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Le modifiche all’art.35 del Codice Deontologico Forense.
David Cerri
Per una verifica dei principi deontologici generali pochi settori possono eguagliare per attualità ed
importanza quello della pubblicità.
Questo è il tema dove tutte le differenze “ideologiche” vengono allo scoperto, e dove due
concezioni della professione si affrontano senza mezzi termini.
Paladina della deregulation è in Italia da sempre l’Autorità Garante della Concorrenza e del
Mercato, di cui – per dirne una – sono significative le contorsioni linguistiche usate nell’ Indagine
sulle professioni del 2009 nel citare quanto si legge in calce all’art.24 c.2 della Direttiva
2006/123/CE (c.d. ex “Bolkenstein”, con un testo poi integralmente trasfuso nel D.lgs. di attuazione
n.59 del 26.3.2010), per consentirsi di non ammettere a chiare lettere ed in modo comprensibile che,
ebbene sì, possono esistere divieti parziali alla pubblicità giustificati da motivi di interesse generale
e proporzionati ad un tale scopo così perseguito.
Del resto, ad opinione analoga era giunta la penetrante ed estesa indagine svolta nel 2007 dalla
Commissione sulla Concorrenza dell’ O.C.S.E. (DAF/COMP/(2007)39) sulle restrizioni alla
concorrenza nel settore legale, che partendo da un’analisi dei dati emersi dalle ricerche, concludeva
con un’affermazione esemplare, da apprezzare particolarmente in un ambito spesso distorto da
impostazioni ideologiche (non solo quelle iperliberiste cui si è già accennato, ma anche quelle
opposte e nostalgiche del richiamo ai bei tempi andati dell’avvocatura): quella per la quale “la
nozione di pubblico interesse è più ampia della necessità di correggere i difetti del mercato”.
Nel rapporto si legge che ”Un mercato completamente libero porta con sè il rischio di servizi legali
di qualità scadente. Le asimmetrie dell’informazione possono causare un peggioramento della
qualità e ciò a sua volta determina la domanda di una nuova regolamentazione, come è illustrato
dal caso dei paesi nordici”, dove l’assenza di regole ha avuto un effetto boomerang.
Le modifiche all’art.35 del nuovo Codice Deontologico sono allora chiara conseguenza della
contestazione proprio da parte dell’A.G.C.M. – col provvedimento n.25487 del 27.5.2015 –
dell’inottemperanza al precedente provvedimento n.25154 del 22.10.2014, per non aver il C.N.F.
ritirato il parere 48/2012, ed aver riproposto con quella norma le previsioni censurate in tema di uso
dei siti internet.
Ciò che era stato contestato era proprio il comma 9 dell’articolo, in relazione all’uso (vietato) di
piattaforme digitali di terzi, sul quale il C.N.F. si era diffuso col parere n.48/2012 (è il caso di
Amica Card, che ha visto l’irrogazione di una rilevante sanzione, dapprima parzialmente rivista dal
T.A.R. Lazio, I Sez., cui il C.N.F. aveva fatto ricorso, con la sentenza n.8778 del 1.7.2015, e poi
ripristinata nella sua misura originaria da Consiglio di Stato 22.03.2016 n.1164). Aggiungiamo
soltanto che una nuova sanzione è stata comminata sempre dall’ AG.C.M. al C.N.F. per non aver
posto termine alle condotte restrittive della concorrenza già sanzionate col provvedimento n.
25154/2014 ricordato (provvedimento 10/02/2016 n° 25868: ancora € 912.536,40…).
Se quindi la soppressione di quel comma appare dovuta (e per esigenze di coordinamento anche la
modifica del primo comma) l’eliminazione integrale anche del comma 10 suscita qualche
riflessione.
Una volta, infatti, lasciata la più ampia libertà nella scelta dei mezzi di comunicazione, perché la
sub-fattispecie del “sito proprio dell’avvocato” non potrebbe avere una regolamentazione
(deontologica) diversa da quella generale ? Il rilievo e l’immagine del sito creato e gestito in
proprio dall’avvocato non è, a tutt’evidenza, identico a quello della comunicazione trasmessa su una
piattaforma - che può essere anche esclusivamente commerciale - di terzi.
Intendo dire che la “scelta” di aprire e gestire un sito in proprio fa assumere una responsabilità
diversa da quella di usare un sito di terzi, che implica un affidamento (e l’assunzione di un rischio)
per l’immagine che sarà complessivamente fornita ai consumatori. Se si sceglie di aprire un canale
informativo su un sito erotico – esempio paradossale, ma non è detto… – si tratterà di una scelta
meditata (ed oggi resterà solo il criterio di valutazione del comma 11); se si sceglie di aprire un sito
proprio, perché non sarebbe consentita una regola diversa, più severa ?
Si possono senz’altro contestare queste osservazioni.
Manifesto subito un accordo formale all’obiezione per la quale si tratta semplicemente di una
norma che consente e certamente non obbliga ad inserire nel proprio sito “riferimenti commerciali
o pubblicitari”. Il messaggio contenuto nell’abrogazione del comma è però inequivocabile: sarebbe
un fesso l’avvocato che si autolimita.
Ma lo sarebbe davvero ? forse sarebbe soltanto un professionista che - ragionando proprio in
termini di efficacia del messaggio che vuole trasmettere – crede che l’offrire uno standard di qualità
(composta anche dai criteri adottati) possa offrire risultati migliori. Prova ne sia uno sguardo al
mondo delle imprese (visto che tale è comunque la considerazione che dei professionisti hanno
l’A.G.C.M., il Consiglio di Stato e la Corte di Giustizia): non è forse anche un marketing tool lo
sbandierare l’adozione di codici etici, l’indicazione delle filiere di produzione e distribuzione, delle
caratteristiche del prodotto ulteriori rispetto a quelle prescritte per legge, ecc. ?
Considerazioni non nuove, se si pensa al dibattito (ben presente anche nell’indagine O.C.S.E. sopra
richiamata) sul c.d. “adverse selection problem”: la constatazione, cioè, che a far maggior ricorso
alla pubblicità sono i legali che mostrano di avere la minore qualità.
Dal punto di vista del consumatore, in altre parole, in particolare il legame tra tariffe più basse
(quali si vorrebbero contemporaneamente effetto e motivazione di un massiccio ricorso a questo
strumento promozionale) e pubblicità può esser visto, e sembra che effettivamente lo sia, come
indice di prestazioni di scarso pregio, mentre al contrario tariffe alte mantengono un certo appeal
proprio perché si pensa che corrispondano ad una qualità professionale elevata.
La conclusione provvisoria è che affidarsi solo e soltanto al comma 11 può comportare incerte - e
soprattutto soggettive - applicazioni, in una direzione contraria alle esigenze di tipizzazione
dell’illecito poste dalla L.247/2012 (anche se interpretate in senso “tendenziale” alla luce della sent.
C.N.F. n.137 del 18.9.2015); ma anche che residuerà comunque la libertà per l’avvocato di adottare
criteri diversi per la gestione del proprio sito improntati, per così dire, ad una maggiore serietà: così
che la distinzione tra colleghi di “fascia alta” (i cui siti saranno connotati, in sostanza, da una
immagine di maggiore professionalità frutto dell’unione di vari elementi, tra i quali sicuramente
anche il richiamo ai tipici connotati deontologici del ruolo) e colleghi più cheap sarà riprodotta da e
sul mercato. Scenario forse evitabile se la regolamentazione fosse uniforme per tutti (col che infine
si deduce che davvero, alla fine, quel che conta è che vinca il più forte…).
CODICE DEONTOLOGICO ART.35
Art. 35 –Dovere di corretta informazione
1. L’avvocato che dà informazioni sulla propria
attività professionale deve rispettare i doveri di
verità, correttezza, trasparenza, segretezza e
riservatezza, facendo in ogni caso riferimento alla
natura e ai limiti dell’obbligazione professionale.
2. L’avvocato non deve dare informazioni
comparative con altri professionisti né equivoche,
ingannevoli, denigratorie, suggestive o che
contengano riferimenti a titoli, funzioni o incarichi
non inerenti l’attività professionale.
3. L’avvocato, nel fornire informazioni, deve in
ogni caso indicare il titolo professionale, la
denominazione dello studio e l’Ordine di
appartenenza.
4. L’avvocato può utilizzare il titolo accademico di
professore solo se sia o sia stato docente
universitario di materie giuridiche; specificando in
ogni caso la qualifica e la materia di insegnamento.
5. L’iscritto nel registro dei praticanti può usare
esclusivamente e per esteso il titolo di “praticante
avvocato”, con l’eventuale indicazione di “abilitato
al patrocinio” qualora abbia conseguito tale
abilitazione.
6. Non è consentita l’indicazione di nominativi di
professionisti e di terzi non organicamente o
direttamente collegati con lo studio dell’avvocato.
7. L’avvocato non può utilizzare nell’informazione
il nome di professionista defunto, che abbia fatto
parte dello studio, se a suo tempo lo stesso non lo
abbia espressamente previsto o disposto per
testamento, ovvero non vi sia il consenso unanime
degli eredi.
8. Nelle informazioni al pubblico l’avvocato non
deve indicare il nominativo dei propri clienti o parti
assistite, ancorché questi vi consentano.
9. L’avvocato può utilizzare, a fini informativi,
esclusivamente i siti web con domini propri senza
reindirizzamento, direttamente riconducibili a sé,
allo studio legale associato o alla società di avvocati
alla quale partecipi, previa comunicazione al
Consiglio dell’Ordine di appartenenza della forma e
del contenuto del sito stesso.
10. L’avvocato è responsabile del contenuto e della
sicurezza del proprio sito, che non può contenere
riferimenti commerciali o pubblicitari sia mediante
l’indicazione diretta che mediante strumenti di
collegamento interni o esterni al sito.
11. Le forme e le modalità delle informazioni
devono comunque rispettare i principi di dignità e
decoro della professione.
12. La violazione dei doveri di cui ai precedenti
PROPOSTA DI MODIFICA
Art. 35 –Dovere di corretta informazione
1. L’avvocato che dà informazioni sulla propria
attività professionale, quale che siano i mezzi
utilizzati per rendere le stesse, deve rispettare i
doveri di verità, correttezza, trasparenza, segretezza
e riservatezza, facendo in ogni caso riferimento alla
natura e ai limiti dell’obbligazione professionale.
2. L’avvocato non deve dare informazioni
comparative con altri professionisti né equivoche,
ingannevoli, denigratorie, suggestive o che
contengano riferimenti a titoli, funzioni o incarichi
non inerenti l’attività professionale.
3. L’avvocato, nel fornire informazioni, deve in
ogni caso indicare il titolo professionale, la
denominazione dello studio e l’Ordine di
appartenenza.
4. L’avvocato può utilizzare il titolo accademico di
professore solo se sia o sia stato docente
universitario di materie giuridiche; specificando in
ogni caso la qualifica e la materia di insegnamento.
5. L’iscritto nel registro dei praticanti può usare
esclusivamente e per esteso il titolo di “praticante
avvocato”, con l’eventuale indicazione di “abilitato
al patrocinio” qualora abbia conseguito tale
abilitazione.
6. Non è consentita l’indicazione di nominativi di
professionisti e di terzi non organicamente o
direttamente collegati con lo studio dell’avvocato.
7. L’avvocato non può utilizzare nell’informazione
il nome di professionista defunto, che abbia fatto
parte dello studio, se a suo tempo lo stesso non lo
abbia espressamente previsto o disposto per
testamento, ovvero non vi sia il consenso unanime
degli eredi.
8. Nelle informazioni al pubblico l’avvocato non
deve indicare il nominativo dei propri clienti o parti
assistite, ancorché questi vi consentano.
9. abrogato
10. abrogato
11. Le forme e le modalità delle informazioni
devono comunque rispettare i principi di dignità e
decoro della professione.
12. La violazione dei doveri di cui ai precedenti
commi comporta l’applicazione della sanzione
disciplinare della censura.
commi comporta l’applicazione della sanzione
disciplinare della censura.