rapporto Cesos 2006-2007

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rapporto Cesos 2006-2007
SEZIONE QUARTA ll costo del lavoro in Europa e in Italia 1 1. Costo del lavor o e r etr ibuzioni: l’Italia all’inter no del quadr o inter nazionale 1.1 Disinflazione internazionale e moderazione salariale 1.1.1 Debole crescita salariale a livello internazionale Una esposizione sintetica delle tendenze che hanno caratterizzato l’economia internazionale nel corso degli ultimi anni in relazione all’evoluzione della dinamica salariale può essere proposta partendo dai dati riportati nella Tavola 1 allegata, che mostra il tasso di crescita del costo del lavoro nei maggiori paesi Ocse. I tratti salienti che traspaiono dalle evidenze proposte nella tavola sono principalmente di due tipi. Innanzitutto, la dinamica del costo del lavoro risulta estremamente contenuta nella maggior parte dei paesi. In secondo luogo, non vi sono significative evidenze di accelerazioni nel corso del della fase più recente, nonostante il rafforzamento del ciclo economico avvenuto su scala internazionale, prima della più recente nuova inversione prodottasi dalla fine del 2007 sull’onda della crisi del settore immobiliare americano e dei mercati creditizi internazionali. I due fatti sopra posti in evidenza paiono prestarsi ad una lettura congiunta. La condivisione della scarsa crescita salariale da parte di molte economie suggerisce che siamo in presenza di tendenze in atto su scala internazionale, mettendo in ombra le specificità nazionali. La scarsa reattività dei salari al ciclo tende poi a ricondurre i tentativi di spiegazione di questa tendenza a movimenti di natura strutturale piuttosto che a meri fenomeni di carattere congiunturale. Soffermandoci dapprima sulla questione della condivisione dei principali trend da parte delle diverse economie, un elemento che pare giustificare la convergenza delle dinamiche salariali dei diversi paesi è senz’altro rappresentato dal fatto che dalla fine degli anni novanta si è verificata a livello internazionale una sostanziale riduzione della dispersione dei tassi d’inflazione, quale esito di diversi processi di cambiamento nella conduzione delle politiche monetarie. Tra i vari, ci limitiamo a ricordare l’avvio dell’euro, che ha portato ad una chiusura sostanziale dei differenziali d’inflazione fra i paesi che vi hanno aderito, o la diffusa adozione di politiche monetarie ispirate all’obiettivo del contenimento dell’inflazione, anche al di fuori dell’area dell’euro. In particolare, l’aspetto più importante è costituito dall’abbassamento delle dinamiche inflazionistiche nei paesi emergenti. Se l’orientamento antinflazionistico delle politiche monetarie costituisce un buon punto di partenza per inquadrare l’assenza di fenomeni di inflazione salariale a livello internazionale, resta comunque da spiegare la peculiare fase di contenuta dinamica del costo del lavoro che abbiamo osservato nel corso del biennio 2006­2007, quando il ciclo economico ha decisamente accelerato pressoché in 1 La presente sezione è stata curata da Cesare Vignocchi e Fedele De Novellis (Ref Milano) (par. 1 e 2), Federica Origo (Università di Bergamo) (par 3).
173 tutte le economie. Anche l’area dell’euro, che aveva beneficiato meno di altre del recupero congiunturale avviatosi dal 2003, ha evidenziato una crescita soddisfacente a partire dal 2005. Per offrire alcune evidenze riguardo a questo secondo aspetto, possiamo volgere uno sguardo rapido ai dati della tavola 2 relativi all’andamento del tasso di disoccupazione nel medesimo set di paesi già inclusi nella tavola precedente. Si osserva subito dai dati come nella media dell’anno 2007 il tasso di disoccupazione si sia generalmente posizionato su valori inferiori rispetto a tre anni prima. Siamo dunque in una situazione che, almeno in linea di principio, avrebbe potuto condurre verso un miglioramento della posizione contrattuale dei lavoratori, determinando maggiori aumenti salariali. Allo scopo di analizzare ulteriormente le evidenze sopra rappresentate, pare ragionevole puntare l’attenzione sulle dinamiche del costo del lavoro espresse in termini reali. Questa seconda variabile è stata costruita sulla base dell’andammento del deflatore quello dei consumi. Essa approssima quindi il concetto di salario reale più che quello di costo reale del lavoro 2 . Anche in questo caso i dati suggeriscono come si sia in presenza di una dinamica retributiva estremamente contenuta. La minore crescita dei salari in termini monetari non è stata accompagnata da una analoga decelerazione dell’inflazione e si è quindi tradotta in una diminuzione del potere d’acquisto del salario percepito dal lavoratore. In questo secondo caso però il ventaglio delle differenze fra i vari paesi si amplia. Ve ne sono alcuni dove la crescita dei salari reali è stata molto bassa, mentre in altri le dinamiche sono più robuste. Soffermando l’attenzione sulle economie di maggiore dimensione, si osserva come il triennio 2005­ 2007 abbia registrato un recupero per il Giappone e i paesi anglosassoni dell’area del Pacifico, Australia e Nuova Zelanda. Queste economie hanno probabilmente beneficiato del contesto economico favorevole indotto dalla fase di crescita esuberante che ha attraversato le economie del sud­est asiatico. L’area dell’euro nel complesso non ha evidenziato una crescita dei salari reali. Al suo interno, sono molte le economie a presentare dinamiche stagnanti, quando non di segno negativo. 2 Naturalmente, il concetto di retribuzione e quello di costo del lavoro non coincidono, ma nei confronti internazionali è preferibile utilizzare questa seconda variabile, in quanto di più agevole comparazione. Naturalmente, una volta chiarito che il set di dati che analizziamo è quello del costo del lavoro, per puri fini espositivi, nelle pagine che seguono utilizzeremo le espressioni salario e costo del lavoro come sinonimi. Va altresì sottolineato che poiché l’analisi è per ora sulle variabili espresse in dinamica, e visto che non ci soffermiamo puntualmente sui risultati di un singolo anno, l’approssimazione che deriva da tale convenzione è in genere di entità contenuta.
174 Tavola 1 ­ Costo del lavor o per occupato Settore privato var % medie annue 1986­90 1991­95 Stati Uniti Giappone Germania * Francia Italia * Regno Unito Canada Australia Austria Belgio Rep. Ceca Danimarca Finlandia Grecia Ungheria Islanda Irlanda Corea Messico Olanda Nuova Zelanda Norvegia Polonia Portogallo Spagna Svezia Svizzera Turchia Ar ea eur o Totale Ocse 4,1 3,3 ­ 4,5 7,7 8,1 5,2 6,9 4,5 4,2 ­ 5,5 9,0 16,7 ­ 25,5 5,2 12,9 67,4 0,5 ­ 7,1 ­ ­ 8,4 9,2 ­ ­ ­ 5,0 3,2 1,6 ­ 2,4 5,8 4,1 2,7 2,9 4,3 4,1 ­ 3,0 3,2 12,3 ­ 4,2 4,2 13,6 15,1 2,6 1,9 3,9 ­ ­ 7,2 4,7 3,7 65,0 ­ 4,1 1996­00 2001­07 2001­04 2005­07 4,7 ­0,4 1,1 1,7 2,9 4,8 4,0 3,5 1,9 2,2 10,1 3,7 3,3 7,9 13,7 7,3 5,2 5,1 16,2 3,4 2,1 4,6 17,2 4,3 3,0 4,8 1,6 76,5 1,7 3,9 3,7 ­0,7 1,0 3,2 2,3 4,1 3,5 4,4 2,3 2,5 6,7 3,5 3,0 6,2 9,4 8,1 5,0 5,0 5,3 3,1 2,8 4,8 3,1 2,9 2,5 3,3 1,9 19,5 2,0 2,8 3,4 ­1,4 1,2 3,2 2,3 4,1 2,4 4,2 2,2 2,7 7,2 3,4 3,0 6,9 11,3 6,2 5,1 5,6 6,0 3,9 2,3 4,4 2,7 3,3 3,0 3,4 0,9 29,5 2,2 2,7 4,1 0,1 0,8 3,3 2,2 4,0 4,9 4,6 2,4 2,3 6,1 3,7 2,9 5,2 6,8 10,6 4,8 4,1 4,4 1,9 3,8 5,4 3,6 2,4 1,7 3,2 3,2 7,3 1,8 3,0 * Per i dati sulla Germania sono riportate sino al '95 le dinamiche relative ai soli Laender occidentali. Per quelli sull'Italia il dato del '98 è stato depurato dagli effetti dell'introduzione dell'Irap. Per il 2007 i dati Ocse sono parzialmente stimati Elaborazioni su dati Ocse
175 Tavola 2 ­ Tasso di disoccupazione Valore standardizzato Stati Uniti Giappone Germania Francia Italia Regno Unito Canada Australia Austria Belgio Rep. Ceca Danimarca Finlandia Grecia Ungheria Islanda Irlanda Corea Messico Olanda Nuova Zelanda Norvegia Polonia Portogallo Spagna Svezia Svizzera Ar ea eur o 1990 1995 2000 2004 2007 5,6 2,1 5,6 3,1 7,1 11,5 11,3 8,6 9,5 8,2 5,3 9,7 4,1 6,7 16,7 9,1 10,4 4,7 12,5 2,1 5,8 6,8 6,2 4,9 13,3 7,2 18,7 7,7 3,3 4,0 4,7 6,8 9,4 10,2 5,5 6,8 6,3 4,6 6,9 8,8 4,3 9,8 11,7 6,5 2,3 4,3 4,4 2,2 3,0 6,0 3,4 16,1 4,0 10,8 4,7 2,5 5,5 4,7 9,2 10,0 8,1 4,7 7,2 5,5 5,7 8,4 8,3 5,5 8,9 11,0 6,2 3,1 4,4 3,7 3,0 4,9 3,9 4,5 19,0 6,7 10,5 5,5 4,2 4,8 3,9 7,7 8,5 6,1 5,7 6,6 5,0 5,5 8,3 6,8 3,3 7,6 9,2 7,7 2,5 4,4 3,4 3,4 4,2 4,4 3,3 12,6 7,4 7,8 5,3 3,6 10,3 8,2 8,9 7,4 8,9 9,1 7,1 8,2 6,6 4,1 6,6 7,2 4,6 7,0 2,6 13,1 2,4 5,7 7,8 5,2 4,8 12,1 1,6 0,5 Elaborazioni su dati Ocse
176 Tavola 3 ­ Deflator e dei consumi Settore privato var % medie annue 1986­90 Stati Uniti Giappone Germania Francia Italia Regno Unito Canada Australia Austria Belgio Rep. Ceca Danimarca Finlandia Grecia Ungheria Islanda Irlanda Corea Messico Olanda Nuova Zelanda Norvegia Polonia Portogallo Spagna Svezia Svizzera Turchia Ar ea eur o Totale Ocse 3,8 1,4 1,3 3,1 6,0 5,5 4,2 7,5 2,0 2,4 ­ 3,3 4,7 17,6 ­ 20,2 3,4 5,5 69,6 1,0 8,7 6,1 ­ 11,9 6,6 6,5 2,6 55,3 ­ 7,3 1991­95 1996­00 2001­07 2001­04 2005­07 2,6 0,7 2,1 1,9 5,7 4,3 2,3 2,5 3,1 2,7 ­ 1,9 2,8 13,8 ­ 3,5 2,7 8,6 16,5 2,7 1,6 2,3 41,1 7,5 5,6 4,8 2,8 77,7 ­ 5,1 1,8 0,0 0,8 0,9 2,7 2,2 1,7 1,7 1,4 1,4 6,1 1,9 2,2 4,7 15,1 2,5 3,8 5,4 18,2 2,4 1,8 2,2 11,9 2,7 2,8 1,2 0,6 67,9 1,6 3,6 2,3 ­0,8 1,6 1,7 2,5 2,1 1,7 2,4 1,7 2,1 1,7 1,8 1,2 3,0 4,9 4,3 3,0 3,1 5,2 2,4 1,7 1,5 2,3 2,9 3,2 1,5 0,8 20,7 2,1 2,3 1,9 ­1,0 1,0 1,1 2,7 1,7 1,9 2,4 1,6 1,8 2,6 2,2 2,6 2,7 8,3 5,1 4,8 3,9 9,2 3,3 1,7 2,1 5,8 3,0 3,1 1,6 0,7 51,9 1,9 2,8 2,5 ­0,8 1,5 1,9 2,6 2,0 1,6 1,8 1,6 2,3 1,2 1,6 0,3 3,1 4,2 2,1 2,3 3,2 5,6 1,8 0,8 1,6 1,8 2,7 3,4 1,3 0,7 11,8 2,1 2,2 Elaborazioni su dati Ocse
177 Tavola 4 ­ Costo del lavor o r eale* Settore privato var % medie annue 1986­90 1991­95 Stati Uniti Giappone Germania Francia Italia Regno Unito Canada Australia Austria Belgio Rep. Ceca Danimarca Finlandia Grecia Ungheria Islanda Irlanda Corea Messico Olanda Nuova Zelanda Norvegia Polonia Portogallo Spagna Svezia Svizzera Ar ea eur o 1996­00 2001­07 2001­04 2005­07 0,4 1,8 ­ 1,4 1,6 2,5 1,0 ­0,6 2,5 1,8 ­ 2,2 4,2 ­0,8 ­ 4,4 1,7 7,0 ­1,3 ­0,5 ­ 1,0 ­ ­ 1,7 2,5 ­ 0,6 0,9 ­ 0,5 0,1 ­0,1 0,5 0,4 1,1 1,3 ­ 1,1 0,5 ­1,4 ­ 0,6 1,5 4,6 ­1,2 ­0,1 0,3 1,5 ­ ­ 1,6 ­0,1 0,9 2,9 ­0,4 0,3 0,8 0,2 2,5 2,3 1,8 0,5 0,8 3,8 1,8 1,1 3,0 ­1,1 4,7 1,4 ­0,3 ­1,7 1,0 0,2 2,4 4,8 1,5 0,2 3,6 1,0 1,4 0,1 ­0,5 1,5 ­0,2 1,9 1,8 1,9 0,6 0,4 4,9 1,7 1,8 3,1 4,3 3,6 1,9 1,8 0,1 0,6 1,1 3,2 0,8 0,0 ­0,7 1,8 1,1 1,5 ­0,3 0,1 2,0 ­0,4 2,4 0,5 1,7 0,5 0,9 4,5 1,2 0,4 4,1 2,8 1,1 0,3 1,7 ­2,9 0,6 0,6 2,3 ­2,9 0,3 0,0 1,8 0,3 1,6 0,9 ­0,7 1,4 ­0,3 2,0 3,2 2,8 0,8 0,0 4,8 2,0 2,7 2,0 2,5 8,4 2,5 0,9 ­1,1 0,1 3,0 3,8 1,8 ­0,3 ­1,6 1,9 2,5 ­ ­ 0,0 0,0 0,3 ­0,3 *Costo del lavoro deflazionato con il deflatore dei consumi Elaborazioni su dati Ocse
178 Tavola 5 ­ Pr oduttività del lavor o Settore privato var % medie annue 1986­90 1991­95 Stati Uniti Giappone Germania Francia Italia Regno Unito Canada Australia Austria Belgio Rep. Ceca Danimarca Finlandia Grecia Ungheria Islanda Irlanda Corea Messico Olanda Nuova Zelanda Norvegia Polonia Portogallo Spagna Svezia Svizzera 1,1 3,4 1,7 2,3 2,3 1,6 0,6 0,1 2,7 2,0 ­ 1,3 3,5 1,3 ­ 2,9 4,8 6,3 ­ ­0,2 1,8 0,5 ­ 4,2 1,1 1,8 0,3 1,4 0,9 ­0,1 1,7 2,3 2,6 1,7 2,0 2,4 1,4 ­ 3,2 3,7 0,8 ­ ­0,6 3,1 5,7 ­ 0,9 0,8 3,2 ­ 1,7 2,1 3,6 0,1 1996­00 2001­07 2001­04 2005­07 2,3 1,2 1,2 1,5 1,0 1,9 2,1 2,7 2,4 1,5 2,2 2,2 2,6 3,0 3,9 3,6 4,0 3,8 2,3 0,4 0,1 2,3 6,4 2,7 0,3 2,6 1,4 2,6 1,7 0,9 1,3 ­0,4 1,7 1,2 1,3 1,7 1,0 3,4 1,5 1,6 ­ 3,7 2,5 2,4 3,6 0,7 0,7 2,7 1,6 0,8 1,1 ­0,7 1,9 0,6 1,4 1,7 1,2 3,3 1,4 1,8 ­ 3,8 3,6 3,1 3,3 ­0,4 0,4 ­ 2,4 4,7 0,4 0,6 2,1 0,3 2,4 1,8 1,0 1,4 ­0,1 1,4 2,0 1,1 1,7 0,7 3,7 1,5 1,4 ­ ­ 1,0 1,5 3,9 2,2 1,0 1,6 2,0 1,2 0,5 0,3 2,2 1,4 2,3 3,1 0,5 0,5 2,1 0,8 Elaborazioni su dati Ocse 1.2 Dinamiche della produttività e salari reali a confronto 1.2.1 Produttività e distribuzione del reddito Naturalmente, l’esame delle divergenze nella crescita dei salari reali dei diversi paesi richiederebbe di porre l’attenzione su un insieme ampio di variabili. In ogni caso, non vi è dubbio che sui dati di medio periodo le divergenze fra paesi non possono che trarre origine in buona misura dal diverso andamento della produttività. A tale fine, nel grafico 1 allegato si pone a confronto, per tutti i paesi inclusi nelle precedenti tavole, la dinamica del costo reale del lavoro con quella della produttività del lavoro. Naturalmente, come ci si attendeva, i dati mostrano che vi è effettivamente una forte correlazione fra la crescita del costo del lavoro in termini reali e la dinamica della produttività del lavoro nei diversi paesi. Vi è però anche un altro aspetto messo in luce dal grafico 1 allegato. Come si osserva, nel grafico è stata anche disegnata la retta con inclinazione a 45 gradi, con intercetta posizionata all’incrocio fra gli assi cartesiani. Le economie che si posizionano lungo questa retta hanno una dinamica dei salari reali che eguaglia quella della produttività. Per i paesi al di sotto della retta, la crescita dei salari
179 reali supera quella della produttività e viceversa per il gruppo, quello più ampio, che si posiziona al di sopra. Peraltro, i quattro paesi a dinamica salariale più intensa, rappresentati nella parte in alto a destra del grafico ­ Ungheria, Rep. Ceca, Islanda e Norvegia ­ rappresentano delle esperienze abbastanza peculiari, legate nei primi due casi alla trasformazione strutturale dell’economia, e nell’ultimo all’ampio guadagno di ragioni di scambio conseguito grazie al maggiore prezzo del petrolio di cui la Norvegia è un paese esportatore. I dati paiono quindi mostrare come nella maggior parte dei paesi i salari non siano riusciti ad appropriarsi interamente della crescita delle produttività ottenuta dal sistema. Questo risultato equivale ad affermare che si è verificato un andamento della distribuzione del reddito sfavorevole ai lavoratori. Da un punto di vista contabile, una dinamica salariale inferiore alla produttività può essere difatti ricondotta a un andamento favorevole del reddito d’imprese o a una perdita di ragioni di scambio da parte dell’economia, oppure ad un innalzamento del peso delle imposte indirette sul prodotto. I dati dell’Ocse evidenziano in effetti come il fatto stilizzato peculiare della fase più recente sia costituito dalla caduta della quota del salario nella distribuzione del reddito fra lavoratori e imprese sui minimi storici come si evidenzia nel Grafico 2. Tale andamento è condiviso, pur con intensità diverse, dalla maggior parte dei paesi industrializzati. In ogni caso, sebbene la tendenza si sia approfondita nel corso degli ultimi anni, va anche segnalato come per molti paesi la contrazione abbia radici lontane, essendosi prodotta sin dalla prima metà degli anni ottanta. La flessione della quota del salario avvenuta nel corso degli ultimi anni risulta particolarmente significativa proprio in quanto prodottasi a partire da livelli già relativamente contenuti. Grafico 1 – Costo del lavoro reale e produttività nei paesi Ocse 2001­2007 Costo del lavoro reale e produttività nei paesi Ocse: 2001­2007 produttività del lavoro
6 4 2 0 ­2 ­2 0 2 costo del lavoro reale var % medie annue 180 4 6 Grafico 2 – La quota del salario nella distribuzione del reddito nei paesi Ocse Paesi Ocse ­ La quota del salario nella distribuzione del reddito 55 54 53 52 51 50 49 1976 1981 1986 1991 1996 2001 2006 in % del valore aggiunto totale; elaborazioni su dati Ocse 1.2.2 Cause della bassa dinamica salariale Il dibattito degli ultimi anni sulle cause della bassa dinamica salariale non è pervenuto a valutazioni di carattere conclusivo, sebbene vi sia stato un certo nucleo di elementi esplicativi sui quali è stata posta l’attenzione. Vale la pena di riproporre nel seguito le diverse argomentazioni, senza la pretesa di fornire una trattazione completa delle implicazioni di ciascuna di esse. Un primo elemento è costituito dall’evoluzione dei prezzi delle materie prime. Come noto, i prezzi delle materie prime sono fortemente aumentati nel corso degli ultimi anni determinando quindi un onere di dimensioni significative in termini di costo d’acquisto di input per la produzione. Come si osserva dal grafico 3, che illustra l’andamento del prezzo del petrolio espresso in termini reali, l’incremento delle quotazioni nella fase storica che stiamo esaminando (precedente all’involuzione dei corsi sui mercati primari indotta dall’aggravarsi della crisi) è stato di entità sostanzialmente confrontabile con quanto accaduto durante gli shock petroliferi degli anni settanta. La letteratura sviluppatasi successivamente a tali eventi aveva messo in luce come siano possibili diverse modalità di risposta a tali shock, ma con un esito unico al termine del processo di aggiustamento, costituito dalla necessaria contrazione del salario reale. Naturalmente, le condizioni attuali differiscono in maniera significativa da quelle prevalenti durante gli anni settanta, e molto diversa è stata la risposta all’ultimo shock, anche perché differenti sono le cause che lo hanno originato. Non si può tuttavia escludere che le imprese possano avere avuto il potere di mercato sufficiente per trasferire a valle sui consumatori i rincari dal lato dei costi molto rapidamente. In questo modo, il potere d’acquisto del salario sarebbe stato eroso dagli effetti della perdita di ragioni di scambio in misura maggiore di quanto avvenuto ai profitti, e con un conseguente andamento sfavorevole della quota del salario nella distribuzione del reddito. Pur non essendo questa la sede per approfondire la tematica del costo crescente delle materie prime, non si può non segnalare come a partire da fine 2006 si sia verificato anche un fenomeno peculiare costituito dalla ascesa dei corsi delle materie prime agricole contestuale alla crescita di quelle energetiche. Tale ascesa si sarebbe verificata anche a seguito della crescente produzione di beni sostituti del petrolio; si tratta essenzialmente di biomasse per la produzione di bio­fuel che avrebbero sottratto terreni alla produzione cerealicola tradizionale.
181 L’aumento delle materie prime agricole, al pari di quelle energetiche, non ha tardato a traslarsi sui prezzi al consumo. Si intravede quindi un percorso che pesa sull’inflazione e, in definitiva, sul potere d’acquisto dei salari. Per i prodotti alimentari, forse ancor più di quelli energetici, vanno anche sottolineate le implicazioni sociali dei rincari, trattandosi di prodotti che costituiscono in parte una forma di consumo obbligato, un bisogno cioè non comprimibile, per le famiglie. I prezzi delle materie prime rappresentano in forma stilizzata una appropriazione di parte del reddito prodotto da parte di un soggetto esterno al circuito di produzione, peraltro generalmente localizzato al di fuori dei confini nazionali. Come accennato, vi è anche un altro attore che, pur non avendo un ruolo diretto nel processo produttivo, può intervenire e eventualmente modificare la distribuzione del reddito fra imprese e lavoratori. Si tratta dello Stato che può, ad esempio, modificare la tassazione o la struttura della spesa pubblica. In generale, politiche fiscali di segno restrittivo, che vanno a riduzione del deficit pubblico, tendono a mettere sotto pressione gli operatori potendosi determinare le premesse per un conflitto distributivo 3 . Alcuni soggetti possono ad esempio cercare di traslare le variazioni di imposta su altri, con esiti che dipendono dal rispettivo potere di mercato. In generale, le politiche fiscali sono state di segno moderatamente restrittivo nel corso degli ultimi anni (ma anche questa tendenza ha subito una inversione repentina dopo lo scoppio della crisi finanziaria di fine 2008). Negli Stati Uniti il deficit è stato ridotto dopo la forte espansione fiscale del 2002­2003. Anche il Giappone ha cercato di invertire la tendenza al costante incremento dell’indebitamento innescatasi sin dagli anni novanta. In Europa si è cercato di fare coincidere la fase di ripresa dell’economia con il rispetto delle traiettorie dei piani di convergenza concordati in sede europea. Molto spesso tali obiettivi sono stati conseguiti aumentando le imposte. In altri casi la struttura della tassazione è stata modificata esplicitamente a favore dei redditi d’impresa. Pur senza la pretesa di una trattazione completa di questo aspetto, si rammenti fra tutti il caso tedesco, che ha puntato in genere a sostenere la competitività del sistema via detassazione dei profitti e riduzione del cuneo fiscale, operando contestualmente un significativo aggravio delle imposte indirette che ha pesato sulla dinamica dei prezzi al consumo. Anche l’esperienza italiana degli ultimi anni va nella direzione di un aumento della pressione fiscale. Oltre agli elementi esterni rispetto ai comportamenti degli operatori economici, non vanno però trascurati gli elementi interni, che possono averne modificato le modalità di interazione. Un primo punto riguarda i cambiamenti intervenuti nelle politiche delle imprese, soprattutto in conseguenza degli effetti della caduta dei mercati azionari ad inizio decennio. Questa tesi segnala come sin dalla fine degli anni novanta a livello internazionale si fossero create le premesse per una sostenuta dinamica dei profitti, legata ai potenziali incrementi di produttività concessi in molti settori dalle nuove tecnologie dell’Ict. Molte aziende, soprattutto quelle di dimensione più grande, avrebbero però in qualche modo operato con scarsi incentivi alla massimizzazione degli utili nella misura in cui i mercati azionari tendevano a sopravvalutare significativamente il valore delle azioni, valorizzando quindi eccessivamente i risultati in termini di profitti attesi. Si aggiunga poi il fatto che nel corso degli ultimi dieci anni sono gradualmente maturate le opportunità di aumento della produttività anche nei settori utilizzatori di Ict. Dopo la caduta dei mercati azionari verificatasi fra il 2000 e il 2002, le imprese si sarebbero ritrovate nella necessità di sostenere i corsi dei titoli, spingendo verso il conseguimento di utili sempre più elevati. Politiche salariali molto prudenti sarebbero quindi anche da ascrivere alla pressione verso il conseguimento di maggiori utili cui la finanza ha sottoposto le aziende dopo il periodo di euforia del decennio passato. Una ulteriore precisazione del discorso deve fare riferimento evidentemente a quali siano stati i tratti caratterizzanti delle strategie messe in atto dalle imprese al fine di innalzare in maniera così drastica il trend di crescita dei profitti, andando per conseguenza a scapito della dinamica salariale. 3 La fiscalità in generale non altera direttamente la distribuzione primaria del reddito. L’effetto dei provvedimenti di finanza pubblica su di essa passano attraverso i meccanismi di traslazione dell’imposta e via effetti dei trasferimenti sulle funzioni di domanda e di offerta del sistema. Va in ogni caso rammentato che se l’effetto di una politica fiscale più restrittiva sulla distribuzione del reddito è controverso, è quasi sempre vero che una stretta fiscale riduce il salario reale.
182 Il primo fattore su cui viene spontaneo puntare l’attenzione è naturalmente quello della globalizzazione. I processi di internazionalizzazione produttiva hanno, come noto, subito una forte accelerazione nel corso degli ultimi anni, anche grazie al menzionato cambiamento tecnologico che ha favorito l’attività delle imprese multinazionali. Non va poi dimenticato il peso delle politiche economiche che hanno mirato al progressivo abbattimento delle barriere al commercio. Da questo punto di vista il passaggio fondamentale è stato rappresentato dall’ingresso della Cina nel Wto. Senza entrare nel merito dei cambiamento indotti alla struttura del commercio internazionale dall’ascesa dell’attività economica della Cina, ci si può comunque limitare ad attrarre l’attenzione sul grafico che illustra l’andamento delle quote di mercato dei maggiori attori del commercio. Come si osserva, nell’arco di pochi anni il rilievo della Cina sulla scena internazionale è divenuto assolutamente comparabile a quello dei maggiori attori. Per l’esattezza, nel corso del 2007 la Cina ha raggiunto la seconda posizione nella graduatoria dei maggiori esportatori mondiali superando gli Stati Uniti. Data la dimensione dei trend in corso è probabile che entro il 2009 la Cina possa diventare il primo esportatore al mondo. Naturalmente l’ascesa di nuovi attori sulla platea del commercio mondiale ha anche effetto sull’attività delle imprese e sulle condizioni dei mercato del lavoro delle economie avanzate. Una delle chiavi di lettura sviluppatesi nel corso degli ultimi anni è costituita dalla possibilità che l’ingresso della Cina nei flussi di commercio globale possa essere trattata alla stregua di un forte ampliamento dell’offerta di lavoro disponibile su scala mondiale. Si sarebbe generata in tal modo una pressione competitiva sui salari dei paesi avanzati legata allo spostamento di quote importanti della produzione verso i paesi emergenti. La caratteristica dei processi di riequilibrio dei prezzi dei fattori di produzione è costituita dal fatto che il fattore di produzione mobile oggi non è più soltanto il lavoro. Anzi, l’accresciuta dimensione internazionale dell’attività delle imprese avrebbe permesso loro di realizzare una sorta di arbitraggio su scala mondiale, al fine di sfruttare le potenzialità di guadagno concesse dai differenziali internazionali di costo del lavoro. Una analisi puramente descrittiva dei differenziali nei livelli del costo del lavoro può essere svolta sulla base delle indicazioni del Bls (Bureau of Labour Statistics), che pubblica statistiche allargate ad una platea ampia di paesi. Una rappresentazione è fornita nel grafico 5, dove si riporta il costo orario della manodopera nell’industria manifatturiera di un set ampio di paesi. I dati mettono in luce un risultato ben noto, rappresentato dal fatto che le disparità nei livelli salariali a livello internazionale sono elevatissime. Sulla base delle quantificazioni relative all’anno 2006 il costo orario della manodopera per il complesso dell’area dell’euro si posizionava poco al di sotto dei 30 dollari, valore di oltre il 20 per cento superiore a quello degli Stati Uniti. Senza entrare nel dettaglio delle esperienze dei singoli paesi, notiamo subito come il costo del lavoro dei paesi emergenti si posizioni su valori significativamente più contenuti. Le divergenze si amplierebbero ulteriormente se nel grafico includessimo anche indicazioni relative al costo del lavoro in Cina. Non esistono però al riguardo stime affidabili. In ogni caso, le indicazioni degli studi sul tema tendono a non posizionarsi su valori molto distanti dal dollaro l’ora, un dato assolutamente fuori linea rispetto a quelli prevalenti a livello internazionale e che rende conto del forte incentivo di costo per le imprese che delocalizzano parti del loro processo produttivo in Cina. Un’analisi basata sui soli differenziali di costo del lavoro non sarebbe però sufficiente per rappresentare tali risultati come un fatto peculiare della fase storica in corso. Divergenze anche ampie nei livelli del costo del lavoro fra paesi emergenti e economie avanzate sono sempre esistite, ma non hanno mai avuto effetti così dirompenti sull’andamento della distribuzione del reddito. Viceversa, prevale oggi la sensazione che siamo di fronte ad un fatto nuovo, che tende a rispecchiare gli equilibri valutari affermatisi durante gli ultimi anni. Difatti, secondo la letteratura e l’esperienza storica, economie con divergenze salariali anche molto ampie possono certamente coesistere, nella misura in cui i differenziali fra i paesi nei livelli del costo del lavoro tendono a riflettere le differenze in termini di livelli della produttività. In tali condizioni, è possibile fare coesistere divergenze salariali con l’equilibrio della bilancia dei pagamenti dei diversi paesi. In altri
183 termini, non è corretto associare ad un livello più basso del costo del lavoro una posizione competitiva di per sé più favorevole, e viceversa. Gli assetti determinatisi nel corso degli ultimi anni paiono però mostrare che l’entità dei differenziali nei livelli del costo del lavoro rappresenti una situazione di particolare vantaggio competitivo soprattutto per l’economia cinese. Senza entrare nel tema della molto discussa questione degli squilibri accumulati dall’economia americana (le cui conseguenze si stanno materializzando con effetti dirompenti sull’evoluzione congiunturale), è qui sufficiente limitarsi a rammentare la situazione determinatasi durante gli ultimi anni, quando ad un ampio deficit delle partite correnti americane è corrisposto un grande surplus ripartito fra tre soggetti: Cina, Giappone e l’aggregato dei paesi produttori di petrolio. Di questi tre, la Cina è quello che sta presentando poi il più rapido allargamento del surplus. Una delle tesi avanzate nel corso degli ultimi anni per spiegare la pressione sui salari dei lavoratori delle economie avanzate sottolinea l’eventualità che l’ingresso della Cina nel Wto sia avvenuto ad un tasso di cambio sostanzialmente sottovalutato. I salari dei lavoratori cinesi sarebbero in altri termini “troppo bassi” rispetto al valore di equilibrio coerente con i differenziali nei livelli della produttività del lavoro cinese rispetto al resto del mondo. La tenuta di tali livelli sottovalutati del cambio dipenderebbe poi dalla pervicacia della Banca Popolare Cinese nella politica di difesa del cambio stesso, cui è stato permesso solamente un apprezzamento marginale sul dollaro. In generale, la costante ascesa del surplus dei conti con l’estero in Cina rispecchia un eccesso di risparmio all’interno del paese che tende a defluire verso le economie che hanno un eccesso di domanda, soprattutto gli Stati Uniti. Uno dei temi del dibattito degli ultimi anni pone al centro dell’attenzione la sostenibilità di tali equilibri, specie in considerazione del fatto che la crisi apre le porte ad un tendenziale aumento anche del debito pubblico. L’ampiezza del deficit degli Stati Uniti potrebbe difatti innescare negli investitori dubbi circa la capacità dell’economia Usa di sostenere l’onere del debito cumulato durante gli anni scorsi. Qualora la percezione di sostenibilità del deficit dei conti con l’estero Usa venisse meno, i capitali smetterebbero di affluire negli Stati Uniti e il dollaro continuerebbe a deprezzarsi sino a un valore sufficiente al riequilibrio del deficit Usa. Non vi è un consenso riguardo a quale possa essere tale livello di equilibrio, ma molti commentatori non esitano ad ipotizzare ulteriori deprezzamenti del cambio effettivo del dollaro dell’ordine del 20/30 per cento rispetto ai valori medi del 2007. Naturalmente un passaggio di questo genere rappresenterebbe una rimodulazione sostanziale degli equilibri che hanno caratterizzato l’ordine del commercio internazionale nel corso degli ultimi anni. Soprattutto perché un apprezzamento del cambio della Cina condizionerebbe anche le altre valute asiatiche, e soprattutto lo yen. Si tratterebbe quindi di un cambiamento sostanziale degli assetti alla base dell’attuale ordine del commercio internazionale, sia perché si modificherebbero le posizioni competitive dei diversi paesi, con una riduzione del vantaggio di costo dell’intera area asiatica, e sia perché questo processo favorirebbe la crescita della domanda interna di quei paesi, consentendo un recupero delle rispettive importazioni.
184 Grafico 3 – Prezzo reale del petrolio Prezzo reale del petroli o 140 120 100 80 60 40 20 0 70 75 80 85 90 95 00 05 Quotazioni in dollari, ai prezzi 2008; deflazionato con l'indice dei prezzi al consum o Usa Grafico 4 – Quote di mercato: Cina e Big­3 Quote di m ercato Cina Usa Giappone Germania
14,0 12,0 10,0 8,0 6,0 4,0 2,0 0,0 97 98 99 00 01 02 03 04 Esportazioni in dollari in % del commercio mondiale 185 05 06 07 Grafico 5 – Costo del lavoro orario, vari paesi Costo orario della manodopera Area euro Polonia Rep. Ceca Messico Taiw an Singapore Corea Giappone Canada Svizzera Regno Unito Danimarca 0 5 10 15 20 25 30 35 40 45 Costo in dollari; dati al 2006; elaborazioni su dati Bls 1.3 Divergenze nell’area dell’euro e competitività 1.3.1 Andamenti differenziali nei maggiori paesi europei La questione degli equilibri valutari, che abbiamo rapidamente introdotto nel paragrafo precedente, ha assunto un particolare rilievo nel recente dibattito europeo, anche a seguito del rafforzamento del cambio dell’euro avvenuto durante gli ultimi anni: rispetto ai minimi vicini a 0.80 dollari per euro raggiunti a inizio decennio, la valuta americana si è sostanzialmente indebolita sino a raggiungere valori vicini agli 1.60 dollari per euro, ripiegando poi a fine 2008 in un contesto di violente fluttuazioni di tutte le variabili finanziarie. Non vi è attualmente un consenso su quali potranno essere le tendenze della valuta Usa: in alcuni casi si sottollinea come il maggiore premio al rischio presente sui mercati tenda a privilegiare il dollaro, generando fenomeni di cosiddetto flight to quality; altri segnalano come il riequilibrio degli squilibri internazionali non possa che passare attraverso un nuovo sostanziale deprezzamento del dollaro. Tali questioni non sono prive di conseguenze rispetto all’evoluzione dei salari europei. Difatti, le imprese europee lamentano con insistenza che il cambio forte dell’euro rende il livello del costo del lavoro all’interno dell’area della moneta unica troppo oneroso rispetto a quello dei concorrenti internazionali. La questione è di particolare rilievo, in quanto si propone in una fase in cui i processi di delocalizzazione sono intensi. Ci si chiede quindi se il tendenziale rafforzamento del cambio dell’euro non possa in qualche misura esacerbare tendenze già in corso, portando le imprese ad intensificare le politiche di delocalizzazione e a premere sulle dinamiche salariali all’interno. Naturalmente, le questioni in gioco sono diverse. Per procedere con ordine conviene partire dal quadro aggregato, per passare poi a rappresentare le differenze fra paesi. Come già evidenziato nel grafico 5, il livello del costo del lavoro orario nei paesi dell’area dell’euro è molto elevato in termini assoluti, anche quando il confronto è effettuato con il Giappone, gli Stati
186 Uniti e gli altri paesi anglosassoni, fatta eccezione per il Regno Unito. Essendo il grafico riferito ai dati del 2006, se ne potrebbe concludere che, dato il rafforzamento dell’euro intervenuto nel frattempo, le cose sono anche decisamente peggiorate per la competitività di costo dei paesi europei. Questo ragionamento sebbene immediato dal punto di vista intuitivo, deve però essere approfondito. Un aspetto da considerare è innanzitutto che l’andamento del dollaro non descrive in maniera esaustiva l’andamento della nostra posizione competitiva. In effetti, una volta eravamo soliti fare riferimento al dollaro quale valuta rappresentativa di un ampio spettro di paesi. Una rivalutazione rispetto al dollaro equivaleva ad una rivalutazione verso l’intera “area del dollaro”. Oggi le cose stanno in maniera decisamente diversa, in quanto la maggior parte delle economie – con la rilevante eccezione della Cina ­ si è di fatto sganciata dal dollaro. A tale fine, nel grafico 6 si mostra l’evoluzione del cambio nominale effettivo dell’area euro, ponendolo a confronto con un indice di cambio bilaterale dollaro euro da cui si osserva come le fluttuazioni della nostra competitività in aggregato risultino decisamente meno marcate rispetto a quello che osserviamo guardando soltanto al cambio bilaterale dell’euro nei confronti del dollaro. Resta naturalmente aperta la questione di quali saranno le tendenze per i prossimi anni. Se vale l’ipotesi avanzata nel paragrafo precedente, non si può escludere l’eventualità che anche la valuta cinese cominci a sganciarsi dal dollaro. Una tale eventualità tenderebbe a ridimensionare le pressioni sui salari europei visto che aumenterebbero i prezzi dei prodotti importati provenienti dal continente asiatico. Naturalmente, al mutamento della posizione competitiva corrisponderebbe anche una maggiore inflazione, dopo un lungo periodo in cui le merci a basso costo provenienti dall’Asia hanno contenuto la dinamica inflazionistica nei paesi avanzati. Grafico 6 – Cambio effettivo e cambio dollaro euro Cambi o dol laro euro e cam bio effettivo del l'euro Cambio ef fettivo Cambio dollaro euro 140 130 120 110 100 90 80 70 99 01 03 05 07 Indice gen '99 = 100 La collocazione dell’area dell’euro all’interno dei fenomeni di globalizzazione osservati nel corso degli ultimi anni può essere esaminata più nel dettaglio se si guarda alle differenze fra le esperienze delle diverse economie aderenti all’euro. Possiamo, a tal fine, soffermare innanzitutto l’attenzione sul grafico che propone la medesima rappresentazione utilizzata per il quadro internazionale, finalizzandola questa volta alla valutazione dei differenziali interni all’area dell’euro. Al fine di agevolare la comparazione con le evidenze presentate nel grafico 5 già discusso, manteniamo la
187 medesima struttura nel grafico 7, utilizzando le quantificazioni dei livelli espresse in dollari correnti. Dalla rappresentazione offerta dal grafico, si evince subito come nell’area dell’euro coesistano situazione di forte divergenza, soprattutto se si considerano casi estremi. Le stime del Bls posizionano sui valori più elevati la Germania e le altre economie del Nord Europa: Austria, Olanda, Belgio e Finlandia. Il costo del lavoro risulta invece meno elevato nelle economie dell’area del Mediterraneo. In Grecia il costo del lavoro è la metà di quello tedesco, mentre nel caso estremo del Portogallo i valori approssimano quelli delle economie dell’Europa orientale. Grafico 7 – Costo del lavoro orario, Economie dell’area euro L’ampiezza dei differenziali nei livelli del costo del lavoro all’interno dell’area dell’euro costituisce un elemento di differenziazione notevole fra le diverse economie che condividono la moneta unica. Naturalmente, le divergenze costituiscono l’esito di fattori strutturali, e riflettono il fatto che all’interno dell’area vi sono strutture produttive anche molto differenziate. Ciò non di meno, nel corso degli anni passati ai differenziali nei livelli del costo del lavoro sembrano essere corrisposte differenze di segno contrario nelle dinamiche di questa variabile. In altri termini, i paesi con un costo del lavoro più alto hanno registrato tassi di crescita più contenuti, e viceversa. Tale andamento si qualifica quindi nei termini di un processo di convergenza nei livelli del costo del lavoro. Per spiegare l’ipotesi di convergenza sui livelli non occorre però assumere che sia in atto un processo di adeguamento dei livelli assoluti di costo del lavoro. Perché ciò avvenga è necessario che la mobilità dei fattori di produzione sia completa e senza costi. E’ invece sufficiente che sia in corso almeno un parziale avvicinamento delle distanze rispetto a quelle prevalenti nella fase di avvio dell’euro. In questo modo si potrebbe rendere conto dei differenziali nelle dinamiche salariali in Europa anche interpretandoli come una fase di aggiustamento che avrebbe corretto valori forse squilibrati all’interno dell’area ereditati dal momento della fase di fissazione delle parità per la
188 confluenza nell’euro. Questa chiave di lettura pare appropriata soprattutto per rendere conto della fase di forte moderazione salariale emersa in Germania. Il costo del lavoro tedesco, decisamente più elevato rispetto agli altri partner dell’area euro, rifletteva a metà anni novanta anche il risultato dell’apprezzamento del marco intervenuto rispetto ad altre valute poi confluite nell’euro, come la lira e la peseta. Utilizzando la medesima rappresentazione grafica possiamo fare riferimento all’andamento di tre variabili ­ costo del lavoro (grafico 8), produttività del lavoro (grafico 9), costo del lavoro per unità di prodotto (grafico 10) – per le tre maggiori economie dell’area dell’euro, Germania, Francia e Italia. Ad una semplice ispezione dei tre grafici si coglie immediatamente come queste economie abbiano evidenziano percorsi tutt’altro che condivisi. Si riconosce facilmente la bassa dinamica del costo del lavoro in Germania. Per alcuni anni si è arrivati addirittura a situazioni di vera e propria deflazione salariale, con una tendenza delle retribuzioni di fatto a scendere sistematicamente al di sotto di quelle contrattuali anche per effetto di accordi aziendali volti ad assecondare le politiche delle imprese, miranti a guadagnare competitività. La ristrutturazione dell’economia tedesca è stata pesante, e ha comportato costi occupazionali che, unitamente alla fase di stagnazione dei salari, hanno generato una prolungata debolezza dei consumi. I guadagni di produttività, cumulandosi agli effetti della stagnazione salariale, hanno però permesso alle imprese di riequilibrare la posizione competitiva. La Germania ha così realizzato un forte ciclo di esportazioni e, più di recente, una ripresa degli investimenti in macchinari. Si riconosce quindi nel caso della Germania un modello di crescita di carattere export­led. Questo tipo di crescita è tipico della Germania: in una fase storica in cui tutti le economie avanzate soffrono per la pressione competitiva proveniente dai paesi emergenti, il fatto che il paese a migliore performance delle esportazioni sia proprio la Germania descrive un modello di sviluppo del tutto peculiare. Conta molto anche la capacità dell’industria tedesca di inserirsi nei circuiti globali della produzione attraverso l’intenso processo di internazionalizzazione messo in atto dalle imprese. Durante gli anni scorsi in Europa il percorso seguito dall’economia tedesca è stato anche motivo di qualche preoccupazione, dato che la stagnazione della domanda interna tedesca ha frenato la crescita degli altri paesi europei. Inoltre, il fatto che l’economia più grande e a maggiore base industriale dell’area avesse realizzato un aggiustamento della propria posizione competitiva rappresenta un riferimento di cui non si può non tenere conto. Questo aspetto è emerso in maniera abbastanza palese in relazione alle reazioni politiche rispetto all’apprezzamento del tasso di cambio dell’euro. Le pressioni verso la Bce per politiche volte a limitare il rafforzamento della valuta europea sono state molto prudenti da parte tedesca, specie se confrontate con le dichiarazioni molto più agguerrite da parte francese. E’ in questo contesto che dunque l’esperienza della fase di forte moderazione salariale che ha caratterizzato la Germania negli ultimi anni rappresenta un ovvio punto di riferimento all’interno del quadro europeo. Tanto più se la posizione tedesca viene confrontata con quella francese dove l’industria ha continuato a perdere quote di mercato nel corso degli ultimi anni. In Italia, dopo il tracollo osservato a inizio decennio, le quote di mercato a prezzi correnti hanno cominciato a stabilizzarsi; pur con scarsi spunti di accelerazione, i dati dell’ultimo biennio hanno evidenziato primi spunti di recupero. 1.3.2 Primi segnali di inversione di tendenza L’assenza di spinte salariali osservata in Germania negli anni passati si deve anche all’effetto della fase difficile attraversata dal mercato del lavoro. Su questo aspetto però il biennio 2006­2007 ha rappresentato per certi versi un momento di ripresa. Il tasso di disoccupazione ha iniziato difatti a scendere sia in Germania che negli altri paesi europei molto rapidamente. Questo andamento è da ricondurre anche a cause di natura ciclica, legate cioè alla fase di ripresa economica, e pare destinato a invertirsi nel corso dei prossimi due anni.
189 Si ritiene però che tale esito sia anche spiegato dai cambiamenti di natura strutturale intervenuti all’interno dei mercati del lavoro dei paesi europei, che potrebbero avere generato una fase di riduzione del tasso di disoccupazione di equilibrio. A favore di tale eventualità gioca proprio la contenuta entità degli incrementi salariali erogati dalle imprese europee nel corso degli ultimi anni. Ciò nonostante, la svolta del tasso di disoccupazione è guardata con attenzione dalla Bce proprio in virtù della possibilità che dalla riduzione del tasso di disoccupazione possano seguire nei prossimi anni accelerazioni della dinamica salariale, che potrebbero incidere sull’andamento dell’inflazione. In particolare, gli esiti dei processi di riforma del mercato del lavoro possono essere descritti, in maniera semplificata, nella forma di una transizione da un equilibrio, caratterizzato da un dato tasso di disoccupazione, verso un nuovo equilibrio, con una disoccupazione più bassa. Nella fase di transizione è possibile che la disoccupazione risulti più elevata del suo valore di equilibrio, e questo determini una bassa crescita salariale. Una volta raggiunto il nuovo equilibrio, i salari tendono a riflettere nuovamente i cambiamenti che intervengono nelle variabili esplicative tipiche di una classica funzione del salario, essenzialmente il tasso di disoccupazione e l’inflazione attesa. Ora, vi è la possibilità che durante gli anni passati si sia verificato in molti paesi europei un aggiustamento verso un tasso di disoccupazione di equilibrio più basso, ma anche che questo processo sia in via di completamento. Stime correnti, come quelle della Commissione europea, quantificano la disoccupazione di equilibrio secondo il concetto di Nawru, vale a dire il tasso di disoccupazione compatibile con la stabilità della dinamica salariale. Secondo queste quantificazioni, il 2007 sarebbe l’anno in cui la disoccupazione europea tende a chiudere il gap rispetto al suo livello di equilibrio come dimostra il grafico 11. Il fatto che il livello del Nawru si sia abbassato è quindi uno dei fattori che concorrono a spiegare perché la discesa della disoccupazione europea non abbia sollecitato negli ultimi anni la dinamica salariale. E’ solo da fine 2007 che il livello della disoccupazione avrebbe approssimato il Nawru. Non è un caso che dall’inizio del 2008 si sia nuovamente acceso il dibattito sull’eventualità che l’abbassamento avvenuto nella disoccupazione abbia condotto il livello di questa variabile su valori tale da generare spinte sulla crescita salariale e, in ultima istanza, sull’inflazione dell’area euro. In particolare poi, l’attenzione è stata sollecitata dall’accelerazione dell’inflazione indotta nel 2008 dall’impennata dei prezzi delle materie prime. E’ possibile difatti che l’accelerazione dei prezzi dovuta ai rincari delle commodities possa sfociare in una ripresa salariale. Se siamo in una fase di inflazione in aumento e la dinamica salariale riflette l’andamento passato dei prezzi, la maggiori inflazione sfocia in più alte dinamiche salariali e il processo inflazionistico acquisisce caratteristiche di persistenza. Non sorprende che la Banca centrale europea avesse espresso più volte la propria attenzione rispetto al rischio che si materializzassero spinte salariali tali da sollecitare l’inflazione dell’area euro. Naturalmente, l’inversione del ciclo che ha cominciato a materializzarsi a fine 2008 ha completamente modificato il quadro, conducendoci verso uno scenario in cui il tasso di disoccupazione dei diversi paesi europei pare con tutta probabilità destinato ad aumentare, frenando qualsiasi ipotesi di accelerazione salariale. A tale riguardo si sottolina anche al drastica inversione di segno dei corsi delle materie prime osservata a seguito della caduta della domanda mondiale, da cui segue uno scenario di rapida discesa del tasso d’inflazione in tutte le economie avanzate. A conclusione della rassegna del quadro internazionale, si può sintetizzare affermando che gli anni alle nostre spalle sono stati, dal punto di vista dei salari e del costo del lavoro, il periodo di massima intensificazione delle pressioni concorrenziali fra le diverse aree dell’economia mondiale. Anche all’interno della stessa area europea si colgono segnali di condizionamento della dinamica salariale in risposta alle pressioni concorrenziali provenienti dall’esterno. E’ soprattutto in Germania che le imprese hanno reagito a tali pressioni dando avvio ad un percorso di aggiustamento molto penalizzante per i salari. La fase di moderazione salariale europea potrebbe avere anche rappresentato un esito delle riforme dei mercati del lavoro, che hanno condizionato l’andamento dei salari. Infine, l’arrivo della recessione anticipa una fase di sostanziale assenza di tensioni, almeno nel corso del prossimo biennio.
190 Grafico 8 – Costo del lavoro, settore privato Costo del lavoro, settore privato Ger Fra Ita 130 125 120 115 110 105 100 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2006 2007 Indice 2000 = 100; elaborazioni su dati Ocse Grafico 9 – Produttività, settore privato Produttività del lavoro, settore privato Ger Fra Ita
110 105 100 95 2000 2001 2002 2003 2004 2005 Indice 2000 = 100; elaborazioni su dati Ocse 191 Grafico 10 – Costo del lavoro per unità di prodotto, settore privato Costo del lavoro per unità di prodotto, settore privato Ger Fra Ita 125 120 115 110 105 100 95 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 Indice 2000 = 100; elaborazioni su dati Ocse Grafico 11 – Il Nawru nell’area euro Area euro ­ tasso di diso ccupazione e Nawr u Nawru Tasso di disocc.
11 10 ,5 10 9 ,5 9 8 ,5 8 7 ,5 7 6 ,5 6 19 82 1987 1992 199 7 Elabora zio ni su dati Commissione Europea ­ da taset A me co 192 2 002 2007 2. Assetti contr attuali, andamento dei salar i e dinamica della pr oduttività in Italia 2.1 Le dinamiche in Italia e i differenziali settoriali 2.1.1 Una fase di prolungata stagnazione salariale L’analisi delle pagine precedenti ha introdotto un insieme di quesiti che possono essere oggetto di ulteriore analisi guardando all’esperienza dell’economia italiana nello specifico. A livello aggregato, un primo modo per rappresentare l’andamento dei salari e del costo del lavoro consiste nel valutarne la dinamica sulla base di un set esteso di indicatori. Innanzitutto, possiamo partire osservando, nella tavola 6, l’andamento delle retribuzioni di fatto da contabilità. Queste hanno mostrato una crescita del 2.1 per cento per l’intera economia nel corso del 2007, rispetto ad una dinamica poco sopra il 3.3 per cento nel precedente triennio. A tale risultato ha contribuito principalmente la decisa decelerazione osservata nei comparti della Pa e della sanità, in parte a seguito dell’effetto di confronto statistico con gli aumenti dell’anno prima, in cui si era verificata la corresponsione di arretrati dei precedenti contratti, e in parte per ritardi nei rinnovi. Anche al netto di questi andamenti settoriali si può però parlare di una crescita salariale contenuta. Nell’industria in senso stretto la crescita delle retribuzioni è stata pari al 2.8 per cento, ma è soprattutto nei servizi privati che la dinamica salariale ha decelerato, portandosi in questo caso al di sotto del 2 per cento. Nel caso dei servizi la decelerazione è anche evidenziata dall’indice delle retribuzioni contrattuali (Tabella 6) che, viceversa, ha mantenuto una dinamica più stabile nel caso dell’industria. Tanto nell’industria quanto nei servizi, la crescita delle retribuzioni di fatto da contabilità negli ultimi anni non è andata molto al di là della dinamica delle contrattuali. Questo evidenzia dunque uno scarso apporto alla crescita salariale da parte delle componenti della retribuzione non contrattate centralmente. Fra il 2000 e il 2007 lo scostamento fra retribuzioni di fatto e indici delle retribuzioni contrattuali è risultato nell’ordine del mezzo punto all’anno. Si tratta di un valore poco più che fisiologico, in linea con l’evoluzione spontanea delle progressioni di carriera, ma che non denota una intensificazione della contrattazione di secondo livello. Il fatto che tanto i contratti nazionali, quanto lo slittamento salariale commesso alla contrattazione decentrata, non siano riusciti a sostenere la dinamica delle retribuzioni, è significativo, considerando che il biennio 2006­2007 è stato caratterizzato da una ripresa economica, oltre che da un abbassamento significativo del tasso di disoccupazione. Questo andamento denota uno scarsissimo potere di mercato dei lavoratori, tant’è che la dinamica salariale sopra descritta è risultata insufficiente per compensare la perdita di potere d’acquisto dei salari. In termini reali la dinamica retributiva è difatti tornata su valori di segno negativo nel 2007, circostanza che non si era più verificata dopo il 2002. La crescita dei redditi da lavoro da contabilità è risultata in linea con quella delle retribuzioni, risultando pari nella media del 2007 al 2.2 per cento. Negli ultimi anni la dinamica del costo del lavoro è risultata poco inferiore a quella dei salari. Ciò è dipeso in parte dalla successione di provvedimenti che hanno ridotto il carico contributivo, Va anche ricordato poi un ulteriore elemento, relativo ai provvedimenti cosiddetti di riduzione del cuneo fiscale che hanno agito nel 2007 a riduzione dei livelli del costo del lavoro effettivamente pagato dalle imprese. Tale riduzione comunque non compare nei dati di contabilità nazionale in quanto la riduzione del cuneo è passata attraverso la rimodulazione delle aliquote dell’Irap (il costo del lavoro è parte della base imponibile Irap) che in contabilità è classificata fra le imposte indirette. Ne consegue quindi che, ad un contesto di domande salariali contenute, si è sovrapposta una politica a contenimento del costo del lavoro pagato dalle imprese.
193 La dinamica del costo del lavoro reale pagato dalle imprese, calcolata deflazionando i redditi da lavoro con il deflatore del valore aggiunto, dopo un triennio di aumenti relativamente sostenuti, soprattutto nell’industria, si è sostanzialmente azzerata nel 2007. Ne consegue che il contenimento del costo del lavoro continua ad essere uno degli elementi a favore dell’espansione dei livelli occupazionali, a fronte di una crescita modesta della produttività che agisce dunque in direzione contraria. La pur contenuta crescita del costo del lavoro, si è difatti sovrapposta ad un contesto di perdurante stagnazione della produttività del lavoro. La crescita del costo del lavoro per unità di prodotto ha difatti mantenuto valori intorno al 2 per cento, anche nel caso dell’industria. Si tratta di dinamiche che pesano sulla performance competitiva delle imprese che, come abbiamo già osservato, si confrontano con andamenti ben più contenuti nel resto dell’area dell’euro. La rassegna sopra proposta può quindi essere sintetizzata segnalando come gli ultimi anni siano stati caratterizzati da una fase di moderazione salariale, con dinamiche contenute in termini nominali, e ancor più in termini reali.
194 Tavola 6 ­ Indicatori di sintesi UNITA' DI LAVORO TOTALI var % medie annue Agricoltura Industria in senso stretto Costruzioni Comm. alb., trasp. e comunic. Credito, att. immob. e serv. prof. Altre attività dei servizi Totale 1999 ­4,5 ­1,0 2,4 1,0 4,1 2000 ­1,0 ­0,4 3,3 2,7 5,8 2001 0,9 ­0,6 6,2 1,6 4,3 2002 ­3,2 0,7 2,1 1,4 5,1 2003 ­4,7 0,0 2,7 1,6 2,3 2004 ­0,1 ­1,0 1,6 0,2 1,7 2005 ­3,1 ­1,0 4,1 0,0 1,1 2006 1,2 1,0 0,8 1,6 3,8 2007 ­2,9 0,9 2,4 0,8 3,0 0,7 0,5 1,4 1,8 1,8 1,8 0,7 1,3 0,0 0,6 0,7 0,4 0,3 0,2 1,6 1,7 0,6 1,0 1999 1,7 2,9 2,9 3,4 3,4 2,3 3,0 2000 0,1 2,9 2,3 2,2 2,9 3,7 3,0 2001 0,4 3,1 2,7 2,8 2,7 4,8 3,5 2002 1,5 2,7 2,0 1,4 1,7 3,5 2,6 2003 4,0 2,6 2,5 2,1 1,8 4,7 3,2 2004 0,9 3,9 3,8 3,1 2,4 3,9 3,4 2005 4,8 3,1 2,3 3,0 4,0 4,2 3,4 2006 1,3 3,4 2,9 2,4 3,2 3,0 3,0 2007 3,4 2,8 3,6 2,1 1,3 1,3 2,1 1999 2,8 2,4 2,9 2000 0,9 2,2 1,5 2001 1,3 3,2 1,8 2002 1,6 2,5 3,0 2003 6,1 2,8 3,9 2004 ­0,1 4,0 3,9 2005 4,1 2,7 1,8 2006 1,1 2,6 2,2 2007 2,3 2,4 3,9 3,1 2,6 2,2 2,6 1,3 2,0 3,3 2,3 2,7 1,9 4,2 3,2 1,7 1,6 3,8 2,7 2,5 1,8 5,4 3,7 3,3 2,5 3,2 3,3 3,1 3,9 3,9 3,0 2,0 2,9 2,6 2,4 2,1 1,2 1,3 2,2 RETRIBUZIONI DI FATTO var % medie annue Agricoltura Industria in senso stretto Costruzioni Comm. alb., trasp. e comunic. Credito, att. immob. e serv. prof. Altre attività dei servizi Totale COSTO DEL LAVORO var % medie annue Agricoltura Industria in senso stretto Costruzioni Comm. alb., trasp. e comunic. Credito, att. immob. e serv. prof. Altre attività dei servizi Totale VALORE AGGIUNTO PER UNITA' DI LAVORO var % medie annue Agricoltura Industria in senso stretto Costruzioni Comm. alb., trasp. e comunic. Credito, att. immob. e serv. prof. Altre attività dei servizi Totale 1999 2000 11,0 ­1,3 1,2 2,5 ­2,1 0,7 ­0,2 3,5 ­0,2 ­4,5 2001 ­3,3 0,3 ­0,5 1,3 ­1,8 2002 0,2 ­1,0 0,2 ­2,3 ­2,3 2003 ­0,2 ­2,8 ­0,4 ­2,5 ­0,8 2004 13,2 2,0 ­0,1 1,5 ­0,9 2005 ­1,4 0,7 ­1,7 1,5 ­0,1 2006 ­2,6 0,1 0,7 ­0,1 ­0,6 2007 2,7 ­0,1 ­0,8 1,2 ­0,7 0,5 0,9 ­0,1 0,0 0,1 ­0,7 0,5 ­1,0 1,8 1,4 0,3 0,5 ­0,3 0,0 0,5 0,5 1999 2000 ­7,4 2,2 1,1 ­0,3 5,1 0,8 3,3 ­2,1 2,8 6,8 1,2 2,8 1,5 1,4 2001 4,8 2,9 2,3 1,4 3,7 4,3 3,2 2002 1,4 3,6 2,8 4,0 4,0 3,7 3,5 2003 6,4 5,8 4,2 5,1 2,5 4,9 4,8 2004 ­11,7 2,0 4,0 1,8 3,4 1,4 1,9 2005 5,5 2,0 3,6 1,6 4,0 3,7 2,5 2006 3,8 2,5 1,4 2,0 3,5 2,8 2,4 2007 ­0,3 2,6 4,7 0,8 1,9 0,8 1,6 1,0 1,1 COSTO DEL LAVORO PER UNITA' DI PRODOTTO var % medie annue Agricoltura Industria in senso stretto Costruzioni Comm. alb., trasp. e comunic. Credito, att. immob. e serv. prof. Altre attività dei servizi Totale Elaborazioni su dati Istat, Conti economici nazionali
195 2.1.2 Dinamiche settoriali e effetti di composizione A fronte degli andamenti sopra osservati in aggregato vi sono poi anche alcuni spunti di analisi che possono essere colti andando ad esaminare lo spaccato settoriale delle dinamiche in questione. Poiché le peculiarità di maggiore interesse sono soprattutto quelle che si riferiscono ai cambiamenti strutturali in atto del sistema, nella tavola allegata sono rappresentati gli andamenti su periodi abbastanza lunghi, nell’ordine di un quinquennio, evidenziandone anche lo scarto di ciascun settore dalla media. La variabile utilizzata sono le retribuzioni di fatto da contabilità, riportate nella Tavola 7. I principali elementi che emergono dallo spaccato settoriale possono essere sintetizzati come segue. Innanzitutto, la dinamica salariale nei servizi privati è risultata inferiore alla media. Questo risultato, che trova riscontro anche nell’andamento degli indici delle retribuzioni orarie contrattuali, è generalmente condiviso nei diversi settori, rappresenta cioè in parte un risultato trasversale. Viceversa, per l’industria si nota subito come la dinamica salariale sia rimasta sostanzialmente allineata a quella complessiva, con uno scostamento, di mezzo punto all’anno circa, rispetto al dato dei settori dei servizi privati. La pur lieve apertura di un differenziale nelle dinamiche salariali dell’industria è sorprendente poiché in linea di principio i settori esposti alla concorrenza internazionale dovrebbero tendere ad avvertire in maniera più pressante le pressioni competitive dall’esterno. Una chiave di lettura di interesse rispetto a questo genere di fenomeni è rappresentata dal fatto che è possibile che sia in atto un processo di trasformazione del nostro apparato industriale che avrebbe determinato un sostanziale upgrading qualitativo dei prodotti. E’ anche possibile che a seguito dei mutamenti nella struttura della produzione sia cambiata gradualmente la composizione professionale dell’occupazione nell’industria. In tal modo, la dinamica salariale nell’industria potrebbe essere anche ricondotta ad un mutamento nella composizione, con un aumento della quota di lavoratori maggiormente qualificati. Vi è infine da rammentare anche la presenza di un effetto di composizione settoriale che, per quanto modesto, ha comunque un qualche impatto sulla dinamica salariale dell’industria; tale effetto è legato al fatto che nel corso degli ultimi anni si sarebbe ridotta la quota degli occupati industriali in settori dove il livello dei salari è mediamente più basso, come per il caso del tessile e dell’industria conciaria, mentre è aumentata la quota di addetti in settori, come la fabbricazione di macchinari, dove i livelli salariali sono più alti. L’effetto di composizione settoriale ha aumentato fra il 2003 e il 2007 la dinamica salariale dell’industria di circa lo 0.1 per cento all’anno. L’effetto di composizione settoriale ha invece agito in direzione opposta nel caso dei servizi privati, dove ha pesato soprattutto il fatto che si è ridotto il peso dei settori dove i livelli retributivi sono mediamente molto elevati. Questo tipo di fenomeno è rilevante soprattutto con riferimento al settore della finanza, dove le retribuzioni sono decisamente più alte della media, e il cui peso sul totale degli occupati alle dipendenze si è ridotto; in direzione analoga l’effetto sulla dinamica salariale del settore delle “poste e telecomunicazioni” dove pure i livelli retributivi sono molto più alti della media. L’effetto di composizione settoriale ha diminuito fra il 2003 e il 2007 la dinamica salariale dei servizi privati di circa lo 0.2 per cento all’anno. Si noti quindi che il differenziale fra le dinamiche salariali dell’industria e dei servizi tende a ridursi significativamente se si scorporano gli effetti di mutamento della struttura settoriale dell’occupazione. Difatti, la dinamica salariale nell’industria scenderebbe escludendo tale effetto dal 3.1 al 3 per cento, mentre quella dei servizi privati salirebbe dal 2.6 al 2.8 per cento. Riguardo agli altri settori, si segnalano andamenti in linea con la media nazionale per agricoltura e costruzioni. Nel primo caso il risultato costituisce una discontinuità storica, visto che l’agricoltura ha sempre mantenuto una dinamica salariale significativamente inferiore alla media. La chiusura del differenziale nelle dinamiche salariali si accosta anche al fatto che il trend di riduzione dell’occupazione agricola ha cominciato ad attenuarsi da alcuni anni segnalando che gli eccessi di manodopera presenti nel settore cominciano a ridimensionarsi. Decisamente superiore alla media è risultata, infine, la crescita delle retribuzioni nei settori dove pesa di più la componente del lavoro pubblico.
196 TAVOLA 7 ­ RETRIBUZIONI DI FATTO Agr icoltur a, silvicoltur a e pesca Industr ia in senso str etto var % medie annue 1988­1992 1993­1997 1998­2002 2003­2007 6,4 2,8 1,2 2,8 7,6 4,2 2,9 3,1 4,2 7,6 2,9 2,5 11,3 3,8 3,0 3,0 8,9 4,3 2,3 2,8 6,4 5,0 3,6 3,2 7,2 5,2 3,8 3,6 8,9 4,3 3,3 3,4 9,2 3,7 2,3 3,0 7,7 4,4 2,9 2,8 8,8 4,6 2,8 3,2 materie 4,4 3,7 3,0 3,4 Estrazione di minerali energetici Estrazione di minerali non energetici Industrie alimentari delle bevande e del tabacco Industrie tessili e dell'abbigliamento Industrie conciarie, prodotti in cuoio, pelle e similari Industria del legno e dei prodotti in legno Fabbricazione della carta e dei prodotti di carta; stampa ed editoria Fabbricazione di coke, raffinerie di petrolio Fabbricazione di prodotti chimici e di fibre sintetiche e artificiali Fabbricazione di articoli in gomma e plastiche Fabbricazione di prodotti della lavorazione di minerali non metalliferi Metallurgia e fabbricazione di prodotti in metallo Fabbricazione di macchine ed apparecchi meccanici Fabbric di macch elettriche, apparecchiature elettriche, elettroniche ottiche Fabbricazione di mezzi di trasporto Altre industrie manifatturiere Produzione e distribuzione di energia elettrica, gas e acqua Costr uzioni Commer cio, r ipar az, alber ghi, r istor anti, tr asp e comunicaz Commercio all'ingrosso, al dettaglio e riparazioni Alberghi e ristoranti Trasporti, magazzinaggio e comunicazioni Inter mediazione monetar ia e finanz; attività immobil ed impr endit Intermediazione monetaria e finanziaria Attività immobiliari, noleggio, informatica, ricerca e servizi alle imprese Altr e attività di ser vizi Servizi generali Pa Istruzione Sanità e assistenza sociale Altri servizi pubblici, sociali e personali Attività svolte da famiglie e convivenze TOTALE Elaborazioni su dati Istat, Conti economici nazionali
7,9 7,3 7,0 7,8 8,7 4,7 8,4 8,8 7,8 7,3 5,8 9,2 6,8 7,5 6,8 8,6 9,9 8,2 10,6 0,6 10,2 8,0 4,4 4,0 4,6 3,7 3,7 4,5 3,2 3,4 4,0 4,8 5,0 2,9 3,7 4,4 4,1 3,8 1,9 5,1 4,2 4,3 4,9 4,0 197 2,9 2,7 2,8 2,9 2,8 3,2 2,8 2,8 2,8 3,8 3,2 1,9 2,6 2,3 4,3 2,9 3,7 3,0 2,8 1,7 2,2 2,9 3,3 2,9 3,1 2,7 2,7 3,4 2,1 3,0 2,5 2,8 2,2 2,5 2,5 3,4 2,6 3,4 5,3 3,5 3,0 2,3 2,3 3,0 differenziale rispetto al totale dell'economia 1988­1992 1993­1997 1998­2002 2003­2007 ­1,5 ­1,2 ­1,7 ­0,2 ­0,4 0,2 0,0 0,1 ­3,8 3,5 0,0 ­0,5 3,3 ­0,2 0,1 ­0,1 0,9 0,3 ­0,6 ­0,3 ­1,6 0,9 0,7 0,1 ­0,7 1,2 0,9 0,6 0,9 0,2 0,4 0,4 1,2 ­0,3 ­0,6 0,0 ­0,3 0,4 0,0 ­0,2 0,8 0,6 ­0,1 0,2 ­3,6 ­0,4 0,1 0,4 ­0,1 ­0,7 ­1,0 ­0,2 0,7 ­3,2 0,5 0,8 ­0,2 ­0,7 ­2,1 1,2 ­1,2 ­0,5 ­1,1 0,6 1,9 0,2 2,6 ­7,4 2,2 0,0 0,4 0,0 0,5 ­0,3 ­0,4 0,5 ­0,9 ­0,6 0,0 0,8 1,0 ­1,1 ­0,3 0,4 0,0 ­0,3 ­2,1 1,1 0,2 0,3 0,9 0,0 0,0 ­0,2 ­0,1 0,0 ­0,1 0,3 ­0,1 ­0,1 ­0,1 0,9 0,3 ­1,0 ­0,3 ­0,6 1,4 0,0 0,8 0,1 ­0,1 ­1,2 ­0,7 0,0 0,3 ­0,1 0,1 ­0,3 ­0,3 0,4 ­0,9 0,0 ­0,5 ­0,2 ­0,8 ­0,5 ­0,5 0,3 ­0,5 0,4 2,3 0,5 ­0,1 ­0,7 ­0,7 0,0 2.2 Salari reali e produttività Le dinamiche salariali descritte nel precedente paragrafo sono oggi al centro dell’attenzione. La crescita dei salari non è risultata difatti significativamente superiore nel corso degli ultimi anni a quella dei prezzi, il che si dovrebbe tradurre nel noto risultato dell’invarianza del potere d’acquisto delle retribuzioni in atto da tempo in Italia. Tale dato può essere commentato tenendo conto delle condizioni di contesto all’interno delle quali esso si è prodotto. In particolare, sembra utile porre l’accento su tre aspetti. Il primo attiene al fatto che il tasso di crescita dell’economia italiana è stato decisamente più basso di quello delle altre economie europee. Anche nella fase di ripresa sperimentata fra il 2006 e il 2007 la crescita del Pil è rimasta mediamente al di sotto del 2 per cento. Il secondo aspetto è rappresentato dal fatto che l’Italia, pur in un contesto di più bassa crescita economica, ha registrato una flessione significativa del tasso di disoccupazione. Tale andamento è ovviamente emblematico del mutamento delle tendenze. Il nostro paese rappresentava difatti storicamente uno dei casi più evidenti in cui la disoccupazione stentava a non ritornare, nelle fasi di ripresa, sui valori prevalenti prima della precedente recessione. Terzo, il fatto che la riduzione della disoccupazione si sia prodotta contestualmente alla assenza di rilevanti segnali di accelerazione salariale evidenza come essa rappresenti un cambiamento di natura strutturale. Il tasso di disoccupazione di equilibrio si sarebbe quindi significativamente ridotto anche nel caso italiano. In uno studio recente (Costantini M. e De Nardis S., 2007) si verifica la presenza di un cambiamento strutturale nel mercato del lavoro italiano. L’analisi, che si colloca all’interno del tradizionale filone degli esercizi di stima di funzioni del salario, pone in luce la presenza di un break strutturale nei comportamenti, datandolo intorno alla metà degli anni novanta. Tale risultato è in linea con i cambiamenti avvenuti in Italia durante lo scorso decennio, inizialmente con riferimento alla struttura della contrattazione, e successivamente in relazione all’introduzione di nuove forme contrattuali. Mettendo insieme questi tre aspetti, si perviene a definire un quadro da tratti peculiari, in cui la disoccupazione in discesa, fenomeno legato alle riforme del mercato del lavoro degli anni passati, non sarebbe riuscita ad incidere sulla crescita economica, né tanto meno sulla dinamica delle retribuzioni. La letteratura degli ultimi anni (Oecd 2007, Dew­Becker e Gordon 2008) mette anche in luce da questo punto di vista la presenza di tratti comuni fra Italia e Spagna, dove la debolezza salariale è il riflesso della scarsa crescita della produttività. Tale esito sarebbe legato anche all’ingresso di molti lavoratori “marginali” nel mercato del lavoro che si caratterizzerebbero anche per il loro basso apporto aggiuntivo in termini di capitale umano. Le statistiche recepiscono quindi una fase di scarsa crescita della produttività e, conseguentemente, bassa crescita salariale. Per inciso, dato che nel mercato del lavoro vengono immessi molti lavoratori marginali (sovente anche per effetto dei flussi migratori), ciò che ne segue è anche un ampliamento delle disuguaglianze salariali per i lavoratori in ingresso. Questo effetto si sarebbe poi sovrapposto a un altro, legato alla scarsa capacità mostrata dall’economia italiana nel cogliere le opportunità offerte nel corso degli ultimi anni dalle nuove tecnologie, soprattutto quelle legate all’Information and communication technology (Ict). Si tratta di mutamenti nel processo produttivo che traggono origine dalla produzione e dall’utilizzo delle nuove tecnologie che avrebbero determinato in molti paesi significativi guadagni di produttività. Quella che nel linguaggio degli economisti viene chiamata Produttività totale dei fattori non avrebbe evidenziato per un lungo periodo alcun segnale di aumento, presentando in alcuni anni e per alcuni settori anche variazioni di segno negativo. Senza volere affrontare in questa sede l’analisi delle ragioni che possono avere limitato la capacità dell’economia italiana di adottare quei cambiamenti necessari per modificare la propria struttura produttiva, in modo da potere sfruttare pienamente le potenzialità concesse dalla trasformazione tecnologica in atto a livello mondiale, va comunque ricordato come il dibattito degli ultimi anni sulle prospettive di sviluppo dell’economia italiana abbia richiamato diversi temi, fra i quali un set di politiche in grado proprio di assecondare il
199 recupero della produttività del lavoro. Entrano qui in gioco le politiche per l’istruzione, finalizzate ad accrescere il livello dello stock di capitale umano, gli investimenti in ricerca e sviluppo, la disponibilità di dotazioni infrastrutturali tali da favorire il riversamento delle conoscenze nel processo produttivo. Si deve quindi pensare ad un ruolo fondamentale della politica economica finalizzato ad incentivare una intensa fase di innovazione dei processi di produzione. Su questo aspetto, merita accennare alla proposta di un “nuovo patto sociale” avanzata da alcuni studiosi (si veda per una sintesi Leoni 2008) che si collega all’esigenza di cambiamenti di carattere organizzativo finalizzati ad accelerare l’innovazione del processo di produzione, e sostenuti anche da un insieme di incentivi fiscali. Possiamo quindi esaminare brevemente le conseguenze della stagnazione della produttività rispetto all’evoluzione del potere d’acquisto dei salari. Non è un caso che in Italia da alcuni anni si sia aperto un acceso dibattito con riferimento alla lunga fase di stagnazione dei salari reali il cui andamento è illustrato nel capitolo 12. Le statistiche segnalano un livello dei salari reali in Italia che attualmente non supera significativamente quello dei primi anni novanta. Secondo le indicazioni desunte dall’andamento delle retribuzioni di fatto da contabilità, espresse in termini reali utilizzando il deflatore dei consumi, si osserva come, dopo un periodo di recupero rispetto alle perdite dei primi anno novanta, l’Italia non abbia più registrato crescite salariali di rilievo. Il grafico qui riprodotto illustra una sostanziale discontinuità prodottasi all’inizio degli anni novanta rispetto a tutto il decennio ’80. Se poi a questo si aggiunge che dai primi anni novanta ad oggi è aumentata la pressione fiscale sui salari, si conclude che il potere d’acquisto del salario netto percepito dai lavoratori italiani è attualmente inferiore ai valori dei primi anni novanta. A determinare la mancata crescita dei salari reali negli ultimi quindici anni hanno contribuito diversi fattori, ma l’elemento principale della spiegazione è rappresentato dalla stagnazione della produttività. L’andamento dei salari reali può quindi essere messo a confronto con l’evoluzione della produttività del lavoro, al fine di porre in evidenza la consonanza negli andamenti delle due variabili. Dall’andamento della produttività si coglie come la debolezza dei salari italiani risulti in generale ascrivibile a fenomeni di contesto, per così dire “esterni” al mercato del lavoro, a cui pare sommarsi l’effetto della riduzione dell’estensione della contrattazione decentrata. In assenza di crescita della produttività non si generano spazi per la crescita reale dei salari, in quanto i modesti incrementi nominali tendono ad essere compensati dalla crescita dei prezzi. Al fine d’individuare la presenza di fattori specifici di debolezza salariale, possiamo quindi confrontare l’andamento reale dei salari con quello della produttività del lavoro. Il grafico 14 successivo presenta quindi il rapporto fra le retribuzioni di fatto da contabilità espresse in termini reali e la produttività del lavoro. In ambito Ocse questa variabile è stata utilizzata come indicatore di “pressione o moderazione salariale”: quando flette, analogamente si allenta la pressione salariale. Il grafico14 riassume in modo efficace uno snodo centrale della storia recente delle relazioni industriali nel nostro paese. Si nota innanzitutto l’aggiustamento salariale verificatosi nei primi anni novanta come effetto di una precisa opzione di politica economica che forzò l’aggiustamento del paese spingendo anche su esplicite politiche del salario. E’ l’avvio della politica dei redditi, cui aderirono le organizzazioni sindacali in un quadro macroeconomico che minacciava il default finanziario. Dopo la sostanziale flessione dei primi anni novanta, l’indicatore presenta un andamento stabile nel tempo per oltre dieci anni. La crescita del potere d’acquisto delle retribuzioni si muove difatti all’interno degli spazi ristretti concessi dalla scarsa crescita economica realizzata. Si può in altri termini affermare che, dopo l’aggiustamento, il comportamento dei salari si muove lungo un sentiero di stabilità, costituendo il loro andamento essenzialmente l’esito delle debolezze del sistema economico in generale.
200 Grafico 12 ­ salari reali Italia ­ salari reali 120 110 100 90 80 70 60 1970 1975 1980 1985 1990 1995 2000 2005 Indice 1990 = 100; retribuzioni di fatto deflazionate con il deflatore dei consumi delle famiglie Grafico 13 ­ produttività Italia ­ Produttività del lavoro 120 110 100 90 80 70 60 1970 1975 1980 1985 1990 1995 Indice 1990 = 100 valore aggiunto al costo dei fattori per unità di lavoro
201 2000 2005 Grafico 14 ­ moderazione salariale Italia ­ Indice di moderazione salariale 110 105 100 95 90 85 80 1970 1975 1980 1985 1990 1995 2000 2005 Indice 1990 = 100 rapporto fra salari reali e produttività del lavoro 2.3 Un possibile bilancio del Protocollo del 1993: una nuova contestualizzazione della politica dei redditi L’analisi del precedente paragrafo ci ha portati a concludere che i deludenti risultati che emergono guardando ai dati sull’evoluzione dei salari riflettono in buona misura le tendenze che stanno caratterizzando il sistema economico in aggregato, a cui non sono del tutto estranei elementi specifici dei meccanismo di determinazione dei livelli salariali. Ciò non di meno resta il fatto che oggi si guarda con preoccupazione alle tendenze che caratterizzano la dinamica retributiva. Questo presumibilmente anche alla luce del fatto che il riaggiustamento della prima metà degli anni novanta, compiuto anche in un clima di condivisa moderazione salariale, avrebbe potuto rappresentare la premessa per una successiva fase di ripresa dell’economia. Questa aspettativa rappresenta un punto importante che occorre tenere a mente per interpretare il dibattito in corso da tempo sulla riforma del nostro sistema contrattuale. L’interpretazione del nesso che lega il riaggiustamento dei primi anni novanta con l’evoluzione successiva costituisce uno spartiacque delle diverse posizioni e giudizi che in seguito sono venuti maturando. 2.3.1 Il riferimento all’inflazione Senza dubbio l’obiettivo primario di quegli anni era quello di riportare le dinamiche inflative su valori che ci avrebbero consentito di qualificarci per l’adesione alla moneta comune. Lo strumento, ampiamente noto, era quello di predeterminare l’inflazione, legando i riadeguamenti salariali a questa “regolazione istituzionale” delle attese. Definire un tasso programmato di inflazione costituiva un modo per mettersi d’accordo circa quale crescita dei prezzi futura incorporare nelle negoziazioni collettive. Pur dopo un avvio non così facile, specialmente in connessione con la risalita inflazionistica del 1995, gli obiettivi su questo versante sono stati raggiunti. La crescita dei prezzi del nostro paese, in buona sostanza, si è andata riallineando a quella dei principali partner comunitari, garantendo il
202 riaggiustamento “nominale” del sistema. Tuttavia, il fatto che durante il riaggiustamento nominale, costituto da uno spostamento verso il basso della crescita dei prezzi e dei salari, si sarebbe prodotto anche il riaggiustamento reale mostrato nei grafici precedenti, non era così tanto nell’orizzonte degli sviluppi prevedibili o, quantomeno, attesi. All’epoca le dimensioni di tale riaggiustamento non risultarono così chiare o, forse, furono interpretate come un risultato di breve periodo del nuovo sistema di regolazione contrattuale. Nondimeno, una volta che tale riaggiustamento reale si era prodotto, era lecito coltivare la speranza che, a partire da basi nuove, il sistema avrebbe potuto garantire nel corso del tempo qualcosa di meglio di una prolungata stagnazione dei salari reali. C’è chi ha visto un nesso importante fra la moderazione salariale connessa al meccanismo di politica dei redditi e gli esiti successivi. L’assenza del “pungolo salariale” avrebbe adagiato il sistema su di un sentiero di bassa crescita della produttività 4 . Nei paragrafi precedenti si è tentato di mostrare come successivamente agli anni ’90 siano intervenuti elementi nuovi che hanno profondamente modificato il quadro esterno con il quale il sistema di relazioni industriali ha dovuto confrontarsi. L’impressione è che i problemi di fondo vengano da più lontano, sia nel tempo che nello spazio. Questo certamente non significa che l’adeguamento del sistema di relazioni industriali non sia fra gli elementi che più possono contribuire a determinare migliori assetti per affrontare le sfide di oggi. In effetti da tempo è opinione abbastanza diffusa fra gli esperti che il complesso meccanismo uscito dall’Accordo del ’93 sia oggi abbastanza desueto 5 . Secondo questa linea di pensiero, predeterminare un’inflazione interna non è più necessario e non ha molto senso. In un contesto di moneta unica, venuta meno la scappatoia della svalutazione, la pressione esercitata dalle forze di mercato è più che sufficiente a governare le dinamiche nominali. D’altro canto, per i settori meno esposti alla concorrenza, la politica dei redditi non è mai stata molto efficace mentre sarebbe più promettente battere con convinzione ed incisività la strada delle liberalizzazioni. In sede propositiva si auspica poi che le negoziazioni salariali possano poi riferirsi ad una qualche indicazione di inflazione europea. L’ipotesi è stimolante, anche se si tratta di capire, da un punto di vista applicativo, quale misura di inflazione europea adottare. Resta da capire quanto si pensa d’indirizzarsi ad una misura che abbia natura di obiettivo anche per la Bce (come auspicabile in termini di coordinamento dei diversi livelli di politica economica), o quanto si accetti d’incorporare anche altri elementi connessi all’andamento prevedibile dell’evoluzione effettiva. Nel primo caso occorre superare il fatto che non esiste in via esplicita un obiettivo espresso puntualmente dalla Bce stessa. Nel secondo caso va richiamata l’attenzione sulla fiammata inflazionistica che nel corso del 2008 ha attraversato tutta l’Europa, con tassi di crescita dei prezzi, su valori superiori all’obiettivo della Bce. A questo proposito si deve ricordare che la pratica applicativa ha già modificato nel rinnovo del CCNL di diversi comparti, il riferimento al TIP, introducendo piuttosto un concetto di “inflazione concordata”, abbastanza vicino ai più elevati valori di fatto. Occorre vedere, in presenza di un eventuale ripresentarsi di spinte inflattive, quanto sarà possibile concordare fra le parti sociali un valore sostenibile. Nell’esperienza del 2008, la risalita dei prezzi proveniva inoltre, in massima parte, da beni che costituiscono consumi primari delle famiglie. Il recente Documento Unitario della OO.SS. va in una direzione chiara, richiamando esplicitamente un concetto di “inflazione realisticamente prevedibile”. Che questa rappresenti una opzione desiderabile da parte sindacale non stupisce. Colpisce piuttosto un altro fatto. Sino a tutto il 2007, quando si reputava che un’elevata inflazione dovesse ormai appartenere ai ricordi del passato, grazie anche all’appartenenza ad un’ampia area monetaria presidiata da una Banca centrale massimamente attenta alla stabilità dei prezzi, nel dibattito corrente era assente il richiamo ad un concetto fondamentale dell’Accordo del ’93. Predeterminare l’inflazione significava uscire da un mondo di pressoché totale indicizzazione dei 4 5 Si veda, ad esempio L. Tronti (2005) Si veda ad esempio T. Boeri e G. Bertola (2002)
203 salari, lasciarsi alla spalle qualsiasi idea di “scala mobile” ed estirpare alla radice la possibilità che si innescassero spirali prezzi­salari. Significava accettare l’idea che non fosse possibile riconoscere ai salari la componente di inflazione importata come peraltro lo stesso Accordo ’93 prevedeva. Come già accennato, è probabile che un lungo periodo di bassa crescita dei prezzi abbia fatto passare in secondo piano questo ordine di problematiche. In effetti, in molti casi l’ordine di grandezza dell’eventuale depurazione per l’inflazione importata si quantificava in pochi decimi di punto percentuale. La lezione di Tarantelli pareva additare un pericolo che era stata efficacemente scongiurato dal nuovo assetto monetario, nonché dalle pressioni competitive di un mondo decisamente più globalizzato. Certamente l’impossibilità di svalutare non consente alla spirale prezzi­salari di avvitarsi. Nondimeno può determinarsi un fenomeno meno eclatante – e per questo forse più insidioso – rappresentato dalla tendenza a produrre marginalmente, ma in via continuativa, più inflazione dei partner commerciali, qualcosa di somigliante ad una impercettibile deriva che progressivamente toglie competitività al paese e si riflette sui livelli di attivazione economica e quindi sull’occupazione. Nel 2008 tale questione era riapparsa in tutta la sua portata. Uno shock proveniente da una forte accelerazione di domanda mondiale, che per i paesi europei ha assunto le sembianze di uno shock da offerta sulle materie prime ha prodotto una repentina risalita dell’inflazione. Ciò ha colto impreparati molti osservatori ed ha posto sul campo la questione di capire quale valore di inflazione incorporeranno le prossime piattaforme rivendicative e come si differenzieranno, in ordine a tale aspetto, le diverse economie europee. Di seguito, la crisi finanziaria mondiale ha di nuovo mutato i parametri di riferimento, indicando come sia necessario orientarsi verso meccanismi di regolazione capaci di funzionare a prescindere dalla fase specifica attraversata dall’economia globalizzata. Tanto più che non va neanche escluso a priori quanto paventato dagli scenari più pessimisti che per i prossimi anni contemplato addirittura il materializzarsi di fasi di deflazione, sulla scorta di quanto accaduto, ad esempio, nell’esperienza della crisi del Giappone degli anni novanta. Si tratterebbe di un nuovo capovolgimento dello scenario macroeconomico che fa da sfondo alle politiche salariali. 2.3.2 I due livelli di contrattazione La questione di quale sia il parametro di inflazione da utilizzare a livello di CCNL si lega all’altra tematica, quella del peso e ruolo da riservare ai due livelli della contrattazione. E qui si giunge a problematiche più immediatamente avvertite da imprese e sindacati. L’insoddisfazione per il modello nato con l’Accordo del ’93 è infatti condivisa dalle parti sociali, anche se per motivi non proprio coincidenti. Le OO.SS. lamentano l’incapacità del modello a garantire dinamiche salariali che proteggano dall’erosione del potere d’acquisto e offrano qualche significativo guadagno in termini reali. Tuttavia, anche all’interno del sindacato, le sensibilità non sono omogenee. Alcune componenti ritengono pericoloso depotenziare un punto di sicuro presidio, come il contratto nazionale, per aprire spazi al momento decentrato, in presenza di una sua non agevole esigibilità. Altre si sono mostrate più disposte a spostare il peso della contrattazione verso il II livello. Da parte datoriale è manifestata l’esigenza di avere un sistema di regole contrattuali che possano consentire modifiche ed adattamenti con la stessa velocità con la quale esse vedono evolvere le condizioni di competitività e redditività dei mercati, sempre più ampi, ove operano. Vi è una generale preferenza ad avere più spazio per contrattare in azienda i contenuti specifici del rapporto di lavoro. A molti non sfugge tuttavia l’onerosità (ed i costi) di implementare capacità negoziali a fronte di un tessuto produttivo costituito in larga parte da piccole e medie imprese. In queste condizioni, il contratto nazionale rappresenta un’utile cornice, un servizio svolto centralmente per tutti. Certo, si
204 vorrebbe una cornice non eccessivamente pesante e pervasiva, che lasciasse spazi, ove vi è la possibilità, di erogare in azienda riconoscimenti retributivi a carattere variabile. Le grandi e medie imprese probabilmente accetterebbero di buon grado lo scambio fra un contratto nazionale meno oneroso, che ha fatto un passo indietro, e l’impegno a gestire una contrattazione aziendale. Per le piccole un’esplicita ed esigibile contrattazione aziendale può costituire un peso difficilmente sostenibile e la preferenza è verso un sistema di erogazioni ad personam, non necessariamente unilaterali, a partire dai risultati in termini di redditività aziendale, ma senza l’intervento diretto di una rappresentanza sindacale. Se si escludono realtà produttive marginali, la parte datoriale ha tutto l’interesse di avere maestranze motivate e soddisfatte, ma vorrebbe potere gestire queste erogazioni con la “mano libera”. Su questa strada il sindacato è difficile possa sentirci. L’idea di supplire all’assenza di contrattazione aziendale con un livello territoriale è un’idea che spesso viene riproposta. Innanzitutto sarebbe necessario chiarire quanto il territorio rappresenti un mero fatto geografico, oppure implichi caratteristiche economiche di sostanziale omogeneità fra le imprese, anche se appartenenti allo stesso settore. Vi è poi sempre il rischio potenziale dell’effetto di “sommatoria implicita”: le imprese che fanno contrattazione aziendale si troverebbero di fronte, formalmente, ad un livello nazionale che ha già offerto adeguamenti salariali ed “informalmente” ad un livello territoriale che ha aggiunto qualcosa d’altro. Un risultato poco desiderabile dalla parte datoriale. 2.3.3 Alcune idee innovative dai CCNL Fortunatamente le esperienze concrete mostrano che in alcuni casi le distanze fra le controparti non hanno impedito di trovare modalità di composizione, spesso a forte contenuto innovativo. Gli esempi mostrano, inoltre, come non necessariamente la strada delle riforma del modello debba essere unica. Un primo interessante esempio è quello adottato nei comparti dell’Artigianato, ove il livello territoriale regionale è apparso del tutto adeguato a rappresentare con sufficiente omogeneità le esigenze delle diverse imprese, dello stesso comparto, appartenenti alla medesima regione. Al livello nazionale di categoria (CCNL), di durata quadriennale, si determina l’adeguamento delle retribuzioni nazionali sulla base del TIP, in assenza del quale si fa invece riferimento ad un tasso concordato fra le parti sociali. Alla contrattazione di II livello (CCRL), la cui decorrenza cade a partire dal II biennio, è lasciato il compito di ridistribuire la produttività sulla base di parametri individuati dalle parti, sempre a livello regionale, nonché di provvedere ad integrare la tutela del potere di acquisto in caso di scostamento tra l’inflazione presa a riferimento e quella reale. Il livello nazionale, alla tornata successiva, provvede poi ad inglobare nei minimi nazionali l’eventuale integrazione definita dai CCRL, nonché a garantire la tutela del potere d’acquisto ove non sia intervenuto il livello regionale 6 . Ricordando le tematiche affrontate nel paragrafo precedente, è utile notare che l’Accordo interconfederale del 2004 aveva adottato tassi di inflazione sostanzialmente allineati ai valori di fatto. Va inoltre sottolineato con forza che lo stesso Accordo fissava con precisione su quale base retributiva calcolare i relativi riadeguamenti, vale a dire gli importi di paga­base, ex­contigenza ed EDR in vigore. Questa indicazione offre lo spunto per enfatizzare un elemento davvero centrale dell’intera questione. Un elemento che in molti casi non è stato colto con sufficiente attenzione anche da parte di molti commentatori, pur rappresentando la posta decisiva che si gioca ad ogni tavolo contrattuale 6 Si veda l’Accordo interconfederale del marzo 2004, nonché l’Intesa applicativa del febbraio 2006. Gli Accordi contemplano anche due livelli interconfederali, che si occupano delle più tematiche generali del rapporto di lavoro. Di norma hanno durata illimitata.
205 e che rappresenta lo snodo della riforma del modello contrattuale. A quale parte della retribuzione complessiva si applicano i tassi di inflazione adottati a livello nazionale? In altri termini, su quale quota della retribuzione “ha titolo” il CCNL? Oltre al settore dell’Artigianato, un altro CCNL che presenta un aspetto di forte novità è quello applicato al comparto Metalmeccanico. Con il rinnovo di parte economica siglato nel gennaio 2006 è stato introdotto, in forma sperimentale, un nuovo istituto denominato “elemento perequativo”. Si tratta di un emolumento in cifra fissa che viene erogato interamente ai lavoratori di quelle imprese che non hanno un contrattazione di secondo livello ovvero fino a concorrenza per coloro che presentano in busta paga un valore aggiuntivo rispetto ai salari fissati in sede nazionale, ma inferiore ai 130 euro stessi. E’ evidentemente uno strumento per innalzare il ruolo di garanzia offerto dal CCNL per quei lavoratori che non accedono ad una contrattazione di secondo livello, senza che questo appesantisca il conto per le imprese che invece negoziano a livello aziendale o territoriale. In questo modo il contratto nazionale può spingersi ad offrire di più, in quanto vale implicitamente un meccanismo di assorbimento per coloro che si giocano una quota della busta paga legandola a quanto le imprese è in grado di riconoscere nel momento decentrato. Il risultato è quindi duplice, in quanto, oltre ad offrire una maggiore garanzia complessiva, apre più consistenti spazi per aumenti aziendali legati alla produttività ed alle performance delle aziende. La natura variabile di questi aumenti potrebbe assicurare un rafforzamento del loro ruolo incentivante, andando nella direzione di quanto vorrebbero le aziende e cioè pagare di più ove e quando è possibile, all’interno di una scambio fra impegno profuso e riconoscimenti salariali. E’ evidente che qualora tutti gli aumenti definiti in sede decentrata avessero questo natura, il CCNL fisserebbe solo il livello stipendiale “minimo di garanzia”, come avviene per il contratto della dirigenza. Senza andare verso questo estremo, lo strumento potrebbe essere potenziato. Come è stato sottolineato di recente, la strada sembra essere promettente 7 . In effetti, con il rinnovo successivo il valore monetario dell’elemento perequativo è stato raddoppiato, innalzandolo a 260 euro annuali. La strada sembrerebbe essere quella di ridimensionare quanto garantito dal CCNL come riadeguamento dei tabellari e potenziare invece l’elemento perequativo. Questo ridimensionamento potrebbe essere guidato dall’idea di ridefinire la retribuzione di riferimento utilizzata in sede nazionale, portandola in direzione dei minimi tabellari. A questa quota andrebbe applicato il nuovo tasso di inflazione che si vorrà (e si potrà) trovare al posto del TIP. Per il CCNL dei Metalmeccanici (ma non solo) la retribuzione di riferimento è spesso definita implicitamente in termini di “valore punto”. Cioè di quanto deve essere il riadeguamento retributivo in corrispondenza di un punto percentuale di inflazione. Da un CCNL all’altro, questa grandezza è poi costantemente aggiornata 8 . Per offrire ulteriore spazio all’elemento perequativo, il valore punto potrebbe essere temporaneamente congelato. Questa rimodulazione renderebbe meno aspra l’attuale contesa su quale debba essere l’erede del TIP, con il sindacato che spinge per l’inflazione realisticamente prevedibile, cioè di fatto un valore mediamente non diverso da quello effettivo, e le rappresentanze datoriale che ora paventano un ritorno alla scala mobile. Va anche detto che il sindacato potrebbe acconsentire a spostare l’asse della contrattazione verso il decentramento aziendale e territoriale in questo modo qualora la somma dei riadeguamenti tabellari e dell’elemento perequativo non garantisse meno (o forse qualcosa di più) rispetto alla situazione attuale. 7 C. Dell’Aringa (2007) e Dell’Aringa (2008). Per il settore metalmeccanico tale grandezza è pari a 18.82 euro, che equivale ad una retribuzione di riferimento pari a poco meno di 24 500 euro, cioè oltre il 90% della retribuzione di fatto, come desunto dalla Contabilità nazionale Istat. A partire dal precedente CCNL, con un valore punto di 17.55 si quantifica un aggiornamento superiore al 7%.
8 206 3. I differ enziali r etr ibutivi inter ni 9 Uno dei fenomeni più rilevanti che hanno interessato il mercato del lavoro italiano nell’ultimo decennio è stata la crescita sostenuta dell’occupazione: secondo le stime dell’Istat, il numero complessivo di occupati in Italia è infatti passato da 20,2 milioni nel 1995 ad oltre 23,2 milioni nel 2007, pari ad un saldo netto positivo di quasi 3 milioni di unità. Secondo alcuni recenti studi, questo risultato è stato determinato essenzialmente da due fattori che hanno modificato i prezzi relativi dei fattori produttivi, rendendo il fattore lavoro relativamente più conveniente rispetto al capitale: la moderazione salariale incentivata dalla politica dei redditi degli anni Novanta e la maggior flessibilità introdotta dalle recenti riforme del mercato del lavoro (Brandolini et al., 2007). Come già evidenziato nei capitoli precedenti, il rovescio della medaglia è stata una bassa crescita economica, sostanzialmente determinata da una bassa crescita della produttività, sia del lavoro, sia totale dei fattori. Questo capitolo si pone quindi l’obiettivo di evidenziare l’effetto delle tendenze macroeconomiche sopra discusse sulle differenze salariali interne. L’ipotesi di ricerca è che, nonostante la bassa crescita della produttività (e dei salari) in Italia sia stato un fenomeno che ha in varia misura interessato tutti i settori dell’economia (Daveri e Jona­Lasinio, 2006), le dinamiche retributive possono essere state in realtà molto variegate, andando quindi ad influenzare le differenze esistenti tra diversi gruppi di imprese o lavoratori. Fattori quali la presenza ed il potere sindacale (anche a livello decentrato), la tempistica della contrattazione collettiva, l’incidenza dei contratti flessibili, il minor potere contrattuale di alcune tipologie di lavoratori (quali i giovani al primo impiego, le donne, gli immigrati) possono giustificare dinamiche differenziate nei salari, con categorie che sperimentano una crescita sostenuta dei salari a fianco di gruppi che invece registrano una continua erosione del potere di acquisto della propria remunerazione. La presenza di “vincitori” e “vinti” nell’arena della contrattazione salariale risulta ancora più rilevante se si considera la progressiva diffusione dei contratti temporanei, che hanno di fatto accentuato la dualità del mercato del lavoro italiano (Picchio, 2006). Considerando che i lavoratori assunti con questi contratti si concentrano in alcune fasce della popolazione (giovani, donne, lavoratori poco qualificati), è ragionevole supporre che la progressiva diffusione del lavoro temporaneo abbia prodotto effetti anche sulle differenze retributive di genere, età e titolo di studio. Alla luce di queste considerazioni, nel paragrafo successivo si analizzeranno i differenziali retributivi al variare delle caratteristiche d’impresa, con particolare riguardo alle differenze settoriali e per classi dimensionali. Il paragrafo 3.2 sarà invece dedicato all’analisi delle differenze retributive al variare delle caratteristiche dei lavoratori (quali genere, età, titolo di studio, composizione famigliare, regione, professione). Gli ultimi tre paragrafi presentano degli approfondimenti relativi, rispettivamente, alle differenze retributive per tipologia contrattuale (paragrafo 3.3), di genere (paragrafo 3.4) e per classi d’età (paragrafo 3.5). 3.1 Differenziali salariali e caratteristiche d’impresa Seguendo l’impostazione dei precedenti Rapporti Cnel, in questo paragrafo si analizzano i differenziali salariali al variare delle caratteristiche d’impresa, con particolare attenzione al ruolo del settore di attività economica e alla dimensione. In assenza di dati amministrativi aggiornati su questi aspetti, seguendo l’impostazione del precedente Rapporto, l’analisi si basa sui dati retributivi desumibili dall’Indagine dell’Istat su 9 A cura di Federica Origo, Università degli Studi di Bergamo
207 “Struttura e Competitività del sistema delle imprese industriali e dei servizi” 10 . I dati più aggiornati, pubblicati nell’ottobre 2007, fanno riferimento al 2005. Sulla base di questa fonte, nella tavola 3.1 si riporta l’andamento del differenziale salariale nei principali settori dell’economia rispetto alla media nazionale nel 2002 e nel 2005. La retribuzione di riferimento è quella lorda annua per dipendente. Al fine di cogliere il legame tra differenziali retributivi e di produttività, la tavola presenta anche i differenziali di produttività del lavoro (misurata in termini di valore aggiunto per addetto) stimati con la stessa metodologia. La tavola conferma l’esistenza e la persistenza di rilevanti differenze retributive tra i diversi settori dell’economia, già ampiamente discusse nei precedenti Rapporti. I settori caratterizzati dalle retribuzioni più elevate sono ancora una volta quelli energetici, il chimico, e i trasporti 11 . Pagano salari superiori alla media nazionale (intorno al 20­30%) anche alcuni settori del comparto metalmeccanico, soprattutto quelli a più alta intensità tecnologica e di capitale (come la meccanica, l’elettronica e la fabbricazione di mezzi di trasporto). Retribuzioni inferiori alla media (anche del 30­40%) sono invece pagate nei servizi ad intensità di lavoro e nei settori manifatturieri tradizionali del “Made in Italy”, soprattutto nel tessile, nella lavorazione del legno e del cuoio (per questi ultimi la differenza si attesta intorno al 20%). Le differenze sono complessivamente rilevanti: fatta 100 la media nazionale nel 2005, le retribuzioni passano da poco più di 60 nel settore alberghiero e dell’istruzione ad oltre 150 nel settore energetico (sia della produzione, sia della distribuzione). Naturalmente tali differenze sono in parte giustificate da effetti di composizione determinati, ad esempio, dalla diversa incidenza delle piccole imprese e dalla qualificazione della forza lavoro impiegata. L’evoluzione dei differenziali nel tempo rivela inoltre una lieve crescita delle differenze retributive tra i settori nei tre anni considerati, con un aumento delle differenze tra l’industria e gran parte dei servizi. Il confronto con i differenziali di produttività mostra una chiara correlazione positiva tra questi e i differenziali retributivi: come prevede la teoria economica, i settori caratterizzati da elevati differenziali di produttività sono in entrambi gli anni anche caratterizzati da retribuzioni più elevate 12 . 10 Per una descrizione della fonte si rimanda a Cnel (2004), p. 350; oppure a Istat (2007) Si ricorda che questa indagine si riferisce solo alle imprese a gestione privata, anche dove la denominazione del settore (Istruzione, Sanità, ecc.) richiama una forte presenza dell’operatore pubblico. E’ poi esclusa l’intermediazione finanziaria. Questo spiega perché i trasporti sono l’unico settore dei servizi con retribuzioni superiori alla media nazionale. 12 L’indice di correlazione tra differenziali retributivi e di produttività è pari a 0.84 nel 2002, 0.88 nel 2005.
11 208 Tavola 3.1 ­ Differenziale retributivo e di produttività per settore di attività economica Media economia=100 SETTORI DI ATTIVITA' ECONOMICA Retribuzione annua per dipendente 2002 2005 Valore aggiunto per addetto 2002 2005 Estrazione di minerali Estrazione di minerali energetici Estrazione di minerali non energetici Attivita' manifatturiere Industrie alimentari, delle bevande e del tabacco Industrie tessili e dell'abbigliamento Industrie conciarie, fabbr. prodotti in cuoio Industria del legno e dei prodotti in legno Fabbr. pasta e carta, prod.di carta; stampa ed editoria Fabbr. coke, raffinerie petrolio, trattam. comb. nucleari Fabbr.prodotti chimici e fibre sintetiche e artificiali Fabbr. di articoli in gomma e materie plastiche Fabbr. prodotti da minerali non metalliferi Produzione di metallo e prodotti in metallo Fabbr.macc. e appar.meccanici Fabbr. macchine elettriche e apparecchiature Fabbricazione di mezzi di trasporto Altre industrie manifatturiere Produzione e distribuzione energia elettrica, gas e acqua Industria in senso stretto 140 215 98 107 105 82 80 78 122 198 158 106 105 100 119 117 119 86 162 109 150 233 107 109 101 83 83 82 124 184 162 109 109 104 126 119 122 86 163 111 385 899 150 114 114 85 81 73 143 323 206 126 132 106 129 114 110 86 338 122 450 1108 166 117 111 82 82 78 135 447 204 122 127 113 134 122 124 85 413 127 Costruzioni 83 85 84 82 INDUSTRIA 104 106 113 115 Commercio e riparazioni Alberghi e ristoranti Trasporti, magazzinaggio e comunicazioni Att. imm., nolegg., inform., ricerca, altre attivita' profess. Istruzione Sanita' e altri servizi sociali Altri servizi pubblici, sociali e personali TERZIARIO 92 67 128 95 75 78 98 96 97 62 126 92 63 80 89 95 78 57 150 94 54 83 85 90 83 45 151 95 51 91 73 90 TOTALE Coefficiente di variazione 100 0.358 100 0.383 100 1.666 100 2.129 Fonte: elaborazione su dati Istat, Indagine sulla struttura e competitività del sistema delle imprese industriali e dei servizi La figura 3.1 illustra l’andamento del differenziale retributivo e delle ore lavorate al variare della dimensione d’impresa nel 2002 e nel 2005.
209 Figura 3.1­ Differenziale retributivo e di orario per classe dimensionale, 2002 e 2005 Media nazionale in ciascun anno=100 Retribuzione annua 130 0 120 110 100 2002 90 2005
100 100 100 23 80 70 60 50 1­9 10­19 20­49 50­249 250 e oltre N. addetti Ore lavorate 104 102 100 2002 98 2005 96 94 92 90 1­9 10­19 20­49 50­249 250 e oltre N. addetti Fonte: elaborazione su dati Istat, Indagine sulla struttura e competitività del sistema delle imprese industriali e dei servizi Il primo riquadro conferma l’usuale relazione monotona crescente tra retribuzioni e numero di addetti: fatta 100 la media nazionale nel 2005, le retribuzioni variano da poco più di 70 nelle microimprese ad oltre 124 nelle imprese con almeno 250 addetti. Le retribuzioni risultano inferiori alla media anche nelle imprese con meno di 20 addetti. Queste differenze appaiono piuttosto stabili nel tempo, anche se nell’ultimo anno disponibile sembra essersi verificata una leggera convergenza, a vantaggio soprattutto dei lavoratori nelle imprese da 10 a 50 addetti. Tale convergenza nelle retribuzioni annue non sembra essere stata tuttavia determinata da un aumento relativo delle ore lavorate dai lavoratori nelle piccole imprese: nel periodo in esame, come mostra il secondo riquadro della figura 3.1, il differenziale nelle ore annue di lavoro pro­capite (sempre rispetto alla media nazionale) si è infatti ridotto (o è rimasto costante) nelle imprese con meno di 50 addetti, mentre è aumentato per le imprese medio­grandi. Questa tendenza alla convergenza nelle ore pro­capite lavorate in imprese di diversa dimensione era già stata rilevata nel precedente Rapporto per il periodo 2001­2003. Si noti che, nel 2002­2005, tutte le classi dimensionali sperimentano una riduzione delle ore mediamente lavorate, ma tale riduzione è stata più marcata nelle imprese con meno di 10 addetti (­8%, rispetto a variazioni comprese tra ­1% e ­5% delle altre classi dimensionali). Tenendo presente che le micro­imprese erano inizialmente caratterizzate da orari più lunghi, questa tendenza ha comportato, oltre ad una maggior uguaglianza nelle ore di lavoro pro­ 210 capite al variare della dimensione aziendale, una riduzione delle differenze nei salari orari, le quali risultano nel 2005 di entità paragonabile a quella registrata nelle retribuzioni annue (e riportate nel primo riquadro della figura 3.1). La figura 3.2 illustra le retribuzioni medie annue e il valore aggiunto per addetto (entrambi misurati in migliaia di Euro) al variare della dimensione d’impresa per l’intera economia ed i suoi tre principali macro­settori nel 2005. Figura 3.2 ­ Retribuzioni e produttività per macrosettore e dimensione d'impresa, 2005 VA per addetto Retribuz. per dipendente
80.0 migliaia di euro 70.0 60.0 50.0 40.0 30.0 20.0 totale economia industria costruzioni 250 e oltre 50­249 20­49 10­19 1­9 250 e oltre 50­249 20­49 10­19 1­9 250 e oltre 50­249 20­49 10­19 1­9 250 e oltre 50­249 20­49 10­19 0.0 1­9 10.0 servizi Classe addetti e settore Fonte: elaborazione su dati Istat, Indagine sulla struttura e competitività del sistema delle imprese industriali e dei servizi La figura conferma complessivamente l’esistenza di una relazione positiva tra retribuzioni e produttività anche al variare della dimensione aziendale all’interno di ciascun settore. Tale relazione è tuttavia meno accentuata nei servizi, dove entrambi questi fattori sembrano essere meno influenzati dalla dimensione aziendale, soprattutto a partire dalla imprese con almeno 20 addetti. La maggior dispersione retributiva nell’industria rispetto ai servizi è inoltre affiancata da una maggior dispersione della produttività pro­capite: fatto 100 il valore aggiunto per addetto nelle micro­ imprese di ciascun comparto, il corrispondente valore per le grandi imprese risulta pari a 200 nell’industria, a 150 nei servizi. Come nel precedente Rapporto, anche alla luce dei problemi di competitività del sistema produttivo italiano e della progressiva e continua globalizzazione dei mercati, è infine interessante osservare la relazione esistente tra differenziali retributivi e di produttività delle imprese al variare della loro apertura ai mercati internazionali. Nel precedente Rapporto era già stata sottolineata la rilevanza delle imprese esportatrici nell’industria manifatturiera: nel 2005 esse occupano infatti circa 56% degli addetti (pari a 2,6 milioni) e producono oltre i due terzi del valore aggiunto del settore. La tavola 3.2 presenta i differenziali retributivi e di produttività per classe dimensionale e propensione all’export delle imprese nel 2005, distinguendo tra imprese non esportatrici e quelle esportatrici. Le prime quattro colonne della tavola mostrano l’andamento dei differenziali retributivi e di produttività al crescere della dimensione aziendale all’interno di ciascun gruppo di imprese. Nelle ultime due colonne vengono invece presentati i differenziali tra imprese esportatrici e non esportatrici all’interno di ciascuna classe dimensionale. 211 Tavola 3.2 ­ Differenziali salariali e di produttività per dimensione di impresa e propensione all'export, 2005 VA Classe addetti 1­9 10­19 20­49 50­249 250 e oltre Totale 100.0 128.2 142.5 165.5 195.2 162.4 export retribuzioni 100.0 108.1 123.9 142.9 166.1 142.1 no export VA retribuzioni 100.0 143.1 176.1 235.4 305.5 146.2 100.0 119.7 137.0 166.6 208.0 131.5 export/non export VA retribuzioni 148.8 133.3 120.4 104.6 95.1 165.3 124.3 112.2 112.4 106.6 99.2 134.3 Fonte: elaborazione su dati Istat, Indagine sulla struttura e competitività del sistema delle imprese industriali e dei servizi Le prime colonne della tavola confermano la relazione positiva esistente tra differenziali salariali e di produttività al crescere della dimensione d’impresa. Tale relazione emerge chiaramente sia per le imprese esportatrici che per quelle orientate solo al mercato interno, ma la progressività risulta più marcata nel caso di questo secondo gruppo d’imprese. Ciononostante, le ultime colonne della tavola mostrano che le imprese esportatrici sono caratterizzate da una performance in media migliore rispetto a quella delle aziende orientate esclusivamente al mercato interno. La produttività del lavoro delle imprese esportatrici è infatti nettamente superiore a quella delle imprese non esportatrici (in media del 65%), con differenze rilevanti proprio tra le micro­imprese. Differenziali positivi a favore delle imprese esportatrici, per quanto decrescenti all’aumentare della dimensione, si registrano anche per le altre classi di addetti. Soltanto nelle grandi imprese con 250 addetti e oltre il valore aggiunto per addetto di quelle esportatrici risulta lievemente inferiore a quello delle non esportatrici (di circa 5 punti percentuali). Un quadro analogo emerge anche in termini retributivi: nelle piccole e medie imprese esportatrici le retribuzioni per dipendente sono sistematicamente superiori a quelli delle imprese non esportatrici (+24% nelle micro­imprese; +12% in quelle da 10 a 49 addetti). I differenziali salariali tra i due gruppi d’imprese tendono quindi a ridursi con la dimensione aziendale, annullandosi nel caso delle grandi imprese. Le differenze nelle retribuzioni tra i due gruppi sono comunque notevolmente inferiori rispetto ai corrispondenti differenziali di produttività. 3.2 Differenziali salari e caratteristiche dei lavoratori L’andamento dell’occupazione e della produttività registrati in Italia negli ultimi anni hanno probabilmente influenzato anche i differenziali retributivi al variare delle caratteristiche dei lavoratori. Nei precedenti Rapporti Cnel sono già state condotte numerose analisi su questo aspetto sulla base di diverse fonti di natura sia amministrativa che campionaria, peraltro mettendo in evidenza la difficoltà di accesso a dati aggiornati sui salari che fossero anche rappresentativi dell’universo dei lavoratori italiani. In questa edizione del Rapporto la reperibilità di queste informazioni è in parte facilitata dalla disponibilità di una nuova indagine dell’Istat su “Reddito e condizioni di vita” (EU SILC), che fornisce dettagliate informazioni per l’analisi della distribuzione dei redditi, del benessere e della qualità della vita delle famiglie italiane e rappresenta la fonte primaria di dati sull’Italia per le pubblicazioni comunitarie sulla situazione sociale e sulla diffusione della povertà nei paesi dell’Unione. I micro­dati disponibili si riferiscono alle indagini condotte nel 2004 e nel 2005, ciascuna delle quali ha raggiunto circa 20­25 mila famiglie, per un totale di 55­60 mila individui. I dati di reddito
212 fanno riferimento all’anno solare precedente l’indagine (ovvero 2003­2004), ma sono disponibili anche informazioni sui salari mensili riferite all’anno di svolgimento dell’indagine stessa 13 . Rispetto alle altre fonti disponibili per l’analisi dei salari in Italia, questa nuova indagine consente di compiere dettagliate analisi con riferimento non solo alle caratteristiche individuali, ma anche a quelle famigliari. Il campione di riferimento è inoltre molto più ampio di quello rilevato da altre indagini (si pensi, ad esempio, all’indagine sulle famiglie della Banca d’Italia utilizzata nel precedente Rapporto). Risulta infine disponibile una componente longitudinale, al momento composta dagli individui che hanno partecipato all’indagine sia nel 2004, sia nel 2005. A regime, questa componente dovrebbe essere composta da quattro edizioni consecutive di indagine. Sfruttando queste caratteristiche dell’indagine, nelle tavole 3.3­3.5 si presentano i differenziali salariali al variare delle caratteristiche individuali (tavola 3.3), famigliari (tavola 3.4) e del posto di lavoro (tavola 3.4). La figura 3.3 illustra l’entità dei differenziali salariali territoriali. Tavola 3.3 ­ Differenziali retributivi al variare delle caratteristiche dei lavoratori, 2005 Retribuzione mensile lorda netta Retribuzione oraria netta Genere (Uomini=100) Donne 75.5 76.8 92.4 Età (15­24=100) 25­29 30­39 40­49 50­59 60 e oltre 124.7 150.2 170.5 190.2 189.2 122.1 142.0 159.1 173.7 173.1 123.1 144.7 163.4 183.3 196.3 Titolo di studio (fino a licenza elementare =100) Licenza media Formazione professionale (2­3 anni) Diploma di scuola superiore 107.2 118.6 126.1 106.6 114.5 120.6 106.5 116.3 123.8 Laurea Specializzazione post­laurea 174.2 247.8 159.9 217.9 176.9 212.1 Stato civile (single=100) Coniugato/a o convivente Separato/a o divorziato/a Vedovo/a 128.5 117.6 109.6 125.4 115.7 108.0 128.5 117.3 121.0 Figli conviventi coi genitori 93.5 94.6 95.1 1753.36 1254.13 8.44 Totale (Euro) Fonte: elaborazioni su dati Istat, Indagine sulle condizioni di vita (IT­SILC XUDB 2005 ­ versione Novembre 2007) 13 Per ulteriori dettagli tecnici si rimanda alla pagina del sito dell’Istat contenente informazioni sull’indagine e sui questionari utilizzati: http://www.istat.it/strumenti/rispondenti/indagini/famiglia_societa/eusilc/
213 I differenziali riportati sono stati calcolati sulla base delle retribuzioni mensili del 2005 (comprensive di compensi per lavoro straordinario) 14 . L’indagine consente di esaminare diverse misure salariali. Per tener conto dell’effetto sia del cuneo fiscale, sia dell’orario di lavoro, nelle tavole si riportano i differenziali salariali calcolati sulla base delle retribuzioni mensili lorde e nette e della retribuzione oraria netta. Si tratta di retribuzioni percepite dai lavoratori dipendenti. La tavola 3.3 presenta i differenziali retributivi di genere, per classi d’età, per titolo di studio e per stato civile. La tavola evidenzia notevoli differenze nei salari al variare del genere, dell’età e del livello di istruzione dei lavoratori. Nel 2005 la retribuzione mensile delle donne è di quasi 25 punti percentuali inferiore a quella degli uomini. Come già evidenziato nei precedenti Rapporti, parte di questa differenza è però spiegata dal diverso numero di ore lavorate, dal momento che il differenziale in termini di salario orario si riduce a poco più del 7% 15 . I differenziali per classi d’età evidenziano il ruolo giocato dall’esperienza e dall’anzianità di servizio nella determinazione dei salari: fatta 100 la retribuzione lorda mensile dei più giovani nel 2005 (15­24 anni), la retribuzione sale a 125 per i lavoratori tra 25 ed i 29 anni, ad oltre 150 per i trentenni, a 170 per gli occupati quarantenni, a circa 190 per i lavoratori ultracinquantenni. Le differenze risultano ancora più marcate in termini di retribuzione oraria, evidenziando che di fatto i giovani occupati lavorano orari più lunghi dei lavoratori più anziani (probabilmente anche per compensare la bassa retribuzione oraria) ed in Italia la pratica di coniugare lavoro e studio risulta ancora relativamente poco diffusa 16 . L’analisi dei differenziali per livelli d’istruzione conferma il ruolo delle competenze e della conoscenza nell’influenzare i salari, evidenziando l’importanza di conseguire un titolo oltre la scuola dell’obbligo in termini di ritorni salariali. Mentre la retribuzione netta mensile dei lavoratori con la licenza di scuola media è di poco superiore rispetto ai lavoratori senza titolo di studio o con la licenza di scuola elementare, rispetto a quest’ultimo gruppo la retribuzione degli occupati che possiedono un diploma di scuola superiore è del 20% più elevata; tale differenziale sale al 60% per i laureati. Il differenziale salariale risulta particolarmente elevato per i lavoratori con una specializzazione post­lauream, che arrivano a percepire più del doppio rispetto a lavoratori con bassi titoli di studio (ma anche oltre il 30% rispetto ai laureati) 17 . Differenze simili emergono anche in termini di salari orari. La tavola 3.3 evidenzia infine che anche lo stato civile sembra rilevante in termini di differenze retributive, con retribuzioni relativamente più elevate per i lavoratori coniugati (25% in più rispetto ai single) e retribuzioni più contenute per i figli ancora conviventi con i genitori (20% in meno rispetto alla media nazionale). Il ruolo della famiglia (e della sua ricchezza complessiva) nell’influenzare le differenze salariali è particolarmente evidente nella tavola 3.4, che mostra come la retribuzione dei lavoratori tenda a crescere con il numero di figli della famiglia di riferimento, suggerendo che ora in Italia, a differenza di quanto avvenuto in passato, la scelta di fare più figli è direttamente correlata al reddito (da lavoro) percepito. 14 Più nel dettaglio, gli intervistati sono invitati a dichiarare la propria retribuzione mensile comprensiva di eventuali compensi per lavoro straordinario al momento dell’indagine. Poiché le interviste sono state effettuate nei mesi di ottobre e novembre del 2005, le retribuzioni in esame fanno riferimento a questo periodo. 15 Si rimanda al paragrafo 3.4 per un’analisi più dettagliata sui differenziali di genere. 16 Secondo i dati pubblicati dalla Commissione Europea (2007), nel 2006 meno del 5% dei giovani tra i 15 ed i 24 anni in Italia sono studenti­lavoratori, rispetto ad una media EU­27 superiore al 10% e a quote ancora più rilevanti (intorno al 40%) registrate in Olanda e Danimarca. 17 Va tuttavia osservato che questi lavoratori costituiscono poco più dell’1% dell’occupazione complessiva.
214 Tavola 3.4 ­ Differenziali retributivi al variare delle caratteristiche famigliari, 2005 Retribuzione mensile lorda netta Retribuzione oraria netta Tipologia famigliare (single=100) Coppia senza figli, entrambi meno di 65 anni Coppia senza figli, almeno uno più di 65 anni Altre tipologie di coppie senza figli a carico Genitore single con figli a carico Coppia con un figlio 97.8 101.3 87.4 91.0 104.8 96.9 100.1 88.4 93.0 103.8 97.3 109.2 89.2 101.1 104.6 Coppia con due figli Coppia con tre o più figli Altre tipologie faigliari 113.7 119.6 88.1 113.3 119.2 91.4 115.8 124.4 93.6 Per reddito famigliare (fimo al 10mo percentile=100) 10­25mo percentile 25­mediana mediana­75mo percentile 75­90mo percentile sopra il 90mo percentile 129.5 145.2 157.4 183.5 254.4 124.6 137.6 145.0 165.9 217.0 119.4 133.6 142.3 162.0 204.2 Per indicatore di povertà (al di sopra del 60% del reddito famigliare mediano=100) sotto la soglia di povertà 63.0 69.9 71.1 Per condizione abitativa (casa di proprietà=100) in affitto o subaffitto in usufrutto ad uso gratuito 83.2 87.6 88.1 86.5 89.1 89.7 84.4 87.9 89.0 1753.36 1254.13 8.44 Totale (Euro) Fonte: elaborazioni su dati Istat, Indagine sulle condizioni di vita (IT­SILC XUDB 2005 ­ versione Novembre 2007) La tavola evidenzia inoltre una chiara correlazione positiva tra retribuzioni individuali e reddito famigliare complessivo: fatta 100 la retribuzione mensile netta dei lavoratori delle famiglie più povere, la retribuzione sala a 137 per i lavoratori in famiglie con reddito medio­basso (tra il venticinquesimo percentile e la mediana della distribuzione del reddito famigliare), a 145 per quelli in famiglie con reddito medio­alto (appena sopra la mediana), ad oltre 200 per i lavoratori nelle famiglie più ricche. Le differenze salariali risultano rilevanti anche se si fa riferimento alla soglia di povertà (in base alla quale una famiglia è considerata “povera” se ha un reddito complessivo inferiore al 60% del valore mediano). I lavoratori in famiglie al di sotto di tale soglia sono infatti caratterizzati da retribuzioni del 30% più basse rispetto agli individui in famiglie al di sopra della soglia di povertà. Questo risultato potrebbe indicare sia che il reddito da lavoro è un elemento fondamentale per la costituzione della ricchezza famigliare (con la presenza di un unico – o principale – percettore di elevati redditi che determina la quota più rilevante del reddito famigliare), ma anche che ci sia una sorta di “matching positivo” nei matrimoni, determinato dal fatto che gli individui tendono ad accoppiarsi con individui simili in termini di status sociale, reddito e livello d’istruzione (Fernandez et al., 2005), con conseguenti effetti moltiplicatori sul reddito famigliare.
215 La tavola mostra infine una chiara correlazione tra reddito da lavoro ed altre forme di ricchezza famigliare, in particolare di natura immobiliare: le retribuzioni percepite da lavoratori che pagano un affitto sono infatti del 15% inferiori rispetto ai lavoratori con case di proprietà. La figura 3.3, fatta 100 la media nazionale delle retribuzioni mensili nette, illustra l’andamento dei differenziali retributivi territoriali. Per ciascuna regione viene riportato anche un indicatore di disuguaglianza interna (indice di Gini 18 ). Figura 3.3 ­ Differenziali retributivi ed Indice di Gini per regione, 2005 w netta gini coeff
115 0.3 110 0.25 105 0.2 100 0.15 95 0.1 90 0.05 80 0 P
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85 Fonte: elaborazioni su dati Istat, Indagine sulle condizioni di vita (IT­SILC XUDB 2005 ­ versione Novembre 2007) La figura mostra l’esistenza di differenze nei salari medi delle regioni italiane non solo tra il Nord ed il Sud del Paese, ma anche all’interno di ciascuna ripartizione geografica. Pagano salari mediamente superiori della media nazionale solo alcune regioni del Nord (Piemonte, Valle d’Aosta, Lombardia, Trentino Alto Adige ed Emilia Romagna) ed il Lazio. Le retribuzioni sono vicine alla media nazionale per le restanti regioni settentrionali, mentre risultano relativamente basse in quasi tutte le regioni del Sud ed in alcune regioni dei centro (Umbria e Marche). Il Lazio, data l’incidenza del settore pubblico e dei servizi, continua ad essere (insieme a Lombardia e Valle d’Aosta) la regione caratterizzata dalle retribuzioni medie più elevate (il 10% in più della media nazionale). All’estremo opposto della graduatoria, la Calabria registra retribuzioni del 15% inferiori rispetto alla media nazionale. L’indice di disuguaglianza dei redditi interni risulta tuttavia simile nelle due regioni; più in generale, non sembra esservi una forte correlazione positiva tra livello medio delle retribuzioni e indice di disuguaglianza interna. La tavola 3.5 riporta i differenziali retributivi al variare delle caratteristiche del posto di lavoro, con particolare attenzione al settore (pubblico o privato), alla qualifica professionale, alla tipologia del contratto di lavoro ed all’esperienza lavorativa. I dati in essa riportati confermano, anche in questo caso, una serie di risultati già emersi nei precedenti Rapporti, ovvero il premio salariale corrisposto dal settore pubblico (intorno al 20%, ma che può superare anche il 35% quando si considerano le retribuzioni orarie) e l’esistenza di una relazione monotona positiva tra retribuzioni e sia qualifica, sia esperienza lavorativa. In particolare, risulta che nel 2005 gli impiegati guadagnano in media al 18 Si ricorda che questo indicatore di concentrazione assume valore 1 in caso di concentrazione massima (in questo caso, un solo individuo percepisce tutto il reddito da lavoro della regione), valore 0 in caso di concentrazione nulla (tutti gli individui percepiscono lo stesso reddito). 216 mese (in termini di retribuzione netta) il 20% in più degli operai ed i quadri oltre il 70% in più rispetto a questi ultimi. Le retribuzioni dei dirigenti sono oltre due volte e mezzo più elevate di quelle medie percepite dagli operai. Differenze analoghe si registrano in termini di salari orari. Con riferimento all’esperienza lavorativa, i dati evidenziano come quest’ultima inizi veramente a “pagare” soprattutto dopo i primi cinque anni di lavoro. Fatta 100 la retribuzione mensile netta dei lavoratori con meno di un anno di esperienza lavorativa, la retribuzione risulta pari a 104 per i lavoratori con 2­3 anni di lavoro, 109 per quelli con 4­5 anni di lavoro, 123 per i lavoratori con 6­10 anni e 147 per i lavoratori con oltre 10 anni di esperienza. I bassi ritorni dell’esperienza nei primi anni di lavoro potrebbero in realtà nascondere degli effetti di coorte, dal momento che i giovani che entrano in questi anni del mercato del lavoro sono caratterizzati da salari di ingresso relativamente più bassi rispetto a quelli percepiti in condizioni analoghe dalla generazione precedente 19 . L’analisi basata sulla variabile continua mostra inoltre che la relazione tra esperienza lavorativa e salari non è perfettamente lineare ma, come anche prevede la teoria economica, tende a decrescere in corrispondenza di esperienze lavorative relativamente lunghe (ovvero, oltre i 33 anni di lavoro) 20 . Tavola 3.5 ­ Differenziali retributivi al variare delle caratteristiche del posto di lavoro, 2005 Retribuzione mensile lorda netta Retribuzione oraria netta Settore (privato=100) Pubblico 119.7 117.9 137.9 Professione (operaio=100) Apprendista Impiegato 68.7 126.9 72.9 121.6 75.4 133.0 Quadro Dirigente 187.8 307.6 172.8 262.8 178.3 237.7 Durata del contratto (permanente=100) Temporaneo 67.3 72.3 78.5 Orario di lavoro (full­time=100) Part­time 52.0 55.8 88.0 Esperienza lavorativa (fino a 1 anno=100) 2­3 anni 4­5 anni 6­10 anni Oltre 10 anni 102.9 109.1 124.1 153.5 104.2 109.4 122.8 146.8 102.7 110.3 123.9 146.9 1753.36 1254.13 8.44 Totale (Euro) Fonte: elaborazioni su dati Istat, Indagine sulle condizioni di vita (IT­SILC XUDB 2005 ­ versione Novembre 2007) La tavola evidenzia infine l’esistenza di una significativa penalizzazione salariale associata ai contratti atipici, siano essi temporanei o part­time: la retribuzione oraria dei lavoratori temporanei risulta di oltre il 20% più bassa rispetto a quella dei lavoratori permanenti, mentre i lavoratori part­ time percepiscono salari orari di oltre il 10% inferiori rispetto a quelli dei lavoratori full­time. Naturalmente, le differenze risultano amplificate – soprattutto nel caso dei contratti part­time – se si 19 20 Sui differenziali salariali intergenerazionali si ritornerà nel paragrafo 3.5. Gli anni medi di esperienza lavorativa sono 22. Oltre i 33 anni si trova circa il 25% dei lavoratori
217 considerano le retribuzioni mensili, che risentono del numero di ore lavorate. Va inoltre evidenziato che queste differenze sono solo in parte spiegate da effetti di composizione, ovvero dal fatto che i lavoratori atipici, rispetto ai lavoratori standard, possano essere meno qualificati, avere meno esperienza lavorativa od essere maggiormente concentrati in settori/professioni caratterizzati da bassi salari. Anche a parità di caratteristiche osservabili quali sesso, età, titolo di studio, stato civile, ore di lavoro, esperienza lavorativa, settore, dimensione d’impresa e regione, le retribuzioni dei lavoratori temporanei risultano essere inferiori del 10% rispetto ai lavoratori con contratti a tempo indeterminato. L’analisi sin qui condotta, essendo basata su dati di natura cross­sezionale, offre una “fotografia” dei differenziali salariali in Italia. La disponibilità di questi dati per diversi anni, così come effettuato nel precedente Rapporto sulla base dei dati individuali di Banca d’Italia, consente anche di analizzare l’evoluzione dei differenziali nel tempo. Nel caso della nuova indagine di fonte Istat, la disponibilità di una componente longitudinale consente di approfondire ulteriormente l’analisi di natura dinamica, studiando se ed in che la distribuzione dei salari è caratterizzata da una certa mobilità nel breve periodo. In particolare, si vuole analizzare se, data la distribuzione dei salari individuali nell’anno t­1, i lavoratori permangono nella stessa posizione della distribuzione nell’anno t o, piuttosto, si muovono lungo tale distribuzione (verso l’alto o verso il basso). La tavola 3.6 presenta una prima analisi della mobilità salariale di breve periodo in Italia. Gli assi della tavola riportano la distribuzione del reddito da lavoro netto annuo nell’anno t­1 (nel nostro caso, il 2003) e nell’anno t (il 2004) 21 . In ciascun anno, la distribuzione è caratterizzata da una serie di percentili significativi. Ciascuna cella presenta la quota di lavoratori che si trovano in un determinato punto della distribuzione del reddito nei due anni; trattandosi di percentuali di riga, ciascun numero indica la posizione dei lavoratori nella distribuzione salariale nel 2004 data la loro posizione relativa nel 2003. Ad esempio, il primo numero in alto a sinistra indica la quota di lavoratori nel primo decile della distribuzione nel 2003 che si trova nella stessa parte della distribuzione nel 2004 22 . La diagonale principale fornisce indicazioni sull’entità della quota di lavoratori relativamente immobili, ovvero che occupano la stessa parte della distribuzione nei due anni considerati 23 . La tavola evidenzia nel complesso una certa mobilità nella distribuzione dei salari, soprattutto nella parte medio­bassa della distribuzione. Ad esempio, circa il 40% dei lavoratori appartenenti al primo decile della distribuzione dei salari vede migliorare la propria posizione relativa nell’anno successivo, in oltre il 13% dei casi avvicinandosi al (o superando il) valore mediano. D’altro canto, sembra emerge anche una certa mobilità verso il basso, anche nella parte della distribuzione al di sotto della mediana: ad esempio, un lavoratore su cinque tra quelli dal decimo al venticinquesimo percentile della distribuzione nel 2003 si trova nel primo decile della distribuzione del 2004. Vedono inoltre peggiorare la loro posizione relativa circa il 16% dei lavoratori appena sotto la mediana nel 2003 ed il 20­25% di coloro che stanno nella parte medio­alta della distribuzione nel 2003. 21 Si ricorda che le indagini, seppur condotte, rispettivamente, nel 2004 e 2005, rilevano il reddito annuo riferito all’anno precedente l’indagine. Nella componente longitudinale non è disponibile l’informazione sui salari mensili al momento dell’indagine. 22 Data la metodologia di costruzione della tavola, in essa sono inclusi solo i lavoratori occupati in entrambi gli anni: non vengono quindi considerati i nuovi ingressi nel lavoro ed eventuali uscite (verso la disoccupazione o l’inattività). 23 Trattandosi di misure relative, l’immobilità relativa non implica necessariamente un’immobilità in termini assoluti: un lavoratore può quindi occupare la stessa posizione nella distribuzione dei salari pur sperimentando un aumento della propria retribuzione (fintantoché tutta la distribuzione è caratterizzata da simili incrementi).
218 Tavola 3.6 ­ La mobilità salariale di breve periodo % di riga 0­10 Distribuzione del reddito 2004 (percentili) 10­25 25­50 50­75 75­90 90­100 Total Distribuzione del reddito 2003 (percentili) 0­10 10­25 25­50 50­75 75­90 90­100 59.4 20.5 3.1 1.6 1.2 1.0 27.0 54.8 12.8 2.2 1.9 1.3 8.9 17.8 64.1 15.5 3.5 2.1 3.4 5.1 16.7 65.1 18.9 4.5 1.2 1.0 2.3 12.4 62.5 13.8 0.1 0.8 1.0 3.3 12.0 77.2 100 100 100 100 100 100 Totale 2004 10.3 15.2 24.3 24.9 14.7 10.7 100 Fonte: elaborazioni su dati Istat, Indagine sulle condizioni di vita (EU­SILC, componente longitudinale) Nei confronti internazionali sulla mobilità salariale l’Italia figura tradizionalmente tra i paesi relativamente più rigidi: gli studi riferiti agli anni ’80 e alla prima metà degli anni ’90 generalmente non registrano transizioni tra classi salariali di particolare entità ed il grado complessivo di mobilità, anche in un orizzonte temporale esteso, appare inferiore rispetto a quello prevalente in altri paesi industrializzati (Cappellari, 2003). Studi più recenti che estendono l’analisi a fine anni ’90 concludono invece che, nonostante le rigidità che contraddistinguono il mercato del lavoro italiano rispetto a quelli di altri paesi OCSE, anche nel nostro paese è visibile una non trascurabile mobilità salariale ed un certo grado di discrezionalità nelle politiche retributive a livello d’impresa (soprattutto nelle imprese medio­grandi, che spesso contrattano a livello locale salari più elevati rispetto a quanto stabilito dai contratti nazionali di settore). Ciononostante, sembra che questa mobilità sia sostanzialmente determinata da coloro che cambiano lavoro e dai lavoratori all’inizio della propria carriera lavorativa (o comunque caratterizzati da scarsa esperienza di lavoro). Una volta assunti con contratti standard (e stabilizzati in una certa impresa), la dinamica salariale sembra essere molto più prevedibile e fortemente determinata dal livello d’inquadramento e dall’anzianità di servizio (Contini et al., 2007). 3.3 Il ruolo della flessibilità contrattuale e salariale Nel precedente Rapporto è già stato sottolineato come la progressiva diffusione dei contratti di lavoro atipici e delle collaborazioni rendano sempre più pressante l’esigenza di includere anche queste forme contrattuali nell’analisi dei differenziali salariali. Un recente studio dell’Isfol basato sui nuovi dati dell’Indagine PLUS 24 (Mandrone, 2008) evidenzia che i lavoratori temporanei in Italia, siano essi dipendenti o collaboratori, rappresentano oltre il 15% dell’occupazione complessiva nel 2006. Si tratta per lo più di lavoratori dipendenti con contratti temporanei (il 9.6% dell’occupazione complessiva), con una scarsa incidenza di alcuni dei nuovi contratti previsti dalla Legge Biagi (ad esempio, il lavoro ripartito e a chiamata rappresentano meno dell’1% dell’occupazione complessiva). Il restante 5.7% di lavoratori temporanei sugli occupati totali è rappresentato dai collaboratori, di cui 1.7% sono collaboratori coordinati e continuativi (i cosiddetti co.co.co.), 1.6% collaboratori occasionali e 2.5% lavoratori a progetto. 24 Questa indagine è stata in parte utilizzata nel precedente Rapporto per l’analisi dei differenziali salariali. Tuttavia, i dati individuali della nuova indagine, riferiti al 2006, non erano purtroppo ancora disponibili al momento della stesura del presente Rapporto.
219 L’incidenza del lavoro temporaneo sale notevolmente se si considerano solo le donne (una su cinque è una lavoratrice dipendente temporanea o una collaboratrice) e soprattutto i giovani (tra i quali uno su tre ha una forma di contratto temporaneo). Nel precedente Rapporto era già stata compiuta una prima analisi delle differenze di reddito al variare delle tipologie contrattuali che includeva anche i collaboratori 25 . L’analisi sinora compiuta nei paragrafi precedenti, limitandosi al lavoro dipendente, ha di fatto escluso queste figure, che nell’indagine EU­SILC sono identificate separatamente sia dal lavoro autonomo propriamente detto, sia dal lavoro dipendente. In questo paragrafo si cerca di colmare questa lacuna, analizzando le differenze nel reddito netto da lavoro annuo 26 al variare di diverse tipologie contrattuali, distinguendo in particolare tra lavoratori dipendenti temporanei e collaboratori. La tavola 3.7 riporta i differenziali di reddito tra i lavoratori dipendenti con contratti standard (ovvero permanente a tempo pieno) ed alcune tipologie di lavoratori “atipici”: i dipendenti con contratti part­time, i dipendenti con contratti temporanei ed i collaboratori, distinguendo questi ultimi tra lavoratori con contratti di collaborazione coordinata e continuativa (i cosiddetti co.co.co) e i collaboratori occasionali. Trattandosi di valori annui, i dati riportati sono naturalmente influenzati dall’orario di lavoro e dal numero di mesi effettivi di lavoro durante l’anno. La tavola riporta inoltre l’andamento dei differenziali per tipologia contrattuale al variare del genere, dell’età, del titolo di studio, del settore e degli anni di esperienza lavorativa. I valori in essa riportati evidenziano che la categoria di lavoratori atipici più svantaggiati da un punto di vista reddituale sono i dipendenti con contratti temporanei, che percepiscono un reddito annuo da lavoro del 40% inferiore rispetto ai dipendenti con contratti standard. Un differenziale simile emerge anche per i dipendenti part­time, suggerendo quindi che le ore annue effettivamente lavorate da un lavoratore dipendente temporaneo, tenuto conto che probabilmente non lavora tutti i mesi dell’anno, non si discostano dal numero di ore lavorate dai dipendenti part­ time. Il differenziale risulta molto più ridotto per i collaboratori occasionali (il cui reddito risulta pari ad 80% del reddito dei lavoratori “standard”), mentre è praticamente nullo nel caso dei collaboratori coordinati e continuativi. La tavola evidenzia tuttavia una notevole eterogeneità al variare delle caratteristiche individuali. In particolare, le collaborazioni sembrano penalizzare maggiormente le donne (rispetto alle dipendenti con contratti a tempo pieno e indeterminato, le collaboratrici percepiscono infatti oltre il 10% in meno se con contratti di co.co.co, quasi il 30% in meno se con contratti di collaborazione occasionale) ed i lavoratori con titoli di studio medio­alti (i laureati con contratti di co.co.co pecepiscono il 25% in meno dei laureati assunti con contratti standard). Non emergono invece differenze rilevanti tra il settore pubblico e privato, se non per un differenziale leggermente più alto a favore dei lavoratori con contratti di co.co.co. nel settore pubblico. Nel complesso i contratti considerati non sembrano invece penalizzare i giovani; anzi, quelli assunti con contratti di collaborazione dichiarano un reddito da lavoro leggermente superiore rispetto ai giovani assunti con contratti a tempo pieno e indeterminato. Rispetto a questi ultimi, il differenziale di reddito risulta più ridotto della media anche nel caso degli altri contratti considerati. 25 Si veda il paragrafo 2.2.1 in De Novellis et al. (2006) Per i collaboratori, data la natura del contratto, non sono disponibili nell’indagine informazioni sulle retribuzioni mensili. Per tutti i lavoratori intervistati l’indagine raccoglie tuttavia dettagliate informazioni sul reddito da lavoro percepito nell’anno precedente l’intervista. Nell’indagine del 2005 sono quindi disponibili informazioni sul reddito da lavoro del 2004.
26 220 Tavola 3.7 – Differenziali di reddito per tipologia contrattuale e caratteristiche individuali Reddito individuale annuo netto da lavoro, 2004. Per ciascuna riga, reddito dei lavoratori dipendenti con contratto a tempo pieno e indeterminato = 100 Totale Dipendenti part­time Dipendenti temporanei Co.co.co. Collaboratori occasionali 57.0 59.8 99.5 80.1 66.0 62.2 60.7 62.1 111.9 87.7 92.5 71.0 62.0 59.1 54.5 58.0 71.5 69.7 57.1 57.5 104.3 97.7 107.6 114.9 88.8 89.0 77.1 77.3 54.0 57.9 71.2 62.0 59.6 57.1 107.8 100.5 75.1 83.6 72.0 88.9 55.1 73.3 59.5 61.9 100.7 105.8 82.2 80.7 55.9 63.9 56.4 56.8 78.7 70.3 66.3 61.1 104.7 97.8 92.9 112.6 88.7 90.4 76.9 83.9 Per genere: Uomini Donne Per età: 15­29 30­39 40­49 50 ed oltre Per titolo di studio: Fino a licenza media CFP o diploma scuola superiore Laurea e post­laurea Per settore: Privato Pubblico Per esperienza lavorativa: Fino ad 1 anno 2­5 anni 6­10 anni Oltre 10 anni Fonte: elaborazioni su dati Istat, Indagine sulle condizioni di vita (IT­SILC XUDB 2005 ­ versione Novembre 2007) Questo risultato è essenzialmente determinato dai salari relativamente bassi percepiti dai giovani assunti con contratti standard (su questo aspetto si tornerà nel paragrafo 3.5). Va inoltre precisato che il reddito netto dei collaboratori non tiene conto di eventuali versamenti per forme di previdenza integrativa, versamenti che dovrebbero essere più cospicui (e più probabili) per questa categoria rispetto ai lavoratori dipendenti dati i ridotti contributi versati direttamente dall’impresa per queste forme contrattuali. 3.4 Salari e carriere lavorative delle donne Il tema delle differenze retributive di genere, come già sottolineato in versioni precedenti di questo Rapporto, costituisce una priorità di intervento nella Strategia di Lisbona e, di conseguenza, anche nell’ambito delle politiche nazionali del lavoro e della formazione. Oltre a fissare un target specifico per il tasso di occupazione femminile al 2010, nel 2006 la Commissione Europea ha definito una “tabella di marcia” relativa agli obiettivi ed alle azioni che gli Stati Membri dovrebbero realizzare nel periodo 2006­2010 per favorire l’effettiva parità tra uomini e donne (Commissione Europea, 2006). Il primo dei sei ambiti prioritari individuati in tale documento consiste proprio nella pari indipendenza economica per le donne e gli uomini. Viene infatti sottolineato che in Europa le donne guadagnano in media il 15% in meno degli uomini (in termini di retribuzione oraria lorda) e tale divario si sta riducendo ad un tasso molto più lento rispetto a quello
221 occupazionale. Il suo persistere è determinato anche da una serie di problemi strutturali, quali la segregazione delle donne in settori, professioni e modalità di lavoro caratterizzati da bassi salari e sistemi di valutazione e di retribuzione discriminanti all’interno delle imprese. La figura 3.4 illustra la posizione relativa dell’Italia per quanto concerne il differenziale salariale di genere (in termini di retribuzione oraria lorda). L’Italia figura tra i paesi europei caratterizzati da differenze retributive di genere più contenute (intorno al 10%), ben al di sotto della media europea e di altri paesi con elevati tassi di occupazione femminile, come la Danimarca, l’Olanda e la Gran Bretagna. Questo risultato non deve però far pensare che non esista una “questione di genere” legata ai salari in Italia. Come evidenziato nel paragrafo 3.2., le differenze possono essere molto più rilevanti se si considerano misure salariali che tengano conto dell’orario di lavoro (come le retribuzioni mensili o annue). Inoltre, il differenziale medio nasconde un’elevata eterogeneità al variare delle caratteristiche dei lavoratori e delle imprese. Figura 3.4 – Differenziale salariale di genere in Europa, 2006 Differenza tra la retribuzione oraria lorda degli uomini e delle donne in percentuale della retribuzione degli uomini Fonte: Commissione Europea, 2008 Col fine di evidenziare questa eterogeneità, la tavola 3.8 riporta il differenziale salariale di genere al variare di alcune caratteristiche dei lavoratori. La tavola evidenzia che il differenziale tende a crescere con l’età, ma anche con il titolo di studio e la qualifica dei lavoratori. In termini di retribuzione oraria, le donne laureate guadagnano infatti il 15% in meno degli uomini con pari titolo di studio e le donne dirigenti oltre il 20% in meno dei colleghi uomini. Le differenze sono ancora più rilevanti se si considerano le retribuzioni mensili. Quindi, anche se non vi sono differenze sostanziali nei salari (orari) dei giovani in ingresso nel mercato del lavoro, possono comunque esservi significative differenze di genere tra i giovani laureati. Con riferimento ai primi anni di carriera lavorativa e focalizzandosi sugli incrementi salariali a seguito di cambiamenti di lavoro, Del Bono e Vuri (2006) evidenziano che le donne sono caratterizzate da incrementi salariali molto più ridotti dei colleghi maschi, soprattutto se si muovono verso imprese di grandi dimensioni. Questo emerge anche nel caso dei cambi di lavoro volontari e non sembra essere direttamente correlato alle scelte di matrimonio o maternità. Il fatto che le donne guadagnino meno degli uomini quando accettano un posto di lavoro nelle grandi imprese potrebbe essere giustificabile dal fatto che le donne sembrano apprezzare più degli uomini certe caratteristiche non monetarie di queste imprese (e dei relativi posti di lavoro) e sono quindi disposte ad accettare minori incrementi salariali pur di lavorare in queste imprese. Anche se non direttamente correlate ai salari, le scelte di vita (come la creazione di una famiglia e la nascita dei figli) potrebbero quindi influenzare il processo di
222 ricerca del posto di lavoro ed il valore che le donne attribuiscono agli aspetti non monetari associati a diversi posti di lavoro, influenzandone attraverso questo canale la carriera lavorativa e la progressione salariale. Tavola 3.8 ­ Differenziali retributivi di genere al variare delle caratteristiche dei lavoratori e del posto di lavoro, 2005 Per ogni gruppo, retribuzione degli uomini =100 Retribuzione mensile lorda netta Retribuzione oraria netta 75.5 76.8 92.4 87.9 87.2 79.4 71.4 71.3 67.9 89.3 87.6 79.6 73.0 72.9 70.6 99.1 96.8 96.6 90.1 89.4 85.5 75.8 70.9 77.1 74.8 65.6 64.2 74.3 72.1 78.3 76.8 68.8 67.0 88.0 86.9 92.4 90.9 85.5 73.8 87.9 71.3 69.9 73.1 61.8 88.5 73.8 71.0 74.7 64.0 97.1 90.2 91.5 89.0 68.0 70.8 80.3 72.5 81.1 86.1 95.0 89.1 70.3 78.7 73.8 70.6 91.3 71.5 79.9 75.4 72.1 95.0 86.7 94.0 89.5 78.7 Permanente Temporaneo 75.8 82.0 76.9 83.5 92.1 101.7 Full­time Part­time 81.0 92.0 81.9 90.4 93.6 99.6 89.1 87.5 84.3 83.2 73.2 91.1 88.7 85.7 82.8 74.6 98.7 98.9 99.8 97.0 91.5 Totale Per età: 15­24 25­29 30­39 40­49 50­59 60 e oltre Per titolo di studio: Fino a licenza elementare Licenza media Formazione professionale (2­3 anni) Diploma di scuola superiore Laurea Specializzazione post­laurea Per stato civile: Single Coniugato/a o convivente senza figli Coniugato/a o convivente con figli Separato/a o divorziato/a Vedovo/a Per settore: Privato Pubblico Per professione: Apprendista Operaio Impiegato Quadro Dirigente Per tipo di contratto: Per esperienza lavorativa: Fino ad 1 anno 2­3 anni 4­5 anni 6­10 anni Oltre 10 anni Fonte: elaborazioni su dati Istat, Indagine sulle condizioni di vita (IT­SILC XUDB 2005 ­ versione Novembre 2007)
223 Questi risultati sono coerenti con il fatto che, come mostra la tavola 3.8, il differenziale di genere risulta più elevato tra i lavoratori coniugati rispetto ai single e tende a crescere con l’esperienza lavorativa. Tra i coniugati, la presenza di figli a carico sembra incrementare leggermente solo il differenziale di genere calcolato sulla base delle retribuzioni mensili, segno che le donne di questa categoria lavorano in media meno ore delle donne coniugate senza figli a carico. In generale le donne, per le loro scelte di maternità e cura della famiglia, sono in media caratterizzate da orari di lavoro più ridotti, periodi di uscita dal mercato del lavoro più lunghi e conseguente anzianità di servizio più ridotta rispetto agli uomini, con effetti evidenti sulle possibilità di carriera e sui profili retributivi medi per genere. A tal riguardo, in un recente studio sulle scelte lavorative delle donne lavoratrici alla nascita di un figlio effettuato sulla base dei micro­ dati di fonte Inps, Pacelli et al. (2007) trovano che la probabilità di uscita dall’occupazione è più elevata per le neo­madri che per le altre donne e si riduce parzialmente solo all’aumentare del capitale umano o della qualità del lavoro e se sono disponibili lavori ad orario ridotto. Le donne quindi non rinunciano al proprio lavoro dopo la nascita di un figlio se percepiscono salari relativamente elevati o se, dopo la nascita del figlio, possono lavorare con un contratto part­time. Se decidono di rimanere occupate, dal punto di vista salariale le neo­madri sono comunque caratterizzate, a parità di altre caratteristiche, da salari significativamente più bassi rispetto alle altre donne senza figli e questo differenziale tende a perdurare nel tempo (anche dopo cinque anni dalla nascita del figlio). La disponibilità di lavori part­time sembra quindi un elemento determinante per disincentivare l’uscita delle donne dal mercato del lavoro e mitigare la penalizzazione salariale associata alla maternità. Con riferimento alla tipologia contrattuale, la tavola 3.8 evidenzia inoltre che il differenziale di genere risulta relativamente più ampio tra i lavoratori con contratti standard (a tempo pieno e indeterminato), rispetto ai lavoratori con contratti atipici. E’ tuttavia interessante osservare che, anche nel caso dei contratti part­time, esiste un differenziale di genere significativo in termini di retribuzioni mensili, determinato dal fatto che, anche per questa categoria, gli uomini tendono comunque a lavorare più ore delle donne. La tavola mostra infine che il differenziale di genere tende ad essere relativamente più elevato nel settore privato rispetto a quello pubblico. In quest’ultimo, le retribuzioni mensili delle donne risultano comunque del 20% inferiori a quelle degli uomini a causa del relativo minor numero di ore lavorate dalle occupate nel settore (poco più di 30 ore settimanali, 6 ore in meno ispetto ai dipendenti uomini dello stesso settore). Con riferimento al settore privato, emerge inoltre un elevato differenziale anche in termini di retribuzione oraria: le donne sono infatti pagate quasi il 15% in meno degli uomini. Questo dato sembra suggerisce l’esistenza di fenomeni di discriminazione di genere nelle imprese private, ma può essere in parte spiegato anche da effetti di composizione (come la maggior concentrazione delle donne nei settori e nelle professioni caratterizzati da bassi salari). La Figura 3.5 evidenzia tuttavia l’esistenza di differenze rilevanti anche all’interno del settore privato.
224 Figura 3.5 – Differenziale retributivo di genere e incidenza dell'occupazione femminile per settore di attività economica, 2005 Retrib. oraria % donne
100 80 60 40 Altri serv. Sanità Istruzione PA Serv. imprese Finanza Trasporti Hotels Commercio Costruzioni Agricoltura 0 Manifattura 20 Fonte: elaborazioni su dati Istat, Indagine sulle condizioni di vita (IT­SILC XUDB 2005 ­ versione Novembre 2007) La retribuzione oraria netta delle donne è infatti di poco inferiore a quella degli uomini nelle costruzioni, nel commercio e nel settore alberghiero, mentre il differenziale di genere supera il 25% in quello finanziario. Il differenziale di genere risulta relativamente elevato anche in un settore a prevalenza pubblico come la sanità e nei servizi sociali e personali (denominati “altri servizi” nella figura). Si tratta tuttavia di settori in cui le donne svolgono mediamente mansioni molto diverse (spesso meno qualificate) rispetto agli uomini (si pensi ai broker finanziari e alle segretarie nel settore finanziario; oppure ai medici ed alle infermiere nella sanità), cosicché parte di questo differenziale può essere dovuto più a fenomeni di segregazione professionale piuttosto che a vera e propria discriminazione salariale. La figura mostra infine che, con l’eccezione del settore dell’istruzione, il differenziale salariale è più elevato proprio nei settori in cui è maggiore la quota di occupazione femminile, suggerendo quindi che il problema della parità retributiva tra uomini e donne nel nostro paese non è circoscritto ai settori in cui le donne sono in netta minoranza. Nel corso di questo paragrafo si è più volte accennato al ruolo degli effetti di composizione nell’influenzare i differenziali salariali tra uomini e donne. Al fine di quantificare il peso di questi effetti nell’influenzare i differenziali osservati, la tavola 3.9 riporta i risultati della scomposizione di Oaxaca applicata alle retribuzioni mensili lorde 27 . 27 Risultati analoghi sono stati ottenuti per le retribuzioni nette. Si ricorda che questa tecnica di scomposizione si basa sulla stima di due equazioni salariali, una per gli uomini e una per le donne, del tipo: logwi=bXi, dove il pedice i indica l’individuo i­esimo. X è un vettore di variabili che colgono le caratteristiche individuali (età, titolo di studio, esperienza, etc.) e del posto di lavoro (settore, dimensione dell’impresa, contratto, orario di lavoro, etc.). Date le caratteristiche medie dei due gruppi ed i coefficienti stimati per le due equazioni, la differenza salariale tra i due gruppi può essere scomposta in due parti: una parte “spiegata” dalla diversa composizione della forza lavoro (in termini di dotazione dei fattori produttivi misurati dal vettore X) ed una parte che coglie la differente remunerazione pagata per il medesimo fattore nei due settori (ovvero la parte “non spiegata” dalle diverse caratteristiche dei due gruppi). Nella letteratura sul differenziale retributivo di genere questo secondo termine rappresenta una misura della discriminazione salariale. Per ulteriori dettagli tecnici, si rimanda ad Oaxaca (1973). 225 Tavola 3.9 ­ Scomposizione di Oaxaca del differenziale di genere Retribuzioni lorde mensili, 2005 % % su totale Differenziale salariale grezzo* Parte non spiegata (discriminazione) 26.6 16.2 100.0 60.9 Parte spiegata da differenze nelle caratteristiche osservabili di cui: orario di lavoro contratto (part­time e temporaneo) settore dimensione d'impresa qualifica titolo di studio altre caratteristiche 10.4 39.1 5.5 6.7 1.0 0.4 ­1.0 ­1.5 ­0.7 20.7 25.2 3.8 1.5 ­3.8 ­5.6 ­2.6 * log(retribuzione uomini) ­ log(retribuzione donne) Le altre caratteristiche includono: età, esperienza lavorativa, stato civile e regione Fonte: elaborazioni su dati Istat, Indagine sulle condizioni di vita (IT­SILC XUDB 2005 ­ versione Novembre 2007) La Tavola evidenzia che meno del 40% del differenziale di genere osservato (pari a 26.6%) è attribuibile a differenze nelle caratteristiche osservabili di uomini e donne. Inoltre, tra i fattori osservabili giocano un ruolo rilevante l’orario di lavoro ed il contratto (soprattutto part­time), che da soli spiegano la quasi totalità degli effetti di composizione. Vi sono inoltre alcuni fattori, quali il titolo di studio e la qualifica, che contribuiscono alla parte spiegata con un segno negativo, che evidenzia come questi effetti di composizione mitighino le differenze salariali di genere. In altri termini, il fatto che, rispetto agli uomini, le donne abbiano in media livelli di istruzione più elevati e siano più concentrate nelle qualifiche intermedie (anche se ancora poco presenti tra quadri e dirigenti) e che queste caratteristiche siano positivamente correlate con i salari fa sì che le differenze salariali mediamente osservate tra uomini e donne siano più ridotte rispetto ad una situazione in cui gli individui avessero le stesse caratteristiche osservabili. 3.5 Le differenze generazionali ed il ruolo dell’età Nel paragrafo 3.2 è già stato menzionato l’effetto positivo dell’età dei lavoratori sui salari: in Italia nel 2005 i lavoratori ultracinquantenni guadagnavano quasi il doppio rispetto ai giovani. Si tratta di un differenziale rilevante, in parte spiegato da effetti di composizione, soprattutto dall’esperienza lavorativa cumulata. In un sistema retributivo come quello italiano, in cui l’anzianità di servizio e le progressioni di carriera determinano una componente rilevante degli aumenti salariali, fintantoché questi fattori risultano correlati con l’età dei lavoratori è facile registrare rilevanti differenze retributive tra lavoratori giovani ed anziani.
226 Figura 3.6 – Retribuzioni medie orarie nell’industria e servizi privati per paese e classi di età, 2002. Euro a parità di potere d’acquisto Fonte: elaborazioni di Banca d’Italia (2007) su dati Eurostat, Structure of Earnings Statistics Il confronto con altri paesi europei evidenzia tuttavia che la correlazione positiva tra salari ed età è nel nostro paese più marcata che altrove. Se si considerano le retribuzioni medie orarie nel settore privato (esclusa l’agricoltura) per classi di età, si osserva infatti una chiara relazione monotona positiva tra età e livelli salariali in Italia, mentre in altri paesi, come Regno Unito e Germania, tale relazione assume più una forma “a campana”, con i livelli salariali che tendono a ridursi per i lavoratori più anziani (figura 3.6). Il confronto internazionale evidenzia inoltre come, per ciascuna classe d’età, i livelli retributivi in Italia siano decisamente più bassi di quelli corrisposti negli altri paesi, ad eccezione dei lavoratori ultrasessantenni. Gli andamenti riportati nella figura mostrano una penalizzazione salariale per i lavoratori italiani già per i giovani con meno di 30 anni; tale differenza tende inoltre ad acuirsi per le classi di età centrale. I differenziali sin qui discussi si basano su dati di natura cross­sezionale, ovvero confrontano i salari di individui di diversa età nello stesso istante nel tempo. Sulla base di questi dati è quindi impossibile identificare un effetto di “età” separato da un effetto di “coorte”, ovvero non è possibile verificare se i giovani sono pagati meno dei lavoratori anziani proprio in quanto tali (effetto di età) o perché sono nati e quindi entrati nel mercato del lavoro in un anno particolare (effetto di coorte). Dal punto di vista delle possibili implicazioni di policy è però importante cercare di distinguere i due effetti, studiando se e come sono cambiati nel tempo i salari d’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro, tenendo naturalmente conto di eventuali altri cambiamenti (come la crescita dei livelli medi di istruzione) che possono influenzare i salari d’ingresso. E’ inoltre cruciale integrare questa analisi con lo studio dei profili di carriera di diverse coorti nel mercato del lavoro: ad esempio, una riduzione del salario d’ingresso risulterebbe meno preoccupante se ad essa fosse associata una successiva progressione salariale più veloce. Un’analisi di questo tipo è stata compiuta da Rosolia e Torrini (2007) sulla base dei dati amministrativi di fonte Inps per il periodo 1975­2004 e dei dati desumibili dalle diverse indagini sui bilanci delle famiglie italiane condotte da Banca d’Italia dal 1987 al 2004. L’analisi di diverse
227 coorti di giovani al loro primo impiego 28 rivela una progressiva riduzione del salario d’ingresso a partire dagli anni ‘90, non accompagnata da una successiva impennata nei profili di carriera. I giovani entrati nel mercato del lavoro negli anni più recenti, anche con titoli di studio medio­alti, percepiscono una retribuzione inferiore, in termini reali, rispetto a coloro che sono entrati nel mercato del lavoro a inizio anni ’90. Ad esempio, per i giovani laureati il salario reale d’ingresso registrato nel 2004 è di 4 punti percentuali inferiore rispetto al picco registrato nel 1992. La progressiva riduzione dei salari d’ingresso si riflette sull’andamento del differenziale salariale per età osservato in un arco di tempo relativamente lungo. La figura 3.7 illustra l’andamento del differenziale salariale per età nel periodo 1987­2004 calcolato sulla base dei salari mensili netti desumibili dall’indagine sui bilanci delle famiglie di Banca d’Italia. Dalla figura si evince chiaramente che il differenziale retributivo tra i lavoratori con meno di trent’anni e quelli oltre tale soglia è rimasto pressoché stabile fino a metà anni ‘80, si è ridotto nella seconda metà degli anni ’80 ed è sensibilmente aumentato negli anni ’90. Nel 2004 i lavoratori più anziani guadagnavano il 35% in più dei giovani, un differenziale di 15 punti percentuali più elevato di quanto registrato a fine anni ’80. Figura 3.7 – Andamento del differenziale retributivo per età, 1987­2004 Logaritmo del salario mensile netto. Differenza tra il salario dei lavoratori di 31­60 anni e il salario dei lavoratori di 19­30 anni. Differenziale osservato Differenziale con pesi fissi
Di
Nota: il differenziale con pesi fissi è stato calcolato utilizzando per tutti gli anni la composizione per classi di età e livelli d’istruzione del 1977­78 Fonte: Rosolia e Torrini (2007) Queste tendenze di lungo periodo risultano ancora più rilevanti se si considera che le nuove generazioni sono mediamente caratterizzate da livelli di istruzione più elevati rispetto a quelle precedenti. 28 I dati sui salari di fonte Inps fanno riferimento ai lavoratori del settore privato esclusa l’agricoltura. Data la loro natura, essi colgono solo gli ingressi in questo comparto e non consentono di misurare l’effetto di eventuali primi impieghi nell’agricoltura o nel settore pubblico. 228 Cosa può spiegare quindi questa progressiva riduzione del salario d’ingresso registrata proprio negli anni ’90? Rosolia e Torrini (2007) puntano l’attenzione sui cambiamenti istituzionali avvenuti nel mercato del lavoro nell’ultimo decennio. Essi infatti mostrano che la riduzione dei salari d’ingresso non è spiegata né da una riduzione generalizzata dei salari nell’economia (dal momento che i salari dei lavoratori già occupati non mostrano significative flessioni), né dal progressivo ingresso nel mercato del lavoro di individui meno produttivi (la riduzione del salario medio d’ingresso non è infatti accompagnata da un aumento della sua dispersione). Non sembrano inoltre essere rilevanti neppure i cambiamenti socio­demografici che hanno interessato la forza lavoro (il già citato aumento dell’istruzione, ma anche la maggior partecipazione delle donne, i cambiamenti nella struttura famigliare, etc.) o il fatto che lavoratori di diversa età, pur se con lo stesso livello d’istruzione, posso comunque essere considerati come sostituti imperfetti (per il diverso livello di esperienza o di capitale umano specifico) nel processo produttivo dell’impresa. Gli andamenti macroeconomici mettono invece in evidenza che il differenziale nei tassi di disoccupazione tra giovani e vecchi è cresciuto sensibilmente fino alla fine degli anni ’80 ed ha incominciato a ridursi successivamente, in concomitanza con l’aumento del lavoro temporaneo tra i giovani e la riduzione del loro salario d’ingresso. Sembrerebbe quindi che la moderazione salariale degli anni ’90, accompagnata dalla riduzione dei costi di assunzione dei nuovi entranti nel mercato del lavoro grazie alla diffusione di diverse forme di lavoro temporaneo, abbiano sì ridotto i salari d’ingresso dei giovani, ma hanno anche salvaguardato almeno in parte i salari reali dei lavoratori già occupati, consentendo anche un aumento dell’occupazione dei giovani stessi. Al di là dei benefici effetti occupazionali, una persistente riduzione del salario d’ingresso, soprattutto se non compensata da progressioni salariali più “ripide” e in presenza di carriere lavorative discontinue, può però avere rilevanti effetti negativi di lungo periodo sui consumi e sulla crescita. L’incertezza e la discontinuità della vita lavorativa hanno infatti ripercussioni negative sulle scelte di vita e di consumo: i giovani lavoratori che si sentono insicuri relativamente al proprio futuro lavorativo tendono infatti ad abbandonare più tardi la propria famiglia di origine (Becker et al., 2008) e a procrastinare le scelte di maternità/paternità. In assenza di un sistema finanziario efficiente, essi tendono anche a ridurre i propri consumi, aumentando i risparmi per far fronte ad eventuali situazioni di bisogno in futuro. Queste tendenze sono amplificate dalle difficoltà di prevedere l’ammontare complessivo di contributi ai fini pensionistici che verranno versati nell’arco di una carriera lavorativa più incerta e discontinua. Alla luce di queste considerazioni, è chiaro che la crescita occupazionale degli ultimi anni è un risultato certamente positivo, ma non bisogna sottovalutare i numerosi problemi che nel medio­ lungo periodo potrebbero generare la persistente riduzione dei salari d’ingresso, unitamente alla stagnazione generalizzata dei salari reali e alla bassa crescita della produttività. Rifer imenti bibliogr afici Banca d’Italia (2007), Consumo e crescita in Italia , Lezione di Mario Draghi alla 48ma Riunione Scientifica Annuale della Società Italiana degli Economisti, Università di Torino, Ottobre. Becker, S., Bentolila, S., Fernandes, A. e Ichino, A. (2008), Youth Emancipation and Perceived Job Insecurity of Parents and Children, mimeo. Boeri T. e Bertola G. (2002) Il dibattito sul tasso di inflazione programmata, www.lavoce.info Brandolini, A., Casadio, P., Cipolline, P., Magnani, M., Rosolia, A. e Torrini, R. (2007), Employment Growth in Italy in the 1990s: Institutional Arrangements and Market Forces, in Acocella, N. e Leoni, R. (a cusa di), Social Pacts, Employment and Growth, Physica­Verlag, p. 31­68. CGIL­CISL­UIL (12­15­2008) Linea di riforma della struttura della contrattazione
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