Krishnamurti ovvero l`epifania del quotidiano
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Krishnamurti ovvero l`epifania del quotidiano
Federico Battistutta Jiddu Krishnamurti ovvero l’epifania dl quotidiano Dalla teosofia alla libertà dal conosciuto Cominciamo col dire - senza timore di enfasi - che Jiddu Krishnamurti (nato in India, fine Ottocento, e morto in California nel 1986) è stata una figura pressoché unica, pur con i limiti propri dell’umana natura. Egli seppe non appartenere ad alcuna organizzazione, nazionalità o religione. Qualche rapsodico cenno biografico. Da bambino, fu allevato e istruito all’interno della Società Teosofica, la quale aveva riconosciuto in lui i lineamenti di un futuro maestro spirituale (l’istruttore del mondo, la manifestazione del bodhisattva Maitreya). In breve: la Società Teosofica, al cui interno si formò, è un movimento religioso, tuttora operante, fondato nella seconda metà dell’Ottocento dall'occultista russa Helena Petrovna Blavatsky, con sede ad Adyar, un sobborgo di Chennai (allora Madras). Va aggiunto che, mentre in Occidente il pensiero teosofico è rimasto pressoché confinato nei cenacoli esoterici, incontrando l’ostilità sia del mondo cristiano che del pensiero laico e razionalista, in India acquisì da subito lo status di corrente filosofico-religiosa. Un esempio: lo stesso mahatma Gandhi, che in gioventù si era allontanato dalla religione dei padri, ritrovò la sua identità culturale e religiosa grazie alla frequentazione della Società Teosofica. Inoltre è bene ricordare che a partire dagli anni Quaranta del secolo passato sono sempre stati personaggi indiani a ricoprire le più importanti cariche all’interno dell’organizzazione. A suo tempo (parliamo degli inizi del Novecento) la Società Teosofica aveva anche dato vita a una nuova organizzazione - l’Ordine della Stella d’Oriente - al fine di diffondere gli insegnamenti del giovane Krishnamurti. Ben presto i teosofi dovettero ridestarsi da questo sogno; lo stesso Krishnamurti cominciò a mettere in discussione il credo e i metodi teosofici, sviluppando un pensiero sempre più indipendente, denunciando l'inutilità dei loro complessi rituali e, soprattutto, rifiutando il ruolo di autorità che gli era stato assegnato. Sinché, dopo una pausa di riflessione dai risvolti drammatici, nel 1929 prese la decisione di sciogliere l'Ordine della Stella d’Oriente e di rompere – usiamo qui un’espressione che fu di René Guénon - con ogni forma di teosofismo. Il discorso del ‘29 Merita citare quel discorso di commiato che condensa in poche righe l’intera prospettiva krishnamurtiana. Ecco l’inizio: «Ricorderete la storia del diavolo e di un suo amico che, camminando, vedono un uomo chinarsi, raccogliere qualcosa da terra e metterselo in tasca. L’amico chiese al diavolo: ‘Che cosa ha raccolto?’. ‘Ha raccolto la verità’, rispose il diavolo. ‘Questo è un brutto affare per te’, disse l’amico. ‘Per niente!’, rispose il diavolo, ‘io gliela farò organizzare!’. Io sostengo che la verità é una terra senza sentieri e non potete accostarvici percorrendo un sentiero, appartenendo a una religione o a una setta. Questo è il mio punto di vista, che io sostengo in modo assoluto e incondizionato. Poiché la verità, essendo senza limiti, incondizionata, inaccostabile qualunque via si segua, non può venire organizzata, né si dovrebbe formare un’organizzazione per guidare la gente o per costringerla a seguire un particolare sentiero». L’anti-guru Tutto il pensiero di Krishnamurti è rimasto fedele a questi pochi, elementari principi. I dialoghi, i numerosi incontri pubblici da lui tenuti in giro per il mondo, da cui prenderà vita la maggior parte dei numerosi libri pubblicati, non sono altro che una declinazione particolare delle affermazioni contenute in quel discorso ormai lontano. La sua testimonianza si è sviluppata per oltre cinquant’anni, attraversando più generazioni, possedendo una portata transculturale e un’attualità cogente, riuscendo a influenzare, in maniera esplicita o implicita, un numero per nulla trascurabile di persone (come il romanziere e saggista Aldous Huxley, il fisico - collaboratore di Einstein - David Bohm). Dovette anche sbarazzarsi da seguaci o presunti tali che si ostinavano a vedere in lui un guru, secondo il modello hindu; anche se - è giusto segnalarlo - va riconosciuta la complessa tipologia relazionale tra Krishnamurti e i suoi interlocutori, non immune da dinamiche transferali, non sempre analizzate o esplicitate, foriere di incomprensioni. Se è indubbiamente vero che egli non rientra a nessun titolo nella categoria del maestro spirituale rispetto i canoni classici indiani, è vero comunque che Krishnamurti rivestì ruoli fuori dal comune, dedicando l’intera vita a viaggi, incontri, discorsi e pubblicazioni, e che a suo nome venne pure istituita una fondazione – la Krishnamurti Foundation, tuttora attiva – con l’obiettivo di preservare e diffondere il suo pensiero. Partire da sé Da dove prendono avvio le riflessioni di Krishnamurti? Da molto vicino, da noi stessi e dalle domande che più o meno consapevolmente l’essere umano rivolge a sé e alla vita. Di fronte al riprodursi di una società intenta a vanificare sul nascere ogni forma di innovazione, incapace di saper innescare una vera metamorfosi della persona, Krishnamurti propone di rivolgersi alla comprensione dell’essere individuale e sociale. Perché si dia cambiamento, dirà, «è assolutamente necessario e urgente provocare una radicale rivoluzione nello spirito umano, un reale mutamento dell’intera struttura psicologica dell’uomo». Tale cambiamento non può essere il prodotto della volontà, né l’esito di un lento processo evolutivo. Soltanto attraverso una decisa mise en jeu, un riesame profondo delle strutture psicologiche, è possibile intervenire, individuando i motivi soggiacenti al malessere della condizione umana, alla perpetua ricerca di sicurezza e al senso di frammentazione che ne deriva. Inaccettabile per l’uomo è la fragilità, la condizione di impermanenza che connota ogni forma vivente; ed è proprio a causa di questa ossessiva ricerca di sicurezza che si intensificano, riproducendosi esponenzialmente, i circuiti di frammentazione, a livello sociale, economico, etnico, religioso, ecc., innescando un processo senza fine. Quella sicurezza, che sembra una meta tanto ambita quanto sfuggente, denuncia tratti opachi: sicurezza altro non è che il desiderio di anticipare il futuro, replicando un passato dilatato in modo inverosimile, colonizzando un presente altrettanto immobile, rovinosamente uguale a sé stesso; il tutto per inibire l’accesso a qualsiasi elemento ritenuto perturbante. L’ignoto, il novum radicale che si vuole rimuovere, nella prospettiva di un futuro programmato, alla fine irrompe sotto forma di insicurezza e di infelicità: «Si preferisce aggrapparsi all’infelicità che già si conosce, piuttosto che affrontare una felicità che non si conosce». Il pensiero non è altro che il movimento del passato che produce un ingombrante deposito di memoria, una continua registrazione di ciò che non è effettivamente necessario al dispiegarsi della vita nella sua essenzialità. Tale accumulo forma e costituisce quello che siamo soliti chiamare ‘io’, il quale si frappone fra la mente e ‘ciò che è’, così da risultare un impedimento alla pienezza della vita, alterando affetti e sentimenti. Livelli molteplici di coscienza Krishnamurti, rispetto alla metapsicologia freudiana (laddove quest’ultima parla di inconscio/preconscio/conscio o di Es/Io/Super-io), preferisce riferirsi a differenti livelli del mentale. Mille plateaux, potremmo dire. Osservando che i livelli superiori sono quelli più condizionati e disciplinati, resi meccanici e ripetitivi; mentre gli strati inferiori, meno educati e sofisticati, possono racchiudere le risorse da cui può avere origine il nuovo, l’apertura a ‘ciò che è’. La rivalutazione dei livelli inconsci e dei suoi processi non conduce Krishnamurti ad esaltare il primato dell’istintualità, bensì la sua è un’esortazione a non inibire il flusso comunicativo tra i vari strati della mente, mantenendo una condizione di semplice presenza mentale di fronte ai flussi di coscienza che emergono senza un centro attorno a cui gravitare. Fra i dispositivi al servizio dell’io, un posto rilevante è svolto dalle varie forme di idealizzazione. Ogni essere umano costruisce una o più immagini di sé, di cui è per lo più inconsapevole, ma su cui investe tutte le energie e le aspettative, cosicché la sfera cosciente viene ad essere costituita da un’interrelazione di auto-immagini. L’origine di queste immagini risiede proprio nell’interferenza del pensiero e quindi nell’accumulo delle reazioni del passato; questa proliferazione di auto- immagini di sé precludono al soggetto la possibilità di avere relazioni autentiche con sé e con gli altri, divenendo al contempo luogo delle ferite che lo colpiscono nel corso della vita. Il bisogno di protezione diventa il cavallo di Troia grazie al quale il dolore s’insedia. C’è questo movimento continuo, ardente e insaziabile, che conduce a costruire immagini e a identificarsi con questa o quella cosa. Ma per Krishnamurti la creazione di immagini è solo la schiuma di quel vortice che chiamiamo angoscia, che perpetua l’ignoranza e la fuga dinanzi a ‘ciò che è’. «Tutto il pensiero è paura, tutto il pensiero è angoscia», ripete Krishnamurti. Ciò che è Rispetto a ciò la soglia della verità è quella capacità di mantenersi in relazione con la manifestazione del presente, l’espressione di ‘ciò che è’. Allora si comprende come non abbia senso la domanda su come liberarsi dall’io creatore di immagini, poiché proprio nello stesso momento in cui formuliamo la domanda, la mente sta costruendo un’altra immagine, più appagante della precedente rispetto alla richiesta del momento, e così via. Sembra non esservi via di scampo. Ma in questa situazione apparentemente priva di sbocchi vi è uno spiraglio: consiste, appunto, nell’attenersi alla mera attualità, senza sopprimere niente, senza evitare niente, senza analizzare niente, limitandosi ad osservare. L’osservare, così come l’intende Krishnamurti, non è uno sforzo determinato in funzione di qualcosa, non c’è un ‘io voglio’ o ‘io devo osservare’, non c’è la divisione fra osservato e osservatore - fonte di conflitto -, ma solo il dispiegarsi dell’osservare. Allora le immagini perdono consistenza: «Avere il rapporto più grande e più responsabile è non avere immagini». Via negationis L’originalità della testimonianza di Krishnamurti risiede proprio in tale approccio negativo (in Occidente è chiamato via negationis), al fine di consentire ad ogni cosa di manifestare con pienezza la propria fisionomia. La missione ultima del pensiero risiede nel comprendere sé stesso come quel movimento che ha creato, attraverso una serie di torsioni, l’io, con tutte le divisioni e i dissidi, che a sua volta ha dato corpo alla struttura caotica della società e del mondo. L’orientamento negativo viene ad essere così la forma più alta di consapevolezza e di responsabilità: il mentale a un certo punto cessa di proiettare, di oggettivarsi e la realtà può lasciare posto a ciò che è sconosciuto, che è tale perché nuovo a ogni istante. Nessun segno permette di situarlo dentro qualche categoria definitoria, riducendolo, in questo modo, a cosa. L’approccio negativo sfocia così nella passività creatrice che esprime la pienezza della vita; allora è finalmente possibile «vedere il falso come falso e il vero come vero». Va aggiunto che le riflessioni krishnamurtiane sono sempre accompagnate da una critica del linguaggio e della sua funzione («quando siamo intrappolati nelle parole diventa molto difficile districarsi»). La parola non è solo un’unità di linguaggio, ma fa intimamente parte del movimento del pensiero. La parola non è la cosa, è un segno che esprime piuttosto inadeguatamente oggetti, persone, eventi; l’atto di nominare risulta anch’esso un fattore di divisione e di conflitto, mostrando come l’intero dispositivo linguistico trovi pur’esso radicamento nella paura. Le radici del cielo Ritorniamo alla domanda che ha alimentato l’intero discordo: «Può uno, psicologicamente, essere libero senza cadere nell’illusione di essere libero? ». Questo interrogativo radicale attraversa senza soluzione di continuità la riflessione di Krishnamurti sul significato della meditazione. Infatti, la meditazione non sussiste disgiunta dalla libertà, anzi essa – la libertà dal conosciuto – è il primo movimento della meditazione, ma in fondo ne è anche l’esito finale, in base alla considerazione che «la fine è il principio, e il principio è il primo passo, e il primo passo è l’unico». Di fronte ad un appello così perentorio all’irrompere nella libertà da ogni condizionamento e da ogni legame - «la libertà non è relativa; o c’è o non c’è» -, qualsiasi riferimento a sostegni meditativi diventa privo di senso, se non inammissibile. Non ci sono esercizi, tecniche, prescrizioni o tradizioni, siano esse posture da adottare, tempi da rispettare, visualizzazioni, mantra, invocazioni, ritmi respiratori. Meditazione secondo Krishnamurti è l’abbandono di tutto ciò, «significa aver completamente rifiutato tutti i sistemi di meditazione, così che la mente sia assolutamente libera, non obbligata a muoversi in alcuna direzione». E ancora: meditazione non significa perseguire un mezzo per raggiungere un fine, ma è andare al di là di ciò che l’idea di mezzo e di fine racchiudono: «La meditazione senza una formula fissa, senza causa e una ragione, senza un fine o uno scopo è un fenomeno incredibile. E’ non soltanto una grande esplosione che purifica ma è anche morte, che non ha domani. La sua purezza devasta, non lasciando angoli nascosti dove il pensiero possa acquattarsi nelle sue stesse ombre oscure». Non può avere in sé limiti o confini, ma di fronte a sé ha continui orizzonti, è un movimento incessante, interminabile, per cui non ha senso dire: ‘ora inizio a meditare’, perché la meditazione avviene quando ci si spoglia da ogni intenzionalità, quando non si è là ad attenderla, quando senza saperlo ci si dimentica di sé stessi. Ma, pur non avendo regole eterodirette, la meditazione esige la più alta forma di disciplina, quella che non richiede maestri o guru: è la disciplina dell’auto-abbandono, dell’aprire le mani del pensiero per entrare nella grazia del momento presente. Si tratta di collocarsi in un punto estremo, eccentrico: «ascoltare in questo modo richiede grande attenzione e dissolve completamente la struttura dei condizionamenti». Allora, da questa profondità che non commemora, nasce l’azione che non genera disordine, l’azione senza movente, la tranquilla passione non toccata dal vortice del pensiero o dell’immaginazione: «Quando vi è vuoto, allora le cose possono accadere» o, detto con altre parole: «le radici del cielo sono fatte di un grande vuoto, perché nel vuoto c’è energia». Per un’epifania del quotidiano La mente meditativa tende a rivelarsi come mente religiosa, tenendo conto che, come già detto, Krishnamurti non solo non appartiene all’universo hindu, ma la sua sensibilità religiosa ha poco a che vedere con qualsivoglia confessione religiosa istituzionalizzata: «La mente religiosa è completamente diversa dalla mente che crede nella religione (…) è libera da ogni forma di credenza». Ma non è sufficiente abbandonare le credenze nelle varie religioni, in realtà ciò costituisce solo il primo movimento; il lavoro vero riguarda la capacità di mettere in discussione il dispositivo mentale che induce a costruire credenze, a cui poi aggrapparsi dolorosamente. Se la mente meditativa è proprio quell’operare continuo dal mattino alla sera, che non separa fra ambito sacro e profano, fra vita quotidiana e atto meditativo, ciò è reso possibile perché «la vita religiosa non sta sull’altra sponda del fiume, sta su questa sponda, la sponda dell’intero travaglio dell’uomo». Allora, il percorso da cui siamo partiti – comprendere ciò che ci sta molto vicino, noi stessi – ci conduce a ciò che si è sempre ritenuto stellarmente distante dall’uomo, il vicino e il lontano s’incontrano. In questo contesto, l’esperienza della ‘realtà ultima’ si configura come l’emergenza di un infinito nella finitezza dell’esistenza: il rapporto reale, vale a dire senza idealizzazioni o proiezioni, con l’altro, chiunque sia, è già qui e ora esperienza del divino. E in tale luce Krishnamurti diviene uno dei più significativi rappresentanti di una spiritualità ‘laica’ contemporanea, lasciandoci in eredità i lineamenti di un’intensa epifania del quotidiano. Si tratta di mantenersi a questo livello, per cogliere lo schiudersi di ogni possibile apertura, senza lasciare pieghe non vissute nel rapporto che ciascuno di noi, in un modo o nell’altro, intrattiene con la vita. “NonCredo”, n. 24, luglio-agosto 2013