manierismo - IISS Giulio Cesare

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manierismo - IISS Giulio Cesare
Manierismo
l) Il termine storiografico deriva dal concetto vasariano di “terza maniera” (subentrata
alla prima, relativa al Rinascimento quattrocentesco, e alla seconda, riferita al
Rinascimento maturo di Leonardo, Michelangelo e Raffaello) contraddistinta da
un‟inarrestabile crisi: “...che ella (l‟arte) sia salita tanto in alto che più presto si abbia a
temere del calare a basso, che sperare oggimai più augumento” (dalle Vite de’ più
eccellenti pittori, scultori, architetti). Secondo Vasari il principio della crisi sarebbe stato
provocato dall‟allontanamento dalla natura che, vera ed unica maestra, aveva reso
possibile l‟evoluzione della tecnica e dello stile da Giotto a Michelangelo.
2) In realtà in Vasari non è mai concepibile la mimesis del tutto distaccata dall‟artificio
inventivo dell‟artista. Casomai il problema consiste in un “equilibrio tra natura e
maniera”, che egli vede compromesso a partire dalla generazione di Pontormo e Rosso
Fiorentino. Il nuovo clima manieristico si estendeva ben oltre il campo delle arti
figurative, coincidendo nel campo letterario con le “ricercatezze formali” di Pietro
Bembo e col “virtuosismo dell‟artista” predicato da Baldassar Castiglione nel suo
Cortigiano. Siamo, quindi, nella sfera d‟influenza della cultura tosco-romana, dominata
dall‟astro di Raffaello e dalle stupefacenti novità di Michelangelo, in un clima da ristretta
èlite aristocratica.
3) Condannato dai trattatisti del Seicento, il Manierismo cade in disgrazia dal punto di
vista critico, fino alla sua piena riabilitazione agli inizi del Novecento. Sarà, infatti, a
partire da Dvořak, Schlosser e, soprattutto Panofsky (1924) che si rintraccerà l‟origine del
Manierismo fin nel Rinascimento maturo, in particolar modo in Bramante e Raffaello. E‟
in essi, infatti, che si comincia a riscontrare quella dialettica tra licenza e regola, grazie
alla quale si concepisce l‟arte non solo come imitazione o strumento di conoscenza della
realtà, ma come “natura parallela” .
Come osserva acutamente Argan, il principio quattrocentesco dell‟arte come strumento di
conoscenza entra in crisi già con Leonardo e Michelangelo: per il primo la pittura è un
momento di sintesi e non di analisi, traduce un dinamismo speculativo il cui momento
preparatorio si esplica sui codici più che sulla tela; per il secondo corrisponde, nella
liberazione dell‟essenza dall‟apparenza, ad un atto metafisico. In Raffaello, infine, si
rende quasi consapevole la rinuncia ad ogni pretesa gnoseologica. Compito dell‟arte è
soltanto esplicitare contenuti in forme chiare ed evidenti.
Quello che in Raffaello è una semplice adesione ai canoni formali della chiesa diviene,
nel clima generale di confusione e di tensione politica agli inizi del Cinquecento, il segno
di una definitiva revisione. In definitiva non ci si chiede più che cosa sia l‟arte, ma come
possa esprimersi: da ontologica, la questione diviene puramente retorica. In fondo non è
un atteggiamento dissimile a quanti nello stesso periodo, come Machiavelli, esortano ad
abbandonare questioni teoriche o metafisiche, a suo avviso irrisolvibili o quanto meno
inutili, per concentrarsi su problemi pratici.
4) A partire da questa nuova interpretazione gli storici propongono oggi una nuova
cronologia: dal 1505, anno del confronto tra Leonardo e Michelangelo a Palazzo Vecchio
(“la scuola del mondo” di Benvenuto Cellini), al 1527, con il Sacco di Roma e il
definitivo predominio di Carlo V in Italia, ci sarebbe stata una fase sperimentale del
manierismo, ricca di spunti e fermenti positivi.
Dopo il 1527 e, in particolar modo dagli anni „40, l‟espressione manieristica si sarebbe
identificata con un atteggiamento di ripiego, con formule ricercate ma sostanzialmente vuote
e spesso ripetitive, con comportamenti di ossequio nei confronti del potere politico,
principale protagonista nell‟ambito della committenza, assecondandone i gusti artefatti e
raffinati.
Significativo a questo proposito è l‟istituzione di una scuola a Fontainebleau da parte di
Francesco I nel 1530, dopo la rinuncia alle sue pretese in Italia con la cospicua chiamata di
artisti italiani (Rosso Fiorentino, Primaticcio, Correggio, Parmigianino). La sua dimora,
concepita sul modello del “Palazzo del Te” , ideata da Giulio Romano per i signori di
Mantova, accoglieva una tra le più vaste raccolte di opere di autori rinascimentali a partire da
Leonardo da Vinci.
5) Dopo la morte di Raffaello (1520) e la diaspora dei suoi allievi, non si era riuscito più a
ricostituire a Roma un indirizzo artistico chiaro e preciso. Il sacco del 1527, diede il colpo di
grazia ad una situazione critica dal punto di vista economico ed istituzionale, come traspare
dalla lettera di Clemente VII a Carlo V, nel luglio del 1528: “...il nostro dolore per la rovina
dell‟Italia, visibile a tutti gli sguardi e soprattutto per la miseria di questa città, la nostra stessa
sventura, sono stati aumentati dall‟aspetto di Roma. Ci resta l‟unica speranza di poter sanare
le numerose ferite dell‟Italia e della Cristianità con i mezzi che tu ci offri”. E‟ in questo clima
dimesso e sconvolto che si viene a formare a Roma, intorno a Pellegrino Tibaldi e ad
ex-allievi di Raffaello e Michelangelo come Perin del Vaga, Francesco Salviati, Daniele da
Volterra e lo stesso Vasari, un indirizzo improntato alla tradizione, con esigenze di
semplicità e di chiarezza formale. Nell‟ambito di questo gruppo d‟artisti maturerà anche la
critica verso gli eccessi michelangioleschi nel Giudizio Universale.
6) L‟orientamento moderato della pittura romana aveva la sua ragion d‟essere per quanto
stava accadendo soprattutto in Germania, Francia ed Inghilterra con la nuova iconoclastia
protestante: come afferma Kenneth Clark (ib., Civiltà, 1972) il momento storico suggeriva
alla gerarchia della Chiesa cattolica un atteggiamento di prudenza, che non offrisse
motivazioni polemiche ai protestanti. Perciò nel 1564, anno della morte di Michelangelo,
Daniele da Volterra viene autorizzato a porre le sue famigerate “braghe” su alcuni nudi del
Giudizio Universale, mentre l‟ecclesiastico Andrea Gillio scrive i Due dialoghi degli errori
dei pittori nel quale espone i suoi concetti di consuetudine e di regolata mescolanza,
riferendosi innanzitutto al decoroso rispetto della tradizione, e proponendo un atteggiamento
di moderazione e di semplicità nell‟emulazione della maniera dei grandi maestri del
Rinascimento. L‟anno precedente (1563), sul modello dell‟Accademia della Crusca, Cosimo
il Vecchio fa istituire a Firenze l’Accademia del Disegno, sotto il patrocinio del Vasari, al
fine di permettere l‟elevazione del ruolo sociale dell‟artista dalla sua precedente situazione
corporativa, in realtà per accrescere la tutela del principe e il suo ruolo di mecenate.
7) L‟opera del Gillio reca tra l‟altro la dedica ad Alessandro Farnese, nipote del papa Paolo
III e cardinale protettore del nascente Ordine dei Gesuiti (1541), tra i fondatori, insieme ai
pittori Taddeo e Federico Zuccari, dell‟Accademia di San Luca (1594). Grande sarà la
loro influenza sui lavori del Concilio di Trento (1545-63), in particolar modo sulla 25°
sessione (dicembre 1563), dedicata alle immagini sacre. Si stabilisce, in particolare, la
necessità del riferimento delle iconografie ad un prototypum e della necessaria approvazione
ecclesiastica delle immagines insolitae, ultimamente di committenza vescovile.
E‟ a partire da questa indicazione conciliare che si spiega la fervente attività di alcuni vescovi
come San Carlo Borromeo a Milano e il cardinale Paleotti a Bologna, intesa non solo a
controllare, ma anche a dare un nuovo corso creativo all‟espressione artistica e religiosa delle
loro regioni.
8) Durante il periodo post-tridentino fu decisiva l‟influenza dettata dagli esercizi spirituali di
Sant’Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia di Gesù, in cui si raccomandava la
meditazione sulla vita di Cristo non sulla base di ragionamenti, ma a partire
dall‟immedesimazione accompagnata dalla contemplazione delle immagini sacre.
Sant‟Ignazio raccomandava la frequentazione di cappelle private, suggeriva la realizzazione
di quadri ambientati nella penombra, per favorire l‟intimo raccoglimento del fedele, come
nello stile del manierismo lombardo, al quale peraltro aveva contribuito in modo
determinante la presenza di Tiziano a Brescia agli inizi degli anni venti.
Con la Chiesa del Gesù a Roma, del Vignola, e con l‟attività di pittori militanti nell‟Ordine
(come Gaspare Celio o Giuseppe Valeriano) o gravitanti nella sua orbita (come Federico
Barocci), i Gesuiti influiranno effettivamente sui nuovi orientamenti stilistici. Le sintesi
creative saranno in seguito elaborate dai Carracci a Bologna e dai realisti lombardi, in primis
da Caravaggio, sulla scorta delle novità della pittura veneta della seconda metà del
Cinquecento.