1 In girum imus nocte et consumimur igni Non farò in questo film

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1 In girum imus nocte et consumimur igni Non farò in questo film
In girum imus nocte et consumimur igni
Testo di Guy Debord, 1978
Voce narrante fuori campo del film “ In girum imus nocte et consumimur igni ”.
Non farò in questo film alcuna concessione al pubblico. Numerose ed eccellenti ragioni
giustificano, ai miei occhi, una tale condotta; e mi accingo a esporvele.
Tanto per cominciare, è abbastanza noto che non ho mai fatto alcuna concessione alle idee
dominanti della mia epoca, ne ad alcuno dei poteri esistenti.
D’altra parte, quale che sia l’epoca, nulla di importante è mai stato comunicato avendo riguardo
per un pubblico, fosse pure composto di contemporanei di Pericle; e, nel gelido specchio dello
schermo, attualmente gli spettatori non vedono niente che evochi i rispettabili cittadini di una
democrazia.
Ma ecco l’essenziale: questo pubblico così perfettamente privo di libertà, e che ha sopportato di
tutto, merita meno di tutti gli altri riguardo. I manipolatori della pubblicità, con il consueto cinismo
di coloro che sanno che le persone sono portate a giustificare gli affronti dei quali non si vendicano,
oggi annunciano loro tranquillamente che ‹‹ quando si ama la vita, si val al cinema ››. Ma questa
vita e questo cinema sono ugualmente poca cosa; ed è perciò che sono effettivamente
interscambiabili con indifferenza.
Il pubblico del cinema, che non è mai stato troppo borghese e che non è quasi più popolare, è
oramai per lo più interamente reclutato in una sola classe sociale, del resto divenuta assai ampia:
quella dei piccoli agenti specializzati nei diversi impieghi di quei ‹‹ servizi ›› di cui il sistema
produttivo attuale ha imperiosamente bisogno: gestione, controllo, intrattenimento, ricerca,
insegnamento, propaganda, divertimento e pseudo-critica. Tanto basta per dire quel che sono. Nel
pubblico che va ancora al cinema, non v’è dubbio, bisogna anche annoverare la stessa razza di gente
allorché, più giovane, non è che a uno stadio di apprendistato sommario di quelle diverse operazioni
di inquadramento.
Dal realismo e dalle realizzazioni di questo famoso sistema, si possono già conoscere le capacità
personali degli esecutori che ha formato. E in effetti costoro si ingannano su tutto, e non possono
che sragionare su delle menzogne. Sono dei salariati poveri che si credono dei proprietari, degli
ignoranti raggirati che si credono istruiti, e dei morti che credono di votare.
Come li ha trattati duramente il sistema di produzione moderno! Di progresso in progresso, hanno
perduto il poco che avevano, e guadagnato ciò che nessuno voleva. Collezionano le miserie e le
umiliazioni di tutti i sistemi di sfruttamento del passato; non ne ignorano che la ribellione.
Assomigliano molto agli schiavi, perché sono stipati in massa in brutti fabbricati, malsani e lugubri;
mal nutriti da una alimentazione contaminata e senza gusto; mal curati nelle loro malattie che si
rinnovano di continuo; continuamente e meschinamente sorvegliati; mantenuti in un analfabetismo
riadattato e nelle superstizioni spettacolari che corrispondono agli interessi dei loro padroni. Sono
trapiantati lontano dalle loro provincie e dai loro quartieri, in un paesaggio nuovo e ostile, secondo
le convenienze concentrazionarie dell’industria presente. Non sono che cifre entro grafici
apparecchiati da imbecilli.
Muoiono in serie sulle strade, ad ogni epidemia di influenza, ad ogni ondata di caldo, per ogni
errore di coloro che adulterano i loro alimenti, per ogni innovazione tecnica che crei profitto ai
molteplici imprenditori di un ambiente di cui essi sono i primi a subire gli inconvenienti. Le loro
spaventose condizioni di vita sono la causa della loro degenerazione fisica, intellettuale, mentale. Si
parla loro sempre come a dei bambini obbedienti, ai quali è sufficiente dire: ‹‹ bisogna ››, ed essi
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sono subito pronti a crederlo. Ma soprattutto li si tratta come bambini scemi, davanti ai quali
barbugliano e delirano decine di specializzazioni paternaliste dell’ultima ora, che fanno loro credere
non importa che cosa dicendoglielo non importa come; e, l’indomani, altrettanto bene il contrario.
Separati fra loro a causa della generale perdita di ogni linguaggio adeguato ai fatti, perdita che
impedisce loro il benché minimo dialogo; separati dalla loro incessante concorrenza, sempre
incalzati dalla frusta nell’ostentato consumo del nulla , e dunque separati da un’invidia insensata e
incapace di trovare una qualsivoglia soddisfazione, sono separati perfino dai loro propri figli, che,
ancor non è molto, erano la sola proprietà di coloro che non hanno nulla. Si toglie loro, sin da
piccoli, il controllo di quei bambini, già loro rivali, che non ascoltano assolutamente le opinioni
confuse dei propri genitori, e sorridono delle loro flagranti sconfitte, che disprezzano non senza
ragione le proprie origini, e si sentono molto più figli dello spettacolo regnante che figli di quelli fra
i suoi servi che li hanno generati per caso: essi si immaginano i meticci di questi negri. Dietro la
facciata di una felicità simulata, in quelle coppie come tra loro e la loro prole, non ci si scambia che
sguardi di odio.
Tuttavia, questi lavoratori privilegiati della società mercantile compiuta non assomigliano agli
schiavi, nel senso che devono provvedere da sé al loro sostentamento. Il loro statuto può essere
piuttosto comparato al servaggio, poiché sono legati esclusivamente a un’impresa e al suo buon
andamento, benché senza reciprocità in loro favore, e soprattutto poiché sono rigorosamente forzati
a risiedere in un unico spazio, la stessa cerchia di abitazioni, uffici, autostrade, vacanze e aeroporti
sempre identici.
Ma assomigliano anche ai proletari moderni per l’insicurezza delle loro risorse, che è in
contraddizione con la routine programmata delle loro spese, e per il fatto che devono vendersi in un
libero mercato senza possedere gli strumenti del loro lavoro, perché hanno, di fatto, bisogno di soldi.
Devono comperare delle merci, e si è fatto in modo che non resti loro alcun contatto con nulla che
non sia una merce.
Ma dove però la loro situazione economica si apparenta più precisamente al particolare sistema
del peonaggio, è in questo, che non si lascia loro nemmeno più il maneggio momentaneo di quei
soldi intorno ai quali gira tutta la loro attività. Non possono evidentemente che spenderli,
ricevendone in troppo piccola quantità per accumularli, ma in fin dei conti si vedono obbligati a
consumare a credito, e gli vien trattenuto dal salario il credito a loro consentito, dal quale si
potranno liberare lavorando ancora.
Siccome tutta l’organizzazione della distribuzione dei beni è legata a quella della produzione e
dello Stato, si lesina disinvoltamente su tutta la loro razione, di cibo come di spazio, in quantità e in
qualità. Così che restando formalmente dei lavoratori e dei consumatori liberi, non possono
rivolgersi altrove, perché non c’è posto ove non ci si prenda gioco di loro.
Non cadrò nell’errore semplicistico di identificare totalmente la condizione di questi salariati di
prima classe a delle forme anteriori d’oppressione socio-economica. Innanzi tutto perché, se non si
considera il soprappiù di falsa coscienza e la loro doppia o tripla partecipazione all’acquisto delle
desolanti paccottiglie che ricoprono la quasi totalità del mercato, si vede bene che non fanno che
condividere la triste vita della gran massa dei salariati d’oggi. D’altronde è con l’ingenua intenzione
di far perdere di vista questa irritante trivialità che molti assicurano di sentirsi imbarazzati di vivere
in mezzo alle delizie quando la miseria opprime dei popoli lontani. Un’altra ragione per non
confonderli con i miserabili del passato è che il loro statuto specifico comporta in sé tratti
indiscutibilmente moderni. Per la prima volta nella storia, ecco degli agenti economici altamente
specializzati che, fuori dal loro lavoro, devono fare tutto da sé. Guidano essi stessi la loro auto, e
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cominciano a pompare da sé la loro benzina, fanno da sé i loro acquisti o ciò che loro chiamano
“ cucinare ”, si servono da sé nei supermercati, come in ciò che ha sostituito i vagoni- ristorante.
Senza dubbio la loro qualifica molto indirettamente produttiva è stata acquisita velocemente, ma in
seguito, quando hanno fornito la loro quota oraria di quel lavoro specializzato, devono fare con le
proprie mani tutto il resto. La nostra epoca non è ancora giunta a superare la famiglia, il denaro, la
divisione del lavoro. E tuttavia, di può dire che, per costoro, di già, la realtà effettiva si è pressoché
interamente dissolta nella semplice spoliazione. Quel che non avevano mai avuto di bottino l’han
mollato per la sua ombra.
Il carattere illusorio delle ricchezze che pretende distribuire la società attuale, se non fosse stato
riconosciuto in tutti gli altri casi, sarebbe sufficientemente dimostrato per questa sola osservazione,
che è la prima volta che un sistema di tirannia mantiene così male i suoi familiari, i suoi esperti, i
suoi buffoni. Servitori strapazzati del vuoto, il vuoto li gratifica in moneta con la sua effigie. Detto
altrimenti, è la prima volta che dei poveri credono di far parte d’una élite economica malgrado
l’evidenza contraria.
Non soltanto lavorano, questi sfortunati spettatori, ma nessuno lavora per loro, e men che meno la
gente che pagano, poiché i loro stessi fornitori si considerano piuttosto come i loro capireparto,
giudicando se sono venuti abbastanza valorosamente alla raccattatura dei surrogati che hanno il
dovere di comperare. Niente potrebbe nascondere la veloce usura che è inserita all’origine, non solo
in ciascun oggetto materiale, ma fin sul piano giuridico, nelle loro rare proprietà. Come non hanno
ricevuto una eredità, non ne lasceranno alcuna.
Dovendo dunque il pubblico del cinema, innanzitutto pensare a delle verità così rudi, e che lo
toccano così da vicino, e che gli sono così generalmente nascoste, non si può negare che un film che,
per una volta, gli rende questo acerbo servizio di rivelargli che il suo male non è così misterioso
come crede, e che forse non è neppure incurabile per poco che noi si giunga un giorno
all’abolizione delle classi e dello Stato, non si può negare, dico, che un tal film non abbia, in questo
almeno, un merito. Non ne avrà d’altri.
In effetti, questo pubblico che vuole sempre e comunque passare per esperto e giustifica in tutto e
per tutto ciò che ha subito, che accetta di veder cambiare in qualcosa di sempre più ripugnante il
pane che mangia e l’aria che respira, come pure la carne e le case, non è riluttante al cambiamento
se non quando si tratta del cinema a cui è abituato e, apparentemente, questa è l’unica delle sue
abitudini a venire rispettata. Forse da molto tempo a questa parte ci sono stato solo io a offenderlo
su questo punto. Infatti tutti gli altri film, a volte anche ammodernati al punto di ispirarsi a dibattiti
resi attuali dalla stampa, postulano l’innocenza di un pubblico del genere e gli mostrano, secondo la
consuetudine fondamentale del cinema, ciò che accade in lontananza: ogni sorta di divi che hanno
vissuto al suo posto e che lui contemplerà dal buco della serratura di una familiarità becera e
maliziosa.
Il cinema di cui sto parlando è l’imitazione insensata di una vita insensata, è una rappresentazione
ingegnosa nel non dire niente, abile a ingannare per un’ora la noia con il riflesso della noia
medesima; questa fiacca imitazione è l’ingenua vittima del presente e il falso testimone del futuro
che, attraverso innumerevoli finzioni e grandi spettacoli, non fa che consumarsi inutilmente
accumulando immagini che il tempo si porta via. Quanto infantile rispetto per le immagini! Sta bene
a questa plebe delle vanità, sempre entusiasta e sempre delusa, priva di gusto perché di nulla ha
avuto un’esperienza felice e incapace di riconoscere alcunché delle proprie esperienze infelici
perché priva di gusto e di coraggio: al punto che nessun tipo di impostura, generale o particolare, ha
mai potuto incrinare la sua interessata credulità.
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Eppure, benché si stenti a crederlo, dopo tutto quello che ciascuno ha potuto constatare, esistono
ancora, tra gli spettatori specializzati che fanno la lezione agli altri, dei tarati capaci di sostenere che
una verità enunciata al cinema, se non è provata dalle immagini, ha qualcosa di dogmatico!
D’altronde il servitorame intellettuale di questa nostra stagione chiama invidiosamente “discorsi da
maestro” quelli che descrivono la sua stessa servitù; quanto ai dogmi ridicoli dei padroni, vi si
identifica così pienamente da non riconoscerli nemmeno. Che cosa bisognerebbe provare attraverso
le immagini? Non si è mai provato niente se non attraverso il movimento reale che dissolve le
condizioni esistenti, vale a dire l’organizzazione dei rapporti di produzione di un’epoca e le forme
di falsa coscienza cresciute su quella base. Non si sono mai visti errori smentiti dalla mancanza di
una buona immagine. Chi crede che i capitalisti siano ben attrezzati per gestire sempre più
razionalmente l’espansione della sua felicità e i piaceri variati del suo potere d’acquisto riconoscerà
in queste facce i volti capaci di alcuni uomini di Stato; e chi crede che i burocrati stalinisti siano il
partito del proletariato vedrà qui altrettante belle facce di operai. Le immagini esistenti non provano
altro che le menzogne esistenti. Gli aneddoti rappresentati sono le pietre con cui si è costruito
l’intero edificio del cinema. In esso non si ritrovano se non i vecchi personaggi del teatro, ma su una
scena più mobile e spaziosa, o del romanzo, ma in abiti e ambienti più immediatamente sensibili. È
stata una società, e non una tecnica, a creare il cinema. Esso avrebbe potuto essere esame storico,
teoria, saggio, memoriale. Avrebbe potuto essere il film che faccio io in questo momento.
Ecco infatti un film in cui dico alcune verità sulle immagini, le quali sono tutte insignificanti o
false, un film che disprezza la polvere di immagini di cui è composto. Non voglio conservare niente
del linguaggio di questa arte decaduta, se non forse il controcampo del solo mondo che abbia
guardato e una carrellata sulle idee passeggere di un tempo. Sì, mi vanto di fare un film con quello
che capita e trovo divertente che a lagnarsene siano proprio coloro che hanno lasciato si facesse di
tutta la loro vita quello che capita.
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Ho meritato l’odio universale della società del mio tempo e mi avrebbe dato fastidio avere altri
meriti agli occhi di una società del genere. Ma ho notato come sia ancora una volta nel cinema che
ho sollevato l’indignazione più perfetta e più unanime. Si è persino spinto il disgusto al punto di
plagiarmi molto meno qui che altrove, in ogni caso fino a questo momento. La mia stessa esistenza
resta, in questo ambito, un’ipotesi generalmente respinta. Mi vedo dunque posto al di sopra di tutte
le leggi di genere. Eppure, come diceva Swift, ‹‹ non è una magra soddisfazione per me presentare
un’opera assolutamente al di sopra di ogni critica ››.
Per giustificare anche solo un poco l’ignominia completa di ciò che quest’epoca avrà scritto o
filmato, bisognerebbe poter sostenere un giorno che non ci sia stato letteralmente nient’altro e con
ciò stesso che nient’altro, non si sa troppo bene perché, fosse stato possibile. Ebbene, io da solo
basterei a smentire, con il mio esempio, questa scusa imbarazzata. E siccome non ho avuto bisogno
per farlo se non di pochissimo tempo e pochissima fatica, mi è parso che niente dovesse farmi
rinunciare a una soddisfazione del genere.
Non è così naturale, come si vorrebbe credere oggi, aspettarsi da chiunque abbia per mestiere
diritto alla parola, nelle presenti condizioni, che si faccia portatore qui o là di novità rivoluzionarie.
Una simile capacità evidentemente appartiene solo a chi ha incontrato ovunque l’ostilità e la
persecuzione, e non i crediti dello Stato. E addirittura, per andare più a fondo, qualunque sia la
complicità generale per passare sotto silenzio la questione, si può affermare con certezza che
nessuna contestazione reale può essere portata avanti da individui che, facendosene portatori, si
siano comunque elevati socialmente un po’ di più di quanto avrebbero fatto astenendosene. Tutta
questa gente non fa che imitare l’esempio ben noto del fiorente personale sindacale e politico
sempre pronto a prolungare di un millennio le proteste del proletariato, al solo scopo di conservargli
un difensore.
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Da parte mia, se ho potuto essere così deplorevole nel cinema, è perché sono stato assai più
criminale altrove. Sulle prime, ho pensato bene di dedicarmi al rovesciamento della società e ho
agito di conseguenza. Ho preso quella risoluzione in un momento in cui quasi tutti credevano che
l’infamia esistente, nella sua versione burocratica, avesse un grande futuro. E da quel momento in
poi non ho, come gli altri, cambiato opinione una o più volte, al cambiare dei tempi: sono stati i
tempi, piuttosto, a cambiare secondo le mie opinioni. E c’è di che dispiacere ai propri
contemporanei per questo.
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Così al posto di aggiungere un altro film alle migliaia di film qualsiasi, preferisco esporre in
questa sede il motivo per cui non farò niente del genere. Ciò equivale a sostituire alle avventure
futili che il cinema racconta l’esame di un tema importante: me stesso.
Mi si è talvolta rimproverato, credo a torto, di fare film difficili: finirò per farne uno. A chi si
irrita per il fatto di non comprenderne tutte le allusioni, o a chi confessa addirittura di sentirsi
incapace di distinguere nettamente le mie intenzioni, risponderò che deve rammaricarsi solo della
sua incultura e della sua sterilità e non dei miei modi: ha perduto il suo tempo all’Università, dove
si rivendono alla chetichella piccole partite di conoscenze avariate.
Considerando la storia della mia vita, mi rendo conto molto chiaramente di non potere fare quella
che si dice un’opera cinematografica. E credo di poterne convincere agevolmente chiunque, tanto
per i contenuti quanto per la forma del presente discorso.
In primo luogo, devo respingere la più falsa delle leggende, secondo la quale sarei una sorta di
teorico delle rivoluzioni. Certe persone limitate hanno l’aria di credere, al punto in cui siamo, che io
prenda le cose sul piano della teoria, che io sia un costruttore di teorie, di quelle sapienti architetture
in cui non ci sarebbe nient’altro da fare se non andarci ad abitare, nel momento in cui se ne
conoscesse l’indirizzo, e di cui si potrebbero persino modificare un poco una o due basi, dieci anni
dopo e spostando tre foglietti di carta, per raggiungere la perfezione definitiva della teoria in grado
di operare la loro salvezza
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Ma le teorie sono fatte solo per morire nella guerra del tempo: sono unità più o meno forti che
bisogna saper impiegare al momento giusto nel combattimento e, quali che siano i loro meriti e le
loro carenze, non si possono sicuramente impiegare se non quelle che sono lì a tempo debito. Allo
stesso modo in cui le teorie vanno sostituite, perché le loro vittorie decisive, ancor più delle loro
sconfitte parziali, ne determinano l’usura, così nessuna epoca vivente è mai il prodotto di una teoria:
è anzitutto un gioco, un conflitto, un viaggio. Si può dire della rivoluzione, la stessa cosa che Jomini
ha detto della guerra, ossia che ‹‹ non è una scienza positiva e dogmatica, ma un’arte sottoposta ad
alcuni principi generali e, ancor di più, un dramma appassionato ››.
Quali sono le nostre passioni e dove ci hanno condotto? Gli uomini, nella maggioranza dei casi,
sono talmente portati a obbedire ad abitudini imperiose che, nel momento stesso in cui si
propongono di rivoluzionare la vita da cima a fondo, di fare tabula rasa e di cambiare tutto, non
trovano tuttavia anormale seguire la trafila degli studi loro accessibili, per poi ricoprire alcune
cariche, o dedicarsi a vari lavori remunerativi, posti allo stesso livello delle loro competenze o
anche un pochino al di là. Ecco perché quelli che ci espongono differenti tipi di pensieri sulle
rivoluzioni normalmente si astengono dal farci sapere come abbiano vissuto.
Ma io, non avendo somiglianza alcuna con tutta questa gente, potrei solo dire, a mia volta, ‹‹ le
donne, i cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie e l’audaci imprese ›› di un’epoca singolare.
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Altri sono capaci di orientare e misurare il corso del passato secondo il personale grado di
avanzamento in una carriera, l’acquisizione di diversi tipi di beni e, talvolta, l’accumulazione di
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opere scientifiche o estetiche rispondenti a una domanda sociale. Avendo ignorato ogni
determinazione di questo tipo, non rivedo, nel passaggio di questo tempo disordinato, se non gli
elementi che lo hanno effettivamente costituito per me – ovvero le parole e le figure che vi
somigliano: sono giorni e notti, città e uomini e, al fondo di tutto, una guerra incessante.
Ho trascorso il mio tempo in vari paesi d’Europa ed è stato alla metà del secolo, quando avevo
diciannove anni, che ho iniziato a vivere una vita pienamente indipendente e mi sono subito sentito
a casa mia nella più malfamata delle compagnie.
È successo a Parigi, una città che allora era così bella da indurre molti a preferire di essere poveri
lì piuttosto che ricchi in qualunque altro posto.
Ma, ora che non ne resta più niente, chi potrebbe capirlo, all’infuori di quanti ne ricordano lo
splendore? Chi altri potrebbe conoscere le fatiche e i piaceri che abbiamo vissuto in quei luoghi in
cui tutto è diventato così orribile?
‹‹ Qui era l’antica dimora del re di Wu. L’erba cresce in pace sulle sue rovine – Là, il profondo
palazzo degli Tsin, un tempo sontuoso e temuto – Tutto ciò è finito per sempre, tutto scorre insieme,
uomini e eventi – come i flussi incessanti dello Yang-Tse- Kiang, che vanno a perdersi in mare.
Parigi allora, entro i confini dei suoi venti Arrondissements, non dormiva mai tutta e permetteva
alla depravazione di cambiare quartiere tre volte per notte. I suoi abitanti non erano ancora stati
scacciati e dispersi. Al suo interno c’era ancora quel popolo che, per dieci volte, aveva innalzato
barricate per le strade e messo in fuga dei re. Era un popolo che non si appagava di immagini. Non
si sarebbe osato, quando ancora viveva nella sua città, fargli mangiare o bere ciò che la chimica di
sostituzione non aveva ancora osato inventare.
Le case del centro non erano deserte, né erano state rivendute a spettatori cinematografici nati
altrove, sotto altre travi a vista. La merce moderna non era ancora venuta a mostrarci tutto ciò che si
può fare di una strada. Nessuno era costretto ad andare a dormire lontano, a causa degli urbanisti.
Non si era ancora visto, per colpa del governo, il cielo oscurarsi e il bel tempo sparire e le false
brume dell’inquinamento coprire in permanenza la circolazione meccanica delle cose, in questa
valle di desolazione. Gli alberi non erano morti soffocati e le stelle non erano state spente dal
progresso dell’alienazione.
I mentitori erano come sempre al potere, ma lo sviluppo economico non li aveva ancora dotati dei
mezzi per mentire su tutte le questioni, né per convalidare le loro menzogne falsificando il
contenuto effettivo dell’intera produzione. Allora si sarebbe stati altrettanto stupiti di trovare
impressi o fabbricati a Parigi tutti i libri redatti in seguito in cemento e amianto, e tutti gli edifici
costruiti con piatti sofismi, quanto lo si sarebbe oggi se si vedessero risorgere un Donatello o un
Tucidide.
Musil, nell’Uomo senza qualità, nota che ‹‹ ci sono attività intellettuali in cui non sono i grossi
tomi, ma i piccoli trattati, a fare l’orgoglio di un uomo. Se qualcuno venisse a scoprire, per esempio,
che le pietre, in certe circostanze finora inosservate, possono parlare, gli ci vorrebbero solo poche
pagine per descrivere e spiegare un fenomeno tanto rivoluzionario››. Mi limiterò dunque a poche
parole per annunciare che, qualunque cosa vogliano sostenere altri, Parigi non esiste più. La
distruzione di Parigi è l’illustrazione esemplare della malattia mortale che in questo momento sta
portandosi via tutte le grandi città e questa stessa malattia non è che uno dei numerosi sintomi della
decadenza materiale di una società. Ma Parigi aveva più cose da perdere di qualunque altra città. È
stata una grande opportunità essere stati giovani lì, quando brillò, per l’ultima volta, di un fuoco
così intenso.
Allora sulla riva sinistra del fiume – non si può scendere due volte nello stesso fiume, né toccare
due volte una sostanza corruttibile nello stesso stato – c’era un quartiere in cui il negativo aveva la
propria corte.
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È banale sottolineare come, anche nei periodi sconvolti da grandi cambiamenti, gli spiriti più
innovatori si sbarazzino difficilmente di molte concezioni anteriori, ormai divenute incoerenti, e ne
conservino almeno alcune, perché sarebbe impossibile respingere in blocco come false e prive di
valore affermazioni universalmente ammesse.
Bisogna aggiungere tuttavia, quando si conosce nella pratica questo genere di faccende, che
simili difficoltà cessano di costituire un impedimento nel momento in cui un gruppo umano inizia a
fondare la propria esistenza reale sul rifiuto deliberato di ciò che è universalmente ammesso e sul
disprezzo totale di ciò che potrà seguirne.
Quelli che si erano radunati lì sembravano avere assunto come unico principio d’azione, fin
dall’inizio e pubblicamente, il segreto che il Vecchio della Montagna trasmise, si dice, solo
nell’estrema sua ora, al seguace più fedele tra tutti i suoi fanatici: ‹‹ Niente è vero; tutto è permesso
››. Quanto al presente, non accordavano alcun tipo di importanza a chi non era dei loro, e penso
avessero ragione; quanto al passato, se qualcuno risvegliava le loro simpatie era Artur Cravan,
disertore di diciassette nazioni, o forse anche Lacenaire, dotto bandito.
In quel luogo, l’estremismo si era proclamato indipendente da ogni causa particolare e si era
superbamente affrancato da ogni progetto. Una società già vacillante, ma che ancora lo ignorava,
perché ovunque altrove le vecchie regole erano ancora rispettate, aveva lasciato per un istante
campo libero a ciò che nella maggioranza dei casi viene rimosso e tuttavia è sempre esistito: la
teppa più intrattabile, il sale della terra, tutta gente sinceramente pronta a dar fuoco al mondo per
vederlo brillare di più.
‹‹ Articolo 488. La maggiore età è fissata a ventun’anni compiuti; a questa età si è capaci di tutti
gli atti della vita civile.››
‹‹ Bisogna creare una scienza delle situazioni con elementi tratti dalla psicologia, dalla statistica,
dall’urbanistica e dalla morale. Tutti questi elementi dovranno concorrere a un obiettivo
assolutamente nuovo: la creazione cosciente di situazioni.››
‹‹ Ma non si parla di Sade in questo film.››
‹‹ L’ordine regna e non governa.››
‹‹ Il Demone delle armi. Se ne ricorda… È proprio questo. Nessuno ci bastava. Eppure… La
grandine sulle bandiere di vetro. Lo si ricorderà, questo pianeta.››
‹‹ Articolo 489. Il maggiorenne che si trovi in uno stato abituale di imbecillità, demenza o furore,
deve essere interdetto, anche quando tale stato presenti intervalli di lucidità.››
‹‹ Dopo tutte le risposte intempestive e la gioventù che si fa vecchia, la notte cala davvero
dall’alto. ››
‹‹ Viviamo come ragazzi perduti le nostre avventure incomplete. ››
Un film che feci a quell’epoca, e che evidentemente suscitò la collera degli esteti più avanzati,
era da un capo all’altro come questo e le sue povere frasi venivano pronunciate su uno schermo
interamente bianco, intervallato da lunghissime sequenze nere, in cui non si diceva niente. Alcuni
probabilmente vorrebbero poter credere che l’esperienza mi abbia arricchito di talenti o di buona
volontà. Sarebbe dunque l’esperienza un miglioramento di quanto rifiutavo allora? Non fatemi
ridere. Perché mai chi da giovane ha voluto essere così insopportabile nel cinema, dovrebbe
rivelarsi più interessante, quando è più avanti negli anni? Chi è stato così cattivo non può mai essere
veramente migliore. Si ha un bel dire: ‹‹ È invecchiato, è cambiato ›› ; è anche rimasto lo stesso.
In quel luogo che fu l’effimera capitale della perturbazione, se è vero che la popolazione scelta
contava un certo numero di ladri, e occasionalmente di assassini, l’esistenza di tutti era
caratterizzata soprattutto da una prodigiosa inattività e, tra i tanti crimini e delitti denunciati dalle
autorità, fu proprio questo a essere sentito come il più minaccioso.
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Era il labirinto migliore per trattenere i viaggiatori. Quelli che vi si erano fermati due giorni non
ne ripartirono più, o perlomeno non fintanto che esistette; ma la maggior parte vide arrivare lì la
fine dei suoi brevi anni. Nessuno abbandonava quelle poche strade e quei pochi tavoli in cui si era
scoperto il punto culminante del tempo.
Tutti si sentivano ammirati per aver sostenuto una sfida così magnificamente disastrosa e, di fatto,
credo proprio che nessuno di quanti ci sono passati abbia mai acquisito la minima reputazione
onesta nel mondo.
Ciascuno beveva quotidianamente più bicchieri di quante menzogne sia in grado di dire un
sindacato per tutta la durata di uno sciopero selvaggio. Bande di poliziotti, le cui mosse improvvise
erano pilotate da un gran numero di informatori, non smettevano di fare incursioni con qualsiasi
pretesto, ma il più delle volte nell’intento di sequestrare droghe e di sorprendere ragazze che non
avevano ancora compiuto diciott’anni. Come avrei potuto non ricordarmi degli affascinanti
delinquenti e delle ragazze orgogliose con cui avevo abitato in quei bassifondi, quando, più tardi,
sentii una canzone che cantano i detenuti italiani? – Il tempo era passato tutto come le nostre notti di
allora, senza rinunciare a niente. “ Ci stanno le ragazzine che te la danno, prima la buona sera e poi
la mano… In via Filangeri c’è una campana, ogni volta che suona è una condanna… La gioventù
più bella muore in galera. ”
Benché disprezzassero tutte le illusioni ideologiche e fossero abbastanza indifferenti verso ciò
che più tardi sarebbe venuto a dar loro ragione, quei ribelli non disdegnarono di annunciare
all’esterno quello che sarebbe successo in seguito. Farla finita con l’arte, andare a dire dentro una
cattedrale che Dio era morto, prepararsi a far saltare la torre Eiffel, furono i piccoli scandali a cui si
abbandonarono sporadicamente coloro il cui modo di vivere fu ininterrottamente uno scandalo così
grande. Si interrogavano anche sul fallimento di alcune rivoluzioni, si chiedevano se il proletariato
esistesse veramente e, in questo caso, cosa potesse mai essere.
Quando parlo di quelle persone, ho forse l’aria di sorriderne, ma non bisogna credere che sia così.
Ho bevuto il loro vino. Sono rimasto fedele. E non credo di essere diventato in seguito, in nessuna
cosa, migliore di quanto fossero loro a quei tempi.
Considerando le grandi forze dell’abitudine e della legge, che facevano continuamente pressione
su di noi per disperderci, nessuno era sicuro di essere ancora lì alla fine della settimana e lì era tutto
ciò che noi abbiamo mai amato. Il tempo bruciava più in fretta che altrove e sarebbe mancato. Si
sentiva la terra tremare.
Il suicidio ne portava via molti. ‹‹ Il bere e il diavolo si sono presi gli altri ››, come dice anche
una canzone.
Nel mezzo del cammino della vera vita, eravamo circondati da una malinconia oscura, che tante
parole tristi e beffarde hanno espresso, nel caffè della gioventù perduta. ‹‹ Per parlare chiaramente e
senza allusioni, – siamo pedine di un gioco giocato dal Cielo. – Ci si trastulla con noi sulla
scacchiera dell’Essere, – e poi torniamo uno a uno nella scatola del Nulla. ››
‹‹ Chissà quante volte nelle epoche a venire, questo dramma sublime che creiamo sarà recitato in
lingue sconosciute, davanti a popoli che ancora non esistono! ››
‹‹ Cos’è la scrittura? La custode della storia… Cos’è l’uomo? Lo schiavo della morte, un
viaggiatore di passaggio, l’ospite di un solo luogo… Cos’è l’amicizia? L’uguaglianza degli amici. ››
‹‹ Bernard, cosa pretendi dal mondo? Ci vedi qualcosa che ti soddisfi?... Lei fugge, fugge come
un fantasma che, avendoci dato una qualche forma di soddisfazione mentre stava con noi, ci
abbandona lasciandoci solo turbamento… Bernard, Bernard, diceva, questa verde giovinezza non
durerà per sempre. ››
Ma niente esprimeva quel presente senza uscita e senza requie meglio dell’antica frase che torna
integralmente su sé stessa, essendo costruita lettera per lettera come un labirinto da cui non si può
uscire, sicché in essa si accordano perfettamente la forma e il contenuto della perdizione: In girum
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imus nocte et consumimur igni. Giriamo in tondo nella notte e siamo divorati dal fuoco. ‹‹ Una
generazione va, una generazione viene; ma la terra resta sempre. Il sole sorge, il sole tramonta e si
affretta verso il luogo da cui era partito… Tutti i fiumi si riversano nel mare, ma il mare non per
questo trabocca. Sempre i fiumi tornano a fluire verso il luogo da cui vanno scorrendo… C’è un
tempo per ogni cosa e tutto passa sotto il cielo, dopo il termine che gli è stato prescritto… C’è un
tempo per uccidere e un tempo per guarire, un tempo per abbattere e un tempo per costruire…C’è
un tempo per stracciare e un tempo per cucire, un tempo per tacere e un tempo per parlare… È
meglio vedere con gli occhi, che vagare con il desiderio: ma anche questo è vanità e inseguire il
vento… Che serve all’uomo cercare ciò che è sopra di lui? Chi sa quel che all’uomo convenga
durante la vita, nei brevi giorni della sua vana esistenza che egli trascorre come un’ombra? ››
‹‹ No, noi passeremo il fiume e andremo a riposare all’ombra di quegli alberi. ››
È lì che abbiamo acquisito la durezza che ci ha accompagnati per tutti i giorni della nostra vita e
ha permesso a parecchi di noi di essere in guerra con la terra intera a cuor leggero. E quanto a me in
particolare, suppongo sia stato a partire dalle circostanze di quel momento che ho seguito in modo
del tutto naturale il succedersi di tante violenze e di tante rotture, in cui molti furono trattati così
malamente, e tutti quegli anni passati avendo sempre, per così dire, il coltello in mano.
Forse avremmo potuto essere un po’ meno spietati, se solo avessimo trovato qualche impresa già
avviata che ci sembrasse meritare l’impiego delle nostre forze. Ma non c’era niente del genere. La
sola causa che abbiamo sostenuto, abbiamo dovuto definirla e portarla avanti da soli. E non esisteva
niente al di sopra di noi che potessimo considerare degno della nostra stima.
Per uno che pensi e agisca così, è vero, non c’è interesse ad ascoltare un istante di troppo chi
trova qualcosa di buono, o anche solo qualcosa da salvare nelle condizioni esistenti, o chi smarrisce
la strada che sembrava avesse voluto seguire e, talvolta, neppure chi non sia stato in grado di capire
abbastanza in fretta. Altri, più tardi, si sono messi a preconizzare la rivoluzione della vita quotidiana,
con le loro voci timide e le loro penne prostituite, ma abbastanza da lontano e con la tranquilla
sicurezza dell’osservazione astronomica. Tuttavia, quando si ha avuto occasione di prendere parte a
un tentativo del genere, e si è scampati alle brillanti catastrofi che lo accompagnano o lo seguono,
non ci si ritrova in una posizione facile. Il caldo e il freddo di quei momenti non ti lasciano più.
Bisogna scoprire come sia possibile vivere un domani degno di un così bell’inizio. Quella prima
esperienza dell’illegalità si vuole continuarla per sempre
.
Ecco come è divampata, a poco a poco, una nuova epoca di incendi, di cui nessuno di quanti
vivono ora vedrà la fine: l’obbedienza è morta. È sbalorditivo constatare come disordini provenienti
da un luogo così infimo ed effimero abbiano finito per far vacillare l’ordine del mondo. ( Non si
farebbe vacillare mai nulla con metodi del genere se si avesse a che fare con una società armoniosa,
capace di gestire la propria potenza, ma la nostra, ora lo si sa, era tutto il contrario.)
Quanto a me, non ho rimpianto mai nulla di quel che ho fatto e confesso di essere tuttora
completamente incapace di immaginare cos’altro avrei potuto fare, essendo quel che sono.
La prima fase del conflitto, a dispetto della sua asprezza, aveva avuto da parte nostra tutte le
caratteristiche di una difesa statica. Essendo definita soprattutto dalla sua localizzazione,
quell’esperienza spontanea non aveva compreso a sufficienza se stessa e aveva anche trascurato
troppo le grandi possibilità di sovversione presenti nell’universo apparentemente ostile che la
circondava. Vedendo la nostra difesa ormai sopraffatta e il coraggio di alcuni venire meno, alcuni di
noi pensarono che probabilmente si sarebbe dovuto andare avanti ponendosi nella prospettiva
dell’offensiva: insomma, al posto di arroccarsi nella commovente fortezza di un istante, ampliare il
nostro raggio di azione, fare una sortita, poi avviare la campagna bellica e, molto semplicemente,
impegnarsi a distruggere per intero quell’universo ostile, per ricostruirlo di nuovo, se era possibile,
su altre basi. C’erano alcuni precedenti, ma in quel momento erano stati dimenticati. Dovevamo
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scoprire dove andava il corso delle cose e smentirlo così completamente che fosse costretto un
giorno, viceversa, a piegarsi ai nostri gusti .Clausewitz nota ironicamente: ‹‹Chiunque abbia del
genio è tenuto a farne uso, ciò è assolutamente conforme alla regola ››. E Baltasar Gracian:‹‹
Bisogna attraversare il vasto corso del tempo per arrivare al centro dell’occasione ››. Ma posso forse
dimenticare colui che era ovunque presente nel momento culminante delle nostre avventure, colui
che in quei giorni incerti aprì una nuova strada e vi si inoltrò a grandi passi, scegliendo quanti
sarebbero venuti, perché nessun altro valeva quanto lui , quell’anno? Si sarebbe detto che, solo
guardando la città e la vita, lui le cambiasse. Scoprì in un anno argomenti di rivendicazione per un
secolo; e i misteri dello spazio urbano furono la sua conquista.
I poteri attuali, con la loro povera informazione falsificata, che li depista quasi quanto stordisce i
loro amministrati, non hanno ancora potuto valutare quanto sia loro costato il rapido passaggio di
quell’uomo. Ma che importa? Gli artefici dei naufragi scrivono il loro nome soltanto sull’acqua.
La formula per rovesciare il mondo, noi non l’abbiamo cercata nei libri, ma nell’erranza. Era una
deriva rapida, in cui niente somigliava al giorno prima, e che non si fermava mai. Incontri
sorprendenti, ostacoli notevoli, grandiosi tradimenti, incantesimi pericolosi, nulla mancò a quella
ricerca di un altro Graal nefasto, di cui nessuno voleva saperne. E addirittura, un brutto giorno, il
migliore dei nostri giocatori si perse nelle foreste della follia. Non c’è follia più grande della
presente organizzazione della vita.
Abbiamo almeno incontrato, alla fine, l’oggetto della nostra ricerca? Bisogna credere che
l’avessimo almeno visto di sfuggita, perché è in ogni caso evidente che a partire da quel momento
siamo stati in grado di comprendere la via falsa, alla luce di quella vera, e ci siamo ritrovati a
possedere uno strano potere di seduzione: infatti, da allora, nessuno ci ha avvicinati senza volerci
seguire e dunque avevamo rimesso le mani sul segreto di dividere ciò che era unito. Quello che
avevamo compreso, non siamo andati a dirlo in televisione. Non aspiravamo ai sussidi della ricerca
scientifica, né agli elogi degli intellettuali dei giornali. Abbiamo gettato olio sul fuoco.
È stato così che ci siamo definitivamente arruolati nel partito del Diavolo, vale a dire in quel male
storico che porta alla distruzione delle condizioni esistenti, in quella “ parte sbagliata ” che fa la
storia rovinando ogni soddisfazione prestabilita.
Quelli che non hanno ancora cominciato a vivere e si risparmiano per tempi migliori, e perciò
hanno una gran paura di invecchiare, non si aspettano nientemeno che un perenne paradiso. Uno lo
pone in una rivoluzione totale, l’altro – e a volte è lo stesso – in uno stadio superiore della sua
ascesa di salariato. Insomma, aspettano che diventi accessibile anche a loro quello che hanno
contemplato nell’iconografia riflessa e capovolta dello spettacolo: una felice unità eternamente
presente. Ma quelli che hanno scelto di colpire con il tempo, sanno che la loro arma è anche il loro
padrone, e non possono lagnarsene. È il padrone anche di chi è disarmato, e il padrone più duro.
Quando non ci si vuole uniformare alla chiarezza ingannevole del mondo alla rovescia, si passa in
ogni caso, tra i suoi adepti, per una controversa leggenda, per un fantasma invisibile e maligno, per
un perverso principe delle tenebre. Bel titolo dopo tutto: l’attuale sistema dei Lumi non ne assegna
di altrettanto onorevoli.
Siamo dunque diventati gli emissari del Principe della Divisione, di ‹‹ colui al quale gran torto è
stato fatto ›› e abbiamo iniziato a ridurre alla disperazione quelli che si consideravano umani.
Nel corso degli anni che seguirono, persone di paesi diversi si trovarono insieme per entrare in
quella oscura cospirazione dalle esigenze illimitate. Quanti viaggi precipitosi! Quante discussioni
interminabili! Quanti incontri clandestini in tutti i porti d’Europa!
Così fu tracciato il programma più adatto a far crescere una suspicione completa sulla vita sociale
nel suo complesso: classi e specializzazioni, lavoro e divertimento, merce e urbanizzazione,
ideologia e Stato, abbiamo dimostrato che era tutto da buttare. E quel programma non conteneva
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nessun’altra promessa tranne quella di un’autonomia sfrenata e senza regole. Quelle prospettive
oggi sono talmente entrate nei costumi che ovunque si combatte pro o contro di esse. Ma allora
sarebbero certamente apparse chimeriche, se la condotta del capitalismo moderno non fosse stata
ancora più chimerica.
Allora esistevano sì alcuni individui che erano d’accordo, più o meno conseguentemente, con
l’una o con l’altra di quelle critiche, ma non c’era nessuno che le riconoscesse tutte né tantomeno
che sapesse formularle e aggiornarle. È per questo che nessun altro tentativo rivoluzionario di quel
periodo ebbe la minima influenza sulla trasformazione del mondo. I nostri agitatori hanno fatto
circolare dappertutto idee con le quali una società di classi non può vivere. Gli intellettuali al
servizio del sistema, peraltro ancora più visibilmente in declino del sistema stesso, oggi cercano di
manipolare quei veleni per trovarne gli antidoti, ma non ci riusciranno. Prima si erano sforzati in
ogni modo di ignorarli, ma anche allora invano: tanto grande è la forza della parola detta al
momento opportuno.
Mentre il continente era percorso dalle nostre trame sediziose, che cominciavano persino a
toccare gli altri, Parigi, dove si poteva così facilmente passare inosservati, rimaneva al centro di tutti
i nostri viaggi, era il più frequentato dei nostri luoghi di appuntamento. Ma i suoi paesaggi si erano
alterati e tutto finiva per degradarsi e andare in disfacimento.
Eppure, il tramonto di quella città lanciava ancora, qua e là, alcuni bagliori, mentre guardavamo
passare gli ultimi giorni dall’interno di uno scenario che stava per essere portato via, assorti in
bellezze che non ritorneranno.
Si dovrà abbandonarla ben presto, questa città che per noi fu così libera, ma ora sta per cadere
interamente nelle mani dei nostri nemici. Già vi si applica senza scampo la loro cieca legge, che rifà
tutto a sua immagine e somiglianza, come dire sul modello di una sorta di cimitero: ‹‹ O miseria! O
dolore! Parigi trema ››.
Si dovrà abbandonarla, ma non senza avere tentato una volta per tutte di impadronirsene con la
forza; bisognerà abbandonarla, alla fine, dopo tante altre cose, per seguire la strada segnata dalle
necessità della nostra strana guerra, che ci ha portati così lontano.
In effetti, la nostra intenzione era solo quella di rendere visibile nella pratica una linea di
demarcazione tra chi vuole ancora saperne qualcosa di ciò che esiste e chi non vorrà più saperne.
Diverse epoche hanno avuto analogamente il loro grande conflitto, che non hanno scelto, ma in
cui bisognava scegliere da che parte stare. È l’impresa di una generazione, tramite cui si fondano o
si disfano imperi e culture. Si tratta di prendere Troia, oppure di difenderla. Si somigliano tutti in
qualcosa gli istanti in cui coloro che combatteranno in campi avversi sono sul punto di separarsi per
non rivedersi più.
È un momento bellissimo quello in cui si dà il via a un assalto contro l’ordine del mondo.
Dal suo inizio, quasi impercettibile, si sa già che tra non molto, qualunque cosa accada, niente
sarà più uguale a prima.
È una carica che parte piano, accelera la propria corsa, supera il punto oltre il quale non potrà più
tornare indietro e va irrevocabilmente a scontrarsi con ciò che sembrava inattaccabile, tanto era
solido e difeso, eppure era destinato ugualmente a essere scosso e messo a repentaglio. Ecco in
sostanza ciò che abbiamo fatto quando, uscendo dalla notte, abbiamo, una volta di più, alzato lo
stendardo della “ buona vecchia causa ”e siamo avanzati sotto il cannone del tempo.
In quel tragitto, molti sono morti o sono rimasti prigionieri del nemico, molti altri sono stati
disarcionati e feriti, e non riappariranno mai più in simili incontri, ad alcuni è persino mancato il
coraggio e si sono lasciati scivolare all’indietro, ma mai, oso dirlo, la nostra formazione ha deviato
dalla propria linea, finché non è approdata al cuore stesso della distruzione.
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Non ho mai capito molto i rimproveri, che mi sono stati fatti spesso, secondo i quali avrei perduto
quella bella truppa in un assalto insensato o per una sorta di compiacimento neroniano. Ammetto,
questo sì, di essere stato io a scegliere il momento e la direzione dell’attacco, e dunque prendo
sicuramente su di me la responsabilità di tutto ciò che è accaduto. Ma come? Non si voleva
combattere un nemico che agiva come noi realmente? E io non mi sono forse mantenuto sempre
qualche passo avanti della prima linea? Le persone che non agiscono mai preferiscono credere che
si possa scegliere in completa libertà l’eccellenza di quanti figureranno in un combattimento, come
pure il luogo e l’ora in cui si sferrerà il colpo inevitabile e definitivo. Ma non è così: con ciò che si
ha sottomano e a seconda delle poche posizioni effettivamente attaccabili, ci si butta sull’una o
sull’altra non appena si intravvede il momento favorevole, altrimenti si sparisce senza aver fatto
niente. Lo stratega Tsun Tse ha stabilito già molto tempo fa che ‹‹ vantaggio e rischio sono
entrambi inerenti alla mossa ››. E Clausewitz riconosce che ‹‹ in guerra si è sempre nell’incertezza
circa la situazione reciproca delle parti. Ci si deve abituare ad agire sempre secondo una
verosimiglianza generica ed è un’illusione aspettare il momento in cui si sarà completamente liberi
dall’ignoranza… ››. Contrariamente alle fantasticherie degli spettatori della storia, quando cercano
di fare gli strateghi su Sirio, non sarà mai la più sublime delle teorie a garantire l’evento, al
contrario, è sempre l’evento realizzato a farsi garante della teoria. Perciò bisogna correre dei rischi e
pagare in contanti per vedere il seguito.
Altri spettatori, che volano più basso, non avendo visto neppure da lontano l’inizio dell’attacco,
ma soltanto la fine, hanno pensato che fossero la stessa cosa e hanno trovato che ci fosse qualche
difetto nello schieramento delle nostre file e che le uniformi in quel momento non avessero più un
aspetto egualitariamente impeccabile. Credo che tutto ciò fosse effetto del tiro che il nemico aveva
concentrato su di noi abbastanza a lungo. Verso la fine, non conviene giudicare la tenuta, ma il
risultato. Il risultato principale, a sentire quelli che hanno l’aria di rimpiangere che la battaglia sia
stata ingaggiata senza aspettarli, sembrerebbe essere il fatto che l’avanguardia sacrificata si sia
completamente dissolta nello scontro. Trovo che fosse fatta per questo.
Le avanguardie hanno un unico tempo e la fortuna più grande che possono avere è, nel senso
pieno del termine, quella di fare il loro tempo. Dopo, le operazioni si spostano su un teatro più vasto.
Se ne sono viste fin troppe di truppe scelte che, dopo avere compiuto qualche impresa valorosa,
restano lì a sfilare con le decorazioni, per poi rivoltarsi contro la causa che avevano difeso. Non c’è
da temere nulla di simile da parte di chi ha condotto un attacco fino al termine della dissoluzione.
Mi chiedo cosa avessero sperato di meglio alcuni. Il particolare si consuma combattendo. Un
progetto storico non può certo pretendere di conservare un’eterna giovinezza al riparo dai colpi.
L’obiezione sentimentale è altrettanto vana dei cavilli pseudo-strategici: ‹‹ Eppure le tue ossa si
consumeranno seppellite nei campi di Ilio, per un’impresa incompiuta ››.
Federico II, re di Prussia, diceva sul campo di battaglia a un giovane ufficiale titubante: ‹‹ Cane!
Speravi dunque di vivere per sempre? ››. E Sarpedonte dice a Glauco nel dodicesimo canto
dell’Iliade: ‹‹ Amico, se sfuggendo a questa guerra, potessimo essere per sempre immuni da
vecchiezza e da morte, resterei io stesso indietro… Ma mille morti sono incessantemente sospese
sulle nostre teste, non ci è concesso né evitarle né sfuggirle. Allora, avanti ››.
Quando il fumo si dirada, molte cose appaiono cambiate. Un’epoca è passata. Ora non mi si
chieda quanto valevano le nostre armi: sono rimaste in gola al sistema delle menzogne imperante.
La sua aria di innocenza non tornerà più.
Dopo quella splendida dispersione, ho riconosciuto di dovermi mettere al riparo, con mossa
improvvisa e furtiva, da una fama troppo vistosa e ingombrante. Si sa che questa società firma una
sorta di pace con i suoi nemici più dichiarati, quando attribuisce loro un posto nel suo spettacolo.
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Ma giustamente io sono il solo, di questi tempi, ad avere una certa fama clandestina e cattiva, che
non si sia riusciti a fare apparire su quella scena della rinuncia.
Le difficoltà non finiscono qui. Troverei altrettanto volgare diventare un’autorità nella
contestazione della società quanto diventarlo nella società, e non è dire poco. Ho dunque dovuto
rifiutare, in diverse contrade, di mettermi a capo di ogni sorta di tentativi sovversivi, gli uni più
antigerarchici degli altri, ma di cui mi si offriva comunque il comando: come potrebbe non
comandare chi ha talento, in questi ambiti, quando ha una simile esperienza? Ma volevo dimostrare
che si può benissimo restare, dopo qualche successo storico, altrettanto privi di potere e di prestigio
quanto si era prima ( il poco che avevo fin dall’inizio mi è sempre bastato ).
Mi sono anche rifiutato di polemizzare su migliaia di dettagli con gli innumerevoli interpreti e
ricuperatori di quanto era già stato fatto. Non dovevo certo assegnare brevetti di non so quale
ortodossia, né dovevo decidere tra varie ambizioni ingenue che sono perfettamente in grado di
crollare da sole, senza che nessuno ci metta mano. Ignoravano costoro che il tempo non aspetta, che
la buona volontà non basta e che non c’è una proprietà da acquisire, o da mantenere, su un passato
che non è più possibile correggere. Il movimento profondo che porterà le nostre lotte storiche fin
dove possono arrivare rimane l’unico giudice del passato, quando agisce a suo tempo. Ho fatto in
modo che nessuno pseudo-seguito venisse a falsare il resoconto delle nostre operazioni. Quelli che
un giorno sapranno fare di meglio, esporranno liberamente i loro commenti che non passeranno,
neppure quelli, inavvertiti.
Mi sono dato i mezzi per intervenire più da lontano, sapendo benissimo che la maggior parte
degli osservatori, come al solito, sperano soprattutto che io taccia. Mi sono esercitato da lunga data
a condurre un’esistenza oscura e inafferrabile. Ho dunque potuto portare più avanti le mie
esperienze strategiche così ben iniziate. E si tratta, secondo le parole di un uomo che non era
sprovvisto di capacità, di uno studio in cui nessuno può mai diventare dottore. Il risultato di queste
ricerche, ecco l’unica buona notizia della mia presente comunicazione, non lo esporrò in forma
cinematografica.
Ma, beninteso, tutte le idee sono vuote quando non si può più incontrare la benché minima forma
di grandezza nell’esistenza di ogni giorno: così, l’opera completa dei pensatori d’allevamento, che
viene commercializzata in questi tempi di merce decomposta, non arriva a nascondere il gusto del
cibo che li ha nutriti. Ho dunque abitato, per anni, in un paese in cui ero poco conosciuto. La
disposizione dello spazio di una delle migliori città che siano mai esistite, e le persone e l’impiego
che abbiamo fatto del tempo, tutto ciò formava un insieme che somigliava molto ai felici disordini
della mia gioventù.
Non ho mai cercato da nessuna parte una società pacifica, e tanto meglio: infatti non ne ho vista
nessuna. Sono stato molto calunniato in Italia, dove ci si è compiaciuti di crearmi una reputazione
da terrorista. Ma sono del tutto indifferente alle accuse più varie, perché il mio destino è stato di
sollevarne ovunque al mio passaggio e ne conosco bene la ragione. Non attribuisco alcuna
importanza se non a ciò che in quel paese mi ha sedotto e che non si potrebbe trovare altrove.
Rivedo colei che viveva come una straniera nella sua città. ( ‹‹ Ciascuna è cittadina – di una vera
città, ma tu vuoi dire – colei che ha vissuto in Italia il suo esilio. ›› ) Rivedo ‹‹ le rive dell’Arno
cariche di addii ››.
E anch’io, dopo tanti altri, sono stato bandito da Firenze.
In ogni modo, si attraversa un’epoca così come si passa la punta della Dogana, vale a dire
piuttosto rapidamente.
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All’inizio non la si guarda, mentre ci viene incontro. Poi la si scorge, arrivando alla sua altezza, e
si deve convenire che è stata costruita così e non altrimenti. Ma già doppiamo il capo, lo lasciamo
dietro noi e avanziamo in acque sconosciute.
‹‹ Quando eravamo giovani, per qualche tempo abbiamo frequentato un maestro, – per qualche
tempo siamo stati felici dei nostri progressi. Guarda ora il fondo di tutto questo: cosa ci è
capitato? – Eravamo arrivati come l’acqua, siamo andati via come il vento. ››
In una ventina d’anni, non si ha tempo di abitare se non in un esiguo numero di case. Quelle case
sono sempre state povere, tengo a sottolinearlo, e tuttavia in una bella posizione. Ciò che valeva la
pena di essere ricevuto lo è stato sempre e il resto è stato rimesso alla porta. La libertà allora non
aveva molte altre dimore.
‹‹ Dove sono i graziosi spasimanti – che seguivo in un tempo che fu? ››
Questi sono morti, un altro è vissuto troppo in fretta, fino a che si sono chiusi i cancelli della
demenza.
‹‹ Tristi ragazzi perduti, erriamo nella notte. Dove sono i fiori del giorno, i piaceri dell’amore, le
luci della vita? Tristi ragazzi perduti, erriamo nella notte. Il diavolo subdolamente ci porta via con
sé. Il diavolo ci porta via, lontano dalle nostre belle. La nostra gioventù è morta, e i nostri amori
anche. ››
La sensazione dello scorrere del tempo è sempre stata molto viva in me, e ne sono sempre stato
attratto come altri sono attratti dal vuoto o dall’acqua. In questo senso, ho amato la mia epoca, che
ha visto perdersi ogni sicurezza esistente e disperdersi e scorrere via ogni elemento dell’ordine
sociale. Ecco alcuni piaceri che la pratica della più grande arte non mi avrebbe dato.
Quanto a quello che abbiamo fatto, come si potrebbe valutarne oggi il risultato? Ora
attraversiamo un paesaggio devastato dalla guerra che una società porta avanti contro sé stessa,
contro le sue stesse possibilità. L’imbruttimento di tutto era indubbiamente il prezzo inevitabile del
conflitto. È stato perché il nemico ha spinto così lontano i suoi errori che abbiamo cominciato a
vincere.
La causa più vera della guerra, di cui si sono date tante spiegazioni fallaci, è che doveva per forza
arrivare sotto forma di scontro sul cambiamento; non aveva più alcuna delle caratteristiche della
lotta tra conservazione e cambiamento. Noi stessi eravamo, più di chiunque altro, agenti di
cambiamento, in un tempo che cambiava. I padroni della società erano obbligati, per conservarsi, a
volere un cambiamento che era l’inverso del nostro. Noi volevamo ricostruire tutto, e anche loro,
ma in direzioni diametralmente opposte. Quello che hanno fatto mostra a sufficienza, in negativo, il
nostro progetto. I loro immensi lavori in fin dei conti non hanno fatto altro che portarli qui, a questa
corruzione. L’odio per la dialettica ha condotto i loro passi fino a questo letamaio.
Noi dovevamo far sparire, e avevamo buone armi per farlo, ogni illusione di dialogo tra quelle
prospettive antagoniste e poi sarebbero stati i fatti a emettere il loro verdetto. L’hanno fatto.
È diventata ingovernabile questa “ terra malata ” dove nuove sofferenze si mascherano sotto il
nome di antichi piaceri e le persone sono così spaurite. Girano intorno nella notte e sono consumate
dal fuoco. Si svegliano sgomente e cercano la vita a tastoni. Corre voce che quelli che per primi la
espropriavano l’abbiano, è il colmo, smarrita.
Ecco dunque una civiltà in fiamme, che si accascia su un fianco e sprofonda per intero. Ah, che
bel siluramento.
E che ne è di me, nel mezzo di questo disastroso naufragio, che considero necessario e al quale si
può persino dire che abbia lavorato, perché è sicuramente vero che mi sono astenuto dal lavorare a
qualunque altra cosa?
Ciò che ha scritto un poeta dell’epoca T’ang, Separandosi da un viaggiatore, potrei applicarlo a
questo momento della mia storia?
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‹‹ Scesi da cavallo. Gli offri il vino dell’addio, – e gli chiesi quale fosse lo scopo del suo
viaggio. – Mi rispose: non ho avuto successo nelle cose del mondo; – me ne torno ai monti NanChan a cercare riposo. ››
Ma no, vedo molto chiaramente che non c’è riposo per me, anzitutto perché nessuno mi fa la
grazia di pensare che non abbia avuto successo nelle cose del mondo. Ma, fortunatamente, nessuno
potrà dire neppure che l’abbia avuto. Bisogna dunque ammettere che non c’erano né successo né
fallimento per Guy Debord e per le sue pretese smisurate.
Era già l’alba di questa faticosa giornata che ora vediamo finire, quando il giovane Marx scriveva
a Ruge: ‹‹ Non ditemi che stimo troppo il presente e se tuttavia non ne dispero, è solo a motivo della
sua situazione disperata, che mi riempie di speranza ››. La partenza di un’epoca per la fredda storia
non ha placato, devo proprio dirlo, nessuna di quelle passioni di cui ho dato esempi così tristi e così
belli.
Come mostrano anche queste ultime riflessioni sulla violenza, per me non ci sarà né ritorno né
riconciliazione. La saggezza non arriverà mai.
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