I ROVI (2011-2013)
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I ROVI (2011-2013)
I ROVI (2011-2013) Da J. K. Riempi per me una coppa traboccante e lascia che quest’anima vi anneghi ma mettici una droga che sia in grado di esiliare la Donna dalla mia mente. Non voglio il flusso dell’ispirazione che scaldi i sensi in desideri osceni, voglio soltanto un sorso, ma profondo, come se tracannassi acqua del Lete. E la mia vista non sarà più benedetta, di tutto ciò che vedo ha perso il gusto, né più con gioia sarò in grado di tornare sulla pagina classica, ai fiori della musa. 2 I rovi Ma se una lingua inesistente sente in sé la lontananza siderale degli astri che di ogni corpo fanno un corpo vivo e mortale, quanto distante è questa vita dalla vita stessa che la anima ed ignora, immaginandola come una cosa sola? Ma senza fare di condizione virtù, non mima il passo falso del presente dove l’azione è questa pubblica parola che non conduce a niente. Forma il pensiero il ritmo della mente che se non può ma vuole agire è sempre un’illusione abietta o un desiderio vivo che gronda di aggettivi e oggetti. E vinto si nasconde, non manifesta resa. Circonda il tempo il tempo dell’attesa. * Così nel buio lo stagno lunare germoglia in un canto di rane. Tutta la vita è un fiorire notturno senza presente né fato. I nuovi campi di sterminio sono pieni di luce. E in ogni oggetto è nato un occhio che inibisce l’opera. Un cantiere di cavi cinge il letto in cui dormi. Ma esiste ancora un luogo dove crescono i rovi e le anime dei morti che ritornano a sera? Chi lo cerca non trova più niente. Una dimora al confine di un fossato invalicabile. 3 I barattoli Il nido è intrecciato per sempre o l’usignolo è tradito? È il fuoco di luglio che disfa l’ordito degli aghi di pino per sempre? Ti immagino di nuovo scendere verso l’origine assoluta dell’orto col nespolo maturo e quel mio gesto generoso, che non ho fatto. Che splendida sorpresa, vecchia madre… Come un albero in una feritoia lui era andato a vedere i cavalli in uno specchio senile, maculato di dentifricio e impurità biologiche. Ma i barattoli di sugo sono esplosi e lui ancora corre nella notte. 4 Il ritorno Non sono molte le estati della vita. Si risorge col sapore dell’acqua assopita nel guscio verde e ardente della borraccia. Ditela la traccia da seguire, senza ritegno dite il disegno che si nutra di invenzioni puerili come il gabbiano stanco che tracolla sulla riva cercando una vista nuova, una prospettiva mobile che il crollo naturale renda idoneo al passaggio, all’ampliamento cognitivo. Perché le estati che ci restano non sono molte, ditelo che lo sguardo si impesta di putredine, che si incrosta il coraggio nell’evocazione di un miraggio defunto e tu che resti nella casa guardami allo specchio o nello schermo acceso e dimmi se eravamo nati proprio a questo sfiorire. Gridalo che il sole brucia sulle vesti come un Dio ci chiama madre dell’amore gridalo in silenzio ad occhi chiusi a strette mani o nell’oblio ricordati di tutto ciò che dovevamo dirci e non ci siamo neanche sussurrati perché non eri tu ma un prodigio maggiore ad annunciarsi e l’hai tradito. * Dietro la curva i cani, il doloroso amico devoto al perdono. Non più bisogno c’è di luce ed ordine. La carne si dissolve nello stagno. 5 La caffettiera è esplosa. Un mazzo di chiavi. Si era perso nei secoli, nei corridoi. Salvano il fiume i rovi, gonfi di more. I bivi sono entrambi percorsi. Io tra non molto cesserò, dovrò restare in questo albergo spettrale pieno di ganci e cavi elettrici e visioni scoscese. Nessuno mi conosce o sa chi sono e donde vengo e quale fu la mia missione nell’infanzia tardiva di abeti verdi e mantidi religiose. Ho voglia di viaggiare, ho voglia di restare immobile. Ho voglia di cambiare, ho voglia di restare me. Era un segreto, un passo falso. Era un cancello, un cortile. Era le chiavi, erano perse. Era una donna, era sul nespolo. Era un cassetto, era nell’ombra. Era un giardino sconnesso. I gerani sono rossi. Tu ora sanguini dal naso. Questa mattina è bianchissima come uno sguardo tradito. Le soldatesse sono in fuga. Forse cercano qualcuno. 6 Preghiera Sono cresciuto in questo palazzo, tra le reti del campetto da calcio che non hanno finito. E ha chiuso la bottega delle birre gelate come il Blockbuster dove passavamo l’inverno. E ha chiuso la taverna dove ci conoscevano. E ho chiuso il mio quaderno con le poesie di ieri. Non ridere, non credi che sei maleducato? Sto cercando soltanto di dirti una cosa. Chi sono io? Conosco veramente qualcosa? Non moriremo senza esserci conosciuti? Se non mi cado perso nei misteri del bosco dove la quercia ha fatto della pietra una soglia 7 ed obbediente vago, fedele ad ogni cosa, e quel lago ghiacciato non l’ho mica scoperto! Chi sellerà il cavallo quando dovrò partire, quando sarà il momento di disperdere le tracce? Io sono sempre qui, che attendo senza fiato, con un piccolo fiore che ho per te pensato. E non mangio la neve da almeno tre secoli! Signora dell’immoto mutamento ritorna. 8 L’attesa Le tue mani ferite nella fonte ghiacciata, quale sete di lama consumò l’attesa? Ora il fuoco ti chiama a una violenza mite, le tue mani ferite nella sera di lava. Domani sarò un cranio che schiuma un brodo rosa sotto la difettosa pressa del macchinario. 9 Itaca Alla stazione di Ascoli un africano piange inginocchiato all’ombra dell’autobus per Roma. Sopra di noi le nuvole, una gru ferma da mesi. Il vento si è fermato. Non torneremo ad Itaca. 10 Il garage È un albero iridescente infiammato da un rauco sistema di illuminazioni urbane. Qua noi si parla di ogni cosa come ho fino ad ora cantato. Nei meandri dei giardini interni dei palazzoni di Monticelli dove è iscritta la voce in un pezzo sul muro, come un cuore tra le spine sanguinante. Dal fondo di una vita immensa al sole dei campetti da calcio, dove bande di ragazzini inquieti scalciano rigori allucinanti! Non c’è penombra in questo posto, non c’è il tempio di Ermete che brama la tua morte. C’è una rete che si gonfia ad ogni goal come una vela di speranze segrete nel mare. (E l’uscio cigolante di un garage, e una seconda porta per non tutti chiara, e pagine incrostate nei piovosi autunni di Ascoli, sopra fiumi di foglie gialle come funghi galletti. Qui fu, sotto l’intonaco, un murales di vernice industriale. Ma cinque al mondo o sei soltanto sanno il mistero di una ritinteggiatura a nuovo.) 11 Persiana Le ombre cinesi delle foglie, i rami proiettati sull’intonaco a fianco del mio letto scucito sono chele di mantidi giganti, mostri alieni da ancestrali battaglie e le ringhiere del giardino sono il carcere dove la rivolta dei mutanti si muove. Qualche anno fa su questo muro stesso ci fu una gara di auto proiettate da una lanterna magica, persiana di legno in cui entra il sole e fa il disegno. 12 La promessa del fiore Brilla per sempre, relativa stella alla distanza da cui mi avvicino. Vederti è stare qui dove la riva l’esistente in cammino ogni possibile rifrange alla deriva d’occhio e luce. Ma adesso è in questo immobile processo in cui io e te miliardi di anni luce distanti ci fermiamo ad osservarci. La muta già corrode ogni esperienza violata ma ti ho vista ora per sempre brina dell’esistenza, non passata visione, assenza che (forse) ricuce l’improbabile promessa del fiore. 13 Il tarassaco I. I fiori di cui non conosciamo i nomi, erbe che non abbiamo mai saputo e recintavano il ritorno a casa sulla pista ciclabile, ai bordi della strada. Ne acciuffavamo a pugni per tirare cartavetrate spighe sulla schiena di Elena che andava di più lena o a Valentina che ci raggiungeva da un limine di rovi innominati e reti che arginavano la resa di quell’impura ermetica distesa dove tu nascondevi i segni osceni nella bocca di un albero spaccato sotto un nido di foglie sfigurato e mi dicesti pure noi saremo tra qualche anno quella cosa e insieme ci dirigemmo come un puro seme a visitare il mondo del futuro. L’odore degli orinatoi, dei bagni turchi, delle piscine pubbliche, dei camping, delle vestaglie chiare ove traspare il segno delle docce chiuse a chiave, delle cosce insabbiate, dell’abbaglio di chi da un taglio di portiera non vide Sant’Anna in uno specchio con Gesù dentro l’aureola dei fon ma il giovane Faruk e un militare ebbro come un fiore da impollinare e impresse quella scena in un cell phone moltiplicando la gogna virtuale dentro l’eterno il più banale scherno come quello di pubblicare l’atto sessuale in un neutrale scatto e il male 14 è l’innocenza brutale di chi si fa persecutore di un semplice fatto naturale come un fiore di città. Qui passano le storie, si stratificano le impronte in uniposca o happy color sulle croste del muretto, in caserma fu pestato il frocetto con t-shirt intrise d’acqua, che non lasciano prove. Ma il terzo anello è dedicato a Ivan, tarassaco bruciato in un incendio improvviso. Dove si sarebbe posato, Signore? Esso germoglia adesso nel mio cuore. L’infetta trasfusione di quell’ente ospedaliero che l’ha infine ucciso somministrandogli una cura agente come un crash su un corpo emofiliaco sia maledetta per sempre, restano dopo la camera ardente due lettere in cui ora vive: in una mi descrive l’abbandono che l’ha tradito, l’altra parla di una mia poesia precedente. E il seme del tarassaco è volato a portare il mio pensiero a Chiara, cugina che da sempre ho amato e attendo in una stanza immaginaria lontana dal veleno familiare che il corso del destino ha dissociato. Qui adesso ho sedici anni e lei ventuno per sempre nella grotta degli ombrelli, nella scritta blu cobalto, nella stella che di notte brilla, sui nostri ponti non ancora crollati. Sentivo i campanelli nel cervello quando una cosa stava per succedere. Ma non mi arrenderò nemmeno adesso. E ai rovi mi consegno integro e nudo. Esco di casa, è quindici anni dopo 15 ma sono ancora io che sul muretto leggo lo stesso libro e qui ti aspetto. C’è un sole stamattina che la storia non è altro che una tetra ambizione da nevrotici scrittori alienati. Mi piacerebbe andare al mare, cantare ad un falò una canzonetta estiva, bere di tutto fino a stare male e dire cose da farvi vergognare di conoscermi, qualcosa di antico, pieno di aggettivi e senza teoria. L’indecente, sublime nostalgia dell’esistente dico, non l’isteria servile di chi scrive col contegno di uno pseudo-Artaud normalizzato e assunto dalla Cia come un robot burocrate che produce ironia pungente durante l’autopsia del padre. In mezzo a tutto questo letterame io cerco un occhio che mi veda ancora come un suo simile, che la parola sia la strada in cui si torna a casa o in cui si va, da qualche parte, assieme. E in questo anello di cui ho perso il conto vedo un maestro dal sorriso buono, figlio del sole come dice il nome che rima con poesia e cortesia. Così negli anni il suo intervento è il suono che fa d’ogni parlante l’armonia di Dante, Umberto Saba e Baudelaire, fiori del mio pensare e l’ambizione di sporgermi dentro l’ignoto vago come Sanchini e il suo aiutante Dago dentro la notte magica a ululare versi d’amore e aberrante utopia. L’arcana marchigiana terra madre dove Daniele, Loris ed Augusto 16 assieme a me ed agli altri che ho già detto convergono alla grande sinfonia dell’infinito nel presente stesso. Grandina; e il selciato è diventato un lago che trasmette l’occhio irato di Dio, un carro militare lo attraversa. Il seme del tarassaco è annegato inutilmente in questo rivolo opaco di pioggia avvelenata, lo deposita il flusso sulla grata di un tombino che erutta e non più sfocia. L’otturata via di fuga gli consente di resistere inutilmente al fato che l’avrebbe terminato e quindi esiste, aggrappato a questo filtro senza funzione. Jonathan protegge due ragazze di Sofia, Paolo studia filosofia e ha comprato una pistola per difendersi, spaccia perché un lavoro a Roma non ci sta fuori dai giri della criminalità organizzata in politica e mafia utilizzata come propaggine armata dell’esistente potere dei clan finanziari e latifondi restaurati dalla Ndrangheta le cui radici affondano in secoli di storia vaticana e doppio stato. Questo sangue che discende dal viale attiguo all’inferriata condominiale pertiene esattamente al suo presagio di realtà feudale, non cancro ma ganglio di un romanzo esoterico e criminale fondato su segreti da preservare e verità da uccidere, la strage è l’infinita replica di un omicidio primordiale camuffato da regolamento di conti o incidente stradale. Ripugnante popolo che acclami chi ti fredda 17 con un colpo alla nuca, bacia la mano del padrone e vai in malora! II. Corviale, unico posto somigliante al paradiso! Col paesaggio che s’apre in un quadro infinito, cordiale signora alleata del drago, non sei Roma ma un paese antico. Ascoltami, ciao, io sono uguale a te; accoglimi, non trovo un posto più bello dove andare. Mi fa schifo la città imperiale coi suoi castelli vuoti e il suo volgare ghigno da erudito che ignora il cigno popolare, un regno vuoto di chi avrebbe voluto ereditare un potere che alla fine gli è finito tra le dita come sabbia che brucia! Io qui ritrovo invece la mia vita precedente e il mio futuro nel presente che si svolge come un classico vivente. È strano, passeggiarono poeti qui a ridosso del Colosseo come Pier Paolo e Dario Bellezza, venne Keats e morì ad un passo dall’ambasciata francese ed oggi Franco attraversa le sue stesse stanze piene di lingue slave e fantasie africane. Eppure l’Accademia resta pura negazione della vita. La critica disprezza la realtà come nemica di classe da colonizzare e rendere schiava. La Chiesa ama le masse pronte a arrendersi, non c’è un’alternativa. La separazione è tutto il presente 18 della politica che è legge e lingua attiva in un processo di acculturazione perenne del popolo succube al padrone. Per questo rifiutiamo la funzione egemone e pratichiamo la canzone borderline, tra coscienza e mediazione, come il viaggio di Odisseo che adesso Marco porta in scena come un messo antico sceso dalla Marsica a Roma a cantare le sue ire di schiavo in rivolta che dice: “Adesso non più”, come Albert Camus. Coscienza è l’esperienza e anche lo studio inteso come scienza della ricerca, mediazione è lingua naturale che canta, non lo slang che il segreto degli adepti tramanda. Itaca cara, forse non esisti e io ti cerco attorno come un sogno proiettato sopra i corpi del giorno eppure il mio ritorno è un moto vero che essendoci a sé stesso dice questo pensiero di rivolta contro il fato. Tutto è cemento per il resto e noise dell’autobus coi claxon meno puri dove l’acqua piovana entra nei muri colore dell’infanzia grigio armato. Ma attorno smeraldine fronde e un fiato di campagna che viene a benedire col suo flauto di cardellini e passeri i tuoi passi che attraversano il dato di fatto sognanti di inseguire il fauno come una prassi del mito rinato nel basso quotidiano ove dimorano le grazie dell’avvento sovrumano: e pensi camminando a Proust e a Joyce… La gioia è il frame di un mulo nel telefono di Giulia oltre la rete e adesso è il desktop 19 con l’albero ingabbiato nel traliccio della luce di fronte alla muraglia anche detta da molti il serpentone. Ricorderai il momento in cui resisto al tempo, da sconfitto? Le indiscrezioni vogliono un incarico governativo prossimo all’intesa ma i miei due corpi non avranno sintesi mentre ti guardo distesa colta da amplessi stranieri e il fiume immemore si disfa in canto. Io immetto il file nella memoria visualizzo da capo l’evento, cerco il momento in cui riveli l’estasi dello straniamento. Non sei la cavia di un occhio in incognita ma la mia doppia residenza in atto, pornografia anonima, abbazia del desiderio voyeuristico in cui mi salvi nel tuo occhio di web-cam incapsulata all’interfaccia che canto. New York è vasta, Pechino è lontana quanto basta, forse, per immergere le mie speranze di umanista in prigione (nel modo in cui segreta oggi è la vita libera di un corpo senza funzione) in un sogno delirante di fuga religiosa e umana rinascita. Cerco su google “work rio de janeiro brazil” oppure “australia”, ascolto gli Iron Maiden, non leggo Musil ma mi chiedo che azione parallela mi trattiene dall’esistere vero se poi esiste l’esistenza davvero e non è un gioco di parole sofiste. Il corpo eterno di ciò che non è l’io si svolge a iosa senza la proiezione velenosa 20 dell’abitudine al possesso. Un fiore ha grazia per sé stesso oppure è l’incipit dell’universo? Non lo so ma credo di avere voglia di andare in montagna. Eccoci qui, dove più non ristagna la logica insana della mia storia. La memoria si bagna in una vasca assolata di mosche, mentre il passato cresce nell’insalata. Era la Tosca che diceva, mi pare: “Vissi d’arte” “E lucevan le stelle”. Porca madosca, una parte splendida! Se l’infinito è questo rumore di frasche nel vento in cui sei assente e beato il sentimento è l’occhio sconfinato dell’inazione in cui risplende un altro te in altrui sembiante e venerandolo contempli l’unità dei fenomeni reali. Ma quando l’armonia è divelta in guerra di interessi contrapposti e uguali come nel film “Rumble fish” di Coppola l’uomo è nemico di se stesso. Io non sono certo immune a questo schianto essendo dello specchio rotto il granulo più piccolo dalla scopa non colto. Canto quello che vedo da stravolta porzione di un ente che non ricordo. So di un presepe in cui venni dipinto da cielo, ai miei piedi il muschio e mio figlio il lago. Con un cero s’affacciava una donna a me e pregava. Poi vidi balli in maschera e sconcezze e amori pomeridiani di ragazzi acerbi e infine tu che ora mi leggi so che da un palpito del genere giungi. Ti limitasti a nascere e a sapere la retina macchiata del mio ultimo 21 giorno di vita quando l’isteria della metropoli mi urtò nel pugno di uno che adesso sta alla polizia. III. Io dico l’armonia, non la prigione dell’occhio ottuso che si crede Dio. Ti dico questo fiume su cui splende la luna fino alla fine del mondo. Dico il molteplice e la profezia dell’Uno che si svolge differente da sé stesso come questo riflesso nell’acqua corrente. Lo schermo è una rete di minuscoli gnomi che sfidano i sensi, riproducono in 0 e 1 l’uomo, ti confondono e non sai più cosa è vero. L’assassino è un algoritmo che forma la gente a seconda di input precedentemente raccolti da motori di ricerca. Il terrore democratico si forma spontaneamente come un fungo tossico. Dov’è giustizia e come può la mente liberarsi dall’orrore che il mondo elegge? Bosnia, Erzegovina, Pristina, Kabul, Baghdad sono soltanto un grumo rappreso, un sanguinaccio da succhiare che spinge in bocca la mano del padre. Tu vorresti vomitare ma ingoi la morte come un rito familiare. Suona un allarme, altrove è una sirena di contraerea per le vuote strade. La bomba s’apre come un fiore acido di pixel verdi e viola, un cavolfiore spettacolare. Estetica del crash, 22 se esistere è violare in un accumulo esponenziale di stragi il Ground Zero di New York è l’apice, una performance funzionale all’egemonia dell’immagine sul pensiero. Il vero conflitto è questo, la lotta di classe tra video e suono. Entriamo. Ogni fruscio segreto apre libertà che l’immagine stringe in un pugno di volontà. C’è il mare dietro ai palazzi, oltre il recinto un cane si tuffa nel lago. L’udito va come una cinciarella in libertà. La vista può soltanto analizzare il presente, non trova niente. Il male, e cioè il sopruso del potere sulla mente dell’uomo, se ne serve per mostrare falsità. Un montatore lo sa che la realtà si taglia su interessi editoriali e in ogni quadro in fondo manca il resto del mondo. Una città è composta da milioni di sguardi che intersecati formano il cervello di uno scoppiato che non può calmarsi se non trova il mare… Per questo svolta sulla zona industriale a U, smontato il turno alla catena e non ritorna a casa, sulla Nazionale si mette a correre. Parcheggia, a pochi passi dal litorale e tra i bagnanti avanza con gli abiti unti, si scalza. Poi percorre un tragitto di cui ha memoria e conta con le dita gli anni in cui aveva sedici anni e ora quaranta, metà della sua vita eppure è lui l’altro sé stesso di una vita santa incorporata nell’altrui che è adesso. Qui con Ginevra Lancillotto era 23 seduto a una panchina e quella banca non c’era, altri mercati tintinnavano di mercanzie cortesi, adesso i vendesi tratteggiano il profilo sconsolato di un luogo raso al suolo. Inabitato l’uomo cammina e va lungo la sera… (Ho interrotto la stesura di questo poema il giorno in cui ne pubblicai i primi due canti più metà del terzo sul sito della Gru fermo da un pezzo. Sono appena rientrato da un pranzo con F. C., un lunch – come lo chiama, all’americana – e infatti in borsa avevo il Dottor Sax di Kerouac e Tony Harrison. “La mia intenzione è quella”, dico, “di cambiare referente, di abolire il pubblico accademico per rivolgermi direttamente a un prossimo generico come potrei essere io ai tempi del liceo o chiunque altro, di ogni età e dialetto.” “Il difetto”, mi risponde, “è forse in questo stile assunto colmo di riferimenti intertestuali e colti, grandinante.”. “Eppure credo che una volta letto il contenuto affondi con più energia proprio in virtù di questo canone abitato come una spia del quotidiano acido nella poesia o viceversa è l’arte nuda del passato che i nuovi paradigmi non avversa ma include in sé arginando futurismi e nostalgia in un ibrido naïf e vigile, ipercritico…”.) Ghiaccia la sinfonia del grande oceano, stipa il frantoio delle ore diurne la vita. Non esiste altro dio che questo freddo eterno in cui chi va ritorna 24 alle soglie meschine di un universo che si espande e comprime. Le spoglie cadono sul pavimento… Si addorme… Shhh… Silenzio dice l’onda sullo scoglio di cemento dove Laura ha disegnato un cuore, Andrea una svastica, Giada un divieto sulla stessa che gronda e bevono un rum da ipermercato e metro. S’apre una rosa stellare oltre il mare. Il pontile di una nave prende a cigolare. Una nuvola ha la forma di un cane a tre schiene che viene e scompare. Ritornano in treno sulla terra che affonda ai piedi dell’astro sterminatore gli amici del disastro, dell’affetto segreto, non dell’amore anche detto volgarmente patto civile o decreto… No, saranno fragili e perpetui i ragazzini dal bicchiere vuoto. Verrà la notte dei fantasmi, il fuoco, la lunga traversata della sete. Bruciano ribelli in Siria, bruciano brandelli in campi rom. In Palestina bruciano fratelli di tre chiese ai quali nessun Dio chiese di armarsi contro i suoi stessi fedeli, l’assurdo di una storia che intese la nazione come fine e il culto come strumento di difesa e aggressione. Religione che il mondo rima con persecuzione arbitraria di ogni ignorato altrove adesso è l’odio di un intero popolo contro i coloni che l’hanno schiacciato. Spengo la televisione, irritato dal discorso di una stupida che gioca a vomitare benzina sui falò 25 di una retorica xenofoba che tanto prima o poi ci esploderà in mano. Scoppiano petardi in strada, fuochi d’artificio che un ragazzino finge siano spari e gioca a rantolare sul selciato... IV. «Mi sono svegliata, improvvisamente alla ricerca di un tuo segnale, il monitor in stand by indicava l’ora inoltrata. Sul comodino il cellulare acceso non conteneva icone di reply. Con l’occhio chiuso giocai a far saltare una goccia di pioggia sui tetti delle case. Ti vedo in un display sparire tra le Pleiadi, eravamo due player ma adesso gioco sola.». Lorenza apre le palpebre alla stanza e il sole non c’è ancora. Alla console carica un gioco, gira una canna, mescola le gocce per l’umore in mezzo all’acqua. Sguardo di soldatessa, di chi ignora il corpo di un ragazzo, sguardo di Venere traumatizzata, si sogna col cazzo allo specchio e viene. Il giorno della partenza per l’Afghanistan accorda una chitarra, fa la doccia e pensa per l’ultima volta è finita. A Malpensa compra Ratman, Dylan Dog e prova una voglia infinita di chiudere gli occhi e dormire. A Roma parla il ministro della difesa e non sente una parola, come a scuola guarda fuori dalla finestra, attende 26 l’ultima campana… * Non so che porte allora si apriranno a un’anima più libera dall’ego che fa di questa vita un crocevia di rifrazioni false e ideologia. Né so se adesso in me qualcosa esiste che prima anche abitò un lontano assente né come si svilupperà il presente nell’attimo in cui già non più sarò. Né so se il Dio che dico è la memoria di un fiore solo ove prendemmo il volo e il verbo un soffio che non la parola ma un suono ubiquo e ondivago diffonde di una realtà che non si fonde al suolo ma si confonde a sé diversa e uguale perché ogni sguardo come dice Leibniz è sacrosanta verità parziale (da non confondere con l’ideale dell’unità impossibile e irreale che il primo Novecento devastò di crudeltà nel sogno primordiale perché l’origine non può tornare che in campi di sterminio o nell’orrore di lager, roghi e gulag non a caso aventi un suono simile e sinistro. 27 Però tra Neo-idealismo autoritario e il Nulla è anche possibile trovare la strada che io chiamo Orfanità del Viaggio dei Fratelli Solitari…). V. Trovatevi, ringiovanite, siate ancora dice il corpo nudo tra le foglie e l’erica. Chi era? Non potevano ugualmente crederci? Venite a prendermi gridò non credo ai tuoi silenzi. Sei nel buio. Non ritornano nei boschi né si tuffano tra i flussi gli uomini. Io quasi non esisto più. Scoprì la carne angelica lungo declivi irrovati, dove i fratelli sono vivi ancora e di radice in masso ti saluta la soglia preannunciata da uno specchio rotto, ai bordi della strada. Oh flotte di vascelli e balconi pirata sventolando lenzuola dai colori estinti! Tra i palazzi popolari e l’autostrada, dietro a tende marroni, al ritmo delle stoviglie. Io sono qui, né padre o madre, vivo nella radice senza origine del tempo, senza memoria ricordando ogni cosa come libellula stecchita o foglia d’edera. Tu non capisci più frasi complesse. La tua memoria è persa, la mente spossata. Devo parlarti a gesti, comunicare immagini. Vorrei tu fossi qui per farti capire. 28 L’eternità porosa ai piedi di un gigante. Se un coso vuole pungerti lo schiacci con la mano. Nessuno adesso è maschio e neanche femmina. Ci baciamo e tocchiamo come foglie nel fiume. Poi fu soltanto nella luce un rutto lento e feroce, come un gorgo di pietre nella lava che muore. E il vitello era una cosa da scorticare e fare a pezzi, un melograno caduto a terra, da spezzare e succhiare. E il fiume era verde, e straziante il gabbiano, molto grande la madre e nudo il figlio, in questa aliena solitudine, nel delirio stellare, attraversando rampe di scale che separano il quinto piano dal cortile interno. Oh i pilastri della sopraelevata Ovest! Parevano un rifugio al ragazzino in gita. La tredicenne orfana sale da Eur Magliana. La metro emette un suono come un barrito onirico. Neonato inverno, luna pende come un dente millenario. Abita il tuo corpo a piene mani a solide narici a lingua desolata, a spalancata pupilla. Saliva l’abitare che secerne segretezza e linfa. Sillaba il sigillo delle case nella luna, il mare è grande dice e questa barca non ha fretta. Vaga sopra pilastri incomprensibili, lungo l’Aquila-Roma, o da Bari a Milano. Da queste pietre muschiate fuggiranno per sentieri disastrati stranieri da calanchi cariati scivolando come paguri in cerca di un rifugio. 29 Oh secoli di scienza e nuova fisica atti solamente a dimostrare le ipotesi sul tempo di Agostino e i principi olistici di unità fenomenica! Allora noi sapremo ritornare fiorendo a pieni occhi di materia come un gabbiano esplode in mezzo al mare cibandosi dell’estasi che prova… * Ma dove siete andati voi, per quale pretesto soffiati alle cose da fare, alla tecnica del vivere praticamente assieme all’ombra di una distanza perpetua? Le scogliere di Moher… mi ricordo di essermi steso sulla fredda pietra come una vecchia impassibile e tetra che venera il suo abisso di tristezza… Stranezza senza luogo, insospettabile crepa d’oro nella bianca ringhiera, pepita antica per cui dice Eureka il ragazzino che al mercato si reca o la fanciulla che per la discesa asfaltata va dove si attende il tram. Muti fratelli immersi nella storia le cui radici emergono in maniglie interrate, che conducono al fiume... Popolo di Seattle, Porto Alegre, Genova, Firenze social forum in cui gridava “One solution, revolution!” una lava di vite nuove tornate a un altrove dal tedio del presente, dalle alcove domestiche in cui occulta la visione 30 del Non potere egemone e padrone il fiore smarrito della rivolta. Passato rinato nel presente assente come un moto sottocutaneo emergente per essere di nuovo schiacciato! “Eco lontana di lacrime e risa...” “Siamo per sempre una famiglia uccisa...”. “Carlo Giuliani...”. “Blanqui...”. “Baudelaire...”. “Poesia e rivolta si era e si è...”. Così diceva in fondo al corpo un coro di amici antichi e nuovi, separati dentro prigioni assenti, in negazione di azione, nella comunicazione virtuale che si incarna in un esilio di massa, in questo esodo del mondo dalla sembianza verso l’irreale inconscio collettivo del linguaggio. Un’avanguardia del controllo tecnico in cui pure l’immagine decade nel Lete di un potere onnipresente in quanto assente, come il buio nell’Ade. Ma tu che leggi emergi in questo suono? Ma tu che leggi e ignoro forse sono io dopo, oltre l’origine che imploro? Code di topo, graminacee d’oro, tra i grattacieli e il ponte che scavalca il Tronto cupo e languido vi incontro come se giorno non fosse passato. Ma i secoli ci stringono e il tramonto già trova in sé più livido tremore. Il passaggio di ieri è recintato. Ma ancora io ti chiamo a me, tarassaco. 31