le donne delle montagne
All’inizio degli anni ottanta, il nome di Vandana Shiva cominciò a circolare anche in Europa associato a quello del movimento “Chipko”. Chipko era
nato come movimento di difesa e autodifesa collettiva di gruppi di donne indiane abitanti delle regioni montuose himalayane e legate alle foreste da una
sorta di simbiosi, in un tipo di economia completamente diverso da quello do-
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minante, l’economia di sussistenza. Grazie ad essa le popolazioni delle zone
rurali e di montagna si garantivano una sopravvivenza dignitosa senza essere
opulenta, e soprattutto sostenibile per i secoli dei secoli. Quelle donne dunque
diedero vita a un movimento perché volevano evitare che gli alberi e le foreste,
da cui traevano collettivamente sostentamento per tutte le famiglie, venissero
tagliati dalle imprese multinazionali pronte a disboscare per fare spazio a coltivazioni di eucalipti e altre essenze, con la mira di profitti a breve termine. Due
economie si scontravano, delle quali una chiedeva di essere lasciata sopravvivere in pace senza dar fastidio a nessuno e l’altra divorava sempre più territori
e risorse, pretendendo di imporre se stessa come unica economia possibile. Che
quest’ultima pretesa fosse, anzi sia una forma inaccettabile di violenza, è uno
dei temi principali che Vandana Shiva discute nella sua opera. Ma si tratta anche del confronto fra due visioni del mondo. Perciò quelle donne, portatrici di
una visione ispirata al valore del principio femminile presente anche nell’antica tradizione cosmologica indiana, cominciarono a legarsi agli alberi, nell’intento di fermare le motoseghe, cioè la distruzione delle proprie fonti di sostentamento sostenibili e anche la distruzione dei propri tesori di conoscenza e
sapere, da noi definiti allora “alternativi”.
Vandana Shiva è nata in India nel 1952. Dotata di un eccezionale intelletto, si recò a studiare fisica nucleare negli Stati Uniti; dopo la laurea si dedicò a un dottorato di ricerca sulle particelle subatomiche. A quel tempo pensava, come scrisse in seguito, che avrebbe trascorso ogni giorno della propria
vita in compagnia delle particelle nucleari. Invece, dopo aver fatto un’esperienza molto istruttiva su quel che combina l’industria del nucleare nel mondo e soprattutto nei confronti della popolazione, a un certo punto voltò le spalle a una brillante carriera nel programma di energia nucleare del suo paese,
poiché si era resa conto “che la gente era tenuta all’oscuro delle ripercussioni
dei sistemi nucleari sui sistemi viventi”. Si dedicò quindi alla ricerca indipendente nell’ambito della scienza, della tecnologia e della politica ambientale.
Nel 1982 fondò un istituto indipendente, la Fondazione di Ricerca per la
Scienza, la Tecnologia e l’Ecologia (RSFT), per una ricerca di qualità volta ad
affrontare le più importanti questioni sociali-ecologiche dei giorni nostri. In
questo campo collaborava strettamente con le comunità locali e i movimenti
sociali, soprattutto dell’India, in cui le donne erano (e sono) protagoniste, e infatti quando anni dopo (1993) le fu conferito il cosiddetto premio Nobel alternativo, il Right Livelihood Award, che vuol dire “per il Retto modo di vivere” (e che viene consegnato nella stessa sede del premio Nobel, ma il giorno
prima), lei lo consegnò a sua volta alle donne delle montagne che avevano dato
vita a “Chipko”.
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Il maldevelopment
Il libro Terra madre è rilevante a più livelli. Sul piano politico immediato,
è un articolato intervento sulla politica economica della cooperazione allo sviluppo, una dura denuncia nei confronti della Rivoluzione Verde, che viene fatta passare come soluzione al problema della fame nel mondo. L’intervento è
particolarmente significativo poiché è una risposta che proviene da un’esponente dei/delle diretti/e interessati/e, una portavoce di gruppi rurali del Sud del
mondo. La sua posizione è argomentata in base a fatti molto concreti, per esempio l’impoverimento reale che la popolazione rurale (nella fattispecie quella
indiana) ha subìto in seguito alla Rivoluzione Verde che, al di là delle dichiarazioni filantropiche dei suoi promotori, per gli agricoltori e coloro che praticano l’economia di sussistenza nelle zone forestali è invece qualcosa da cui occorre difendersi. Per sopravvivere, appunto, allo “sviluppo”. Per questo
introduce una parola di nuovo conio, entrata a partire dagli anni Sessanta nel
lessico comune: la parola “malsviluppo”, in inglese maldevelopment (così
come anche in francese), un ibrido da lei usato nel senso di “sviluppo sbagliato”, pur contenendo volutamente (come scrive Marinella Correggia, la traduttrice) un accenno alla sua natura di “sbagliato perché maschile” (in inglese
male).
Un altro motivo per il quale questo libro merita attenzione è quello della
visibilità che esso rende al lavoro e al sapere delle donne indiane rurali e soprattutto al loro impegno e alla loro tenacia nel difendere e sostenere le condizioni per una sopravvivenza autonoma e dignitosa. Le persone che in quel movimento hanno agito e agiscono, lottano e fanno poesia per difendere le foreste
e i propri stili di vita dall’assimilazione a un’economia e a una visione del mondo con pretese di validità universale, vengono citate per nome e cognome, da
vere protagoniste, vengono messe insomma individualmente sul dovuto piano
di importanza, e considerate altrettanto degne di attenzione di chi, come l’autrice, ha assunto una posizione di leader. Anzi, più degne: con una modestia tipica degli spiriti illuminati, Vandana Shiva tira indietro se stessa per lasciare
che lo sguardo si posi sulle singole donne (e, se del caso, uomini) del movimento.
È altresì un contributo interessante sul piano filosofico, poiché mette in discussione le pretese di validità e di superiorità di una scienza che in definitiva
è solo un tipo particolare di scienza: la scienza meccanicistica e cartesiana.
Una fra le tante possibili. Parallelamente, un’economia particolare, l’economia
del capitalismo industriale, pretende di avere valore unico e universale e tenta,
con le buone e con le cattive, di imporsi come l’economia tout court; la visio-
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ne scientifica particolare e limitata del meccanicismo pretende di dominare anche screditando gli altri tipi e modi di sapere esistenti e relega così un’infinita
gamma e ricchezza di conoscenze disponibili in posizioni subordinate, marginali e reiette. È di importanza fondamentale (e non finisce di stupirci) il fatto
che al giorno d’oggi la scienza più astratta di tutte, la fisica quantistica, quella
che ha raggiunto il più alto grado di distacco matematico e teorico dalla concretezza terra terra del vivere quotidiano, quello che più di ogni altra ha portato alle estreme conseguenze il volo di un pensiero distaccato dalla “vita”, riduzionista (poiché riduce la sostanza di cui siamo fatti a nient’altro che…
formule e numeri), abbia finora reso giustizia in misura massima, fra le scienze naturali, alla grandiosa complessità della vita e della natura, nel rispetto del
nostro sentire “l’universo come dimora”. (Per approfondire questo concetto si
potrebbe leggere per esempio Il cosmo intelligente di P.C. Davies, un professore di fisica che si occupa di comprendere l’universo e anche di esporre ciò
che ha compreso in modo da trasmetterlo a persone non addette ai lavori). Scrive Vandana Shiva nella prefazione a un altro dei suoi libri, Tomorrow’s Biodiversity, del 2000 (ed. ital. Campi di battaglia: biodiversità e agricoltura industriale, Edizioni Ambiente, 2001):
“Dal punto di vista filosofico, posso dire che la mia formazione da fisico quantistico mi ha aiutata molto a occuparmi di questioni così complesse. Mentre la fisica classica di Cartesio e Newton descriveva un mondo formato da entità atomizzate, isolate e immutabili, la teoria dei quanti ha riformulato il mondo definendolo
un insieme di sistemi interagenti, inseparabili e in costante cambiamento, dotato
di potenzialità inestimabili piuttosto che di proprietà e fenomeni fissi.
Sono queste caratteristiche di “inseparabilità” e “indeterminatezza” che ispirano il
mio approccio ai sistemi naturali e all’impatto umano sull’ambiente. … Attraverso la lente della biodiversità il mondo si rivela molto differente e reclama un cambiamento nei modelli tecnologici e di mercato dominanti. Un passo necessario verso la sostenibilità.”
Non è un caso né una bizzarria perciò se la scienziata nucleare, nelle prime righe dell’Introduzione al suo primo libro, attacca parlando male dell’Illuminismo e della teoria del progresso, e nel terzo capitolo, Le donne nella natura, ci espone con attenzione e rispetto, cioè senza tacciarli di superstizione,
alcuni fondamenti dell’antica visione cosmologica indiana, delle tradizioni popolare ed esoterica, di sakti, il principio femminile e creativo dell’universo, e
di prakrti, la natura. In uno dei suoi scritti successivi, senza alcun bisogno di
abbandonare il rigore del metodo scientifico, ma anzi proprio in virtù di esso,
Vandana Shiva arriverà a fare piazza pulita di un altro dei nostri polverosi pre-
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giudizi sulla mentalità indiana, da noi considerata retrograda a causa del rispetto per le vacche sacre. Neanche più la vacca sacra occidentale del pregiudizio contro le vacche sacre ci lascia adorare! Affrontando la questione centrale della democrazia alimentare, infatti, in un altro dei suoi libri intitolato
appunto Vacche sacre e mucche pazze: il furto delle riserve alimentari globali
(ed. DeriveApprodi), Vandana Shiva riesce a rendere al massimo l’idea:
“La mucca pazza, frutto di incroci transpecifici, è un ‘cyborg’ secondo la femminista Donna Haraway, che aggiunge: ‘Preferirei essere un cyborg che una dea’.
In India, la vacca è Lakshmi, dea della prosperità, e il suo letame è adorato come
Lakshmi perché rinnova la fertilità della terra, nutrendola in modo naturale. La
vacca è sacra perché è al centro della sostenibilità della civiltà agricola. La vacca
come dea e cosmo simboleggia la cura, la compassione, la sostenibilità, l’equità.
Dal punto di vista sia delle persone che delle vacche, io invece preferirei essere una
vacca sacra più che una mucca pazza”.
L’ottica della relazione
Considerando le situazioni nell’ottica della relazione, come suggerisce la
visione di un universo interconnesso, la domanda è sempre: come si configurano i rapporti di potere? Partendo dalla considerazione dei rapporti di potere,
la terza linea parallela individuata dall’autrice è quella del patriarcato. L’instaurazione di un nesso concettuale fra scienza, economia politica e patriarcato, e cioè il nesso rappresentato dal tema della volontà di dominio unico, è apprezzabile come uno dei risultati fondamentali di questo libro. In altre parole:
contiene una riflessione sul rapporto sviluppo-tecnologia-donne e sul rapporto
scienza-natura-genere che riprende e approfondisce quella di Carolyn
Merchant (La morte della natura, Garzanti, 1988) e quella di Evelyn Fox
Keller. Il seguito della riflessione si può leggere nella raccolta di testi intitolata, con termine assai significativo, Monocolture della mente: biodiversità, biotecnologia e agricoltura “scientifica” (Bollati Boringhieri, 1995).
L’andamento del ragionare è piuttosto circolare, alcuni lo trovano ripetitivo; io invece lo definirei meditativo, poiché torna e ritorna sullo stesso punto
però ogni volta da un’angolatura, secondo una sfaccettatura un po’ diversa, girando in tondo come il falco che scruta dall’alto la preda planando in cerchi lenti sulla campagna per buttarsi infine in picchiata, come i pensieri di Shiva che
catturano fulminei il punto della questione, illuminandolo.
Purtroppo, questo libro non è stato riproposto per il suo valore storico ma
per la insuperata attualità dei suoi temi. Oggi lo “sviluppo” incombe con ancor
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più temibili minacce sulla gente dell’India che vive di agricoltura e di sussistenza: lo denuncia per esempio la scrittrice Arundhati Roy (autrice del romanzo Il dio delle piccole cose e del saggio La fine delle illusioni), ricordando
in un recente intervento che dal 1947 ad oggi, in India, secondo stime ufficiali
ci sono stati circa 56 milioni di sfollati senza risarcimento per cause ambientali. Altro che politica dello sviluppo. Vandana Shiva nel frattempo ha pubblicato una serie di altri saggi tutti interessantissimi ed è stata insignita di una considerevole quantità di premi e riconoscimenti in vari Paesi e a livello
internazionale per l’approfondimento del paradigma ecologico e per avere unito la ricerca all’azione.
È stata fra coloro che hanno promosso il Social Forum Mondiale di Porto Alegre ed è “una delle voci di maggior prestigio sulle tematiche più controverse
della globalizzazione”. Credo che nessuno comunque si azzardi a definirla una
■
contestatrice no-global.
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