l`intervista in pdf - Il rasoio di Occam

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l`intervista in pdf - Il rasoio di Occam
Stato d’eccezione contro il terrorismo?
Intervista a François Saint-Bonnet
di Florent Guenard da “la vie des idées.fr” (http://www.laviedesidees.fr/Contre-leterrorisme-la-legislation-d-exception.html)
Lo stato d’eccezione ha una lunga storia in Francia. Tipicamente usato per far fronte a crisi di
vario genere, oggi è invocato in chiave antiterroristica. Ma, secondo il giurista François SaintBonnet, non ci sono garanzie che questa sia una buona soluzione.
Per quale motivo si ricorre oggi a una legislazione speciale?
F. S-B. Per molto tempo, di fronte a un pericolo serio per la comunità politica, si è fatto ricorso
al concetto di necessità evidente per travalicare i limiti imposti al potere dei governi. Salus
populi suprema lex est, oppure necessitas legem non habent: queste formule hanno spesso
giustificato il passaggio da uno stato normale, in cui il potere è limitato, a uno stato
d’eccezione, dove non ci sono limiti. Con la Rivoluzione francese si è affermato il principio
secondo il quale le leggi che limitano i poteri (che altro non sono, poi, che le leggi che
garantiscono le libertà individuali) non dovevano essere sospese per nessun motivo. Ma
questo assunto ha avuto vita breve, perché anche in seguito è capitato spesso che si decidesse
di mettere tra parentesi le leggi, quando non anche la costituzione, sotto il Terrore
specialmente, ma anche in seguito, nel corso del XIX secolo. Sotto la Repubblica si è dichiarato
lo stato di assedio nei territori dei monarchici, per esempio, e vice versa durante la
Restaurazione, e lo stesso si è fatto per le roccaforti dei bonapartisti sotto la Monarchia di
luglio. La sospensione delle libertà civili veniva ogni volta operata in maniera brutale ed era
funzionale a debellare un avversario politico che veniva considerato nemico belligerante del
regime vigente, e cui perciò non era data legittimità di ricorso alla protezione giuridica.
Fu per questo motivo che la Costituente del 1848 volle dare un inquadramento giuridico allo
stato d’assedio. Si trattava di stabilire una via di mezzo tra la legalità «normale» e il regno
dell’arbitrario: una legalità ancora “eccezionale”, certo, ma comunque una forma legalità. Su
questa logica si fonda la legge del 9 agosto 1849, ancora in vigore attraverso l’articolo 36 della
Costituzione francese, che può essere applicata in due casi opposti: nel caso di un consenso
nazionale («un pericolo imminente risultante da una guerra straniera»), oppure in quello di
un dissenso nazionale (una «insurrezione armata» di una parte della popolazione). Questa
legge consiste nel conferimento dell’essenziale dei poteri delle autorità civili ai militari in tutte
le zone dichiarate in stato di assedio.
Tale misura è stata applicata durante la guerra del 1870 in una ventina di dipartimenti
francesi, poi durante i primi quattro anni di guerra mondiale su tutto il territorio nazionale e,
in seguito, nel settembre 1939.
Ma lo stato di assedio non è stato dichiarato durante la guerra di Algeria, per esempio, perché
era fondamentale allora che, nella loro lotta, i membri dell’FLN non apparissero né come dei
combattenti nemici, né come degli insurrezionali. Bisognava presentarli come semplici
delinquenti (assassini e autori di attentati), i cui atti, poiché perpetrati durante un processo di
decolonizzazione, non poteva essere giustificato da alcun principio politico. Ecco perché in
quell’occasione è entrata in vigore la legge del 3 aprile 1955 sullo stato di urgenza, che, contro
ogni evidenza, cerca con cura di evitare ogni accostamento con la categoria della guerra di
indipendenza, evocando in modo abbastanza evasivo un «pericolo imminente risultante da
gravi attentati all’ordine pubblico». Non solo: per distogliere ancora di più l’attenzione da
considerazioni di ordine politico, questa legge stabilisce che lo stato di urgenza possa essere
decretato anche in caso di «calamità pubblica», come una catastrofe naturale. Quanto a
quest’ultimo aspetto bisogna tenere tuttavia conto del fatto che, solo qualche mese prima
dell’entrata in vigore della legge, nel settembre del 1954, un terremoto era stato seguito da
incresciose scene di saccheggio. La legge del 3 aprile 1955, comunque, prevede un
rafforzamento dei poteri civili, ma non il loro conferimento ai militari.
Esiste inoltre l’articolo 16 della Costituzione francese del 1958, che, anche dopo la riforma del
2008, assegna un potere assolutamente discrezionale del Presidente della Repubblica in
questi casi. Essa diventa applicabile quando «il funzionamento regolare dei poteri pubblici
costituzionali» è interrotto, ovvero quando, a causa di una minaccia molto grave, le istituzioni
politiche dello Stato non riescono più ad assolvere ai loro compiti. La misura è stata applicata
soltanto una volta, il 23 aprile 1961 in occasione del putsch dei generali di Algeri, e fu
mantenuta in vigore dal generale De Gaulle per circa sei mesi.
Troviamo dunque nel codice francese tre diverse legislazioni d’eccezione (stato di assedio,
stato di urgenza e articolo 16), frutto di storie peculiari ma con in comune il fatto di mirare a
facilitare la risoluzione di crisi intense e divisive ma brevi, come le insurrezioni, o di quelle un
po’ meno brevi ma con l’effetto di serrare i ranghi dell’unità nazionale, come le guerre in cui
vengono invase porzioni di territorio. Il terrorismo jihadista, che conosciamo ormai da una
quindicina d’anni e che non accenna a finire, non rientra in nessuno di questi due casi. Per
fronteggiare questa minaccia non si potrà ricorrere per sempre a una legislazione d’eccezione:
la risposta è altrove.
L’applicazione dello stato d’urgenza costituisce una minaccia per i nostri principi
democratici?
F.S-B.: La nozione di principi democratici è composta di tre pilastri. Per prima cosa il rispetto
della volontà popolare, in secondo luogo il rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali e,
infine, l’esercizio controllo sui tre poteri dello Stato. Le leggi speciali tendono a erodere tutti e
tre questi fondamenti.
In primo luogo, quando si applicano tali disposizioni, i processi elettorali vengono spesso
interrotti o sospesi. Fu così durante la prima guerra mondiale. Si ritiene, infatti, che la
competizione elettorale, in quanto tendente a sottolineare le differenze, sia nociva per la
necessaria unità nazionale; unità che presuppone, dunque, una certa idea di unanimità. Ora,
sembra che a nessuno in Francia oggi sia saltato in mente di posticipare le elezioni regionali
del 6 e 13 dicembre prossimo. Dopo qualche ora di unanimità nazionale la discussione politica
ha ripreso la sua strada consueta, nonostante lo stato di urgenza. Ma la proroga e la modifica
della legge del 1955, proposte il 19 e 20 novembre 2015, non hanno praticamente suscitato
alcun dibattito e il voto è stato quasi unanime.
In secondo luogo, questo tipo di leggi ingenera un’atrofia delle libertà e una dilatazione del
potere politica e amministrativa. Lo stato di urgenza erode tanto le libertà individuali che
quelle del territorio, dei gruppi e dei flussi di persone. Alcuni individui si vedono privati del
rispetto dovuto alla loro vita privata: residenza obbligatoria (la cui facoltà è stabilita nella
legge 21 novembre 2015), minaccia alla vita privata per effetto della sorveglianza speciale
applicata all’insaputa dei cittadini, zone rosse, perquisizioni ordinate dai prefetti (e non dal
giudice) anche di notte. Gli spazi possono essere recintati, con restrizioni alla circolazione o
addirittura con la misura del coprifuoco. Diventa possibile vietare le riunioni di gruppi di
persone, spettacoli teatrali e proiezioni cinematografiche (quest’ultimo divieto è stato
abrogato nel novembre 2015) o addirittura, ed è una novità del 2015, si introduce il divieto di
associazione informale tra persone che hanno legami stabili e frequenti, e un minimo di
organizzazione, ma che non hanno dichiarato nulla alle autorità. Ancora, diventa possibile
bloccare alcuni flussi d’informazione e comunicativi: controllo dei giornali o delle radio (ma
anche questa disposizione è stata esclusa dalla legge speciale del 2015), e le comunicazioni
orali o scritte possono essere impedite con misure relative agli individui.
In terzo luogo, le legislazioni d’eccezione riducono gli strumenti di limitazione del potere (i
cosiddetti contro-poteri). Per esempio riducono il potere del Parlamento: anche se obbligato a
consultarlo, infatti, il Presidente può decidere in autonomia dell’applicazione dell’articolo 16.
In compenso, lo stato di assedio o quello di urgenza non può essere prorogato per più di
dodici giorni se non dalle Camere riunite, che di fatto hanno la facoltà di ribaltare il governo,
pur essendo improbabile che lo facciano. Il potere della magistratura è in egual misura
limitato, in quanto le garanzie procedurali si vedono ridotte in due modi: con il trasferimento
delle competenze delle autorità civili ai militari (come nel caso dello stato di assedio), oppure
con il trasferimento delle prerogative della magistratura ai prefetti, come nel caso della
«misura amministrativa» dell’obbligo di dimora. In linea di principio, qualunque limitazione
alla libertà (come per esempio quella di spostarsi al di fuori di un determinato perimetro) non
può avere carattere preventivo e può essere ordinata soltanto da un giudice, guardiano delle
libertà individuali, non da un prefetto.
Lo stato di urgenza decretato la sera stessa degli attentati del 13 novembre limita la libertà. E
pertanto sembra poggiare su un consenso reale: il 18 novembre l’84% dei francesi intervistati
in un sondaggio IFOP erano pronti ad «accettare ulteriori misure di controllo e un certo grado
di limitazione della [propria] libertà». Si assiste dunque a una curiosa forma di accettazione
democratica della restrizione della libertà democratica. Ma questo consenso si incrina in
almeno tre punti.
Primo elemento di debolezza: il consenso alle misure restrittive della libertà è dato sullo
slancio dell’emotività. Lo sconforto generato dall’orrore degli attacchi jihadisti tende ad
alterare le percezioni. Questo non significa che lo stato di urgenza sia ingiustificato, se dura
qualche giorno o qualche settimana, ma è cruciale contrastare il più possibile la nostra
emotività e riportare un’analisi fredda e razionale della realtà della situazione. In simili
frangenti il potere cede spesso alla tentazione di parlare alla pancia dei cittadini per riuscire
ad approvare misure che, in un periodo di calma, risulterebbero inaccettabili. Georges Bush è
stato il campione dell’abuso di questo meccanismo.
Una seconda debolezza deriva dalla confusione del principio di salvaguardia dello Stato o
della società di fronte al pericolo con una questione di ordine pubblico. Il ricorso a leggi
speciali è giustificato dall’urgenza, dall’assoluta necessità di agire con velocità, da quel riflesso
istintivo che è la legittima difesa. È così che si salva quello che si deve salvare, certo. Ma queste
leggi non hanno alcuna possibilità di costituire una risposta durevole a una minaccia che non
è da meno. Passato il momento di estremo pericolo, bisogna tornare alla legalità “normale”, a
costo di adottare misure inedite per affrontare efficacemente una minaccia molto precisa, e a
costo di modificare, in piena coscienza, l’attuale equilibrio tra sicurezza e libertà.
Terza debolezza, l’accettazione perniciosa dell’imperativo del controllo. Più il potere erode le
libertà, più i cittadini devono essere vigili, per contrastare le minacce come anche per
difendere i propri spazi di libertà. Questa tendenza a dare al potere una delega in bianco è
stata molto forte nel 1961 in Francia, quando Charles De Gaulle venne accolto come un
«salvatore», ma oggi sembra essere meno incisiva. Lo si vede anche dal fatto che della legge
del 1955 riportata in auge in questi giorni si è stralciata la parte relativa al controllo delle
radio e dei giornali.
La legislazione d’eccezione ha una qualche legittimità di applicazione in stato di
urgenza?
F. S-B.: Il Presidente della Repubblica ha fatto appello a due cose: sul momento ha invocato la
proroga dello stato d’urgenza per tre mesi e la “ripulitura” di questa legge, e ha poi chiesto
una revisione della costituzione in tempi rapidi, che permettesse di agire «in conformità allo
stato di diritto, contro il terrorismo e la guerra». La proroga di tre mesi non significa che lo
stato di urgenza sarà mantenuto tanto a lungo, anzi resta sempre possibile per il Presidente
porre fine a questa misura. Addirittura è anche possibile che sia un giudice a imporre la fine
allo stato di urgenza, qualora ravvisasse che le condizioni per la sua dichiarazione non
sussistessero più e il Presidente non accennasse a voler sopprimere la misura (secondo la
giurisprudenza del Consiglio di Stato del 2005). La ripulitura della legge del 1955 è un’altra
cosa: non è mai molto saggio legiferare sull’urgenza in stato di urgenza. Era proprio
assolutamente necessario alleggerire le zavorre alle misure di obbligo di dimora e alle
perquisizioni con tanta rapidità e senza un sereno dibattito sull’argomento? Era davvero
imperativo, come è successo, offrire in cambio di questa accelerazione la rinuncia al controllo
pubblico sui media? Sarebbe bastato non applicare questa disposizione e poi toglierla dalla
legge in un secondo momento.
Come può il diritto assumersi il compito di risolvere la questione del terrorismo senza
passare per leggi speciali?
F. S.-B.: Bisogna fare lo sforzo di identificare i caratteri specifici del terrorismo jihadista.
Questi soggetti non son né delinquenti né “classici” combattenti armati. Non sono delinquenti
perché non temono la morte, anzi addirittura la cercano in quanto fonte di gloria presso i loro
fratelli. Invece il delinquente tradizionale teme eccome la morte: il ladro vuole godere del
bene che ha rubato, il violentatore intende continuare violentare. Questi sono i crimini che la
società combatte, e ritiene di poter eliminare attraverso la minaccia della pena di morte o
l’ergastolo per i crimini più gravi. L’intero sistema penale della modernità riposa sulla logica
secondo la quale la pena di morte senza eccessiva crudeltà costituisce il summum della
repressione. Quando si ha però a che fare con persone che non temono la morte, e che
addirittura se la procurano con cinture esplosive, è allora tutto il sistema repressivo moderno
ad andare in crisi, e il diritto penale con esso. Ecco perché sembra necessario portare il
trattamento giuridico del terrorismo oltre il diritto penale e resistere alla tentazione di
costituire una sorta di super diritto penale, che Günther Jacobs ha chiamato diritto penale del
nemico.
D’altra parte i terroristi jihadisti non sono neanche dei combattenti classici. Quest’ultima
categoria rimanda alle convenzioni internazionali sul diritto di guerra che, pur riconoscendo
ad alcuni soggetti il diritto di uccidere limitatamente ad alcune circostanze, sottomettono
comunque tali soggetti a condizioni che si potrebbero riassumere con un principio di lealtà:
non prendersela con persone disarmate, ricorrere all’uso della forza in maniera
proporzionata, fare prigionieri piuttosto che eliminarli, e trattarli degnamente… In poche
parole si tratta di riconoscere nel combattente dell’altra fazione un «nemico giusto», un alter
ego. In questa logica, lo scontro conserva una certa dose di ritualizzazione. Certo, la realtà non
corrisponde mai a questo ideale, ma resta il fatto che esiste un’idea regolativa dello scontro. Il
terrorista jihadista non appartiene a questo universo logico, dal momento che spara sulla
gente disarmata, che giustizia persone in ginocchio mentre supplicano e che, infine, si fa
vigliaccamente esplodere quando arriva il momento dello scontro in campo aperto. Inutile
quindi provare a usare il modello del combattente per capire il terrorismo jihadista, come fa
chi ricorre alla categoria di «combattente illegale» inventata dai vari Patriot Act del 2001. In
poche parole, non serve a niente destabilizzare quelle categorie di diritto penale (con la sua
gabbia fatta diritti e di libertà) o di diritto di guerra (anch’esso limitato da norme molto
precise) che la modernità ha lentamente cesellato e che sono motivo di vanto per le
democrazie contemporanee.
Piuttosto, la strada da percorrere sarebbe quella della costruzione ex nihilo di una tipologia
specifica di diritto applicabile ai terroristi jihadisti, senza però che in questo modo si
inquinino il diritto penale da una parte e quello internazionale dall’altra. Ciò presuppone
tuttavia la necessità di identificare con i criteri il più precisi possibile quei jihadisti che
nutrono odio per la modernità, in modo da non rischiare di stendere una rete troppo grande,
catturando anche persone che nulla hanno a che fare con il terrorismo, com’è capitato negli
Stati Uniti dopo il 2001. Questo sforzo di precisione deve passare necessariamente per misure
di sorveglianza alquanto intrusive, è vero, e per questo la politica dovrà sorvegliare in
maniera molto attenta. Se si aumenta il potere dello Stato sugli individui bisogna compensare
con meccanismi rafforzati di controllo di questo stesso potere: una vigilanza da parte della
magistratura sulle amministrazioni e una società civile attenta, attraverso la stampa, le
associazioni di difesa dei diritti fondamentali, sindacati dei magistrati e degli avvocati e così
via.
Ma allora, una volta identificati tali criteri, di quale “libertà dei moderni” potranno essere
privati coloro che odiano la modernità?
Probabilmente non di quelle libertà relative all’espressione e alla comunicazione. Per
sconfiggere un’idea non funziona mai il trucco di far finta che non esista, anche quando è
odiosa e criminale. Ecco perché la chiusura dei siti internet jihadisti o la penalizzazione della
consultazione degli stessi (legge del 13 aprile 2014) non è per forza una buona soluzione. È
preferibile educare e informare sulla realtà ideologica dello jihadismo e svelare le tecniche di
propaganda di cui si serve. Del resto, la forza della democrazia sta nella capacità di affrontare
anche queste idee. E poi è fondamentale non offrire al nemico la possibilità di atteggiarsi a
vittima o martire della libertà di espressione.
Ai terroristi non si potranno vietare nemmeno quelle libertà che riguardano le garanzie
procedurali per i processi e i gradi di giudizio. Più si mettono tra parentesi le libertà
fondamentali, infatti, e maggiore controllo è necessario. In materia di diritto delle libertà si ha
l’abitudine di dire che è meglio un colpevole in libertà piuttosto che un innocente in prigione:
anche se è difficile, dobbiamo continuare a pensarla così.
Non si potranno limitare neanche le libertà legate alla nazionalità. Privare un individuo del
suo passaporto francese non avrà alcun impatto su una persona che odia già la Francia e che
non si considera cittadino francese. Perché adottare la prospettiva dei «buoni» e dei «cattivi»
francesi? È una scappatoia miope che si priva della possibilità di trasformare, in seguito, il
proprio nemico in un amico e in un futuro modello, attraverso i programmi di
«deradicalizzazione».
In compenso è importante porre la questione cruciale dell’habeas corpus, cioè
dell’impossibilità di trattenere o rinchiudere un individuo se questi non ha commesso un
reato. E con essa va posta di nuovo la questione della privacy, ovvero della possibilità di
sorvegliare un individuo a sua insaputa per capire se esso rientri nella categoria sensibile
stabilita.
Dal 1945 il livello di protezione delle nostre libertà non ha mai smesso di crescere, mentre le
minacce diminuivano sempre di più, soprattutto a seguito della caduta del Muro di Berlino. A
un certo punto si era arrivati a pensare che questo grado di protezione sarebbe rimasto
immutato, e qualcuno ha perfino sostenuto che la protezione giuridica delle libertà non
potesse far altro che progredire con il tempo, senza mai regredire. Non è più così. Le libertà
hanno un prezzo, e i partigiani e resistenti degli anni ’40 lo hanno pagato caro. Il sistema
giuridico dei moderni si fonda sull’uscita dallo stato di natura, descritto come condizione in
cui l’insicurezza è insopportabile, e sull’affidamento allo Stato del compito di garantire la
sicurezza degli individui che, contestualmente al patto, rinunciano all’uso arbitrario della
forza. È questa la condizione di possibilità dei diritti fondamentali. L’equilibrio tra sicurezza e
libertà è necessariamente oscillante, e necessita di una costante attualizzazione. Perciò è
legittimo riconsiderare pesi e misure con metodo democratico, purché si eviti tanto il ricorso
all’emotività che gli appelli all’autorità, rinnovando invece quelli alla razionalità.
(Traduzione dal francese di Riccardo Antoniucci)
François Saint-Bonnet è Professore di Storia del diritto all’Università Panthéon-Assas (Paris
II). Specialista del diritto dei periodi di crisi, lavora anche sulla storia delle libertà pubbliche e
dei diritti fondamentali. È autore di L’état d’exception (PUF, «Léviathan», 2001) e di Histoire
des institutions avant 1789 (LGDJ, 5e éd. 2015).