Fumetti di evasione. Vita artistica di Andrea Pazienza

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Fumetti di evasione. Vita artistica di Andrea Pazienza
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UNA PICCOLA AZIENDA DEL MEZZOGIORNO
TERREMOTATO. Andrea Pazienza nasce il giorno di San
Desiderio, il 23 maggio. L’anno è il 1956 e il luogo San
Benedetto del Tronto, nelle Marche, anche se nelle note
che scrive in occasione dell’uscita del primo libro elegge
come città natale San Menaio in Puglia, sua abituale residenza estiva, come a voler piegare l’anagrafe alle esigenze
reali dell’infanzia, dell’ozio, del proprio più intimo sentire.
E certo chi volesse seguire un approccio biografico allo studio dell’autore non dovrebbe trascurare quell’apertura tipicamente pugliese alla contaminazione, al meticciato culturale, al plurilinguismo, così come non potrebbe esimersi
dal cogliere l’ostentata e al contempo imbarazzata rappresentazione di una meridionalità dove il Sud assurge ad autentica categoria esistenziale, con la dovuta e macchiettistica carica di indolenza, passionalità, orgoglio, piangersi addosso, di tragico che si mischia continuamente al comico,
come in un’abusata rappresentazione di Eduardo.
PENTOKAN, LA TIGRE DELLA MALORA. Guardo
quel ragazzo. Ha i capelli lunghi e sporchi, la barba ispida e
i blue jeans pieni di macchie e rattoppati. Non c’è bisogno di
essere indovini per capire che quel ragazzo è drogato.
Torno a casa, e nella mia casa tutto risponde ad un ordine preciso, ad un mio desiderio, è soddisfazione del mio desiderio.
Qui sono al sicuro. Dalla finestra il paesaggio si riflette nella mia mente desolato e tranquillo, e dal silenzio delle
mie cose sale la calma, come tiepida marea copre gli oggetti
morti e lieve rimbocca loro le coltri. Amo i miei pomeriggi,
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pieni di sole e di pittura!
Ma a volte, di notte, si riaffaccia alla memoria l’immagine di quel giovane drogato, e
penso: e se, nonostante tutto, fosse un eroe? Non esiste questa
possibilità.
E allora cerco di immaginare la sua vita,
quali possono essere le sue abitudini. Come fa, quando va a
qualche festa, se non ha un paio di calze pulite? Scherzo, ma,
a ripensarci, davvero, come fa?
Poi di colpo ho come
la sensazione di aver perduto qualcosa. Anzi di essere stato derubato, e di sapere perfettamente chi è il ladro. Di più, l’ho
colto in flagrante, ed ora è qui con me al posto di polizia.
E mi addormento sereno. Trovo le mie fantasie del tutto giustificate e intanto il colpevole è al sicuro. Ormai però, ce ne
sono così tanti che non mi volto più nemmeno a guardarli.
Forse, all’interno della loro organizzazione, essi si suddividono in specie, o tipi (sicuramente secondo una gerarchia,
capo, sottocapo, capogruppo, tenente, etc…), ma tutti hanno
la stessa faccia scura (secondo me scura), che odio.
E ce ne sono così tanti ormai, che neanche li conto più.
Ma sempre si paga uno scotto, ogni piacere ha il suo prezzo.
Il prezzo di una corsa a piedi nudi sulla battigia è un letto
pieno di sabbia. QUEL MONDO CHE INTRAVEDEVO
ED ORA MI SI RIVELA A SQUARCI ORRIBILI DI
VERITÀ, MOSTRA UN CORPO DI GIOVANE CORROTTO DA VIZI A ME SCONOSCIUTI. GRA NDE
SARÀ IL PIACERE SE TANTO DURO È LO SCOTTO.
Sono nella mia casa, e attendo di essere sedotto. Così penso:
come sarà la mia vita, dopo? Mi insegneranno a parlare
una nuova lingua, imparerò nuovi gesti, e cose nuove e diverse e vincerò questa orribile angoscia che mi lega mi lega mi
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lega andando contro tutti i miei principi senza neanche farci
più caso…
Ma come potrei anche solo passeggiare con le
scarpe luride, i pantaloni macchiati, come posso pensare di
abituarmi a camicie non stirate, i bottoni che mancano, i colletti neri, unti, o dormire in letti… che presumo sporchi… o
peggio, per terra, esposto a ogni tipo di malattia, come potrei
sopportare di puzzare, di non lavarmi, di non abitare in un
posto pulito e decoroso, e di iniettarmi… iniettarmi… la sola
parola mi fa star male…
Io so farmi il nodo alla cravatta, io conosco i piaceri di un’eleganza istintiva e moderna,
del confortevole, del mangiare come si deve, il vivificante
sciacquettio d’un sorso di vernaccia, curo modestamente il mio
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corpo e i suoi peli, ne correggo gli aromi attento ai segni di cedimento. Non per gli altri, ma per me! LEGGO IL cavarmi
LE SCARPE IN PRESENZA DI ESTRANEI
POSSIBILITÀ REMOTA E I MIEI PIEDI QUINDI,
SEMPRE ASCIUTTI E INODORI, SE SI ESCLUDE
QUELL’IDEA DI TALCO CHE ADOPERO, RAVVOLTI
IN CALZINI FRESCHI DI BUCATO, SONO UN PIACERE DELIZIOSO CH’IO MI CONCEDO. COME FARNE
A MENO?
ORA, CHE IL CORPO NERO
DELLA SEDUZIONE RESTI FUORI AD ASPETTARMI, ASPETTERÀ PARECCHIO, TUTTO DI NUOVO
DEDITO E CALMO COME SONO, NELLA MIA
CASA, CON LA MIA DOTE.
UN ATTESO EPILOGO… [Si rese conto che il ritorno era in
realtà l’andata, e in più di un senso. Julio Cortázar, Il gioco del
mondo]. E siamo alla fine. Luglio 1981. Gli ultimi sprazzi,
come cambi di umore, però lucidissimi. Fuochi d’artificio.
Preso atto che l’Ovest è la direzione sbagliata, la frontiera
in cui si va a rifugiare il mondo capovolto degli anni
Ottanta, dalle province dell’assedio uno sconsolato sguardo
a Est, quasi l’ultimo possibile. L’Est come luogo dell’animo, presagio del crollo, della resa imminente di cui
Pazienza sembra cartografare in presa diretta l’ineluttabile
approssimarsi. Ogni desiderio ha il suo prezzo, dice l’autore, e adesso è il momento del disfacimento, della morte, per
i più fortunati dell’incarnazione in una nuova vita.
È la decima e ultima puntata. Sembra un testamento,
con tanto di eredi. Il quadro appare subito chiaro e il pan92
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theon quanto mai definito. Pentothal da una parte: uomo,
moltitudine, muscoli che invecchiano. Un irridente
Zanardi dall’altra, il mito che sorge dalle ceneri fumanti dei
bei tempi andati. E poi la prefigurazione degli scenari in rovina di Pompeo, la discendenza infeconda che si fa strada
con il proprio carico di morte e di disperazione.
Le ultime carte, in un turbinio di linee e direzioni diverse, ognuna con la dovuta cifra stilistica e simbolica, riassumono l’impianto e il percorso dell’opera: il dono di natura
del disegno, a ricordare che la palestra è finita, e un imponente primo piano del protagonista, che rimanda ai ceselli
delle primissime pagine.
Pagine che avevano avuto inizio, più di quattro anni
prima, con un giullare armato di rivoltella che dichiarava
TANA! a un equivoco signore denominato Double Face,
che maldestramente si nascondeva dietro una colonna.
Pagine che adesso si chiudono con la virulenta esposizione
di un fucile mitragliatore, imbracciato da un losco ciclope
col passamontagna ben calato sul volto. Dietro, il tabellone dei treni in partenza, destinazioni e binari, e un avviso,
che solo di PROLOGO si tratta. Sullo sfondo, un disperatissimo tentativo di riuscire a spazziare paura senza vento da
un cervello troppo nascosto impas/toia/to libero di creare ossa
metallo pesante da callose membrane: spazzatura calligrafica
di deliri, giustificazioni, invettive e rivalse, soprattutto
l’ostentata incapacità di pervenire a una somma, nonostante tutto, di trovare un qualche tipo di collocazione.
Nell’angolo in basso a sinistra, piccolissima, ma definitiva,
la scritta: mi fate paura . A destra: la stessa scritta, coperta
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però da una stella testarda, che ancora rivendica l’appartenenza a una galassia al collasso.
Un anno prima di quest’ultima puntata, poco dopo aver
consegnato la nona, la bomba alla stazione ferroviaria.
Bologna, 2 agosto 1980: ottantacinque morti, duecento feriti, l’attentato più sanguinoso mai avvenuto in Italia. La
città si trasforma in una gigantesca macchina di soccorso
per sopravvissuti e parenti, chiudendo tragicamente il cerchio con il tumultuoso scenario che aveva fatto da sfondo
agli eventi settantasettini. Come per il sequestro Moro, in
Pentothal non se ne fa la minima menzione15. È lì, semplicemente, ma solo per chi la vuol vedere. Sufficiente è il richiamo al tabellone dei treni, quel teschio abbandonato in
terra al proprio destino. Intrighi, depistaggi, trame nere,
deviazioni, la storia è lunga e complicata ma il messaggio al
paese arriva forte e chiaro comunque. Bologna la rossa, allora è vero, il sipario deve proprio calare. Basta. Basta.
Basta. Mi fate paura .
… PIOM-BO… PIOM-BO… PIOM-BO… È finita. Il
soggetto protagonista si sgretola nella moltitudine, seguendo la parabola della propria generazione. Fino alle estreme
conseguenze e alle molteplici, drammatiche, derive. “LA
RIVOLUZIONE È FINITA, ABBIAMO VINTO”, pro15
La strage è rievocata da Pazienza in una tavola singola uscita su Il
Male dell’8 settembre, dove l’atto terroristico è visto prima di tutto
come una feroce violazione alla sacralità delle storie individuali, fossero anche le più inutili.
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clamava Alice pochi mesi dopo il marzo insurrezionale, sottintendendo la necessità di rompere le righe e di trovare
nuove forme di lotta adatte ai tempi che andavano a profilarsi. Una scelta che non tutti saranno in grado di intraprendere. E dunque, nell’ultima tavola di Pentothal, l’alternativa è tra la fuga, per chi può permettersi di fuggire, e un
fucile mitragliatore, per chi si ostina a restare.
Si tratta per la precisione di una mitraglietta superleggera SEC 216 “Shapitre”, prodotta dalla ditta Azzaroni Armi
di Minervino: bocca da fuoco cal. 670, serbatoio rotante,
velocità di fuoco 31sec., sistema di puntamento Italo Balbo
con lenti Bosch e Lomb Varial…
La rappresentazione di armi da fuoco ricorre spessissimo
nei disegni di Pazienza, solo nella saga di Pentothal se ne
contano più di una ventina, senza considerare il bislacco arsenale riprodotto nella tavola dedicata a Pentokan. Una
delle primissime storie a fumetti dell’autore, poi pubblicata sul n.6 di Alter alter
del 1977, si intitolava proprio Armi e faceva leva sul
millimetrico interesse che a
quei tempi tutti i compagni
dimostravano per pistole e
fucili, una passione che andava a rinnovare il collezionismo retrò di chiavi inglesi
dalle diverse fogge e misure.
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Sulle pagine del Male Andrea concede il bis con lo stesso titolo all’inizio del 1980, ideando sei modelli di armi per sei
diversi momenti della giornata, constatando: “Così come la
mia ascella cerca te, amore, Voi vivete per le armi, miei bizzarri, e andate tutt’intorno a discuterne i profili, apprezzarne i progetti, questo va e questo non va, e insomma vi divertite. E fate bene. Sei armi sei per una vita ricca d’esito!”.
Violenza levatrice della storia, si leggeva nei libri e nei
giornali, “Armi agli operai!” si scandiva nelle piazze e nelle
strade, negli interminabili cortei che come serpenti a sonagli si snodavano lungo città blindate, invocando una nuova
Resistenza, mentre nel paese si susseguivano tentativi di
golpe, aggressioni, omicidi di innocenti, arresti arbitrari…
E stragi, che si ripetevano con ritmo terribilmente incalzante sui treni, sugli aerei, nelle stradine di provincia, davanti alle questure, nelle piazze affollate, nelle stazioni. Da
una parte si diceva: io non posso accettare di essere cittadino di uno stato fascista, e quindi mi rivolto… Dall’altra si
rispondeva: “Esatto! È precisamente quello che devi fare,
accomodati”. Sarà un massacro.
Consapevole e succube della fascinazione iconografica
delle armi, sul fenomeno della lotta armata Andrea si esprime solo con sparute stoccate e qualche affondo isolato, di
cui l’ultima pagina di Pentothal è senz’altro uno dei più emblematici, dissimulando il dramma della propria generazione con uno sguardo ironico che è a volte divertito e a volte
feroce. Disegna alcune vignette, poche, il più delle quali legate all’istante, a sfumature e piccole pieghe della storia, e
un bel racconto, intitolato non a caso Finzioni (realizzato
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nel 1983 insieme a Marcello D’Angelo per il primo numero della rivista Corto Maltese), dove però il contesto è abilmente sfumato e la vicenda potrebbe tranquillamente riguardare un episodio di delinquenza comune.
Ma non è l’unico a peccare di reticenza. Certo, lavora
in un ambiente umano prima che editoriale che fra le
mille posizioni possibili e inconciliabili è riuscito a trovare uno slogan comune sotto il quale riconoscersi: né con lo
stato né con le Brigate rosse. Un ambiente che ha trovato
nella satira e in generale in una smisurata fiducia nella libertà di espressione il modo migliore per interagire con il
complesso fenomeno.
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In questo ambito Stefano Tamburini è sicuramente l’autore che più spesso ha giocato con i fantasmi dell’eversione.
Nell’esilarante La vendetta dell’uomo in ammollo il protagonista è l’attore di una vecchia pubblicità che dopo vent’anni di risciacqui, ormai mutato geneticamente, si organizza
per seminare il terrore insieme a tutti gli altri mostri rovinati dal marketing televisivo, costituendo i “seducenti
gruppi per lo sconvolgimento della società dei consumi…”. In un altro racconto, Tiamottí, svela l’ultimo ritrovato in fatto di lotta contro il terrorismo: una sonda psichica che in un raggio d’azione di venti metri permette di
scandagliare il cervello di qualsiasi passante, traducendo in
impulso elettrico ogni pensiero teso alla sovversione o al sabotaggio dello stato e, nel caso incriminato, azionando automaticamente delle mitragliatrici che dominano i punti
strategici della città… (ma basterà cantare a squarciagola
Umberto Tozzi, noto fiancheggiatore, per far saltare in aria
tutto l’ateneo…). Per non parlare delle sventurate imprese
di Locatto e Pistoletta, il famigerato duo della serie Digos
rider che prima mena e poi parla, prima spara e poi domanda, nella lotta inde/fessa contro tutto e tutti, vieppiù terroristi, in grisaglia o passamontagna: “Nuclei combattenti armati di tutto punto per un comunismo al limone
verde16…”.
Riverberi. Evocazioni. Salti mortali, pure, e da applauso,
16
La vendetta dell’uomo in ammollo, Cannibale n.4/5/6/7, inverno 1977;
Tiamottí, Cannibale n.0, giugno ’78 con i disegni di Tanino Liberatore;
Locatto e Pistoletta, tre episodi sempre con le illustrazioni di Liberatore su
Il Male n.7 maggio ’78, n.34 dicembre ’78, n.20 maggio ’80.
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che però raccontano poco sulla compagna P38, sui “compagni che sbagliano”, su questo “nuovo ’68 calibro 38” che
non siamo ancora riusciti a digerire. Un gradino più in alto
se la gioca Scòzzari, con quattro paginette che escono in
una smagliante linea chiara su Cannibale numero 11, nel
gennaio del 1979. Alé!, il titolo. Calcando un filino la
mano, come da consumata usanza, restituiscono a pieno il
clima di delirio di quegli anni ed è lo stesso autore a introdurle come “l’ultimo grido in materia di qualunquismo e
violenza nei fumetti!”. La storia, una modesta proposta di
soluzione finale, ce la racconta tale Pippazzo mentre ricarica la doppietta in un’impeccabile tenuta da caccia: “La
causa di tutto è la gente! Eliminiamo la gente! Tutta!
Legalmente! Ed avremo eliminato l’origine di tutti i problemi!”. Insomma una faccenda di squadrazze statali che,
col seguito di medici certificanti, se ne vanno in giro condominio per condominio a litigarsi i malcapitati indicati
nelle liste di epurazione, per la serie: “Siamo brutti, siamo
tanti, siamo dei gran rompicoglioni? Sopprimiamoci!”.
Scòzzari, sempre un classico.
Ma al di fuori della satira, o comunque di un indispensabile approccio visionario, è tutto un altro discorso. La
finzione narrativa è esclusa per l’estrema difficoltà nel rapportarsi con un argomento troppo vicino, come tempo,
come spazio, a un percorso esistenziale comune; ed è ancora più esclusa perché da un certo punto in poi qualsiasi livello di contiguità non solo ideologica ma anche proprio fisica, solidale, con chi si vede accusato di tramare contro lo
stato, si trasforma automaticamente in presunzione di con100
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nivenza e reato di omertà, e ogni espressione di emarginazione diviene l’oggetto di una tragica cultura del sospetto17.
E poi, per tornare a Pazienza, è un’altra storia quella che
lui vuole raccontare, quella che saprà raccontare. Levategli
i baffi e gli inutili ceselli, aggiungete un’aureola e il technicolor di fine anni Ottanta, la sfrontatezza del nuovo secolo
che incalza, e la potete trovare in pagina penultima di
Pentothal, gesto di pudore e sottomissione di fronte all’arrembante arroganza della storia.
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Il discorso è complesso e meriterebbe un’analisi più approfondita. Il
cinema italiano ad esempio ha toccato l’argomento in più di un’occasione e, con risultati alterni, lo ha fatto anche con alcuni dei suoi registi più rappresentativi. Nei fumetti, oltre alla mole impressionante di
vignette e strisce satiriche, di quegli eventi drammatici rimangono ben
poche testimonianze, delle quali la più compiuta è la trilogia dedicata
al terrorismo del Commissario Spada di Gianluigi Gonano e Gianni De
Luca, apparsa sulle pagine de Il Giornalino a partire dagli inizi del 1979
per le Edizioni Paoline. Fuori dallo specifico editoriale del fumetto, da
raccontare è l’esperienza della rivista Metropoli, un mensile politico
“sull’autonomia possibile” che a poco più di un anno dal ritrovamento
del cadavere di Aldo Moro esce in edicola con il suo primo numero: fra
un’inchiesta sulla Polonia e un’analisi delle nuove caratteristiche del lavoro sociale, all’interno è presente una storia a fumetti che racconta la
dinamica del sequestro e i cinquantacinque giorni della prigionia, fino
all’uccisione. La redazione sceglie il fumetto per ritornare su quei tragici eventi perché vede in questo un tipo di linguaggio metropolitano,
moderno, in grado di fare presa immediata sui lettori. Due giorni dopo
l’uscita la rivista viene sequestrata in tutte le edicole della repubblica
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