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KA HANCOCK
DANZANDO
SUI VETRI
ROTTI
romanzo
Traduzione dall’inglese di Marina Timperi
Prima edizione: settembre 2012
Titolo originale: Dancing on Broken Glass
© 2012 by Ka Hancock
© 2012 by Sergio Fanucci Communications S.r.l.
Il marchio Leggereditore è di proprietà
della Sergio Fanucci Communications S.r.l.
via delle Fornaci, 66 – 00165 Roma
tel. 06.39366384 – email: [email protected]
Indirizzo internet: www.leggereditore.it
Proprietà letteraria e artistica riservata
Stampato in Italia – Printed in Italy
Tutti i diritti riservati
Progetto grafico: Grafica Effe
KA HANCOCK
DANZANDO
SUI VETRI
ROTTI
romanzo
Traduzione dall’inglese di Marina Timperi
A Daniela,
questo romanzo è il tuo ultimo dono prezioso
da un mondo pieno d'amore in cui vivrai per sempre.
Sergio
Prologo
Ho incontrato la Morte a una festa. Era il dodicesimo compleanno di mia sorella Priscilla e io avevo cinque anni. Non era
particolarmente spaventosa, la Morte, ma sul suo conto dovevo ancora scoprire tutto, perciò vederla non mi suscitò nessuna impressione negativa. Finché non compresi che era venuta
per mio padre.
Quand’ero bambina, mio padre e io avevamo un rituale mattutino. Cominciava con il gorgoglio dell’acqua nelle tubature,
uno stridio lamentoso che si sentiva appena papà apriva il rubinetto. Vivo ancora nella casa in cui sono cresciuta, ed è ancora
così. Ma allora, quel suono voleva dire che mio padre era sveglio.
Ricordo che, strofinandomi il sonno dagli occhi, trotterellavo su per le scale e procedendo a tentoni per il corridoio buio
arrivavo alla porta chiusa del bagno. Bussavo, e mio padre
gorgheggiava: «È la mia principessa Lulu?»
Adoravo quando mi chiamava in quel modo, perché dava
a Lucy, il mio nome di battesimo, un alone da fiaba, e cose del
genere fanno molta impressione su una bambina di cinque
anni. Lui spalancava la porta e la luce mi accecava mentre entravo in bagno: il nostro santuario intimo, solo mio padre e io.
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Era un bagno piccolo, la vasca occupava un’intera parete e il
lavabo aveva una mensola minuscola sulla quale stavano a
malapena una saponetta e gli oggetti per la rasatura. Mickey
se ne lamenta ancora adesso. Piccola com’ero, mi arrampicavo
sul water e aprivo il mio libro. Dopotutto era quello il pretesto
per stare lì: esercitare la dizione.
Invece mio padre, in piedi davanti al lavabo, cominciava a
radersi e ogni giorno, coperto di schiuma, si chinava per darmi un bacio ridacchiando. Ho trentatré anni adesso e riesco
a sentire ancora l’odore della sua schiuma da barba e le mie
risate.
Mio padre era un omone. A volte si avvicinava allo specchio per controllare qualche particolare, con la pancia praticamente appoggiata sul lavabo pieno di sapone, e quando scostandosi si accorgeva di avere un rivolo di schiuma sullo
stomaco nudo diceva: «Be’, guarda un po’qui, Lu, sono come
un Oreo al latte.» Poi un altro bacio e un’altra risatina.
Una volta finito di sciacquarsi, pettinarsi, fare gargarismi e
sputare, si spruzzava l’acqua di Colonia riempiendo il bagno
di quell’essenza indimenticabile. Sono ancora patita per l’acqua di Colonia, ma a Mickey non permetto di usarla.
Ricordo ogni dettaglio di quelle mattine. Dagli asciugamani gialli sul pavimento al lavabo colmo di acqua saponata,
dalla voce di Paul Harvey in sottofondo all’uniforme fresca di
stiratura appesa dietro la porta.
Nella città in cui viviamo, Brinley Township, mio padre era
conosciuto come il sergente James Houston; per tutti Jim, per
il suo collega Deloy Rosenberg e per la mamma, Jimmy. Adoravo assistere alla sua trasformazione dal papà assonnato e
spettinato senza canottiera al sergente James Houston. Quando usciva da quel bagno con la divisa che mia madre gli stirava ogni sera, pensavo fosse invincibile. Era del tutto inconcepibile per me che qualcosa potesse scalfirlo, men che meno
due minuscoli proiettili. Credevo che essere il sergente James
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Houston di Brinley Township significasse proprio questo: indistruttibile.
Ma poi la signora Delacruz, la mia maestra d’asilo, ci disse
che tutte le cose muoiono. ‘Tutto, senza eccezioni’disse, e mi fece preoccupare. Devo aver domandato a mio padre, anche se
non ricordo bene cosa. Ho solo un’immagine di lui, una sera, in
ginocchio accanto al mio letto che me ne parla. Lily, che ha
quattro anni più di me, fingeva di dormire nel letto accanto,
perciò lui bisbigliava quando fece questa tremenda dichiarazione: la signorina Delacruz aveva ragione, tutte le cose muoiono. Suppongo che fu per via della mia reazione inorridita che
mi afferrò la mano per baciarla e passarsela sul mento ispido.
Mi disse: «Lulu, non devi aver paura della morte. Perché ci sono dei segreti su di lei che non tutti conoscono.» Mi ricordo che
venne ancora più vicino per sussurrarmi: «Vuoi conoscerli?»
«Segreti?» gli chiesi. Sembrava un po’ irrealistico, ma mio
padre non mi mentiva mai, perciò restai ad ascoltare.
«Lulu, ci sono tre cose che ti assicuro riguardo alla morte.
Una è che la morte non è la fine. Sembra che lo sia – ecco perché le persone piangono – eppure non lo è. Due, che non è dolorosa. Un’altra questione molto importante, perché le persone hanno paura di ciò che non conoscono. Non è dolorosa. E
ultima, se non hai paura di lei, Lu, puoi farti trovare preparato. Mi credi?»
Il suo viso era talmente sincero e affidabile che annuii semplicemente. «Acosa somiglia?»
«Non ne sono certo, ma scommetto che è graziosa.»
«È bella?»
«Molto bella, e molto gentile.» A quel punto spiegò al mio
cervello di bambina, che assorbiva come una spugna, che la
morte non era lo stesso che morire. Che qualche volta, infatti,
morire poteva essere doloroso, ma succedeva anche qualcosa
di magico, perché si dimenticava il dolore come se non ci fosse mai stato. Questo aprì un’interminabile discussione su tut11
ti i modi cruenti in cui una persona poteva morire, e quanto
fosse piacevole poterlo dimenticare. Malgrado non dubitassi
di quanto mi stava dicendo, devo essergli apparsa scettica,
così proseguì: «Lulu, tu ricordi di essere nata?»
Considerando la questione risposi seria: «No.»
Lui annuì. «Visto? La morte è lo stesso. Te ne dimentichi.»
Ero stupefatta, mio padre aveva ragione. Aveva sempre ragione. Non ricordo tutto quello che disse, ma ricordo il modo
in cui quella notte il mistero della morte si dissolse completamente nei suoi occhi onesti. Gli credetti ciecamente, e le sue
parole sono rimaste con me, sedimentandosi nel mio animo
di adulta. Ovviamente sono consapevole che si sia trattato solo di un dono concesso alla mia innocenza – una rassicurazione a una ragazzina che non riusciva a dormire –, ma chi
l’avrebbe mai detto che la calma che infuse in me mi avrebbe
permesso di superare indenne tante perdite, sostenendomi
quando sono stata sul punto di perdere anche me stessa?
Certo che aveva ragione: la morte arriva per tutti. Ma non
è la fine, e non è dolorosa... Be’, allora cosa c’era da temere?
Quella era di sicuro la logica dei miei cinque anni. Perciò,
quando la Morte si presentò alla festa di compleanno di Priscilla, fui curiosa, ma non spaventata.
La festa si svolgeva nel cortile sul retro di casa nostra. Sul
barbecue sfrigolavano gli hamburger, i frigoriferi traboccavano di birra e punch hawaiano, e mamma sistemava le candele sulla torta di Priss. Oltre a mezza scuola media, c’erano
anche molti amici dei miei genitori. I vicini di casa, Jan e Harry Bates, che cercavano di convincere il loro stupido figlio a
smetterla d’inseguire mia sorella Lily con il furetto. (Avevano nove anni, ma sapevo già da allora che Lily avrebbe sposato Ron Bates. Tutti lo sapevano.) C’era la dottoressa Barbee
e i Withers delle pompe funebri in fondo alla strada, gli amici poliziotti di mio padre e, addirittura, il sindaco.
Stavo sistemando i piatti di carta sul tavolo da picnic quan12
do la notai. Capii immediatamente chi era, e non sembrava
per niente minacciosa o inopportuna. Aveva un aspetto gentile, e questo poi mi ha stupito. Se dovessi descriverla credo
che non ne sarei in grado: come si può rendere la sensazione
legata a un’apparizione? Se ci penso adesso, credo si trattò di
una specie di cruda consapevolezza che ai miei occhi assunse
una forma tangibile. Da allora ho cominciato a vederla, e per
quanto mi riguarda è femmina, anche se si tratta più di una
suggestione che di una reale immagine femminile. Ciononostante la riconoscerei ovunque.
Non ero affatto intimorita dalla sua presenza. Ricordo, anzi, di essere stata quasi esaltata dalla percezione del suo sussurrare sopra il frastuono, malgrado non abbia mai capito cosa dicesse. La osservai fluttuare tra i nostri ospiti con una
consistenza simile a quella delle nuvole. A un certo punto mi
guardò perfino, proprio negli occhi. Se mio padre non mi
avesse parlato di lei, sono certa che avrei capito lo stesso chi
fosse. C’era un’irresistibile connessione tra noi, decisamente
innegabile. Anche lei mi conosceva. Sorrise – alla ragazzina
che ero –, ma vide il mio animo da adulta, che a sua volta comprese: sarebbe venuta anche per me. Ma non quel giorno.
No, quel giorno era lì per mio padre. E anche il mio papà
dovette rendersene conto, perché dall’altra parte del cortile
cercò il mio sguardo. Ricordo ancora il suo viso e la consapevolezza nei suoi occhi. Mi dicevano di non aver paura, lui non
ne aveva.
Ero ancora convinta che fosse troppo grande e forte per morire, troppo solido perché qualcosa potesse intaccarlo, uccidendolo. Ma due minuscole pallottole fecero proprio quello.
Ci lasciò il giorno dopo il dodicesimo compleanno di Priscilla,
cercando d’impedire a un delinquente di rapinare la pompa
di benzina di Arnie. La Morte prese mia madre dodici anni
dopo. Perciò rimanemmo solo noi tre: Lily, Priscilla e io.
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Dottoressa Barbee. Pranzo con Lily. Lavanderia. Ospedale
per un abbraccio a Mickey. Ero distesa sul lettino delle visite,
infreddolita, a ricapitolare gli impegni della giornata sulla
punta delle dita mentre aspettavo. Charlotte Barbee aveva
detto che sarebbe tornata per finire di visitarmi, ma di lei non
c’era traccia da diversi minuti. Ho contato di nuovo. Pranzo.
Lavanderia. Mickey. C’era qualcos’altro, ma non mi veniva in
mente. In realtà arrivata a Mickey non ero più in grado di pensare. Era lì da sei giorni, ma di certo non era il vero Mickey già
da prima. Però quella mattina sembrava stare bene, sembrava
quasi tornato in sé.
Charlotte è rientrata di corsa scusandosi. «Queste cavolo
di compagnie assicurative! Credono che non abbia di meglio
da fare che...» Ha sbuffato, poi ha preso fiato. «Dunque, dov’eravamo, Lucy?»
In un attimo mi sono rimessa in posizione, con i piedi scalzi infilati nelle staffe di metallo, congelati come il resto del
corpo. «Perché tieni la temperatura così bassa qui dentro,
Charlotte? È terribile.»
Quando non ha risposto, ho sollevato la testa dal cuscino
e ho visto la sua muoversi tra le mie ginocchia piegate. Rego14
lava uno speculum per osservare meglio le parti in cui, a mio
modo di vedere, non si sarebbe mai dovuto guardare, tanto
per cominciare.
«Allora, come sta Mickey questa settimana?» mi ha chiesto, proseguendo la sua esplorazione e ignorando le mie rimostranze sulla temperatura.
«Meglio della settimana scorsa» ho risposto, senza fiato
per via della sua indagine.
«È ancora in ospedale?»
«Sì. Ma potrà tornare a casa venerdì se sta meglio. E io spero tanto che sia così.»
Charlotte Barbee ha sfoggiato il suo sorriso intelligente.
«Da quant’è che siete sposati voi due?»
«Quasi undici anni.»
«Così tanto? Come passa il tempo!» ha detto. «Adesso fammi dei bei respiri profondi.»
I respiri profondi mi hanno fatto tossire e allora mi sono ricordata: Prendere le pastiglie per la tosse.
Si trattava del mio controllo annuale e Charlotte Barbee era
assolutamente scrupolosa. Sapeva cosa stava cercando, e se
l’avesse trovato, gliel’avrei letto in faccia come era già accaduto in passato. Aun osservatore esterno, quella poteva sembrare una normale visita, ma la realtà era più complicata. Venivo
sottoposta a un minuzioso esame per via di un cancro ricorrente. La prima volta mi ero ammalata sette anni prima, quando avevo ventisei anni. Si trattava di una patologia che certo
non mi poneva tra le file delle donne adulte sane, bensì tra
quelle più precarie dei sopravvissuti al cancro – cosa che ero,
essendo guarita da cinque anni. Mi sento più leggera ora che,
insieme alle mie due sorelle, faccio parte della schiera delle
persone sane. A minacciare Lily, Priscilla e me è lo stesso cancro che è costato la vita a mia madre e a mia nonna. E con geni
tanto inaffidabili in agguato siamo tutte molto vigili, specialmente la dottoressa Barbee, il nostro medico di fiducia.
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Lily si era offerta di accompagnarmi quel giorno, come
supporto morale, ma, in tutta onestà, i check-up sono quasi
più difficili per lei che per me, perciò ho preferito declinare la
sua generosa offerta. Tra tutte, Lily è la più apprensiva, e la
possibilità che io mi ammali di nuovo rappresenta il peggiore dei suoi incubi. Nel periodo delle visite, si prepara al peggio, pregando tutto il tempo di sentire Charlotte pronunciare le parole fatidiche che sanciscono la tregua: ‘È tutto a
posto.’Quella frase equivale ogni volta a una vincita alla lotteria, e finché si ripete è convinta che concentrarsi sulle preoccupazioni abbia un effetto positivo.
Per quanto mi riguarda, mi aspetto solo più tempo. Per cinque anni sono stata felice di avere ogni sei mesi la certezza di
vivere, e me la godevo festeggiando, come se fossi stata più
astuta del fato. Ora, se i risultati avessero detto che ero sana, tra
una visita e l’altra sarebbe potuto passare più tempo. Quello di
quel giorno con la Barbee segnava il mio secondo controllo annuale e, in tutta onestà, dodici mesi erano decisamente meglio
di sei. Anche in quel modo, comunque, la mia routine era la
stessa: ricevevo la buona notizia, ringraziavo Dio e proseguivo con la mia vita a passo di danza. Ma solo finché non giungeva l’ora di prepararmi per l’appuntamento successivo e di
ricominciare a ponderare le possibilità statistiche, piuttosto
sconfortanti. Se il cancro ritorna, di solito si ripresenta per vendicarsi. Quando la paura mi assale, il che accade di quando in
quando, la scaccio con le stesse parole che usava mio padre.
Avolte mi chiedo se fosse consapevole che la sua saggezza
sarebbe diventata tanto importante per me. Ma grazie a lui, la
morte non mi spaventa. Però sono incerta sulla parte che riguarda il morire. Mi è quasi capitato, ma non ne sono stata capace. Guardare le persone che amo, il terrore negli occhi di
Mickey... Ringrazio Dio ogni giorno per averci fatto superare quel momento, perché sono riuscita a capire di essere
molto più brava a lasciare andare le persone che muoiono
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che assistere al dolore di quelle intorno a me quando è il mio
turno.
«Ho bisogno di un campione di urine, e poi ho finito» ha
detto Charlotte, riportandomi alla realtà.
«Perciò sto bene?»
Mi ha poggiato le abili mani forti sulle spalle guardandomi
negli occhi. «Manderemo i campioni in laboratorio e sono
certa che loro mi chiameranno per dirmi che stai bene.»
«Lo sapevo. Allora non devo preoccuparmi di sentirmi
stanca?»
«Lucy, anch’io sono esausta. Non hai l’esclusiva sulla stanchezza» mi ha rimproverato.
«Per quanto riguarda quel piccolo fastidio alla gola?»
«Apri.» Ha ispezionato la bocca con un abbassalingua. «Nulla di cui preoccuparsi. Ripetimi, quanto tempo è che tossisci?»
«Non so, qualche giorno forse.»
«Ti faccio un tampone per lo streptococco, giusto per sicurezza.»
«Sei proprio un bravo medico.» Mentre prendeva il campione mi sono venuti i conati di vomito.
«Ci provo.» Quando ha finito, ha messo il tampone in una
provetta di plastica e mi ha sorriso. «Bene, allora, infilati questo
camice e attraversa il corridoio per andare a farti la mammografia.»
«Yuppi» ho esclamato sarcastica. Tenere il seno schiacciato
tra due lastre di plexiglas mentre ne venivano indagati i microscopici cambiamenti per me era la parte più difficile di quell’esperienza traumatica. Il cancro si sviluppa da una singola
cellula che, nella sua ribellione, contagia quelle circostanti e poi
procede con la distruzione di tutto quello che si trova intorno.
Una volta che appare una macchiolina nella mammografia, il
danno è fatto. Charlotte mi ha sollevato il mento con il dito e mi
ha guardato come se fosse in grado di leggermi nel pensiero.
«Lucy, ti chiamo se ci fosse bisogno di parlare. Ma sono tran17
quilla, per cui non stupirti se chiamo solo per una chiacchierata.»
Ho annuito. «Okay. Bene. Ceniamo insieme la settimana
prossima.»
Nella stanza che si trovava dall’altra parte del corridoio, mi
sono sforzata di dire qualcosa intanto che Aretha mi smanacciava le tette come fossero l’impasto per il pane. Era l’unico
tecnico mammografico di Brinley, perciò probabilmente conosceva i seni della nostra piccola comunità meglio delle donne a cui appartenevano. Era una donna alta, equina, professionale e mi sono ritrovata a domandarmi cosa le passasse per la
testa quando ci vedeva vivere le nostre vite normali fuori dallo studio. Ci riconosceva dalle tette?
Mi piaceva Aretha. Suo figlio, Bennion, ero uno studente del
mio corso di Storia su a Midlothian, e sapevo che gli controllava i compiti. Ho pensato di ringraziarla per quello, ma era occupata. Tutte le volte che ero andata lì, Aretha non aveva mai
aperto bocca prima di aver finito, e quella volta non ha fatto eccezioni.
«Ecco fatto, Lucy. È sempre un piacere vederti. A Benny
piace molto il tuo corso.»
«È uno di quelli bravi. Dovresti esserne fiera.»
«Lo sono.»
Mi sono rivestita e mi sono spazzolata i capelli. Ci voleva un
po’, perciò ho perso il conto delle spazzolate mentre fissavo lo
specchio in cerca di lei. Devo farlo ogni volta che vado a un
controllo, fa parte del rituale. Cerco un segno rivelatore qualsiasi che mi dica se la Morte è appostata dietro l’angolo o se è
riflessa nello specchio, oppure mi fluttua attorno. Ma non ce
n’era, la qual cosa era profondamente confortante – proprio
come le parole magiche della dottoressa Barbee.
Dopo essermi rivestita, mi sono recata al Damian, dove avevo appuntamento con Lily per pranzo. Passeggiare con il sole
e la brezza calda sul viso è stato delizioso. Amo vivere a Brin18
ley, nel Connecticut. È una cittadina in cui puoi arrivare a piedi
pressoché ovunque in meno di quindici minuti. Dal porto alla
Rotonda – la risposta di Brinley alle piazze cittadine – sono circa tre chilometri, e le strade che congiungono le zone limitrofe
sono solo un altro chilometro e mezzo circa in entrambe le direzioni. Il Connecticut è ricco di storia e fascino, ma per me
Brinley è il meglio del meglio: dignitosa, buon vecchio vicinato, strade alberate, politiche insulse tipiche dei piccoli centri, come riunioni straordinarie alla Rotonda per discutere il problema della cacca di cane o la necessità di un’ordinanza per gli
avvolgicavi.
Quel pomeriggio in giro c’era molta gente e nessuno sembrava avere troppa fretta. Ma forse dipendeva solo dal fatto
che io non dovevo andare da nessuna parte, visto che la scuola era chiusa per le vacanze estive e avevo terminato i miei 170
esami di fine anno.
Ho visto la mia vicina, Diana Dunleavy, accompagnare la
nipotina, Millicent, al corso di danza. Quella delizia di bambina faceva piroette davanti al Mosely’s Market con un tutù rosa acceso. Diana mi ha salutato con la mano. «Ha preso tutto il
talento da me, guardala» ha gridato dalla parte opposta della
strada.
Ho riso mentre Millie terminava il suo glissé addosso a Deloy Rosenberg, che usciva dal Sandwich Shoppe, facendogli rovesciare, apparentemente senza danni, il vassoio di cartone e
una busta con il pranzo. Imbarazzata, la piccola ha nascosto il
viso tra le pieghe della gonna di Diana, finché il capo della polizia di Brinley ha smesso di cercare di rassicurarla e se n’è andato con il suo cibo. Ogni volta che vedo Deloy in uniforme
penso a mio padre.
Ho scorto Lily e Jan e ho attraversato fuori dalle strisce per
andare loro incontro. Jan Bates, la nostra vicina di casa, alla
fine era diventata la suocera di Lily, proprio come avevo previsto quando eravamo bambini.
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Quello che allora non sapevo, era che sarebbe diventata
come una madre anche per me.
Oscar Levine stava attaccando un cartello al cancello del
parchetto quando mi ha visto. L’omino ossuto ha posato il
trapano e ha gridato: «Lucy, ci sarai allo Shad Bake per la grigliata di alosa sabato, vero?»
«Certo che ci sarà, Oscar» ha risposto per me Lily.
Jan mi ha dato un abbraccio veloce. «Di’solo sì» mi ha sussurrato all’orecchio.
«Non me lo perderei mai» ho detto. «E anche Mickey sarà
tornato a casa, perciò ci sarà anche lui.»
«Brava ragazza.»
Lo Shad Bake è un rituale estivo che si tiene lungo tutta la
valle del fiume Connecticut, ma noi a Brinley ci diamo dentro
sul serio. Rendiamo omaggio a quello che si suppone un pesce in via d’estinzione inchiodandolo a delle tavole di quercia
intorno a una buca per il fuoco, per poi rimpinzarcene fino a
non riuscire più a muoverci. È solo uno dei numerosi aspetti
che mi fanno amare la mia città.
«Bene, vado a insegnare ai ragazzini come dipingere i pini» ha detto Jan ridendo. «Voi ragazze state lontane dai guai.»
Ci ha baciato frettolosamente e l’abbiamo guardata allontanarsi.
Poi mia sorella si è voltata verso di me con un sorriso eccessivo che tradiva la sua ansia. «Allora com’è andata?» mi ha domandato, passando il braccio sotto il mio.
«Sto bene. Charlotte non ha trovato nulla di preoccupante. E Aretha ha detto che le mie tette sono fantastiche.»
«Sì, me la immagino proprio mentre lo dice.»
«Veramente, dice che sono più belle delle tue.»
Lily ha riso. «Be’, adesso è chiaro che stai mentendo.» Mia
sorella era bellissima, con i biondi capelli tagliati corti e la pelle chiara come quella della mamma, che al sole sembrava quasi traslucida. «Perciò stai bene?» ha chiesto facendosi seria.
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«Sto bene» l’ho rassicurata con un colpetto di tosse.
Ha posato la mano sulla mia e ho avvertito il fremito di sollievo che l’attraversava. «Bugiarda.»
«Perché?»
«Lo so che è troppo presto per averne la certezza.»
«Forse, ma Charlotte non era preoccupata neanche un
po’, perciò neanch’io lo sono.»
Lily ha fissato gli occhi nei miei come in cerca di una verità
nascosta. Lo faceva da tutta la vita.
«Sto bene, Lil. Me lo sento.»
Ha annuito, ma senza distogliere lo sguardo. «Okay. Perché... Sai com’è, mi rifiuto di sotterrarti, Lucy.»
«Lo so» ho detto stringendole la mano.
All’angolo, George Thompson, l’unico fioraio della città, caricava composizioni di fiori estivi nel bagagliaio della Cadillac. Ha grugnito un saluto indecifrabile sul suo volto grigio,
proseguendo imperterrito quello che stava facendo.
«Come sta Trilby, George?» ha chiesto Lily quando ci siamo
avvicinate. «Si sente un po’meglio?»
«No, ed è irritabile come una gallina bagnata. Sembra colpa mia se si è rotta il piede. Non ero mica io che facevo aerobica, per tutti i diavoli. Smettila di ridere, Lucy» mi ha rimproverato. «Non è per niente divertente!»
Lily mi ha dato di gomito e ha detto a George: «Be’, dille
che lo specchio antico che mi ha ordinato è arrivato. Può venire a ritirarlo quando starà meglio.»
George ha interrotto il lavoro che stava facendo e si è raddrizzato. Sembrava non sapere nulla di uno specchio antico,
e la situazione si stava per complicare quando Muriel Piper ci
ha salvato. «Ciao, angeli miei!» ha esordito con voce chioccia.
«Che giornata magnifica! Guardate qui, sto impazzendo con
questi fiori.» Ha fatto una profonda risata. Muriel è una matriarca di Brinley, va per i novanta ma si rifiuta di ammetterlo.
Indossava jeans sgualciti, maglia di cachemire con cappuccio
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e diamanti talmente pesanti alle orecchie che il lobo le si era
allungato – una tenuta da giardinaggio molto casual, bisognava ammetterlo.
Mi ha stretto in un abbraccio deciso che smentiva la sua età.
«Lucy, sei troppo magra. Devi venire a casa mia, così ti posso
cucinare qualcosa. Non ti prendi mai cura di te stessa quando
Mickey sta poco bene.»
«Tornerà a casa venerdì. E sto mangiando.»
«Venerdì? Si perderà la cerimonia commemorativa di Celia domani.»
Ho fatto sì con la testa.
«Be’, passate nel week-end, così lo abbraccio. Adoro quel
ragazzo.» Si è rivolta a Lily. «E anche il tuo! Potevano essere
più belli? Oh, mamma mia.»
«Glielo riferirò, Muriel.»
«Non ci provare! Mi sentirei troppo in imbarazzo! Be’, meglio che scappi. Questi fiori non si pianteranno da soli.» Ci ha
salutato con la mano e se n’è andata con il portabagagli pieno di petunie e gerbere.
Il mio telefono ha squillato nella tasca. «Ehi, Priss.»
«Tutto bene?» ha domandato la mia sorella maggiore senza preamboli.
«Charlotte dice che sto bene. Ma mi chiama appena avrà i
risultati degli esami.»
«Bene. Ho una riunione, perciò fammi uno squillo dopo.
Voglio i dettagli.» Poi ha riattaccato.
Ho chiuso il telefono con uno scatto e ho guardato Lily.
«Non stupisce che sia un grande avvocato.»
«Vuole solo sapere se stai bene.» Lily ha scrollato le spalle.
«Allora,» ha cominciato mentre entravamo nel ristorante
«venerdì Mickey sarà a casa. Sapeva del tuo appuntamento
di oggi?»
Ho scosso la testa. «Si sta riprendendo a fatica, perciò finché
non ho buone notizie da dargli, preferisco non dirgli niente.»
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«Sei una brava moglie, Lu. Mic è fortunato.»
Ho scrollato le spalle, pensando che fosse esattamente il
contrario. Dopo tutto quello che avevamo passato, in quel
momento sapevo di amare Mickey Chandler più del giorno
in cui lo avevo sposato.
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7 giugno 2011 – per la seduta con Gleason
ANNOTARE = ELABORARE = APPROFONDIRE
È stata necessaria una settimana per riemergere dal baratro questa
volta. Ma almeno non ho mollato il bordo per precipitare nell’abisso.
Sapevo di essere nei guai mentre mi tenevo in equilibrio immaginando ancora una volta di poter staccare i piedi e librarmi rimanendo sospeso, per poi scendere in picchiata e scivolare sopra l’abisso che ero
consapevole mi potesse inghiottire. È stato così in passato, fortunatamente non l’ultima volta.
La mia vita è così: continuamente a un passo da un baratro che è
a tratti affascinante a tratti terrificante, colmo di qualunque cosa la
mia immaginazione distorta concepisca in un dato momento. L’imperativo è che mantenga assolutamente la distanza, ma più mi avvicino, più mi sento meglio. O peggio. Questa è la beffa, perché sono attirato compulsivamente da questo pericolo, e più mi avvicino, più
vicino voglio stare. Quelle profondità rappresentano una straordinaria fuga – a volte una completa ebbrezza, altre una pena talmente
intensa che non posso neanche cercare di descrivere. In entrambi i
casi mi attirano con le loro bugie che sembrano promesse. Dolci bugie seducenti a cui non sempre riesco a resistere.
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I farmaci aiutano. Insieme alla terapia regolare. La mia forza di volontà è d’aiuto quando riesco a trovarla. Lo stesso il mio intelletto. È
stupefacente che non sia vincolato alle dinamiche canagliesche del
mio cervello malato. Ho la migliore preparazione che l’esperienza personale possa offrire. Quando ci sono dentro, quasi sempre mi rendo
conto di quello che mi sta succedendo, anche se a volte lo vedo come a
distanza, come fossi uno spettatore. Comunque, cerco di mettere in
pratica una delle molte strategie utili a evitare di essere inghiottito.
Non funziona sempre.
La mia medicina più potente è mia moglie. E grazie a lei sono determinato a restare alla giusta distanza dal baratro, anche se non sempre ho successo. Avolte, come quando si ammala, l’abisso viene verso
di me. A volte accade senza motivo. L’abisso si allarga inspiegabilmente anche se fuggo – fuggo per salvarmi la vita – finché il terreno
sotto di me svanisce e sono di nuovo perso, malgrado i miei migliori,
ma futili, sforzi.
Per la maggior parte delle persone questo baratro non esiste, ma è
una vera minaccia per chi soffre di disordine bipolare. So di sembrare un tossicodipendente, ma nessuna droga ti fa sentire meglio dello
stato maniacale prima che ti travolga, o tanto disperato appena soccombi.
7 giugno – più tardi
Quando ho riletto le pagine che ho scritto nel diario di oggi, ho cercato tutte le cazzate che possano indurre il mio psichiatra, Gleason
Webb, a strapparle e farmele riscrivere. Ma non ho trovato nessun
punto in cui ho esagerato. Sostanzialmente ero io, e credo di avere articolato la situazione piuttosto bene per essere uno svitato.
Stavo aspettando Lucy sulla scalinata anteriore del vecchio istituto psichiatrico che a volte sento come casa mia. La giornata andava bene, dentro e fuori. Riuscivo a percepire il mio io stabile emergere lentamente ma in modo progressivo, e devo ammettere che mi era
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mancato quel ragazzo. Ero soddisfatto di lui. Non era esageratamente euforico, ma sicuro e affidabile, e potevo contare su di lui per pensare con lucidità.
Ho controllato l’orologio chiedendomi dove fosse Lucy – sarebbe già
dovuta essere lì. Mi sono alzato e ho cominciato a passeggiare avanti e
indietro, ma mi sono rimesso subito seduto. Quando arrivava arrivava, nulla per cui innervosirsi. Ho fatto una risatina tra me e me, perché mi sono reso conto che le mie medicine avevano fatto effetto. Ero in
grado di ragionare e la cosa mi ha fatto sorridere... Miracolo degli psicotropi. La cosa avrebbe reso felice Lucy: a lei il Tipo Stabile piace più
di me. Il che non è neanche troppo vero. Lucy mi ama – il me composto
da parti mancanti e parti in eccesso e parti incasinate, ama il pacchetto completo –, dice di doverlo fare altrimenti non c’è alcun senso nell’amarmi. Ha giurato che fosse così una vita fa, e sta ancora mantenendo la parola. Chi l’avrebbe mai detto? Sono ancora sbalordito da questa
donna. Specialmente in momenti come questo, in cui la prima cosa che
riesco a distinguere appena riemergo dal baratro con il cervello annebbiato è il suo amore. Tutti gli svitati e gli esseri umani difettosi dovrebbero essere altrettanto fortunati.
Mickey mi stava aspettando sulle scale dell’Edgemont Hospital, non avendo per niente l’aria di un paziente in jeans e maglietta grigia. Appena ho attraversato la strada e mi ha visto, si
è illuminato e mi è venuta voglia di ridere, tanto sembrava stare bene ed essere sano. Le spalle larghe e le gambe lunghe erano il suo marchio di fabbrica. Ma il sorriso era il barometro della sua condizione mentale, e da quella distanza sembrava
piuttosto buona. Si è alzato e ha sollevato gli occhiali da sole sui
capelli scuri ancora folti, la frangia bianca spiccava ancora come il giorno in cui l’avevo incontrato. È venuto verso di me sorridendo, e quando è stato abbastanza vicino mi ha preso tra le
braccia tenendomi stretta. Stretta, ma non in una morsa – il che
era un buon segno. Ho pensato addirittura di riconoscere il
mio Mickey in quell’abbraccio, negli occhi scuri che solo qualche giorno prima erano deliranti e sfocati.
26
«Come stai?»
Si è scostato e mi ha passato le mani sui capelli. «Sto meglio,
Lu. E ho visto Gleason questa mattina. Dice che ha dato il consenso per mandarmi a casa venerdì.»
L’ho baciato. «Buon per te. Buon per me.»
«Sì.» Mi ha attirato ancora a sé. Era tornato, il mio Mickey.
«Che fai qui fuori?»
«Ti aspettavo. Peony ha detto che mi controlla.» Ha alzato
lo sguardo e ho seguito la direzione dei suoi occhi. Ma certo,
l’infermiera di Mickey, Peony Litman, stava alla finestra del
terzo piano agitando il dito. Aveva settant’anni suonati, e in linea con la sua formazione vecchio stampo, era completamente vestita di bianco, cuffietta compresa. «Ha detto che possiamo fare una passeggiata, se te ne assumi la responsabilità.»
Ho guardato in alto facendo un cenno con la mano. L’anziana infermiera ha sorriso, poi ha agitato il dito anche verso
di me.
L’Edgemont è un vecchio ospedale coloniale restaurato un
paio di volte. L’aspetto esterno è ancora un po’datato e antiquato, ma la struttura è ricca di servizi e copre sia Brinley che New
Brinley. L’edificio è circondato da terreni impeccabilmente curati, e in quel caldo pomeriggio diversi pazienti erano fuori a
passeggiare. Ho passato il braccio di Mickey intorno alla mia
spalla e ho respirato la fragranza delicata di lillà e lavanda.
«Mi sei mancata, amore» ha detto.
«Anche tu.»
«Perlomeno non sono salito su un aereo né ho rubato nulla. E non ho neanche dissodato il cortile.»
«Sai che sollievo!»
La settimana precedente l’umore e l’energia di Mickey erano stati alle stelle, processo avvenuto in modo graduale man
mano che aveva ritoccato leggermente le dosi dei farmaci.
Questo è il problema con Mickey: tenere a bada i sintomi depressivi con cose tipo il Prozac a volte può portarlo all’ipomania, stato che a lui non dispiace affatto e da cui non è impazien27
te di riprendersi. Pensa sempre di poter contenere l’energia.
Ma l’ultima volta, malgrado il tentativo del suo dottore di curarlo in ambulatorio, ha smesso di dormire. La psicosi sarebbe
seguita a ruota. Grazie all’aggiustamento dei farmaci e a un po’
di tempo all’Edgemont, adesso è sospeso in una condizione
che il resto del mondo considera normale, ma che per il mio
Mickey è un tantino troppo piatta. In ogni caso, la mania è più
semplice da curare rispetto agli attacchi depressivi.
«Che hai combinato?» gli ho chiesto.
«Non molto. Solo un sacco di stabilizzanti. E quando mi annoio conto le pappagorge di Peony.»
«Non prendertela con lei, occuparsi di te è un lavoro difficile. Jared è passato?»
«Due volte. Ha avuto la risposta dall’architetto e voleva
mostrarmi dei progetti. Sono buoni. Credo che butteremo giù
il muro in fondo per fare spazio ad altri tavoli.»
Mickey e il suo socio in affari parlavano di questo progetto di allargarsi dall’anno precedente. Sarebbe stato bello vedere finalmente che qualcosa si muoveva.
Mickey mi ha guardato. «Lu, devo dirti una cosa.»
Mi sono fermata. Quelle parole solitamente erano preludio
di un disastro, così mi sono fatta forza. Aveva comprato un altro autobus su eBay, assunto altri extracomunitari per pitturare casa, preso in prestito una capra che ruminasse le nostre erbacce? «Ti ascolto» ho azzardato.
«Non è così grave. È solo che circa quattro mesi fa ho... Stavo bene allora, e ho prenotato una crociera.»
L’ho fissato. «Una crociera?»
«Volevo farti una sorpresa.»
«Okay. Sono sorpresa. Quando partiamo?»
«Be’, saremmo dovuti partire giovedì scorso. Sai, il tuo ultimo giorno di scuola.»
«Ah» ho sospirato. «Sarebbe stato divertente. Perché non
me l’hai detto?»
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«Stavo per farlo, ma volevo che fosse una sorpresa.»
«È carino.»
«Sto cercando di avere il rimborso. Dovrei riuscire a ottenerne metà visto che si è trattato di un ricovero d’emergenza.
Mi dispiace, amore.»
«Anche a me! Te lo immagini? Sesso in spiaggia a mezzanotte. Nuotare nudi nell’oceano. Quasi preferivo che non me
lo dicessi.»
«Sesso in spiaggia?»
«Sesso in spiaggia, Michael. Un sacco.»
Mickey, il mio adorabile marito dall’aspetto incredibilmente normale, mi ha fatto un largo sorriso. «Cosa ne dici... delle
Hawaii per il tuo compleanno?»
«Mmm.»
«Davvero. Partiamo. Starò bene.»
Non so dire esattamente quante volte la stessa cosa non
aveva funzionato. Alla fine forse non così tante da quando abbiamo semplicemente imparato a non fare troppi programmi.
Però l’idea delle Hawaii sembrava favolosa. Gli ho dato un bacio sul mento.
«Lucy, ti giuro che lo farò.»
«Senti qua» gli ho detto. «Mettiamo da parte i soldi, prenotiamo, e tra tre mesi, per il mio compleanno, con o senza di te,
vado alle Hawaii.»
«Oh, ci sarò. Non ci andrai senza di me.»
«So che ci sarai, ma giusto nel caso... stessi ancora cercando di mantenere la tua promessa.»
Mi ha passato il braccio intorno alla spalla e abbiamo passeggiato, sognando e facendo progetti, finché le medicine non
lo hanno reso troppo stanco per camminare. Quando siamo
tornati al terzo piano, nel reparto di psichiatria generale e abuso di sostanze, c’era Peony. «Lucy! È bello vederti, dolcezza. Come stai?»
«Non male.»
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«Hai finito con la scuola per l’estate?»
«Sì, ed è una bella sensazione.»
L’anziana infermiera ha ridacchiato. «Tutti credono che il
mio sia un lavoro difficile, ma non lavorerei con gli adolescenti nemmeno se mi pagassero il doppio.»
Ho sorriso. Pensavo la stessa cosa di quello che faceva lei. Ha
porto a Mickey le sue pillole e un bicchiere di plastica con l’acqua, poi è rimasta a guardarlo mentre le ingoiava. Dopodiché
ha controllato che sotto la lingua non ci fosse nulla, e quel gesto
lievemente intrusivo mi ha sorpreso, come al solito. Nella nostra vita normale, Mickey era un imprenditore di successo,
brillante e divertente. Rilassato e informale. Era il tipo che preparava la cena se tornava a casa prima, si lamentava quando gli
chiedevo di andare al supermercato a comprarmi gli assorbenti, cambiava le gomme dell’auto e pagava le bollette. Il tipo a cui
ancora non riuscivo a resistere appena uscito dalla doccia. Ed
era anche quel tipo lì. Quello che periodicamente buttava all’aria la cura perfettamente calibrata sulle sue necessità che lo
manteneva in buone condizioni, tanto che Peony doveva controllare non avesse nascosto le pillole sotto la lingua. Gli ho
strizzato la mano e lui ha fatto altrettanto.
Dopo anni di pazienza, perseveranza e competenza, Gleason – il dottor Gleason Webb – aveva finalmente individuato
un efficace cocktail per trattare il disordine bipolare di Mickey.
Un cocktail che mio marito di tanto in tanto abbandonava per
ragioni tutte sue, ma che immancabilmente riconducevano a
una graduale reintroduzione di quei medicinali, come in quel
momento. In ogni caso, erano necessarie parecchie pillole per
mantenere mio marito in equilibrio. Uno stabilizzatore dell’umore – di solito il litio, a volte il Depakote –, il Propranolol
per il tremore e il Benadryl per l’irrigidimento muscolare dovuto al tremore. Il Klonopin per gli stati d’ansia acuti, e l’Ambien per dormire. Senza contare gli antidepressivi da aggiungere alla bisogna. Funzionavano tutti magnificamente per
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normalizzare il comportamento, l’umore e le reazioni di Mickey, ma solo se e quando prendeva quello che avrebbe dovuto, il che di frequente era un terno al lotto.
‘Mickey sta prendendo i suoi farmaci?’era la colonna sonora della nostra vita. Se fossi stata una moglie diversa, una di
quelle che conta le pillole e controlla che il marito le ingoi come faceva la sua infermiera, la risposta sarebbe stata un sonoro sì. Ma non potevo prendermi quella responsabilità al suo
posto, togliergli la dignità, perciò non ho mai incoraggiato la
dipendenza di Mickey da me. Nella salute e nella malattia, mi
piaceva responsabile, non dipendente. Questo non voleva dire che non lo controllassi né che non mi occupassi degli affari
quando impazziva. Funziona così quando si ama qualcuno
come Mickey. Non mi lamento, dato che ero stata messa in
guardia sul vivere una vita del genere e che avevo avuto svariate possibilità per cambiare idea. La verità è che penso di essermi innamorata di Mickey appena l’ho visto. E grazie a dio,
perché adesso non potrei immaginare di amare nessun altro.
Oppure di essere amata da qualcun altro. Nonostante le insidie (e le occasionali crociere mancate) sono certa che sceglierei
di nuovo lui.
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3
8 settembre 1998
Mi ha dato il suo numero di telefono, e anche se sapevo che non
l’avrei mai chiamata, l’ho memorizzato comunque. Non ho potuto farne a meno. Nessuno mi ha mai visto nel modo in cui ha fatto lei. So che
sembra strano, ma guardarmi e vedermi sono due cose molto diverse.
E conosco la differenza, dal momento che sono stato guardato dalle
donne, e da non pochi uomini, per la maggior parte della mia vita adulta. Ma Lucy sembra vedermi non attraverso il prisma dell’attrazione
di una giovane donna, ma in una luce molto meno indulgente, più
cruda e rivelatrice. Prima di tutto mi ha completamente disarmato
mentre stavo seduto a flirtare con sua sorella, che, devo dirlo, è piuttosto eccitante (bionda, intelligente e decisamente interessante, e anche
se non è propriamente il mio tipo, durante la festa di compleanno che
avevano organizzato al mio locale, mi stavo proprio divertendo in sua
compagnia). E poi questa ragazza – perché è solo una ragazza – è entrata dalla porta e l’umore è cambiato completamente, si è innalzato.
La conoscevano tutti, ed era ovvio che l’adorassero. È un cliché lo so,
ma non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso mentre si aggirava per la
sala. Abbracciava e sorrideva a tutti entusiasta. Indossava una maglia
nera attillata, gonna corta e stivali – proprio il tipo che piace a me. Ho
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pensato che si fosse accorta che la fissavo, e infatti quando alla fine si è
avvicinata mi sono un po’ agitato. Ma non era per me che veniva, bensì per la ragazza con cui stavo flirtando. Quando ho scoperto che erano sorelle sono rimasto scioccato. Mi ha sorriso con aperto apprezzamento e ha detto di chiamarsi Lucy Houston. Quel nome le si adattava
alla perfezione. Era più piccola di sua sorella e aveva splendidi capelli
castani che mi è proprio venuta la voglia di toccare. Mentre l’altra mi
aveva colpito come un pezzo da esposizione – curata e smagliante –,
Lucy era più naturale e non aveva affatto bisogno di valorizzarsi: pelle chiara, occhioni verdi, nasino all’insù, labbra piene da baciare. Se in
più ci si mette che sembrava proprio una persona piacevole, la piccola
Lucy Houston era praticamente irresistibile.
Be’, ho scoperto che si stava festeggiando il suo ventunesimo compleanno, il che la rendeva troppo giovane per i miei ventinove anni.
Ma è successo qualcosa quando è salita con me sul palco. Stavo semplicemente cercando di fare la mia parte, raccontare qualche barzelletta, far fare due risate, le solite cose. L’ho chiamata sul palco per farmi un po’ da spalla e non ha esitato. Poi tutto il resto è come scomparso
ed è rimasta solo lei. Non so come ha fatto, ma in qualche maniera ha
colto quello che c’è al di là dell’individuo assennato di cui faccio mostra con gli altri e ha visto la mia vera essenza. E non ha battuto ciglio. Quando per puro divertimento l’ho baciata, e lei ha baciato me,
penso di averla semplicemente riconosciuta in qualche maniera cosmica, come una parte di me ritrovata che non sapevo di aver perduto.
Non so se questo genere di cose accade davvero alle persone normali, ma per quanto mi riguarda è stato un fatto piuttosto innegabile. E
per uno come me, che si tiene parecchio al di qua della linea di sicurezza, la cosa è stata scioccante, terrificante. Terrificante al punto da
diventare scemo. Quella ragazza meravigliosa mi ha dato il suo numero di telefono e io l’ho lasciata andare via.
Ho incontrato Mickey Chandler nel 1998 mentre studiavo
alla Northeastern University di Boston. Lily mi aveva attirato
a casa, a Brinley, per il mio ventunesimo compleanno, e ave33
va organizzato una festa invitando tutti quelli che conoscevamo. L’occasione era stata il mio compleanno, ma sapevo che
anche lei aveva bisogno di distrarsi; mia sorella e suo marito
Ron erano appena usciti da un’adozione finita terribilmente
male.
Pensavo che la povera Lily non avrebbe mai smesso di
aspettare quel bambino delizioso. Lo aveva chiamato James
Harrison Bates, come nostro padre e quello di Ron. Eravamo
tutti pazzi di quel bel bimbo senza capelli, sano e adorabile.
Poi, quando la madre quindicenne cambiò idea, lo perdemmo. Quella ragazza, insieme ai due idioti della madre e del legale, bussò alla porta di Lily e chiese suo figlio indietro. Il termine legale era ‘revoca dell’adozione’, e a New York, città da
cui proveniva, la mamma aveva quarantacinque giorni per
notificare la sua intenzione di revocare il consenso. La notificò l’ultimo giorno possibile, aprendo uno squarcio nell’animo di Lily, una ferita che pensavo non si sarebbe mai rimarginata.
Mia sorella giurò che non ci avrebbe mai più provato. Nessuno poteva biasimarla. Non dopo due aborti spontanei, noiosi accertamenti per individuare il problema (incompetenza
cervicale) e una prima adozione fallita. La volta precedente la
mamma aveva cambiato idea prima che il bambino nascesse,
perciò era stata dura per Lily, ma non quanto perdere Jamie.
Dopo Jamie, l’argomento bambini divenne completamente
tabù. Poi, semplicemente inutile: io avevo giurato di non riprodurmi, e Priscilla aveva sposato la sua carriera, insistendo
di non essere interessata alla famiglia. Dal momento che Ron
voleva disperatamente alleviare le pene di sua moglie, le aveva comprato uno stabile vittoriano fatiscente nella storica Rotonda di Brinley, e il loro ‘bambino’era diventato un negozio
di antiquariato che si chiamava Ghosts. Conclusero l’affare il
giorno del mio ventunesimo compleanno, perciò la mia grande serata fu anche la loro.
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Lily aveva fatto di tutto perché la mia festa fosse strepitosa.
Aveva trovato il posto e ingaggiato il proprietario perché si occupasse dell’animazione. Poi aveva invitato tutti i miei amici e
anche alcune delle mie mamme putative. Ne avevo avute diverse negli anni, da quando la nostra era mancata. Avevo solo
diciassette anni, e agli occhi delle donne di Brinley non ero ancora un’adulta. Tre donne in particolare occupavano il podio,
ed erano tutte al Colby per la mia festa quella sera: Jan Bates,
Lainy Withers e Charlotte Barbee. Delle tre, probabilmente
ero più legata a Jan. Era un’artista di talento, e una volta aveva
fatto un ritratto di Lily, Priss e me insieme a papà che avevamo
regalato alla mamma. L’aveva realizzato mettendo insieme
delle foto di noi da bambine, ma nessuno avrebbe creduto che
non avevamo posato per lei. Quando la mamma era ancora
viva era appeso nella sua camera da letto. Dopo la sua morte
l’aveva preso Lily, che lo teneva sul caminetto. Jan e Harrison
Bates erano stati i più cari amici dei miei genitori, e non avrebbero potuto essere per noi di maggior sostegno se fossimo state sangue del loro sangue.
Lily mi guardò abbracciare Jan, e poi anche lei mi soffocò
in un abbraccio, che ricambiai. Mia sorella era diventata pelle
e ossa e aveva un cerchio di dolore intorno agli occhi, ma si
stava sforzando di nasconderlo, in particolare provò a farlo
quando Ron intonò un Tanti auguri a te talmente stonato da
danneggiarci i timpani. Priscilla, il gioiello sfavillante della famiglia, era nell’angolo avvolta nell’abbraccio di un uomo avvenente che sembrava leggermente bisognoso d’aiuto. Mentre andavo verso di lei, sfoggiò il suo sorriso smagliante. La
mia sorella maggiore era davvero provocante con addosso jeans attillati e maglietta rossa ancora più aderente. Flirtava come una cortigiana, ma lei era una maestra dei contrasti. A
guardarla in quell’atteggiamento non si sarebbe mai detto che
stesse scalando con tenacia il ramo del diritto d’impresa e potesse mettere in difficoltà un avversario solo con la sua parlan35
tina. Era una tripla minaccia ben equipaggiata: bellissima,
brillante e determinata. Ma aveva un punto debole di cui pochi, a parte Lily e me, intuivano l’esistenza.
«Ehi» dissi.
«Ehi, tu» fece, mollando il braccio tonico del suo amico quel
tanto che le consentiva di abbracciarmi. «Buon compleanno,
Lu» mi sussurrò frettolosamente nell’orecchio. Dopodiché
tornò a rimettersi in posizione accanto all’uomo affascinante
che mi stava fissando.
Sorrisi. «Sono Lucy.»
Lui si alzò. Era alto, spalle larghe e vita sottile. Io, invece,
sono piuttosto piccola, e dovetti alzare lo sguardo per incontrare il suo. Mi tese la mano e la strinsi.
«Lui è... Be’, a essere onesta» Priss sorrise «non so nemmeno
il tuo nome.»
«Sono Mickey.» Fece un sorriso, ed ebbi la sensazione che celasse qualcosa di bello per me. Lanciai un’occhiata a Priss, che
con lo sguardo mi avvertì di averlo visto per prima. Un vero
peccato, perché era molto carino. Aveva dei magnifici capelli,
scuri e ondulati con una frangia argentea che gli ricadeva sulla
fronte e rendeva difficile determinarne l’età; avrei detto trenta.
La bocca grande e magnifici occhi scuri, che non mi toglieva di
dosso e che mi fecero pensare: Mi ci potrei abituare. Ma non ero
mai entrata in competizione con Priscilla per gli uomini, e non
avevo intenzione di cominciare a farlo, perciò ritrassi la mano
dicendo semplicemente: «Piacere.»
I suoi occhi continuarono a fissarmi, tanto da farmi pensare
che se fossimo entrate in competizione, Priscilla avrebbe avuto del filo da torcere. Ma mia sorella era senz’altro a suo agio, e
ce la lasciai andando a raggiungere i miei amici.
Il Colby si trova in una cittadina vicino Brinley, e quella sera
era zeppo di musica, birra e chiacchiere. Io mi stavo divertendo ad ascoltare le ultime novità del mio amico Chad Withers,
che conoscevo dall’asilo. Dirigeva l’unica società di pompe fu36
nebri di tutta Brinley insieme a suo padre, e mi stava mettendo
a parte della sua sterile vita amorosa quando qualcuno batté su
un microfono provocando un suono stridulo: «Funziona questo coso?»
Si girarono tutti verso il piccolo palco nell’angolo della sala. Pensai fosse Ron che dava il via ai festeggiamenti, invece
rimasi sorpresa, a fare gli onori c’era l’amico bonazzo di Priscilla dal sorriso incantevole.
Disse: «Benvenuti al Colby! È bello vedervi. Vi state divertendo? Venite tutti da Brinley, giusto?»
Chad si portò le dita alla bocca e fischiò.
«Bene, bene. Gira voce che Brinley sia famosa per il divertimento. Immagino ci si diverta quasi come al bingo nella sala
municipale...» Mickey rise, mettendosi una mano sul cuore
con finta contrizione. «Scherzo. Mi piace Brinley Township. La
gente è davvero carina da queste parti. E ricca, ho sentito dire,
che è ancora meglio, perciò... sentitevi pure liberi di spendere i
vostri soldi. Howie laggiù prepara drink eccezionali, e in questa serata in onore della nostra ospite speciale è tutto per voi.»
Urla divertite echeggiarono per tutto il locale, e mi sentii arrossire lievemente.
«Sì. I ventuno durano un attimo, perciò bevete, sono in ritardo con le rate del mutuo.» Ridacchiò infilandosi la mano
nella tasca e ritirandola subito fuori. «Allooora, sono Mickey
Chandler, e qui al Colby andiamo matti per le occasioni speciali, in particolare i compleanni, e stasera mettiamo in mezzo Lucy Houston.» Frugò sotto la maglietta e tirò fuori un
pezzo di carta. «Voglio ringraziare sua sorella Lily per avermi
spifferato tutti i pettegolezzi che riguardano dissoLucy, se capite quello che intendo. Dov’è? Qualcuno ha visto la festeggiata?»
Nella sala buia un riflettore mi illuminò, e appena i miei
amici cominciarono a schiamazzare io feci un inchino teatrale.
Mickey batté le mani un paio di volte. «Eccola lì. Lucy
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adesso ha ventun anni, perciò occhio! Vediamo un po’... Sei
una studentessa, giusto?»
Annuii.
«Studi a Boston e fai la bella vita con le coinquiline, immagino. Allora dimmi un po’. Ognuna ha un proprio ripiano nel
frigo, ho indovinato? E scommetto che metti il nome sul tuo
formaggio e su tutte le uova se ne compri una confezione. Ammettilo, Lucy.» Mickey ridacchiò. «I ragazzi non fanno di queste cose. È tutto in comune, vero, ragazzi? Cibo, birra, ragazze.
Chi arriva prima. Ho ragione?»
Chad fischiò come se sapesse bene di cosa parlava Mickey,
e io sorrisi, ma solo perché era troppo carino! La cosa più importante, però, fu che rise Lily, e ne aveva un bisogno disperato, perciò cominciai immediatamente a divertirmi.
«Lucy, andiamo, vieni quassù» disse Mickey. «Dammi una
mano prima che combini un disastro e i tuoi amici decidano
di andare al bingo.»
Senza imbarazzo, mi avviai prima che finisse di chiedermelo, passando accanto a Priss. Sembrava un pochino seccata,
ma non potevo farci proprio nulla. Sul palco, rividi il sorriso di
Mickey – quello bello che mi aveva fatto poco prima – e me ne
lasciai abbagliare senza badare a mia sorella. Priscilla e Lily sono entrambe bellissime e bionde, ma i capelli più belli sono i
miei: spessi e di un castano rossiccio, come quelli di mio padre.
Quella sera li portavo sciolti, e Mickey si avvicinò per guardarli meglio, allungando le mani per toccarli. Fu una sensazione
fantastica.
«Come mai non sei bionda anche tu?» mi disse allontanandosi dal microfono e facendo scorrere una ciocca tra le
dita. Poi si riscosse e proseguì. «Allora, ehm, Lucy... Ventuno.
Cosa fanno le ragazze di ventun anni per divertirsi?»
«Be’, signor Chandler, penso proprio che facciano le stesse cose dei vecchi sporcaccioni.»
«Vecchi sporcaccioni?» disse fingendosi offeso. «Mi stai uc38
cidendo. Ma ti lascerò stare dal momento che sei una ragazzina che festeggia il compleanno, e anche piuttosto vivace.»
«Grazie. Anche tu non sei male.» Mi protesi verso di lui per
dargli una pacca sul petto massiccio, e dopo averlo fatto nei
suoi occhi vidi uno sguardo che non avrei voluto lasciar scomparire per tutto l’oro del mondo.
Si riscosse velocemente. «Non sono fantastiche le studentesse universitarie, ragazzi? Splendide giovani donne. Ma bisogna acchiapparle al momento giusto. Voglio dire, nel fiore
degli anni ma ancora abbastanza sciocche da concedervi una
possibilità. Perché dopo, quando fanno sul serio con le loro
vite, scordatevelo. È finita per i tipi come noi. Vero, Lucy?»
«Parli di me?»
Mickey si guardò intorno in modo teatrale. «Non vedo nessun altro qui sopra.» Poi afferrò un’altra ciocca dei miei capelli. «Meglio controllare di nuovo il biondo. Sì, sto parlando di
te» confermò.
«Be’, sono piuttosto sicura che con me una possibilità ce
l’avresti.»
Ancora una volta era confuso, e i miei amici lo incitavano.
«Per compassione, vero?» disse. «Sei una studentessa diligente che prova compassione per uno laureato magna-cumniente finito a fare cabaret?»
«Mi stai prendendo in giro?» dissi con voce stridula. «Un
comico con una laurea? Sono spacciata!»
I suoi occhi ridenti si fissarono nei miei mentre decideva la
mossa successiva. Alla fine disse: «Be’, a posto allora! Dài!»
Mickey Chandler mi attirò a sé dando una magnifica dimostrazione di come dare un bacio di compleanno a una giovane
universitaria. Credo che nelle sue intenzioni fosse un innocuo
bacetto, ma io mi ci misi d’impegno – era il mio compleanno,
dopotutto – e a dirla tutta, anche lui. C’era qualcosa di familiare nel modo in cui le nostre lingue danzavano e i denti si toccavano. Fu delizioso, e non fui io a decidere di smettere.
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Quando alla fine ci separammo, ero senza fiato e leggermente imbarazzata. La maschera di Mickey era scivolata via
di nuovo, e lui sembrava non poter credere a quello che era appena accaduto. Risi e incespicai fuori dal palco durante una
versione licenziosa di Tanti auguri a te. Per gli invitati lo sketch
era stato semplicemente un gran divertimento. Be’, Priss sembrava un po’infastidita, ma a me non importava, era la mia serata. Mickey continuò a guardarmi cercando di fare l’indifferente, e la cosa mi rese felice. Mentre mi dirigevo verso il bar,
Priss mi intercettò. «Che significa?»
«Niente. Non significa niente, solo uno scherzo.»
«Sembrava molto più di questo» disse, scocciata.
Mi misi a ridere e lanciai un’occhiata verso il palco alle mie
spalle, dove Mickey Chandler guardava ancora nella mia direzione mentre raccontava una storiella divertente su una
coppia di cani davanti a un bancomat. Cercai d’immaginare
quello che stesse dicendo, visto che Priscilla, la sorella alta, favolosa e bionda, che sprizzava sensualità da tutti i pori, si era
fatta loquace con la più piccolina, considerevolmente meno
sensuale – ma davvero carina in gonna e stivali – sorella minore, che non possedeva nessuna delle sue qualità.
Quando vidi Mickey lasciare il palco, dissi: «Ecco la tua occasione, Priss.»
Mia sorella ci pensò un istante, ma poi guardò oltre la mia
spalla. «Ho un recupero da fare. Perciò considera il simpaticone il mio regalo di compleanno.»
Mi voltai e vidi Trent Rosenberg fissare mia sorella come
fosse cibo e lui a digiuno da un anno. Erano stati fidanzati ai
tempi del liceo, e i continui pettegolezzi sul loro conto erano i
più ricorrenti di Brinley. Volevo credere che mia sorella meritasse più di un tipo come lui. Specialmente da quando era sposato con figli. «Non essere stupida, Priss.»
«Cosa? Non è niente.»
Avrei voluto dire di più, ma proprio in quel momento Li40
ly s’infilò tra noi e chiese a Ron di farci una foto. Mi spinse
davanti a loro due e tutte sorridemmo; le ragazze Houston
nella loro consueta posa: io in mezzo alle mie due sorelle più
grandi, avvinghiate l’una all’altra.
Appena finito, Chad mi prese per mano. «Andiamo, Lu,
c’è la nostra canzone.» E infatti gli Wang Chung esplosero dal
juke-box, riportandomi al ballo dell’ultimo anno del liceo.
Quando tutti gli altri se ne furono andati a casa a dormire,
decisi di cercare Mickey Chandler. Il barman mi indicò in
fondo al corridoio, dove c’era un ufficio con la porta leggermente socchiusa. Mi schiarii la voce e bussai. Mickey alzò lo
sguardo dal computer. «Ehi.»
«Ehi, volevo solo ringraziarti per averci fatto divertire.»
«È stato un piacere.» Fece un largo sorriso.
Scarabocchiai il mio numero di telefono su un tovagliolo e
glielo porsi sfoggiando il mio miglior sorriso. «Sono stata molto bene.»
Prese il tovagliolo e sembrò sorpreso. «Eri naturale lì sopra»
commentò sorridendo a disagio. Dopodiché non disse più
una parola. Niente. Perciò, prima che la situazione diventasse
troppo imbarazzante, aggiunsi: «Be’, grazie.» E me ne andai.
Ero confusa e un po’delusa, ma mi rifiutavo di credere di aver
frainteso.
Mickey Chandler mi intrigava. Mentre stavo sul palco a
scherzare con lui, avevo capito di aver colto un lampo di qualcosa di molto reale dietro la sua maschera da clown. Lui sapeva che l’avevo visto, e non avevo idea di come lo facesse sentire la cosa. Ma era il lampo dell’uomo che avevo visto nascosto
dietro il buffone ad avermi colpito. Cercai di non soffermarmici, ma devo ammettere che qualche volta il pensiero mi attraversò la mente negli otto mesi successivi.
Era la fine di maggio del 1999 quando Priscilla piombò nel
mio appartamento vicino al campus alle quattro del mattino. Andai alla porta con gli occhi annebbiati dal sonno, ma
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vederla lì in piedi che tremava mi fece svegliare immediatamente. Aveva i capelli bagnati. «Priss, che succede?»
«Ho bisogno che mi accompagni a casa» disse passandomi
accanto velocemente per entrare. Non aveva le scarpe. «Dove
sono le tue chiavi?»
«Priscilla, che cosa succede?»
«Puoi accompagnarmi?» Sollevò i cuscini muovendosi in
fretta per la stanza. «Dove cavolo è la tua borsa!»
Afferrai la sua mano e lei cercò di ritrarla, ma io la trattenni.
«Priscilla, smettila. Che cosa sta succedendo?»
«Ho sentito un nodulo!» gridò. Poi a voce più bassa, terrorizzata: «Ho sentito un nodulo.»
La guardai senza fiato.
«Ti prego, Lucy. Possiamo andare?»
Mi misi in macchina in pigiama, Priss era in preda al panico e io mi chiesi per tutto il tragitto verso Brinley se mi fossi
persa qualcosa. Avevo frequentato mia sorella abbastanza
spesso da quando ero a Boston, ma non avevo mai visto la
Morte incombere vicino a lei. In quel momento avevo paura
di guardare. Avevamo fatto più di metà strada in silenzio
quando le presi la mano. «Priss, dimmi qualcosa.»
Lei strinse la mia e poi la lasciò andare. «Guida, Lu.»
Più tardi quella mattina Charlotte decise di fare una biopsia. Poi aspettammo. Eravamo tutte nel suo studio quando
arrivarono i risultati, Lily e io tenevamo Priss per mano. Grazie a dio le notizie non erano terribili. Il nodulo era maligno,
ma completamente circoscritto e si poteva asportare nella sua
interezza. In teoria era un motivo per festeggiare, ma in pratica, l’area circostante la formazione doveva essere esaminata a
fondo nell’eventualità ci fossero cellule anomale. Se avessero
trovato qualcosa, allora ci sarebbe stato motivo di preoccuparsi. Perciò Priss fu operata e noi rimanemmo ad aspettare.
Per Lily e me fu una lunga giornata trascorsa a tenerci per mano. «Non credo di riuscire a sopportare di vederla affrontare
una situazione del genere» disse Lily più di una volta.
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«È troppo combattiva per lasciarsi abbattere» replicai io.
In tarda serata arrivò il referto in cui si diceva che le cellule circostanti erano a posto. Fu un enorme sollievo, in special
modo per Lily. Ron la portò a casa intorno alle undici, ma io
restai, perché Priscilla era troppo irrequieta.
Era quasi mezzanotte quando finalmente si addormentò,
grazie a una massiccia dose di sonniferi. Avevo bisogno di una
pausa, così scesi alla caffetteria per bere una cosa. La luce era
tenue e la sala tranquilla. Le sedie erano state messe quasi tutte sui tavolini per lavare il pavimento. C’era solo un ometto al
bancone. Mi guardai intorno in cerca di un posto per sedermi
e mi accorsi di essere praticamente sola, fatta eccezione per
due medici nell’angolo e un ragazzo seduto da solo.
Riconobbi immediatamente la frangia grigia dei suoi capelli incrociando lo sguardo di Mickey Chandler. Quando lui
non lo distolse, mi avvicinai e dissi: «Ehi, spiritosone. Ti ricordi di me?»
Mi guardò come se vedesse un fantasma. «La festeggiata.»
«Sì.»
«Come va?»
«È stata una lunga giornata, ma sto bene. Tu?»
«Io un portento.»
«Portento?» dissi. «Non ho mai sentito qualcuno usare davvero la parola ‘portento’prima d’ora. Sei davvero vecchio, eh?»
Quella sera, Mickey non ebbe nessuna battuta spiritosa con
cui rispondermi. Il suo sorriso era svanito e lo sguardo sembrava tormentato.
Mi schiarii la voce. «Be’, mi fa piacere vederti.»
L’addetto alla caffetteria stava arrivando con le mie patatine. Mickey allontanò una sedia dal tavolo con i piedi. «Ti vuoi
sedere?»
«Sicuro? Non voglio interrompere le tue elucubrazioni.»
Ridacchiò. «Mi ricordo di te. Sfacciata fino al midollo.»
Mi sedetti e l’ometto posò un piatto stracolmo sul tavolo.
«Fame?» scherzò Mickey.
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