I ROVI (2011-2013)

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I ROVI (2011-2013)
I ROVI
(2011-2013)
Da J. K.
Riempi per me una coppa traboccante
e lascia che quest’anima vi anneghi
ma mettici una droga che sia in grado
di esiliare la Donna dalla mia mente.
Non voglio il flusso dell’ispirazione
che scaldi i sensi in desideri osceni,
voglio soltanto un sorso, ma profondo,
come se tracannassi acqua del Lete.
E la mia vista non sarà più benedetta,
di tutto ciò che vedo ha perso il gusto,
né più con gioia sarò in grado di tornare
sulla pagina classica, ai fiori della musa.
2
I rovi
Ma se una lingua inesistente sente in sé
la lontananza siderale degli astri
che di ogni corpo fanno un corpo vivo e mortale,
quanto distante è questa vita dalla vita stessa
che la anima ed ignora, immaginandola
come una cosa sola?
Ma senza fare di condizione virtù, non mima
il passo falso del presente
dove l’azione è questa pubblica parola
che non conduce a niente. Forma
il pensiero il ritmo della mente
che se non può ma vuole agire è sempre
un’illusione abietta o un desiderio
vivo
che gronda di aggettivi e oggetti. E vinto
si nasconde, non manifesta resa.
Circonda il tempo il tempo dell’attesa.
*
Così nel buio lo stagno lunare germoglia
in un canto di rane.
Tutta la vita è un fiorire notturno senza presente né fato.
I nuovi campi di sterminio sono pieni di luce.
E in ogni oggetto è nato un occhio che inibisce l’opera.
Un cantiere di cavi cinge il letto in cui dormi.
Ma esiste ancora un luogo dove crescono i rovi
e le anime dei morti che ritornano a sera?
Chi lo cerca non trova
più niente. Una dimora
al confine di un fossato invalicabile.
3
I barattoli
Il nido è intrecciato per sempre o l’usignolo è tradito?
È il fuoco di luglio che disfa l’ordito
degli aghi di pino per sempre?
Ti immagino di nuovo scendere
verso l’origine assoluta dell’orto
col nespolo maturo e quel mio gesto
generoso, che non ho fatto.
Che splendida sorpresa, vecchia madre…
Come un albero in una feritoia
lui era andato a vedere i cavalli
in uno specchio senile, maculato
di dentifricio e impurità biologiche.
Ma i barattoli di sugo sono esplosi
e lui ancora corre nella notte.
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Il ritorno
Non sono molte le estati della vita.
Si risorge
col sapore dell’acqua assopita
nel guscio verde e ardente della borraccia.
Ditela
la traccia da seguire, senza ritegno dite
il disegno che si nutra di invenzioni puerili
come il gabbiano stanco che tracolla sulla riva
cercando una vista nuova, una prospettiva mobile
che il crollo naturale renda idoneo al passaggio,
all’ampliamento cognitivo.
Perché le estati che ci restano
non sono molte, ditelo
che lo sguardo si impesta di putredine,
che si incrosta il coraggio nell’evocazione di un miraggio
defunto e tu che resti
nella casa guardami
allo specchio o nello schermo acceso e dimmi
se eravamo nati proprio a questo
sfiorire. Gridalo
che il sole brucia sulle vesti come un Dio ci chiama
madre dell’amore gridalo
in silenzio ad occhi chiusi a strette mani o nell’oblio ricordati
di tutto ciò che dovevamo dirci
e non ci siamo neanche sussurrati
perché non eri tu ma un prodigio maggiore
ad annunciarsi e l’hai tradito.
*
Dietro la curva i cani, il doloroso
amico devoto al perdono.
Non più bisogno c’è di luce ed ordine.
La carne si dissolve nello stagno.
5
La caffettiera è esplosa. Un mazzo di chiavi.
Si era perso nei secoli, nei corridoi.
Salvano il fiume i rovi, gonfi di more.
I bivi sono entrambi percorsi.
Io tra non molto cesserò, dovrò restare
in questo albergo spettrale
pieno di ganci e cavi elettrici e visioni
scoscese.
Nessuno mi conosce o sa chi sono e donde
vengo e quale fu
la mia missione nell’infanzia tardiva
di abeti verdi e mantidi religiose.
Ho voglia di viaggiare, ho voglia di restare immobile.
Ho voglia di cambiare, ho voglia di
restare me.
Era un segreto, un passo falso. Era un cancello, un cortile.
Era le chiavi, erano perse. Era una donna, era sul nespolo.
Era un cassetto, era nell’ombra. Era un giardino sconnesso.
I gerani sono rossi. Tu ora sanguini dal naso.
Questa mattina è bianchissima
come uno sguardo tradito.
Le soldatesse sono in fuga.
Forse cercano qualcuno.
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Preghiera
Sono cresciuto in questo
palazzo, tra le reti
del campetto da calcio
che non hanno finito.
E ha chiuso la bottega
delle birre gelate
come il Blockbuster dove
passavamo l’inverno.
E ha chiuso la taverna
dove ci conoscevano.
E ho chiuso il mio quaderno
con le poesie di ieri.
Non ridere, non credi
che sei maleducato?
Sto cercando soltanto
di dirti una cosa.
Chi sono io? Conosco
veramente qualcosa?
Non moriremo senza
esserci conosciuti?
Se non mi cado perso
nei misteri del bosco
dove la quercia ha fatto
della pietra una soglia
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ed obbediente vago,
fedele ad ogni cosa,
e quel lago ghiacciato
non l’ho mica scoperto!
Chi sellerà il cavallo
quando dovrò partire,
quando sarà il momento
di disperdere le tracce?
Io sono sempre qui,
che attendo senza fiato,
con un piccolo fiore
che ho per te pensato.
E non mangio la neve
da almeno tre secoli!
Signora dell’immoto
mutamento ritorna.
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L’attesa
Le tue mani ferite
nella fonte ghiacciata,
quale sete di lama
consumò l’attesa?
Ora il fuoco ti chiama
a una violenza mite,
le tue mani ferite
nella sera di lava.
Domani sarò un cranio
che schiuma un brodo rosa
sotto la difettosa
pressa del macchinario.
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Itaca
Alla stazione di Ascoli
un africano piange
inginocchiato all’ombra
dell’autobus per Roma.
Sopra di noi le nuvole,
una gru ferma da mesi.
Il vento si è fermato.
Non torneremo ad Itaca.
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Il garage
È un albero
iridescente infiammato da un rauco
sistema di illuminazioni urbane.
Qua noi si parla di ogni cosa come
ho fino ad ora cantato.
Nei meandri dei giardini interni
dei palazzoni di Monticelli
dove è iscritta la voce in un pezzo
sul muro, come un cuore
tra le spine sanguinante.
Dal fondo di una vita immensa al sole
dei campetti da calcio, dove bande
di ragazzini inquieti scalciano
rigori allucinanti!
Non c’è penombra in questo posto, non c’è il tempio
di Ermete
che brama la tua morte. C’è una rete
che si gonfia ad ogni goal come una vela
di speranze segrete nel mare.
(E l’uscio cigolante di un garage,
e una seconda porta per non tutti chiara,
e pagine incrostate nei piovosi autunni di Ascoli,
sopra fiumi di foglie gialle
come funghi galletti.
Qui fu, sotto l’intonaco, un murales
di vernice industriale.
Ma cinque al mondo o sei soltanto sanno
il mistero
di una ritinteggiatura a nuovo.)
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Persiana
Le ombre cinesi delle foglie, i rami
proiettati sull’intonaco a fianco
del mio letto scucito sono chele
di mantidi giganti, mostri alieni
da ancestrali battaglie e le ringhiere
del giardino sono il carcere dove
la rivolta dei mutanti si muove.
Qualche anno fa su questo muro stesso
ci fu una gara di auto proiettate
da una lanterna magica, persiana
di legno in cui entra il sole e fa il disegno.
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La promessa del fiore
Brilla per sempre, relativa stella
alla distanza da cui mi avvicino.
Vederti è stare qui dove la riva
l’esistente in cammino ogni possibile
rifrange alla deriva d’occhio e luce.
Ma adesso è in questo immobile processo
in cui io e te miliardi di anni luce
distanti ci fermiamo ad osservarci.
La muta già corrode ogni esperienza
violata ma ti ho vista ora per sempre
brina dell’esistenza, non passata
visione, assenza che (forse) ricuce
l’improbabile promessa del fiore.
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Il tarassaco
I.
I fiori di cui non conosciamo i nomi,
erbe che non abbiamo mai saputo
e recintavano il ritorno a casa
sulla pista ciclabile, ai bordi della strada.
Ne acciuffavamo a pugni per tirare
cartavetrate spighe sulla schiena
di Elena che andava di più lena
o a Valentina che ci raggiungeva
da un limine di rovi innominati
e reti che arginavano la resa
di quell’impura ermetica distesa
dove tu nascondevi i segni osceni
nella bocca di un albero spaccato
sotto un nido di foglie sfigurato
e mi dicesti pure noi saremo
tra qualche anno quella cosa e insieme
ci dirigemmo come un puro seme
a visitare il mondo del futuro.
L’odore degli orinatoi, dei bagni turchi,
delle piscine pubbliche, dei camping,
delle vestaglie chiare ove traspare
il segno delle docce chiuse a chiave,
delle cosce insabbiate, dell’abbaglio
di chi da un taglio di portiera non
vide Sant’Anna in uno specchio con
Gesù dentro l’aureola dei fon
ma il giovane Faruk e un militare
ebbro come un fiore da impollinare
e impresse quella scena in un cell phone
moltiplicando la gogna virtuale
dentro l’eterno il più banale scherno
come quello di pubblicare l’atto
sessuale in un neutrale scatto e il male
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è l’innocenza brutale di chi si fa
persecutore di un semplice fatto
naturale come un fiore di città.
Qui passano le storie, si stratificano
le impronte in uniposca o happy color
sulle croste del muretto, in caserma
fu pestato il frocetto con t-shirt
intrise d’acqua, che non lasciano prove.
Ma il terzo anello è dedicato a Ivan,
tarassaco bruciato in un incendio improvviso.
Dove si sarebbe posato, Signore?
Esso germoglia adesso nel mio cuore.
L’infetta trasfusione di quell’ente
ospedaliero che l’ha infine ucciso
somministrandogli una cura agente
come un crash su un corpo emofiliaco
sia maledetta per sempre, restano
dopo la camera ardente due lettere
in cui ora vive: in una mi descrive
l’abbandono che l’ha tradito, l’altra
parla di una mia poesia precedente.
E il seme del tarassaco è volato
a portare il mio pensiero a Chiara,
cugina che da sempre ho amato
e attendo in una stanza immaginaria
lontana dal veleno familiare
che il corso del destino ha dissociato.
Qui adesso ho sedici anni e lei ventuno
per sempre nella grotta degli ombrelli,
nella scritta blu cobalto, nella stella
che di notte brilla, sui nostri ponti
non ancora crollati.
Sentivo i campanelli nel cervello
quando una cosa stava per succedere.
Ma non mi arrenderò nemmeno adesso.
E ai rovi mi consegno integro e nudo.
Esco di casa, è quindici anni dopo
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ma sono ancora io che sul muretto
leggo lo stesso libro e qui ti aspetto.
C’è un sole stamattina che la storia
non è altro che una tetra ambizione
da nevrotici scrittori alienati.
Mi piacerebbe andare al mare, cantare
ad un falò una canzonetta estiva,
bere di tutto fino a stare male
e dire cose da farvi vergognare
di conoscermi, qualcosa di antico,
pieno di aggettivi e senza teoria.
L’indecente, sublime nostalgia
dell’esistente dico, non l’isteria
servile di chi scrive col contegno
di uno pseudo-Artaud normalizzato
e assunto dalla Cia come un robot
burocrate che produce ironia
pungente durante l’autopsia del padre.
In mezzo a tutto questo letterame
io cerco un occhio che mi veda ancora
come un suo simile, che la parola
sia la strada in cui si torna a casa
o in cui si va, da qualche parte, assieme.
E in questo anello di cui ho perso il conto
vedo un maestro dal sorriso buono,
figlio del sole come dice il nome
che rima con poesia e cortesia.
Così negli anni il suo intervento è il suono
che fa d’ogni parlante l’armonia
di Dante, Umberto Saba e Baudelaire,
fiori del mio pensare e l’ambizione
di sporgermi dentro l’ignoto vago
come Sanchini e il suo aiutante Dago
dentro la notte magica a ululare
versi d’amore e aberrante utopia.
L’arcana marchigiana terra madre
dove Daniele, Loris ed Augusto
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assieme a me ed agli altri che ho già detto
convergono alla grande sinfonia
dell’infinito nel presente stesso.
Grandina; e il selciato è diventato un lago
che trasmette l’occhio irato di Dio,
un carro militare lo attraversa.
Il seme del tarassaco è annegato
inutilmente in questo rivolo opaco
di pioggia avvelenata, lo deposita
il flusso sulla grata di un tombino
che erutta e non più sfocia. L’otturata
via di fuga gli consente di resistere
inutilmente al fato che l’avrebbe
terminato e quindi esiste, aggrappato
a questo filtro senza funzione. Jonathan
protegge due ragazze di Sofia,
Paolo studia filosofia e ha comprato
una pistola per difendersi, spaccia
perché un lavoro a Roma non ci sta
fuori dai giri della criminalità
organizzata in politica e mafia
utilizzata come propaggine armata
dell’esistente potere dei clan
finanziari e latifondi restaurati
dalla Ndrangheta le cui radici affondano
in secoli di storia vaticana e doppio stato.
Questo sangue che discende dal viale
attiguo all’inferriata condominiale
pertiene esattamente al suo presagio
di realtà feudale, non cancro ma ganglio
di un romanzo esoterico e criminale
fondato su segreti da preservare
e verità da uccidere, la strage
è l’infinita replica di un omicidio
primordiale camuffato da regolamento
di conti o incidente stradale. Ripugnante
popolo che acclami chi ti fredda
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con un colpo alla nuca, bacia
la mano del padrone e vai in malora!
II.
Corviale, unico posto somigliante
al paradiso! Col paesaggio che s’apre
in un quadro infinito, cordiale
signora alleata del drago,
non sei Roma ma un paese antico.
Ascoltami, ciao, io sono uguale
a te; accoglimi, non trovo
un posto più bello dove andare.
Mi fa schifo la città imperiale
coi suoi castelli vuoti e il suo volgare
ghigno da erudito che ignora
il cigno popolare, un regno vuoto
di chi avrebbe voluto ereditare
un potere che alla fine gli è finito
tra le dita come sabbia che brucia!
Io qui ritrovo invece la mia vita
precedente e il mio futuro nel presente
che si svolge come un classico vivente.
È strano, passeggiarono poeti qui
a ridosso del Colosseo come Pier Paolo e Dario
Bellezza, venne Keats e morì ad un passo
dall’ambasciata francese ed oggi Franco
attraversa le sue stesse stanze piene
di lingue slave e fantasie africane.
Eppure l’Accademia resta pura
negazione della vita. La critica
disprezza la realtà come nemica
di classe da colonizzare e rendere
schiava. La Chiesa ama le masse pronte
a arrendersi, non c’è un’alternativa.
La separazione è tutto il presente
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della politica che è legge e lingua
attiva in un processo di acculturazione
perenne del popolo succube al padrone.
Per questo rifiutiamo la funzione
egemone e pratichiamo la canzone
borderline, tra coscienza e mediazione,
come il viaggio di Odisseo che adesso
Marco porta in scena come un messo
antico sceso dalla Marsica a Roma
a cantare le sue ire di schiavo
in rivolta che dice: “Adesso non più”,
come Albert Camus. Coscienza è l’esperienza
e anche lo studio inteso come scienza
della ricerca, mediazione è lingua
naturale che canta, non lo slang
che il segreto degli adepti tramanda.
Itaca cara, forse non esisti
e io ti cerco attorno come un sogno
proiettato sopra i corpi del giorno
eppure il mio ritorno è un moto vero
che essendoci a sé stesso dice questo
pensiero di rivolta contro il fato.
Tutto è cemento per il resto e noise
dell’autobus coi claxon meno puri
dove l’acqua piovana entra nei muri
colore dell’infanzia grigio armato.
Ma attorno smeraldine fronde e un fiato
di campagna che viene a benedire
col suo flauto di cardellini e passeri
i tuoi passi che attraversano il dato
di fatto sognanti di inseguire il fauno
come una prassi del mito rinato
nel basso quotidiano ove dimorano
le grazie dell’avvento sovrumano:
e pensi camminando a Proust e a Joyce…
La gioia è il frame di un mulo nel telefono
di Giulia oltre la rete e adesso è il desktop
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con l’albero ingabbiato nel traliccio
della luce di fronte alla muraglia
anche detta da molti il serpentone.
Ricorderai il momento in cui resisto
al tempo, da sconfitto?
Le indiscrezioni vogliono un incarico
governativo prossimo all’intesa
ma i miei due corpi non avranno sintesi
mentre ti guardo distesa
colta da amplessi stranieri
e il fiume immemore si disfa in canto.
Io immetto il file nella memoria
visualizzo da capo l’evento,
cerco il momento in cui riveli l’estasi
dello straniamento.
Non sei la cavia di un occhio in incognita
ma la mia doppia residenza in atto,
pornografia anonima, abbazia
del desiderio voyeuristico in cui
mi salvi nel tuo occhio di web-cam
incapsulata all’interfaccia che canto.
New York è vasta, Pechino è lontana
quanto basta, forse, per immergere
le mie speranze di umanista in prigione
(nel modo in cui segreta oggi è la vita
libera di un corpo senza funzione)
in un sogno delirante di fuga
religiosa e umana rinascita.
Cerco su google “work rio de janeiro
brazil” oppure “australia”, ascolto gli Iron
Maiden, non leggo Musil ma mi chiedo
che azione parallela mi trattiene
dall’esistere vero se poi esiste
l’esistenza davvero e non è un gioco
di parole sofiste. Il corpo eterno
di ciò che non è l’io si svolge a iosa
senza la proiezione velenosa
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dell’abitudine al possesso. Un fiore
ha grazia per sé stesso oppure è l’incipit
dell’universo? Non lo so ma credo
di avere voglia di andare in montagna.
Eccoci qui, dove più non ristagna
la logica insana della mia storia.
La memoria si bagna in una vasca
assolata di mosche, mentre il passato
cresce nell’insalata. Era la Tosca
che diceva, mi pare: “Vissi d’arte”
“E lucevan le stelle”. Porca madosca,
una parte splendida! Se l’infinito
è questo rumore di frasche nel vento
in cui sei assente e beato il sentimento
è l’occhio sconfinato dell’inazione
in cui risplende un altro te in altrui
sembiante e venerandolo contempli
l’unità dei fenomeni reali.
Ma quando l’armonia è divelta in guerra
di interessi contrapposti e uguali
come nel film “Rumble fish” di Coppola
l’uomo è nemico di se stesso. Io
non sono certo immune a questo schianto
essendo dello specchio rotto il granulo
più piccolo dalla scopa non colto.
Canto quello che vedo da stravolta
porzione di un ente che non ricordo.
So di un presepe in cui venni dipinto
da cielo, ai miei piedi il muschio e mio figlio
il lago. Con un cero s’affacciava
una donna a me e pregava. Poi vidi
balli in maschera e sconcezze e amori
pomeridiani di ragazzi acerbi
e infine tu che ora mi leggi so
che da un palpito del genere giungi.
Ti limitasti a nascere e a sapere
la retina macchiata del mio ultimo
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giorno di vita quando l’isteria
della metropoli mi urtò nel pugno
di uno che adesso sta alla polizia.
III.
Io dico l’armonia, non la prigione
dell’occhio ottuso che si crede Dio.
Ti dico questo fiume su cui splende
la luna fino alla fine del mondo.
Dico il molteplice e la profezia
dell’Uno che si svolge differente
da sé stesso come questo riflesso
nell’acqua corrente. Lo schermo
è una rete di minuscoli gnomi
che sfidano i sensi, riproducono
in 0 e 1 l’uomo, ti confondono
e non sai più cosa è vero. L’assassino
è un algoritmo che forma la gente
a seconda di input precedentemente
raccolti da motori di ricerca.
Il terrore democratico si forma
spontaneamente come un fungo tossico.
Dov’è giustizia e come può la mente
liberarsi dall’orrore che il mondo
elegge? Bosnia, Erzegovina, Pristina,
Kabul, Baghdad sono soltanto un grumo
rappreso, un sanguinaccio da succhiare
che spinge in bocca la mano del padre.
Tu vorresti vomitare ma ingoi
la morte come un rito familiare.
Suona un allarme, altrove è una sirena
di contraerea per le vuote strade.
La bomba s’apre come un fiore acido
di pixel verdi e viola, un cavolfiore
spettacolare. Estetica del crash,
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se esistere è violare in un accumulo
esponenziale di stragi il Ground Zero
di New York è l’apice, una performance
funzionale all’egemonia dell’immagine
sul pensiero. Il vero conflitto è questo,
la lotta di classe tra video e suono.
Entriamo. Ogni fruscio segreto apre
libertà che l’immagine stringe
in un pugno di volontà. C’è il mare
dietro ai palazzi, oltre il recinto un cane
si tuffa nel lago. L’udito va
come una cinciarella in libertà.
La vista può soltanto analizzare
il presente, non trova niente. Il male,
e cioè il sopruso del potere sulla mente
dell’uomo, se ne serve per mostrare
falsità. Un montatore lo sa
che la realtà si taglia su interessi
editoriali e in ogni quadro in fondo
manca il resto del mondo. Una città
è composta da milioni di sguardi
che intersecati formano il cervello
di uno scoppiato che non può calmarsi
se non trova il mare…
Per questo svolta sulla zona industriale
a U, smontato il turno alla catena
e non ritorna a casa, sulla Nazionale
si mette a correre. Parcheggia, a pochi
passi dal litorale e tra i bagnanti avanza
con gli abiti unti, si scalza. Poi
percorre un tragitto di cui ha memoria
e conta con le dita gli anni in cui
aveva sedici anni e ora quaranta,
metà della sua vita eppure è lui
l’altro sé stesso di una vita santa
incorporata nell’altrui che è adesso.
Qui con Ginevra Lancillotto era
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seduto a una panchina e quella banca
non c’era, altri mercati tintinnavano
di mercanzie cortesi, adesso i vendesi
tratteggiano il profilo sconsolato
di un luogo raso al suolo. Inabitato
l’uomo cammina e va lungo la sera…
(Ho interrotto la stesura di questo
poema il giorno in cui ne pubblicai
i primi due canti più metà del terzo
sul sito della Gru fermo da un pezzo.
Sono appena rientrato da un pranzo
con F. C., un lunch – come lo chiama,
all’americana – e infatti in borsa avevo
il Dottor Sax di Kerouac e Tony Harrison.
“La mia intenzione è quella”, dico,
“di cambiare referente, di abolire il pubblico
accademico per rivolgermi direttamente
a un prossimo generico come potrei
essere io ai tempi del liceo o chiunque
altro, di ogni età e dialetto.” “Il difetto”,
mi risponde, “è forse in questo
stile assunto colmo di riferimenti
intertestuali e colti, grandinante.”. “Eppure credo
che una volta letto il contenuto affondi
con più energia proprio in virtù
di questo canone abitato come una spia
del quotidiano acido nella poesia
o viceversa è l’arte nuda del passato
che i nuovi paradigmi non avversa
ma include in sé arginando futurismi
e nostalgia in un ibrido naïf
e vigile, ipercritico…”.) Ghiaccia
la sinfonia del grande oceano, stipa
il frantoio delle ore diurne
la vita. Non esiste
altro dio che questo freddo eterno
in cui chi va ritorna
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alle soglie meschine di un universo
che si espande e comprime. Le spoglie
cadono sul pavimento… Si addorme…
Shhh…
Silenzio dice l’onda sullo scoglio
di cemento dove Laura ha disegnato
un cuore, Andrea una svastica, Giada un divieto
sulla stessa che gronda e bevono
un rum da ipermercato e metro. S’apre
una rosa stellare oltre il mare.
Il pontile di una nave prende a cigolare.
Una nuvola ha la forma di un cane a tre schiene
che viene e scompare. Ritornano
in treno sulla terra che affonda
ai piedi dell’astro sterminatore
gli amici del disastro, dell’affetto
segreto, non dell’amore anche detto
volgarmente patto civile o decreto…
No, saranno fragili e perpetui
i ragazzini dal bicchiere vuoto.
Verrà la notte dei fantasmi, il fuoco,
la lunga traversata della sete.
Bruciano ribelli in Siria, bruciano
brandelli in campi rom. In Palestina
bruciano fratelli di tre chiese
ai quali nessun Dio chiese di armarsi
contro i suoi stessi fedeli, l’assurdo
di una storia che intese la nazione
come fine e il culto come strumento
di difesa e aggressione. Religione
che il mondo rima con persecuzione
arbitraria di ogni ignorato altrove
adesso è l’odio di un intero popolo
contro i coloni che l’hanno schiacciato.
Spengo la televisione, irritato
dal discorso di una stupida che gioca
a vomitare benzina sui falò
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di una retorica xenofoba che tanto
prima o poi ci esploderà in mano. Scoppiano
petardi in strada, fuochi d’artificio
che un ragazzino finge siano spari
e gioca a rantolare sul selciato...
IV.
«Mi sono svegliata, improvvisamente alla ricerca
di un tuo segnale, il monitor in stand by
indicava l’ora inoltrata.
Sul comodino il cellulare acceso
non conteneva icone di reply.
Con l’occhio chiuso giocai
a far saltare una goccia di pioggia sui tetti delle case.
Ti vedo in un display
sparire tra le Pleiadi,
eravamo due player
ma adesso gioco sola.».
Lorenza apre le palpebre alla stanza
e il sole non c’è ancora. Alla console
carica un gioco, gira una canna, mescola
le gocce per l’umore in mezzo all’acqua.
Sguardo di soldatessa, di chi ignora
il corpo di un ragazzo, sguardo di Venere
traumatizzata, si sogna col cazzo
allo specchio e viene. Il giorno
della partenza per l’Afghanistan
accorda una chitarra, fa la doccia e pensa
per l’ultima volta è finita. A Malpensa
compra Ratman, Dylan Dog e prova
una voglia infinita di chiudere
gli occhi e dormire. A Roma
parla il ministro della difesa e non sente
una parola, come a scuola
guarda fuori dalla finestra, attende
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l’ultima campana…
*
Non so che porte allora si apriranno
a un’anima più libera dall’ego
che fa di questa vita un crocevia
di rifrazioni false e ideologia.
Né so se adesso in me qualcosa esiste
che prima anche abitò un lontano assente
né come si svilupperà il presente
nell’attimo in cui già non più sarò.
Né so se il Dio che dico è la memoria
di un fiore solo ove prendemmo il volo
e il verbo un soffio che non la parola
ma un suono ubiquo e ondivago diffonde
di una realtà che non si fonde al suolo
ma si confonde a sé diversa e uguale
perché ogni sguardo come dice Leibniz
è sacrosanta verità parziale
(da non confondere con l’ideale
dell’unità impossibile e irreale
che il primo Novecento devastò
di crudeltà nel sogno primordiale
perché l’origine non può tornare
che in campi di sterminio o nell’orrore
di lager, roghi e gulag non a caso
aventi un suono simile e sinistro.
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Però tra Neo-idealismo autoritario
e il Nulla è anche possibile trovare
la strada che io chiamo Orfanità
del Viaggio dei Fratelli Solitari…).
V.
Trovatevi, ringiovanite, siate ancora dice
il corpo nudo tra le foglie e l’erica. Chi era? Non potevano
ugualmente crederci?
Venite a prendermi gridò non credo
ai tuoi silenzi. Sei nel buio. Non ritornano
nei boschi né si tuffano tra i flussi gli uomini. Io quasi
non esisto più.
Scoprì la carne angelica
lungo declivi irrovati,
dove i fratelli sono vivi ancora e di radice in masso
ti saluta la soglia preannunciata
da uno specchio rotto, ai bordi della strada.
Oh flotte di vascelli e balconi pirata
sventolando lenzuola dai colori estinti!
Tra i palazzi popolari e l’autostrada,
dietro a tende marroni,
al ritmo delle stoviglie.
Io sono qui, né padre o madre, vivo
nella radice senza origine del tempo,
senza memoria ricordando ogni cosa
come libellula stecchita o foglia d’edera.
Tu non capisci più frasi complesse.
La tua memoria è persa, la mente spossata.
Devo parlarti a gesti, comunicare immagini.
Vorrei tu fossi qui per farti capire.
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L’eternità porosa ai piedi di un gigante.
Se un coso vuole pungerti lo schiacci con la mano.
Nessuno adesso è maschio e neanche femmina.
Ci baciamo e tocchiamo
come foglie nel fiume.
Poi fu soltanto nella luce un rutto lento e feroce,
come un gorgo di pietre
nella lava che muore.
E il vitello era una cosa da scorticare e fare a pezzi,
un melograno caduto a terra, da spezzare e succhiare.
E il fiume era verde,
e straziante il gabbiano,
molto grande la madre e nudo il figlio,
in questa aliena solitudine, nel delirio stellare,
attraversando rampe di scale che separano
il quinto piano dal cortile interno.
Oh i pilastri della sopraelevata Ovest!
Parevano un rifugio al ragazzino in gita.
La tredicenne orfana sale da Eur Magliana.
La metro emette un suono
come un barrito onirico.
Neonato inverno, luna pende come un dente millenario. Abita
il tuo corpo a piene mani a solide narici a lingua
desolata, a spalancata
pupilla. Saliva
l’abitare che secerne segretezza e linfa. Sillaba
il sigillo delle case nella luna,
il mare è grande dice
e questa barca non ha fretta. Vaga
sopra pilastri incomprensibili,
lungo l’Aquila-Roma, o da Bari a Milano.
Da queste pietre muschiate fuggiranno
per sentieri disastrati stranieri
da calanchi cariati scivolando
come paguri in cerca di un rifugio.
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Oh secoli di scienza e nuova fisica
atti solamente a dimostrare
le ipotesi sul tempo di Agostino
e i principi olistici di unità fenomenica!
Allora noi sapremo ritornare
fiorendo a pieni occhi di materia
come un gabbiano esplode in mezzo al mare
cibandosi dell’estasi che prova…
*
Ma dove siete andati voi, per quale
pretesto soffiati alle cose da fare,
alla tecnica del vivere praticamente assieme
all’ombra di una distanza perpetua?
Le scogliere di Moher… mi ricordo
di essermi steso sulla fredda pietra
come una vecchia impassibile e tetra
che venera il suo abisso di tristezza…
Stranezza senza luogo, insospettabile
crepa d’oro nella bianca ringhiera,
pepita antica per cui dice Eureka
il ragazzino che al mercato si reca
o la fanciulla che per la discesa
asfaltata va dove si attende il tram.
Muti fratelli immersi nella storia
le cui radici emergono in maniglie
interrate, che conducono al fiume...
Popolo di Seattle, Porto Alegre, Genova,
Firenze social forum in cui gridava
“One solution, revolution!” una lava
di vite nuove tornate a un altrove
dal tedio del presente, dalle alcove
domestiche in cui occulta la visione
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del Non potere egemone e padrone
il fiore smarrito della rivolta.
Passato rinato nel presente assente
come un moto sottocutaneo emergente
per essere di nuovo schiacciato!
“Eco lontana di lacrime e risa...”
“Siamo per sempre una famiglia uccisa...”.
“Carlo Giuliani...”. “Blanqui...”. “Baudelaire...”.
“Poesia e rivolta si era e si è...”.
Così diceva in fondo al corpo un coro
di amici antichi e nuovi, separati
dentro prigioni assenti, in negazione
di azione, nella comunicazione
virtuale che si incarna in un esilio
di massa, in questo esodo del mondo
dalla sembianza verso l’irreale
inconscio collettivo del linguaggio.
Un’avanguardia del controllo tecnico
in cui pure l’immagine decade
nel Lete di un potere onnipresente
in quanto assente, come il buio nell’Ade.
Ma tu che leggi emergi in questo suono?
Ma tu che leggi e ignoro forse sono
io dopo, oltre l’origine che imploro?
Code di topo, graminacee d’oro,
tra i grattacieli e il ponte che scavalca
il Tronto cupo e languido vi incontro
come se giorno non fosse passato.
Ma i secoli ci stringono e il tramonto
già trova in sé più livido tremore.
Il passaggio di ieri è recintato.
Ma ancora io ti chiamo a me, tarassaco.
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