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GIANFRANCO BOLOGNA (*)
BIODIVERSITÀ E SCIENZA DELLA SOSTENIBILITÀ (1)
La sostenibilità si basa sulla scienza della complessità. Allo stato attuale, i
confini disciplinari stabiliti nella nostra cultura sono sempre più labili, e si pone la
necessità di comprendere la realtà nella sua complessità.
Le ricerche scientifiche dimostrano che la specie umana sta esercitando un
significativo impatto sugli ecosistemi e sulle risorse naturali. Risulta pertanto di
fondamentale importanza collegare fortemente l’ecologia all’economia.
La scienza che studia i sistemi della Terra dimostra che stiamo raggiungendo
i limiti della nostra crescita economica e materiale, in relazione ai limiti biofisici
della Terra. È pertanto necessario individuare, in politica e in economia, nuovi
indicatori del progresso della società umana.
Parole chiave: complessità; biodiversità; cambiamento globale; scienza della sostenibilità.
Key words: complexity; biodiversity; global change; sustainability science.
Citazione - BOLOGNA G., 2010 – Biodiversità escienza della sostenibilità. Annali
Accademia Italiana di Scienze Forestali, Firenze. Vol. LIX-LX: XXXVII-LXXIV.
PREMESSA
Stiamo attraversando un periodo straordinariamente affascinante per quanto riguarda la nostra capacità di comprendere ciò che ci
circonda.
Il nostro sapere è in una fase di grande ebollizione. I confini
disciplinari si fanno sempre più labili. Stiamo facendo progressi
straordinari nella conoscenza ma, nello stesso tempo, siamo sempre
più consapevoli che soffriamo di un sapere fortemente parcellizzato,
separato, diviso. Siamo di fronte a tanti tasselli di un mosaico straordi-
(*) Direttore scientifico e area sostenibilità WWF Italia e Segretario Generale Fondazione
Aurelio Peccei, Club di Roma Italia.
1
Testo della prolusione tenuta in occasione dell’inaugurazione del 59° anno accademico dell’Accademia Italiana di Scienze Forestali.
ANNALI A.I.S.F., Vol. LIX-LX, 2011: XXXVII-LXXIV
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nario ed affascinante che abbiamo seri problemi a comporre e a concepire nella sua interezza.
Più sappiamo, più conosciamo, più riduciamo, distinguiamo,
separiamo, limitati anche dalle nostre capacità di comprendere le
dimensioni di insieme. Sempre più ci riesce difficile collegare, connettere, inquadrare la nostra conoscenza in una dimensione complessiva
che metta insieme i suoi diversi componenti piuttosto che separarli.
La sfida che ci proviene dalla sostenibilità, cioè di come rendere
compatibile la nostra presenza ed il nostro sviluppo economico e sociale su questo pianeta senza distruggere, come stiamo facendo ora, i sistemi naturali dai quali deriviamo e, senza i quali, non possiamo vivere,
tocca in pieno il problema degli attuali difetti della nostra cultura divisa
e parcellizzata. La sostenibilità si occupa proprio della conoscenza
delle interrelazioni tra i sistemi naturali ed i sistemi sociali, delle loro
dinamiche e della loro evoluzione e cerca di capire come sia possibile
cercare di governarle nel miglior modo possibile per ottenerne un’evoluzione dinamica, ma armonica, che non comprometta le basi della
stessa sopravvivenza dei nostri sistemi sociali.
È una vera sfida alla comprensione della complessità.
LA SOSTENIBILITÀ È COMPLESSITÀ
Nella seconda metà del 2009 è stato festeggiato il 25° anniversario della nascita di un Istituto di ricerca straordinario, il Santa Fe
Institute2 e gli 80 anni di vita di uno dei suoi fondatori, il premio
Nobel per la Fisica MURRAY GELL-MANN. Dal 1984 questo affascinante cenacolo di «menti» eccellenti ed aperte, provenienti da discipline e
background formativi diversi, ha cercato di approfondire la conoscenza della cosidetta scienza della complessità. Fisici, chimici, biologi,
informatici, economisti, ecologi si sono trovati ad esplorare campi
innovativi e di frontiera della nostra conoscenza. Diversi premi Nobel
sono stati protagonisti di questa avventura che, oggi più che mai, promette risultati ed avanzamenti di grande rilievo, fondamentali per
conoscere meglio la realtà che ci circonda, costituendo una base ineludibile per la giovane scienza della sostenibilità che analizza appunto le
interrelazioni e la dinamica esistenti tra i sistemi naturali e i sistemi
2
Vedasi il sito www.santafe.edu
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sociali. La storia e l’avventura intellettuale della nascita di questo Istituto è stata raccontata in un libro affascinante, scritto dal fisico e giornalista scientifico, MORRIS MITCHELL WALDROP3. La penetrazione
delle cosidette scienze della complessità ha profondamente contribuito a comprendere meglio noi stessi e tutto ciò che ci circonda.
Nel 1972 nella prestigiosa rivista scientifica «Science», appare un famoso articolo del premio Nobel per la Fisica, PHIL W. ANDERSON (anche egli protagonista dell’avventura del Santa Fe Institute), dal titolo
«More is Different» («Di più è diverso»)4 che diventa una sorta di manifesto del concetto di complessità. In questo articolo ANDERSON propone un’interpretazione di ciò che ha luogo nella natura: ad ogni livello di
organizzazione si possono identificare i mattoni elementari, le loro interazioni e l’emergenza di nuovi fenomeni collettivi che rappresentano gli
elementi del livello successivo. Scrive ANDERSON: «…il comportamento
di grandi e complessi aggregati di particelle non deve essere compreso
nei termini di una semplice estrapolazione delle proprietà di alcune particelle. Invece, in ciascun livello di complessità compaiono proprietà interamente nuove, e la comprensione dei nuovi comportamenti richiede una
ricerca che, credo, sia fondamentale nella sua natura come qualsiasi altra».
Come ricorda il grande matematico IAN STEWART5 il nucleo filosofico della teoria della complessità è costituito dal concetto di emergenza, in
cui il sistema che osserviamo è qualcosa che va ben oltre le sue componenti, in modo tale che «il tutto è maggiore della somma delle sue parti».
Il fisico LUCIANO PIETRONERO, direttore dell’Istituto dei Sistemi Complessi del CNR6, ricorda che lo studio dei sistemi complessi riguarda proprio
l’emergere di proprietà collettive in sistemi con un gran numero di componenti in interazione tra loro. Questi elementi possono essere atomi o batteri in un contesto fisico o biologico, oppure persone, macchine o imprese
in un contesto sociale ed economico. La scienza della complessità cerca di
scoprire i presupposti e il comportamento emergente dei sistemi complessi,
elementi spesso invisibili agli approcci tradizionali, focalizzandosi sulla
3
WALDROP M.M., 1995 – Complessità. Uomini e idee al confine tra ordine e caos. Edizioni
Instar Libri, vedasi anche JOHNSON G., 2002 – Simmetrie. Edizioni Instar Libri, un’altra affascinante avventura nelle ricerche degli studiosi del Santa Fe Institute e GELL-MANN M., 1996 – Il quark
e il giaguaro. Avventure nel semplice e nel complesso. Bollati Boringhieri.
4
ANDERSON P.W., 1972 – More is Different. Science, 177, 393.
5
STEWART I., 2009 – Dio gioca a dadi? Bollati Boringhieri, seconda edizione ampliata.
6
Vedasi il sito http://www.isc.cnr.it/. Oggi l’Istituto dei Sistemi Complessi del CNR è diventato un Centro di responsabilità scientifica.
XL
struttura delle interconnessioni e dell’architettura generale dei sistemi piuttosto che sui loro singoli componenti. Si tratta di una significativa modifica di orientamento e di approccio scientifico, piuttosto che di una nuova
branca scientifica. La scienza tradizionale si basa su un ragionamento fondamentalmente riduzionistico per cui se sono noti tutti i fattori che concorrono a creare una situazione è possibile prevederne il risultato e viceversa. È facile però rendersi conto che per una cellula, per le dinamiche di
un’ecosistema o per le dinamiche socio-economiche si è di fronte ad una
nuova situazione in cui la conoscenza delle proprietà degli elementi individuali
non è sufficiente a descrivere la struttura nel suo insieme.
Possiamo quindi rappresentare questa situazione come lo studio
dell’architettura della materia e della natura. Essa dipende in qualche
modo dalla proprietà dei «mattoni» ma possiede poi caratteristiche e
leggi fondamentali che non possono essere ricollegate a quelle dei singoli elementi. A partire dai sistemi fisici più tradizionali, come quelli
critici, in cui competono ordine e disordine, questi comportamenti
emergenti si possono identificare in molti altri sistemi, dall’ecologia e
dai sistemi immunitari all’economia, alla finanza, ecc. La scienza della
complessità si prefigge l’obiettivo di comprendere questi sistemi.
Il ruolo svolto dalla dinamica non lineare, dal caos e dalla complessità è stato fondamentale e positivo per la scienza: ha fatto sì che iniziassimo a porci domande sensate e smettessimo di fare assunzioni ingenue circa le sorgenti di complessità o di regolarità. Anche se molta strada resta da compiere ormai numerose importanti analisi scientifiche ci
portano ad individuare alcuni elementi chiave della complessità quali:
(1) i sistemi complessi sono costituiti da un insieme di molti oggetti
interagenti; (2) il comportamento di questi sistemi è condizionato dalla
memoria o dai feedback (sono sistemi in grado di ricordare e di «connettere»); (3) i sistemi possono modificare le proprie strategie in funzione della loro storia; (4) il sistema è tipicamente aperto e può essere
influenzato dall’ambiente circostante; (5) il sistema dà luogo a fenomeni
emergenti che non derivano automaticamente dalla somma dei comportamenti degli agenti che costituiscono il sistema. Gli avanzamenti
nelle scienze della complessità hanno condotto NEIL JOHNSON, un fisico della Oxford University e della Miami University della Florida, a
scrivere: «La complessità è davvero la scienza di tutte le scienze»7.
7
JOHNSON N., 2009 – Due è facile, tre è complessità. Edizioni Dedalo.
XLI
Il grande fisico ROBERT LAUGHLIN, premio Nobel per la Fisica
nel 1998, ha scritto nel suo splendido volume «Un universo diverso»8:
«Sebbene sia contrario all’abuso del concetto di era, penso di poter
dire che la scienza sia ormai passata dall’Era del Riduzionismo all’Era
dell’Emergenza, un periodo storico in cui la ricerca delle cause ultime
dei fenomeni subisce una metamorfosi: dallo studio dei comportamenti delle singole parti allo studio dei comportamenti collettivi».
LAUGHLIN scrive: «La scienza fisica ci dice quindi che considerare
l’intero essere come qualcosa di più della somma delle sue parti non è soltanto una teoria ma un fenomeno fisico. La natura si gestisce sia in base a regole microscopiche fondamentali sia attraverso principi di organizzazione,
potenti e universali. Alcuni di questi principi sono noti, ma dobbiamo dire
che nella stragrande maggioranza dei casi non ne sappiamo un granchè.
Ne vengono continuamente scoperti di nuovi». E ancora: «Sono sempre più
convinto che tutte le leggi della fisica che conosciamo, e non solo una parte
di esse, abbiano origini collettive. In altri termini, la distinzione tra leggi fondamentali e leggi derivate dalle leggi fondamentali sarebbe un mito, più
o meno equivalente all’idea di poter padroneggiare l’universo grazie alla sola
matematica».
Un grande biologo, teorico della complessità, anch’egli tra i fondatori nel 1984 del famoso Santa Fe Institute, STUART KAUFFMAN, ha
dedicato i suoi due ultimi libri9 all’analisi approfondita e, persino, ad
un tentativo azzardato ed affascinante di individuare delle «leggi» che
spieghino come la biosfera e l’intero universo, siano in grado di cocostruire se stessi, autorganizzandosi. KAUFFMAN, a mio avviso, si
pone oggi tra i più avanzati pensatori e scienziati e si muove, realmente, ai «confini» della conoscenza. Questi suoi ultimi libri sopra ricordati sono bellissimi.
KAUFFMAN scrive: «L’obiettivo che mi sono posto è anche di
discutere i limiti, scoperti di recente, del riduzionismo, che ha dominato la scienza occidentale quantomeno da Galileo a Newton, ma che ci
abbandona in un mondo di meri fatti privo di significati e svuotato di
valori. In sua vece, proporrò una visione del mondo che supera il ridu-
8
LAUGHLIN R., 2005 – Un universo diverso. Reinventare la fisica da cima a fondo. Edizioni
Codice. Vedasi anche LAUGHLIN R.B. e PINES D., 2000 – The Theory of Everything. Proc. Natl. Acad.
Sci., USA, 97, 28.
9
KAUFFMAN S., 2005 – Esplorazioni evolutive. Edizioni Einaudi, 2005 e KAUFFMAN S.,
2010 – Reinventare il sacro. Codice Edizioni.
XLII
zionismo, in cui siamo membri di un universo incessantemente creativo, da dove sono emersi la vita, l’agency, il significato, il valore, la
coscienza e l’intero patrimonio dell’azione umana […]. Noi viviamo in
un universo, in una biosfera e in una cultura umana che, oltre ad essere
emergenti, sono radicalmente creativi. Viviamo in un mondo di cui
spesso non possiamo prevedere, predire o specificare a priori gli sviluppi: un mondo di creatività esplosiva, in ogni suo recesso. Questa è
una parte centrale della nuova visione scientifica del mondo […]. A un
livello di complessità superiore a quello degli atomi, l’universo è su una
via, o su una traiettoria, destinata a non ripetersi mai. Ad esempio, nell’evoluzione della biosfera, dalle molecole alle specie, ciò che scaturisce
è quasi sempre unico nella storia dell’universo. Adottando la terminologia dei fisici, l’evoluzione delle molecole e delle specie nella biosfera
è enormemente non ripetibile, o non ergodica»10.
In questo grande fermento culturale negli ultimi decenni sono
nate diverse discipline che hanno cercato di comprendere al meglio le
relazioni tra i sistemi naturali e la nostra specie ed i sistemi sociali, culturali, tecnologici, industriali da essa creati (e che costituiscono l’antroposfera o la tecnosfera). Si tratta di discipline come l’Ecological
Economics (l’economia ecologica), la Conservation Biology (la biologia
della conservazione), l’Industrial Ecology (l’ecologia industriale) ecc.
Contemporaneamente climatologi, oceanografi, geologi, ecologi ecc.
sono andati notevolmente avanti nelle loro analisi e ricerche da poter
cominciare ad analizzare l’intero nostro pianeta come un Sistema
Terra da poter considerare nel suo insieme, tenendo conto di tutte le
relazioni esistenti tra le diverse sfere con le quali la nostra conoscenza
abitualmente divide il mondo, come l’atmosfera (la sfera dell’aria), l’idrosfera (la sfera dell’acqua), la pedosfera (la sfera del suolo), la biosfera (la sfera della vita). In tutte queste discipline l’attenzione alla
dimensione dei fenomeni emergenti derivanti dall’analisi dei sistemi
naturali e dei sistemi sociali e delle loro interrelazioni, è fondamentale
alla comprensione ed alla soluzione dei problemi che l’umanità oggi si
trova ad affrontare.
Tutto questo fermento teorico e pratico, sta confluendo in una
disciplina interdisciplinare definita Sustainability Science, la scienza
della sostenibilità.
10
KAUFFMAN S., 2010 – Reinventare il sacro. Codice Edizioni.
XLIII
Si tratta di una sfida culturale e pratica affascinante, fondamentale per invertire la nostra straordinaria pressione che continuiamo,
imperterriti, ad esercitare sui sistemi naturali.
PERCHÉ UNA SCIENZA DELLA SOSTENIBILITÀ
C’è un quesito fondamentale per tutta l’umanità, che dovrebbe
essere posto al primo punto all’ordine del giorno delle agende politiche internazionali ed al quale, invece, la politica e l’economia sembrano non prestare alcuna priorità: «È possibile consentire uno stile di
vita, quale quello medio degli abitanti dei paesi ricchi, all’intera popolazione mondiale attuale di 6,8 miliardi ed a quella prevista per il
2050, di poco più di 9 miliardi?»11.
La comunità scientifica che, da decenni, cerca di comprendere il
complesso funzionamento dei sistemi naturali e gli effetti che l’intervento umano produce su di essi è, da tempo, ben chiara su questo
punto. La risposta è: no, non è possibile.
Eppure noi continuiamo a vivere in un sistema culturale basato
sul perseguimento di una continua crescita, materiale e quantitativa, e
su modelli di uso delle risorse basati sul sovraconsumo, con il risultato
di pesanti effetti deteriori di tipo economico, sociale ed ambientale.
La conoscenza scientifica ci dice chiaramente che il peso e la
pressione che stiamo esercitando sui sistemi naturali, sulle loro capacità rigenerative (relativamente all’utilizzo delle risorse rinnovabili) e
ricettive (relativamente alle capacità di metabolizzare scarti e rifiuti
solidi, liquidi e gassosi prodotti dai nostri metabolismi sociali) sono
ormai chiaramente troppo elevati e possono mettere a rischio le basi
stesse della nostra sopravvivenza.
La situazione in cui versa la relazione tra sistemi naturali e sistemi sociali oggi è sempre più insostenibile dal punto di vista ambientale e di giustizia sociale. Manteniamo un mondo con una popolazione e
con i consumi pro capite in crescita ma con differenze di reddito
enormi e la persistenza di più di un miliardo di esseri umani denutriti.
11
Dovremmo anche essere capaci di comprendere al meglio il limite massimo che può
raggiungere la popolazione mondiale, rispetto alle capacità di carico del nostro Pianeta. Nell’ampia letteratura in merito, ricordo il bel volume di COHEN J., 1998 – Quante persone possono vivere sulla terra? Il Mulino editore.
XLIV
È evidente che le nostre società non possono continuare su questa strada. Le alternative esistono e la conoscenza scientifica ci ha
messo a disposizione, negli ultimi decenni, accurate analisi per comprendere lo stato in cui ci troviamo ed è stata anche capace di elaborare notevoli e concrete proposte operative, destinate a modificare significativamente i nostri modelli di sviluppo sociali ed economici.
In tante parti del mondo un nuovo modo di fare economia,
meno insostenibile dell’attuale, sta ormai diventando realtà, come
ricorda molto bene il rapporto «State of the World 2010» del
Worldwatch Institute12.
Agli inizi del 2009 è stato pubblicato il nuovo rapporto sulla
popolazione dell’ONU, il ventunesimo pubblicato a partire dal 1950
(negli ultimi anni la cadenza di questo assessment è biennale) mentre,
nell’agosto 2009, sono stati pubblicati i Data Sheet sulla popolazione
dell’autorevole Population Reference Bureau13.
La popolazione mondiale è ora di 6,8 miliardi di abitanti. Come
ci ricordano i rapporti ONU abbiamo cominciato il secolo scorso con
una popolazione di 1.6 miliardi, lo abbiamo chiuso con più di 6
miliardi mentre il primo miliardo di abitanti lo abbiamo raggiunto agli
inizi dell’Ottocento. Nel 2012 la popolazione mondiale dovrebbe raggiungere i 7 miliardi, nel 2025 gli 8 miliardi e si prevede che sorpasserà i 9 miliardi nel 2050.
Più dei 2.3 miliardi di abitanti che si aggiungeranno in questo
periodo, andranno ad ampliare la popolazione dei paesi cosiddetti in via
di sviluppo che si prevede cresceranno dai 5.6 miliardi del 2009 ai 7.9
miliardi del 2050. Invece la popolazione dei paesi sviluppati si modificherà in maniera minima passando dagli 1.23 miliardi agli 1.28 miliardi
e potrebbe persino declinare a 1.15 miliardi ove la prevista migrazione
netta proveniente dai paesi in via di sviluppo (calcolata su una media di
2.4 milioni l’anno dal 2009 al 2050) non dovesse verificarsi.
L’Africa per il 2050 dovrebbe raggiungere i 2 miliardi di abitanti.
Sempre nel 2009 la pubblicazione del rapporto annuale della FAO
sull’insicurezza alimentare ci ha fornito un dato particolarmente
12
WORLDWATCH INSTITUTE, 2010 – State of the World 2010. Edizioni Ambiente (edizione italiana a cura di Gianfranco Bologna).
13
UNITED NATIONS, 2009 – World Population Prospects. The 2008 Revision, Highlights,
Population Division of the Department of Economic and Social Affairs, United Nations; Population Reference Bureau, 2009, Population Data Sheet, www.prb.org
XLV
drammatico. Il numero dei denutriti della Terra è in crescita ed ha
raggiunto la cifra di un miliardo e 20 milioni, un incremento significativo, mai registrato dagli anni Settanta14.
La palese dimostrazione scientifica dell’impossibilità di far vivere l’umanità al di sopra dei limiti biofisici del nostro affascinante pianeta sembra ormai molto più diffusa di qualche decennio fa, quando
straordinari pionieri iniziarono a porre con forza questo problema
all’attenzione della pubblica opinione. Le drammatiche foto satellitari
di tante aree della Terra riprese nei primi anni Settanta confrontate
con quelle odierne, ci danno, anche visivamente, la chiara idea dell’insostenibilità di questo tipo di sviluppo15.
Oggi, come ho già accennato, si sta strutturando sempre di più
la Sustainability Science, la scienza della sostenibilità. Non si tratta di
una scienza costituita e fondata con dei suoi chiari confini disciplinari,
ma piuttosto rappresenta la convergenza di un insieme di progressi
transdiciplinari già in atto16. Una scienza difficile e intrigante, una
scienza, come già ricordato, nutrita dalle straordinarie novità concettuali ed operative di discipline diverse (dalla fisica all’ecologia, dall’economia alla sociologia, dall’antropologia alla politica) e di molte
discipline innovative e recenti (come l’economia ecologica, la biologia
della conservazione, l’ecologia del paesaggio, l’ecologia del ripristino,
l’ecologia industriale, ecc.), che cerca di tracciare «mappe» utili e praticabili per far sì che le nostre società possano vivere in armonia con i
sistemi naturali.
Una scienza che si avvale della continua analisi integrata dei
sistemi naturali e sociali, dello stretto legame che esiste tra natura ed
essere umano, del tenere sempre in conto l’intima relazione esistente
tra evoluzione naturale ed evoluzione culturale.
14
FAO, 2009 – The State of the Food Insecurity in the World. FAO.
Il Programma Ambiente delle Nazioni Unite (United Nations Environment Programme – UNEP) ha prodotto numerosi rapporti che illustrano la modificazione della superficie
della Terra dovuta al nostro intervento, attraverso le foto satellitari, ed ogni «Global Environmental Outlook», il rapporto più completo sullo stato dell’ambiente realizzato dall’UNEP, fa
largo uso di queste foto per illustrare tanti aspetti del pianeta, ripresi negli anni Settanta quando furono messi in orbita i primi satelliti specificatamente dedicati al telerilevamento scientifico, e paragonati alla situazione attuale. Vedasi, ad esempio, l’ultimo «Global Environmental
Outlook 4» pubblicato dall’UNEP, Progress Press, nel 2007.
16
Vedasi BOLOGNA G., 2008 – Manuale della sostenibilità. Idee, concetti, nuove discipline capaci di futuro. Edizioni Ambiente (seconda edizione).
15
XLVI
Una definizione molto calzante di scienza della sostenibilità è
stata fornita dal geologo PAUL H. REITAN della Università di Buffalo,
negli Stati Uniti, nel suo articolo apparso sul primo numero della rivista scientifica on line «Sustainability: Science, Practice & Policy», nata
nel 2005: la Sustainability Science è definita come l’integrazione e l’applicazione delle conoscenze del sistema Terra, ottenute specialmente
dalle scienze di impostazione olistica e di taglio storico (quali la geologia, l’ecologia, la climatologia, l’oceanografia), armonizzate con la
conoscenza delle interrelazioni umane ricavate dalle scienze umanistiche e sociali, mirate a valutare, mitigare e minimizzare le conseguenze,
sia a livello regionale che mondiale, degli impatti umani sul sistema
planetario e sulle società, in tutto il globo e anche nel futuro17.
LA CRISI DELLA BIODIVERSITÀ
Il tasso di perdita della biodiversità mondiale sta preoccupando
sempre di più la comunità internazionale. La diversità biologica è rappresentata infatti dall’attuale situazione della ricchezza in cui si manifesta la vita sul nostro pianeta, attraverso i patrimoni genetici delle forme
viventi, le specie di animali, piante, funghi, microrganismi e batteri che
oggi sono presenti sulla Terra ed i differenti ecosistemi che la caratterizzano. Ad oggi gli scienziati hanno scoperto circa un milione ed 800.000
specie ma si ritiene che le specie presenti sulla Terra possano essere da
3,6 fino a 100 milioni, con una media di 10 milioni di specie.
Abbiamo soltanto iniziato ad esplorare la vita sulla Terra e le
nostre conoscenze sono ancora molto limitate. Ma anche in questi
17
Vedasi, tra le numerose pubblicazioni in merito:
CLARK W.C., DICKSON N.M., 2003 – Sustainability Science: The emerging research program. Proceedings of the National Academy of Sciences, 100, 14: 8059-8061.
NATIONAL RESEARCH COUNCIL, 1999 – Our Common Journey. National Academic Press.
REITAN P., 2005 – Sustainability Science and What’s Needed Beyond Science – Sustainability: Science, Practice & Policy
http://ejournal.nbii.gov/archives/vol1iss1/communityessay.reitan.pdf
http://ejournal.nbii.org
Vedasi inoltre le riviste scientifiche:
«Current Opinion in Environmental Sustainability» http://www.elsevier.com/wps/find/
P09.cws_home/cosustnews
«Ecology and Society» http://www.ecologyandsociety.org
«Sustainability Science Journal» http://www.springer.com/environment/environmental+
management/journal/11625
XLVII
campi la ricerca avanza. I batteri del genere Prochlorococcus, sono
probabilmente gli organismi più numerosi del pianeta ma, fino al
1988, la scienza li ignorava. Galleggiano nell’acqua in quantità che
variano da 70.000 a 200.000 individui al millilitro, moltiplicandosi
grazie all’energia catturata dalla luce del sole e costituiscono quel
gruppo speciale di plancton definito picoplancton, a causa delle sue
dimensioni estremamente piccole.
Un’altra straordinaria recente rivelazione è la scoperta dei cosidetti SLIME (Subsurface Lithoautotrophic Microbial Ecosystems –
ecosistemi microbici litoautotrofici del sottosuolo), incredibili raggruppamenti di batteri e funghi che vivono nei pori dei granuli minerali di rocce ignee al di sotto della superficie terrestre, ricavando l’energia da materiali inorganici e prosperando fino ad una profondità di
2-3 chilometri o più.
Nelle affascinanti bocche vulcaniche idrotermali del fondo degli
oceani vivono alcune specie di batteri e di archeobatteri in acque con
temperature vicine o superiori al punto di ebollizione; il Pyrolobus
fumarii può riprodursi a 113°C, è nelle condizioni migliori a 105°C e
smette di crescere se la temperatura scende a 90°C18.
Il grande biologo EDWARD WILSON, riconosciuto internazionalmente come il «padre» della biodiversità, ricorda nei suoi interessantissimi volumi ad essa dedicati che l’insieme dei fattori che provocano i
processi di estinzione delle forme di vita sul nostro pianeta sono indicati dai biologi della conservazione sotto l’acronimo HIPPO (che ricorda
il nome inglese dell’ippopotamo): H sta per Habitat destruction, cioè la
distruzione diretta degli ambienti, I per Invasive species, cioè le specie
aliene o invasive (quelle che noi stessi immettiamo in ambienti che non
sono i loro originari), la prima P per Pollution, cioè le varie forme di
inquinamento, quindi i nostri scarti solidi, liquidi e gassosi, la seconda
P sta per Population, cioè la crescita della popolazione mentre la O sta
per Overharvesting, cioè il sovrasfruttamento.
EDWARD WILSON19 ritiene che il motore primario delle forze
d’incursione in tutto il mondo è costituita dalla seconda P di HIPPO
e cioè le troppe persone che consumano una quantità eccessiva di
18
Vedasi il sito dell’International Society for Extremophilies http://extremophiles.org/
index.html
19
WILSON E.O., 2004 – Il futuro della vita. Edizioni Codice.
XLVIII
terra, di mare e delle risorse terrestri e marine. WILSON ricorda anche,
che studi recenti sui gruppi più conosciuti a livello scientifico, i gruppi «focali», tra i quali i vertebrati e le piante da fiore, hanno rivelato
che le forze diverse dalla crescita della popolazione umana compaiono
nella parola HIPPO esattamente nell’ordine di importanza decrescente, con la distruzione dell’ambiente al primo posto e la caccia eccessiva all’ultimo. Nel periodo del Paleolitico la sequenza era grossomodo
quella opposta e cioè OPPIH, dalla caccia eccessiva a una distruzione
dell’ambiente in proporzione all’epoca, ancora piccola. Oggi la distruzione degli ecosistemi, la loro continua e progressiva trasformazione,
la loro frammentazione costituisce il fattore principale di perdita della
biodiversità a livello planetario.
Tutte le istituzioni scientifiche internazionali e la stessa Convenzione sulla Diversità Biologica (Convention on Biological Diversity –
CBD), che si occupano del gravissimo problema della progressiva perdita di biodiversità hanno dimostrato che i leader dei governi di tutto
il mondo hanno fallito il raggiungimento dell’obiettivo che si erano
dati nel 2002, e cioè di ridurre significativamente, entro quest’anno, il
2010, il tasso di perdita della biodiversità a livello mondiale.
La pubblicazione dell’interessantissimo «Global Biodiversity
Outlook 3» e numerosi lavori scientifici lo hanno chiaramente dimostrato20. Il recente lavoro apparso su «Science», scritto da oltre 40 studiosi guidati da STUART BUTCHART del World Conservation Monitoring
Centre del Programma Ambiente delle Nazioni Unite (UNEP), analizza attentamente oltre 30 indicatori che forniscono un quadro complessivo, nei loro trend, dell’andamento dello stato della biodiversità
sul nostro pianeta. Si tratta della serie di indicatori che sono stati sviluppati in questi anni, in un importante e significativo lavoro scientifico, svolto da numerosi esperti internazionali che operano in organizzazioni internazionali ed istituti di ricerca, nell’ambito della Convenzione sulla Diversità Biologica, attraverso l’alleanza definita 2010 Biodiversity Indicator Partnership21. L’analisi dei trend di questi indicatori
20
CONVENTION ON BIOLOGICAL DIVERSITY, UNITED NATIONS ENVIRONMENT PRO– WORLD CONSERVATION MONITORING CENTRE, 2010 – Global Biodiversity Outlook 3.
Scaricabile dal sito www.cbd.int/GBO3, vedasi anche BUTCHART S.H.M. et al., 2010 – Global
Biodiversity: Indicators of Recent Declines, Science, www.scienceexpress.org/29April2010/
Page1/10.1126/ science.1187512, scaricabile anche dal sito www.twentyten.net
21
Vedasi il sito www.twentyten.net
GRAMME
XLIX
dimostra chiaramente che non vi sono, purtroppo, evidenze relative
ad una significativa riduzione nel tasso di declino della biodiversità e
che le pressioni che intervengono sulla biodiversità continuano a crescere. Il Chief Scientist del World Conservation Monitoring Centre dell’UNEP, JOSEPH ALCAMO, ricorda che dal 1970 abbiamo ridotto le
popolazioni animali di numerose specie di vertebrati (mammiferi,
uccelli, rettili, anfibi e pesci) del 30%, l’area di superficie delle mangrovie e delle praterie di piante fanerogame marine (come la posidonia) del 20% e l’area coperta da barriere coralline viventi del 40%.
Queste perdite sono chiaramente insostenibili per le dinamiche dei
sistemi naturali e per lo stesso benessere e sviluppo umano, come è
chiaramente riconosciuto dagli Obiettivi di Sviluppo del Millennio
che i governi di tutto il mondo si sono impegnati a raggiungere fissandoli nel Millennium Summit dell’ONU tenutosi nel 2000.
Gli indicatori utilizzati forniscono interessanti dati per l’analisi complessiva dello stato della biodiversità. L’Indice del Pianeta Vivente (Living Planet Index) elaborato da studiosi del WWF e della Zoological Society
di Londra, rende conto dell’andamento delle popolazioni di più di 7.100
popolazioni di oltre 2.300 specie di mammiferi, uccelli, rettili, anfibi e pesci del mondo ed i dati di analisi partono come base dal 197022. L’Indice delle
specie selvatiche di uccelli (Wild Bird Index) deriva dall’analisi dei trend di
alcune specie di uccelli di ambienti agricoli, forestali e di zone umide in
Europa e nell’America settentrionale, mentre l’indice dello status delle
popolazione di uccelli acquatici rende conto degli andamenti delle popolazioni di uccelli acquatici riportate da Wetlands International. Vengono poi
considerati gli indici della famosa «Red List», la lista rossa delle specie minacciate di estinzione e le informazioni sul loro status e i loro trend23 e numerosi altri indicatori, tra i quali, l’estensione delle foreste, l’estensione
delle aree coperte dalle mangrovie, l’estensione delle praterie di piante fanerogame marine, le condizioni delle barriere coralline, l’indice di qualità dell’acqua (sviluppato dall’UNEP, nell’ambito del Global Environment Monitoring System, su 6.216 stazioni sugli ambienti di acqua dolce, distribuiti su tutto il pianeta), il ben noto indicatore dell’impronta ecologica, i tassi di deposizione dell’azoto, il numero e la distribuzione delle
22
Vedasi il rapporto biennale pubblicato dal WWF, l’ultimo dei quali è uscito nel 2008
(il prossimo sarà reso noto nell’ottobre 2010), Living Planet Report 2008.
23
Vedasi il sito www.redlist.org
L
specie aliene, gli indicatori di impatto climatico sui trend delle popolazioni di uccelli, i livelli di sfruttamento degli stock ittici, l’estensione delle
aree protette, la copertura effettuata dalle aree protette rispetto alla biodiversità
esistente, l’efficacia di gestione delle aree protette, le aree di foresta sottoposte a gestione sostenibile, ecc.
Tutti questi indicatori ci dimostrano la sofferenza della biodiversità planetaria rispetto alla continua pressione umana.
Per quanto riguarda il complesso ed affascinante tema delle foreste presenti sulla Terra, la FAO ha recentemente reso noto il suo rapporto, «Global Forest Resources Assessment»24 facendo il punto sulla
situazione degli ecosistemi forestali del pianeta, analizzandone l’evoluzione, gli andamenti e i tassi di deforestazione e degrado. Il rapporto
finale verrà pubblicato alla fine del 2010, ma, nel frattempo, l’Organizzazione ONU ha reso noto i più importanti risultati dell’Assessment. Va ricordato che la FAO aveva provveduto a rendere noto
anche un Forest Resources Assessment nel 2005, inframmezzando
quindi con un rapporto intermedio, quello realizzato abitualmente
con scadenza decennale.
Attualmente gli ecosistemi forestali nel mondo coprono il 31%
della superficie terrestre, e si tratta di più di 4 miliardi di ettari, che corrispondono ad una media di 0.6 ettari pro capite rispetto all’attuale
popolazione mondiale. Le cinque nazioni più ricche di foreste (Federazione Russa, Brasile, Canada, Stati Uniti e Cina) coprono per più della
metà il totale delle aree forestali presenti sul nostro pianeta.
La FAO annuncia che la deforestazione mondiale, dovuta soprattutto alla conversione delle foreste tropicali in terre agricole, è decresciuta nell’arco degli ultimo decennio, anche se prosegue ancora, ad un
tasso allarmante, in molti paesi del mondo. Non solo, ma lo sforzo fatto
per realizzare nuove e significative aree protette in quest’ultimo decennio, copre oggi appena il 13% della superficie mondiale di foreste (l’area di foresta inserita in sistemi di aree naturali protette è cresciuta di 94
milioni di ettari dal 1990 – due terzi di questo incremento ha avuto
luogo a partire dal 2000). Come accade in occasione del lancio di tutti i
rapporti internazionali, vale la pena approfondire meglio i principali
risultati di questo interessante Assessment per poter comprendere meglio
24
Vedasi il sito www.fao.org/forestry
LI
il quadro complessivo della situazione degli ecosistemi forestali del
mondo che sono ambienti fondamentali per il mantenimento degli equilibri dinamici della biosfera e per il benessere e l’economia umana.
Globalmente ogni anno, in quest’ultimo decennio, circa 13 milioni di ettari di foresta sono convertiti ad altri usi o perduti. Questo dato
deve essere confrontato con quello di 16 milioni di ettari di foreste che
sono spariti ogni anno, nel periodo 1990-1999. Il Brasile e l’Indonesia
che presentavano tassi di perdita di foresta molto alti negli anni Novanta hanno significativamente ridotto i loro tassi di deforestazione. Inoltre paesi come Cina, India, Stati Uniti e Vietnam a seguito di ambiziosi
programmi di riforestazione, hanno aggiunto, insieme ad alcuni fenomeni di espansione naturale degli ecosistemi forestali e boschivi in altre
regioni, una cifra annuale di 7 milioni di ettari di nuove foreste. In questo modo la perdita netta di superficie forestale, considerata la deforestazione e sottraendo a questo dato la riforestazione artificiale o l’espansione naturale delle aree boschive, si è ridotta a 5.2 milioni di ettari
ogni anno tra il 2000 ed il 2010, rispetto agli 8.3 milioni di ettari annuali
negli anni Novanta.
In Brasile che mantiene la maggiore quantità di foresta tropicale
dell’intera regione amazzonica, si sono perdute annualmente 2.6 milioni di ettari nel periodo 2000-2010 rispetto ai 2.9 milioni di ettari degli
anni Novanta. L’autorevole INPE (l’Istituto Nazionale di ricerche spaziali brasiliano25, ha reso noti i dati più approfonditi sino ad ora disponibili, sulla scala e la dimensione della deforestazione nell’Amazzonia
brasiliana. Il tasso di deforestazione annuale si è andato progressivamente riducendo, dopo aver raggiunto un picco di 27.000 km quadrati
nel 2003. La perdita di foresta, nei due anni 2007 e 2008, è stata inferiore ai 13.000 km quadrati, segnando la riduzione del tasso di declino di
circa il 53% rispetto agli anni precedenti. Comunque le nuove metodologie sviluppate dall’INPE per misurare lo stato di «degrado» della
foresta e quindi della sua biodiversità, dalle stesse immagini satellitari,
suggerisce, purtroppo, un trend in direzione opposta. I primi risultati
consolidati, pubblicati nel 2009, indicano che mentre il tasso di deforestazione resta costante nel 2007 e 2008, l’area di foresta degradata è
incrementa del 70%, passando dai circa 16.000 km quadrati nel 2007 ai
25
Vedasi il sito dell’INPE http://www.ob.inpe.br/degrad
LII
più di 27.000 km quadrati nel 2008. Le aree di foresta degradata mantengono purtroppo minori livelli di biodiversità, sono «serbatoi» di
carbonio meno efficaci, e sono altamente suscettibili di essere percorsi
dagli incendi o di essere maggiormente vittime di processi di deforestazione in un immediato futuro.
In Amazzonia grazie al progetto decennale ARPA (Amazon
Region Protected Areas) creato nel 2002 dal governo brasiliano con il
WWF Brasile, il Global Environment Facility (GEF), la Banca Mondiale, la Banca di sviluppo tedesca e il Fondo per la Biodiversità brasiliano,
entro il 2008 sono stati realizzati parchi e riserve per 32 milioni di ettari,
tra cui il Tumucumaque Mountains National Park, che vanta una superficie di ben 3.88 milioni di ettari, uno dei parchi più grandi del mondo.
Dal 2008 si sta lavorando per creare altre aree protette per altri 20
milioni di ettari entro il 2012.
Le grandi perdite di foreste con i più alti tassi di perdita annuali
continuano ad essere registrate, in quest’ultimo decennio, nel Sud
America ed in Africa, con 4 e 4.3 milioni di ettari rispettivamente. In
Asia si è verificato, in questo periodo, un guadagno annuale di circa
2.2 milioni di ettari, dovuto in larga parte ai grandi programmi di riforestazione avviati da Cina, India e Vietnam che hanno espanso la loro
area forestale fino a 4 milioni di ettari l’anno negli ultimi cinque anni.
Purtroppo la conversione degli ecosistemi forestali prosegue,anche
con alti tassi, in molti altri paesi. Ed è inutile ricordare che la ricchezza di biodiversità e la complessità di un ecosistema forestale naturale
evolutosi nel tempo, non è certamente paragonabile a quello di un
qualsiasi ambiente riforestato grazie all’intervento umano.
IL CAMBIAMENTO GLOBALE E I «CONFINI PLANETARI»
Il grave problema centrale che oggi ci troviamo dunque a fronteggiare è quello del cosidetto Global Environmental Change (GEC). La comunità scientifica internazionale è ormai riuscita a raccogliere una notevole
mole di dati sulla struttura, le funzioni ed i processi dei sistemi naturali e delle
loro dinamiche evolutive. L’utilizzo di strumenti tecnologici sempre più
raffinati che gli scienziati hanno a disposizione (pensiamo, ad esempio,
alla qualità raggiunta dai sensori dei satelliti da telerilevamento), ci hanno
aiutato anche a comprendere le trasformazioni fisiche cui abbiamo sottoposto l’intero Pianeta.
LIII
Infatti la comunità scientifica internazionale sta alacremente lavorando non solo per comprendere la naturale evoluzione dei sistemi del
nostro pianeta, ma contestualmente sta adoperandosi per comprendere
la dimensione, l’entità e gli effetti che la nostra azione provoca nei sistemi
naturali.
Negli anni ’80 del secolo scorso si sono andati strutturando autorevolissimi
programmi internazionali di ricerca dedicati proprio all’analisi del Global Environmental Change (GEC).
Dal 2001, patrocinati dalla maggiore organizzazione scientifica planetaria
l’ICSU (International Council for Science), i grandi programmi di ricerca
internazionali dedicati allo studio del cambiamento globale si sono riuniti
nell’Earth System Science Partnership (ESSP)26, che ha l’obiettivo di coordinare
le ricerche dei migliori scienziati del mondo che si dedicano alle scienze
del Sistema Terra.
Inoltre anche nel campo della sistematizzazione dei dati raccolti
dai numerosi satellite da telerilevamento esiste una grande partnership
internazionale, definita GEOSS (Global Earth Observation System of
Systems)27.
Nel 2001 in occasione della Global Change Open Science Conference dal titolo «Challenges of a Changing Earth» tenutasi ad Amsterdam nel luglio 2001 i quattro già citati programmi di ricerca internazionale sui cambiamenti globali, hanno sottoscritto una dichiarazione comune28
nella quale affermano che, in aggiunta al pericolo di rilevanti cambiamenti climatici, suscitano crescente preoccupazione i cambiamenti, sempre più evidenti, causati dalle attività umane di altre componenti dell’ambiente globale e le conseguenti implicazioni per lo stesso genere
umano. Beni primari essenziali quali le risorse alimentari, l’acqua, l’aria
e un ambiente non dannoso per la salute umana sono sempre più compromessi dai cambiamenti globali. Gli scienziati ci avvertono che la comprensione della dinamica del Sistema Terra è molto avanzata negli ultimi tempi (questa riflessione vale molto di più oggi a quasi 10 anni dalla
dichiarazione e tantissime ulteriori ricerche effettuate) ed è ora in grado
26
Si tratta dell’International Geosphere Biosphere Programme (IGBP), l’International Human Dimensions of Global Environmental Change Programme (IHDP), il World Climate Research Programme (WCRP) e l’International Programme on Biodiversity Science (definito Diversitas), vedasi il
sito www.essp.org
27
Vedasi i siti www.earthobservations.org e www.epa/gov/geoss
28
STEFFEN W. et al., 2003 – Challenges of a Changing Earth. Proceedings of the Global
Open Science Conference Amsterdam, 10-13 luglio 2001, Springer Verlag.
LIV
di fornire le basi con cui valutare gli effetti e le conseguenze dei cambiamenti indotti dalle attività umane. Infatti essi ci ricordano che le attività
umane stanno influenzando l’ambiente planetario in molti modi che
vanno ben oltre l’immissione in atmosfera di gas a effetto serra e i conseguenti
cambiamenti climatici. I cambiamenti indotti dalle attività antropiche
nel suolo, negli oceani, nell’atmosfera, nel ciclo idrologico e nei cicli biogeochimici dei principali elementi, oltre ai cambiamenti della biodiversità, sono oggi chiaramente identificabili rispetto alla variabilità naturale. Le attività antropiche sono perciò a tutti gli effetti comparabili, per
intensità e scala spaziale di azione, alle grandi forze della natura. Molti di
questi processi stanno aumentando di importanza ed i cambiamenti globali sono già oggi una realtà con cui le società umane sono chiamate a
confrontarsi. La conoscenza scientifica ci ricorda che i cambiamenti globali non possono essere compresi nei termini della semplice relazione
causa-effetto che tanto domina la nostra cultura. I cambiamenti indotti
dalle attività antropiche sono causa di molteplici effetti che si manifestano nel Sistema Terra in modo molto complesso ed articolato. Questi effetti interagiscono fra di loro e con altri cambiamenti a scala locale e regionale, con andamenti multidimensionali difficili da interpretare e ancor più da predire. Per questo gli eventi inattesi abbondano. La dinamica del Sistema Terra è infatti caratterizzata da soglie critiche e cambiamenti inattesi. Le attività antropiche possono, anche in modo non
intenzionale, attivare questi cambiamenti con conseguenze dannose per
l’ambiente planetario e le specie viventi. Le ricerche sul cambiamento
globale svoltesi negli ultimi decenni ci indicano che il Sistema Terra ha operato in stati diversi nel corso dell’ultimo mezzo milione di anni, a volte con
transizioni improvvise (con tempi nell’ordine di un decennio o anche
meno) all’interno di uno stesso stato. Le attività antropiche hanno però,
come individuato da queste ricerche, la capacità potenziale di fare transitare il Sistema Terra verso stati che possono dimostrarsi irreversibili e
non adatti a supportare la vita umana e quella delle altre specie viventi. La
probabilità di un cambiamento inatteso nel funzionamento dell’ambiente terrestre non è ancora stata quantificata ma è tutt’altro che trascurabile. Per quanto riguarda alcuni importanti parametri ambientali,
il Sistema Terra si trova oggi ben al di là delle soglie prevedibili di variabilità naturale, per lo meno rispetto a quanto conosciamo circa l’ultimo
mezzo milione di anni. La natura di questi cambiamenti che hanno luogo
simultaneamente nel Sistema Terra, la loro intensità e la velocità con cui
si manifestano non hanno precedenti nella storia della Terra. Il pianeta,
LV
ammoniscono gli studiosi del cambiamento globale, sta in questo momento operando in uno stato senza precedenti confrontabili29.
Gli avanzamenti delle ricerche sul cambiamento globale che,
rispetto alla Dichiarazione di Amsterdam del 2001, hanno ormai acquisito un ulteriore decennio di ricerche, ci dimostrano chiaramente che
non sarà possibile far vivere «all’occidentale» tutti gli abitanti della
Terra continuando ad utilizzare i combustibili fossili che, peraltro, provocano alterazioni climatiche e tantissimi problemi ambientali, sociali e
sanitari di portata devastante ed inoltre costituiscono risorse non rinnovabili ormai destinate ad esaurirsi30.
Proprio nel 2009, la prestigiosa rivista scientifica «Nature» ha pubblicato31 un documento di grandissimo valore, non solo scientifico, frutto
della collaborazione di 29 tra i maggiori scienziati delle scienze del sistema
Terra e della scienza della sostenibilità. Il lavoro, riprendendo proprio
quanto già dichiarato nel 2001 alla Conferenza di Amsterdam, sottolinea
come il nostro impatto sui sistemi naturali è ormai vicino a raggiungere
quei punti critici (Tipping Points), oltrepassati i quali, gli effetti a cascata che
ne derivano, possono essere veramente devastanti per l’umanità. Per questo motivo gli studiosi indicano «i confini pianetari» (Planetary Boundaries)
che l’intervento umano non può superare, pena effetti veramente negativi e drammatici per tutti i sistemi sociali.
Si tratta di nove grandi problemi planetari: il cambiamento clima-
29
Esiste un’imponente documentazione scientifica che aggiunge ulteriori elementi a
quanto dichiarato nella Conferenza del 2001, rafforzandola pienamente. Cito solo qualcuno dei
ponderosi volumi che riassumono alcune di queste ricerche, il più importante dei quali è STEFFEN W. et al., 2004 – Global Change and the Earth System. A Planet Under Pressure. Spinger Verlag. Tra gli altri vedasi ALVERSON K. et al., Paleoclimate, Global Change and the Future. Springer
Verlag; BRASSEUR G.P. et al., 2003 – Atmospheric Chemistry in a Changing World. Springer Verlag; KABAT P. et al., 2004 – Vegetation, Water, Humans and the Climate. A New Perspective on an
Interactive System. Springer Verlag; FASHAM M. (a cura di), 2003 – Ocean Biogeochemistry. The
Role of the Ocean Carbon Cycle in Global Change. Springer Verlag; CROSSLAND C.J. et al., 2005 –
Coastal Fluxes in the Anthropocene. Springer Verlag; LAMBIN E.F. et al., 2006 – Land-Use and
Land-Cover Change. Local Processes and Global Impacts. Springer Verlag; CANADELL J.G. et al.,
2007 – Terrestrial Ecosystems in a Changing World. Springer Verlag.
30
L’Earth System Science Partnership ha avviato, nel 2009, la pubblicazione di una nuova rivista scientifica «Current Opinion in Environmental Sustainability». Vedasi il lavoro introduttivo del
primo numero curato da LEEMANS R. et al., 2009 – Developing a common strategy for integrative global environmental research change and outreach: the Earth System Science Partnership. Strategy Paper.
Current Opinion in Environmental Sustainability, 1; 1-10.
31
ROCKSTROM J. et al, 2009 – A Safe Operating Space for Humanity. Nature, vol. 461; september 2009; 472-475. Vedasi anche il lavoro più esteso apparso su «Ecology and Society», ROCKSTROM
J. et al., 2009 – Planetary Boundaries: Exploring the Safe Operating Space for Humanity. Ecology and
Society, 14 (2): 32, on line www.ecologyandsociety.org/vol14/iss2/art32
LVI
tico, l’acidificazione degli oceani, la riduzione della fascia di ozono nella stratosfera, la modificazione del ciclo biogeochimico dell’azoto e del fosforo,
l’utilizzo globale di acqua, i cambiamenti nell’utilizzo del suolo, la perdita
di biodiversità, la diffusione di aerosol atmosferici, l’inquinamento dovuto ai prodotti chimici antropogenici.
Per tre di questi e cioè il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità
e il ciclo dell’azoto ci troviamo già oltre il confine indicato dagli scienziati.
Per il cambiamento climatico il confine proposto riguarda sia la concentrazione dell’anidride carbonica nell’atmosfera (calcolata in parti per milione
di volume - ppmv) sia la modificazione del forcing radiativo, cioè per dirla in
maniera molto semplice, la differenza tra quanta energia «entra» e quanta
«esce» dall’atmosfera (calcolato in watt per metro quadro). Per la concentrazione di anidride carbonica nel periodo pre industriale, si registrava un
valore di 280 ppm, oggi siamo a 387 e dovremmo scendere, come obiettivo, al confine, purtroppo già superato di 350 (immaginatevi la portata
della sfida di questo limite che, tra l’altro, non è stato neanche oggetto di
discussione all’ultima Conferenza delle Parti della Convenzione Quadro
sui Cambiamenti Climatici dell’ONU tenutasi nel dicembre 2009 a Copenaghen). Per quanto riguarda il forcing radiativo, in era preindustriale è
stato calcolato equivalente a zero, oggi è 1,5 watt per metro quadro, mentre
il confine accettabile viene indicato dagli studiosi, a 1 watt per metro quadro.
Per la perdita di biodiversità si valuta il tasso di estinzione, cioè il
numero di specie per milione estinte all’anno. A livello pre industriale si ritiene che questo tasso fosse tra 0,1 e 1, oggi viene calcolato a più di 100, e deve
invece rientrare, come obiettivo, nel confine ritenuto accettabile di 10.
Per il ciclo dell’azoto si calcola l’ammontare di azoto rimosso dall’atmosfera per l’utilizzo umano (in milioni di tonnellate l’anno). A livello
preindustriale si ritiene che tale ammontare fosse zero, oggi è calcolato in
121 milioni di tonnellate l’anno, mentre il confine accettabile, come obiettivo, viene indicato in 35 milioni di tonnellate annue32.
Nel successivo numero di «Nature» sono intervenuti sette rinomati esperti sulle tematiche per le quali i 29 esperti hanno espresso
delle indicazioni precise di Planetary Boundaries.
Praticamente tutti questi studiosi hanno convenuto, con com-
32
Per ogni ulteriore informazione è bene visitare il sito dell’autorevole Stockholm Resilience Centre www.stockholmresilience.org, i cui direttori CARL FOLKE e JOHAN ROCKSTROM
sono tra gli autori del rapporto.
LVII
menti diversi, sull’importanza dello sforzo che gli scienziati hanno
prodotto nell’indicare e motivare un confine planetario ai grandi problemi individuati come critici per il nostro futuro.
Si tratta di un’importante adesione sull’ampio lavoro scientifico
che, da decenni, si sta facendo per chiarire l’esistenza dei chiari limiti
posti alla nostra crescita dalla dimensione biofisica del pianeta, come
aveva pioneristicamente individuato il bellissimo rapporto al Club di
Roma «I limiti dello sviluppo» del 1972 sul quale mi soffermerò dopo.
Ovviamente sono presenti anche diverse critiche, come giustamente avviene ogniqualvolta si affronti una tematica così complessa,
relativamente all’indicazione precisa di un target limite. La domanda
classica che nasce spontanea è «Perché proprio quella cifra, nulla di
più e nulla di meno?»
Gli studiosi supportano l’individuazione dei loro target con una
ricca documentazione scientifica che li giustifica33, ma certamente le
osservazioni critiche sono di grande interesse.
Per esempio STEVE BASS, dell’International Institute for Environment and Development (IIED), fa presente che il limite planetario
indicato per l’utilizzo del suolo, limitato alla conversione in aree agricole, non è adeguato e deve essere cambiato. È invece necessario un
limite per il degrado complessivo del suolo o la perdita del suolo. Dal
canto suo un altro esperto, DAVID MOLDEN, dell’International Water
Management Institute, ricorda che il dato sull’attuale utilizzo di acqua
dolce è basato su pochi studi relativi all’approvvigionamento globale
idrico e alla richiesta di acqua e ritiene il limite planetario indicato di
4.000 km cubici annui, troppo alto.
Il dibattito può solo contribuire a migliorare le indicazioni dei
Planetary Boundaries, ma questi confini planetari devono diventare
oggetto prioritario dell’agenda politica internazionale.
L’ANTROPOCENE
Proprio per quanto abbiamo sin qui scritto, nel 2000 il premio
Nobel per la chimica PAUL CRUTZEN, ha proposto, durante una riunione del programma internazionale di ricerca sui cambiamenti glo-
33
Potrete approfondire meglio l’argomento scaricandovi i numerosi materiali presenti
al già ricordato sito dello Sockholm Resilience Centre www.stockholmresilience.org
LVIII
bali, il già citato International Geosphere Biosphere Programme
(IGBP) tenutasi a Cuernavaca in Messico34, che l’epoca geologica
che stiamo vivendo è talmente caratterizzata dall’intervento umano
che può essere definito un periodo geologico dominato dalla stessa
specie umana, con il nome di Antropocene.
Parlando dell’epoca dell’Antropocene, PAUL CRUTZEN scrive: «A
differenza del Pleistocene, dell’Olocene e di tutte le epoche precedenti, essa è caratterizzata anzitutto dall’impatto dell’uomo sull’ambiente.
La forza nuova […] siamo noi, capaci di spostare più materia di quanto facciano i vulcani e il vento messi insieme, di far degradare interi
continenti, di alterare il ciclo dell’acqua, dell’azoto, del carbonio e di
produrre l’impennata più brusca e marcata della quantità di gas serra
in atmosfera negli ultimi 15 milioni di anni». CRUTZEN scrive, inoltre:
«Ma abbiamo una certezza: il nostro impatto sull’ambiente crescerà.
Salvo catastrofi impreviste – e che nessuno si augura – la popolazione
mondiale aumenterà ancora e le sue attività agricole e industriali occuperanno aree sempre più vaste. Nell’Antropocene siamo noi il singolo
fattore che più incide sul cambiamento del clima e della superficie terrestre. Non possiamo tornare indietro. Possiamo però studiare il processo di trasformazione in atto, imparare a controllarlo e tentare di
gestirlo». CRUTZEN indica i primi anni dell’Ottocento come avvio dell’Antropocene: «A segnare l’inizio dell’Antropocene sono state la
rivoluzione industriale e le sue macchine, che hanno reso molto più
agevole lo sfruttamento delle risorse ambientali. Se dovessi indicare
una data simbolica, direi il 1784, l’anno in cui l’ingegnere scozzese
JAMES WATT inventò il motore a vapore. L’anno esatto importa poco,
purché si sia consapevoli del fatto che, dalla fine del 18˚ secolo, abbiamo cominciato a condizionare gli equilibri complessivi del pianeta.
Pertanto propongo di far coincidere l’inizio della nuova epoca con i
primi anni dell’Ottocento»35.
Una dimensione antropocenica è ben chiara a chiunque studi
quotidianamente le dinamiche dei sistemi naturali e gli effetti dell’in-
34
CRUTZEN P.J., STOERMER E.F., 2000 – The Anthropocene. International Geosphere
Biosphere Programme, Global Change Newsletter.
35
Questi brani sono tratti da CRUTZEN P.J., 2005 – Benvenuti nell’Antropocene! Mondadori. Vedi anche STEFFEN W., CRUTZEN P.J., MCNEILL J.R., 2008 – The Anthropocene: are
humans now overhelming the great forces of nature? Ambio, 36 (8): 614-621.
LIX
tervento e della pressione umana su di essi. Tale pressione, infatti,
modifica profondamente le dinamiche naturali di tali sistemi36, scompagina con forza i loro meccanismi evolutivi37, modifica in maniera
significativa i flussi di materia ed energia nei metabolismi naturali trasferendoli in quelli umani38. L’entità di questa pressione ha ormai raggiunto scale spaziali globali, che interessano l’intero pianeta, e non più
soltanto scale locali, e agisce su scale temporali molto ristrette.
I LIMITI DELLA CRESCITA: OGGI PIÙ ATTUALI CHE MAI
Nel 2008 si è celebrato il 100° anniversario della nascita di
AURELIO PECCEI, figura dalle straordinarie qualità umane ed intellettuali, fondatore e presidente di quel forum internazionale di menti
eccellenti dedite a comprendere il nostro futuro, il Club di Roma39 del
quale, sempre nel 2008, si è celebrato il 40° anniversario. Nel 1972,
proprio l’anno della conferenza di Stoccolma, la prima conferenza
delle Nazioni Unite dedicata all’ambiente umano, il Club di Roma
aveva reso noto lo straordinario rapporto «Limits to Growth» realizzato dal gruppo coordinato da DENNIS MEADOWS al prestigioso Massachusetts Institute of Technology (MIT) nell’ambito del System Dynamics Group, diretto da JAY FORRESTER, uno dei maggiori esperti mondiali di analisi dei sistemi.
Il rapporto costituì la prima applicazione di un modello computerizzato per analizzare l’andamento di 5 variabili fondamentali per le
società umane (risorse, alimenti, popolazione, prodotto industriale e
inquinamento) nell’intero pianeta, fino al 2100. Il rapporto ebbe un
successo enorme ma fu anche molto criticato per la sua lucida analisi e
la forte messa in discussione del modello economico dominante e il
mito della crescita ad esso legato.
36
Vedasi TURNER B.L. et al., 1990 – The Earth as transformed by human action: global
and regional changes in the biosphere over the past 300 years. Cambridge University Press e STEFFEN W. et al., 2005 – Global Change and the Earth System. A Planet Under Pressure. Springer.
37
Vedasi, ad esempio, PALUMBI S.R., 2003 – L’evoluzione esplosiva. Come gli esseri umani
provocano rapidi cambiamenti evolutivi. Giovanni Fioriti Editore e KRAUSMANN F. et al., 2009 –
Growth in global material use, GDP and population during the 20th century. Ecological Economics, 68 (10); 2696-2705.
38
FISCHER-KOWALSI M., HABERL H. (a cura di), 2007 – Socioecological transition and
Global Change. Edwar Elgar.
39
Vedasi il sito www.clubofrome.org
LX
Infatti al di là del modello, i dati e le considerazioni di fondo del
rapporto dimostravano un’impossibilità del perseguimento di una
continua crescita materiale e quantitativa dell’economia umana in un
mondo dai chiari limiti biofisici. DENNIS MEADOWS, la compianta
DONELLA MEADOWS e JORGEN RANDERS hanno poi pubblicato altri
due rapporti per aggiornare, nel tempo, quello del 1972 e le analisi e
gli scenari di allora, aggiornati allo stato attuale delle conoscenze,
hanno trovato, purtroppo, drammatica conferma e, ovviamente, una
situazione di peggioramento, dovuta proprio all’inazione politica40.
Nella premessa al rapporto «I limiti dello sviluppo» del 1972,
scritta da A LEXANDER K ING , S ABURO O KITA , A URELIO P ECCEI ,
EDUARD PESTEL, HUGO THIEMANN e CARROLL WILSON, come membri
del Comitato Esecutivo del Club di Roma si legge:
«Le sue conclusioni indicano che l’umanità non può continuare
a proliferare a ritmo accelerato, considerando lo sviluppo materiale
come scopo principale, senza scontrarsi con i limiti naturali del processo, di fronte ai quali essa può scegliere di imboccare nuove strade
che le consentano di padroneggiare il futuro o di accettare le conseguenze inevitabilmente più crudeli di uno sviluppo incontrollato.
[…] Sebbene si ponga ancora l’accento sui vantaggi dell’aumento di
produzione e consumo, nei paesi più prosperi sta nascendo la sensazione che la vita stia perdendo in qualità, e vengono messe in discussione le basi di tutto il sistema. […] L’intreccio delle relazioni è a un
livello tanto fondamentale e tanto critiche esse sono diventate, che
non è più possibile isolarle una per una dal groviglio della problematica e trattarle separatamente. Tentare di farlo vuol dire solo aumentare le difficoltà in altre e spesso inaspettate parti dell’insieme. Ogni
abituale metodo di analisi, ogni impostazione, qualsiasi politica e
struttura di governo, risulta insufficiente per affrontare situazioni
tanto complesse. Non sappiamo neppure quali saranno le conseguenze future o indirette delle «soluzioni» da noi attualmente adottate. È
dunque questo il «dilemma dell’umanità», noi possiamo percepire i
sintomi individuali del profondo malessere della società, anche se
40
MEADOWS D.H., MEADOWS D.L., RANDERS J., BEHRENS III W.W., 1972 – I limiti
dello sviluppo. Mondadori. MEADOWS D.H., MEADOWS D.L., RANDERS J., 1993 – Oltre I limiti
dello sviluppo. Il Saggiatore. MEADOWS D.H., MEADOWS D.L., RANDERS J., 2006 – I nuovi
limiti dello sviluppo. Mondadori.
LXI
non siamo in grado di capire il significato delle relazioni fra la miriade dei suoi componenti o di diagnosticare le cause di fondo, anche se
non siamo capaci di escogitare provvedimenti adatti».
Nel Commento finale al volume, scritto sempre dal Comitato
Esecutivo del Club di Roma si legge: «Un’ultima osservazione: è necessario che l’uomo analizzi dentro di sé gli scopi della propria attività e i
valori che la ispirano, oltre che pensare al mondo che si accinge a
modificare, incessantemente, giacchè il problema non è solo di stabilire
se la specie umana potrà sopravvivere, ma anche, e soprattutto, se
potrà farlo senza ridursi a un’esistenza indegna di essere vissuta».
NUOVI INDICATORI DI RICCHEZZA E BENESSERE
A causa della drammatica crisi finanziaria ed economica che sta attraversando il mondo da ormai un paio di anni, sta crescendo il numero
di osservatori, studiosi, analisti ecc. che sono consapevoli del fatto che il nostro attuale sistema economico, basato su di una crescita materiale e quantitativa continua, presenta ormai serie ed evidenti difficoltà ad essere sostenuto
dai sistemi naturali che ne consentono la sopravvivenza.
Parallelamente si sta diffondendo ed ampliando sempre di più il dibattito sull’inadeguatezza dei classici indicatori utilizzati dai modelli
economici dominanti, come il Prodotto Interno Lordo (PIL) divenuto,
nell’arco di questi decenni, sia nel mondo politico, ma anche in quello dei
media e dell’informazione in genere, un vero e proprio simbolo della
ricchezza e del benessere di una nazione.
Finalmente quello che, da diversi decenni, validissimi ed attenti studiosi che si occupano delle relazioni tra i sistemi naturali ed i nostri sistemi
sociali hanno sollevato ed analizzato, con grande acume ed intuizione, sta
lentamente diventando patrimonio comune, dopo essere stato marginale
per tanto, troppo, tempo.
Uno straordinario sforzo internazionale è in atto, negli ultimi anni,
nel tentativo di valutare i nuovi indicatori di benessere, di performance economica, di progresso sociale e di sostenibilità. Si tratta di un’attività estremamente importante che ha anche un grande valore culturale perché
mira ad affiancare alle normali contabilità economiche che si sono ormai
forgiate nella cultura della crescita, le innovative contabilità ecologiche,
consentendo una vera e propria rivoluzione culturale delle nostre impostazioni e dei nostri atteggiamenti mentali. Su questo fronte un significa-
LXII
tivo lavoro è stato attivato dal sistema statistico delle Nazioni Unite che hanno
prodotto diverse pubblicazioni molto importanti41, ma un grande lavoro
di advocacy è stato svolto da organizzazioni, come il Club di Roma ed il WWF
che hanno coinvolto attivamente , anche attraverso due importanti convegni tenutisi presso il Parlamento Europeo nel 1995 e poi nel 2007, diverse
altre istituzioni significative, quali il Parlamento Europeo, la Commissione Europea, la Banca Mondiale, l’OCSE, Eurostat42.
Nel 2009 il premio Nobel per l’economia JOSEPH STIGLITZ ha
presentato il rapporto finale del lavoro della Commission on the Measurement of Economic Performance and Social Progress, da lui coordinata insieme ad un altro importante premio Nobel per l’economia,
AMARTYA SEN ed al noto economista francese JEAN PAUL FITOUSSI,
commissione istituita, agli inizi del 2008, dal presidente francese
NICHOLAS SARKOZY43.
Il rapporto ha avuto un valore significativo nel mondo politicoeconomico. Scaturisce da una Commissione veramente di alto livello,
dove sono presenti altri premi Nobel per l’economia, come DANIEL
K AHNEMAN e K ENNETH A RROW , prestigiosi economisti come, ad
esempio, LORD NICHOLAS STERN, ben noto per aver pubblicato la
cosidetta «Stern Review on Climate Change» sui costi economici del
cambiamento climatico. Tra i membri della Commissione vi è anche,
unico italiano, ENRICO GIOVANNINI, per anni all’OCSE e, da quasi un
anno, nominato presidente dell’ISTAT.
Inoltre la rilevanza politica del rapporto è data anche dal forte
appoggio del presidente francese SARKOZY che lo ha voluto, avviando
un dibattito internazionale di alto livello, anche nell’agenda politica
planetaria.
L’obiettivo del lavoro della Commissione è stato proprio quello
41
Vedasi, ad esempio, il rapporto UNITED NATIONS, 1993 – Integrated Environmental and Economic Accounting. United Nations. UNITED NATIONS, EUROPEAN COMMISSION,
INTERNATIONAL MONETARY FUND, OCSE, WORLD BANK, 2003 – Integrated Environmental
and Economic Accounting 2003. Handbook of National Accounting, vedasi
http://unstats.un.org/UNSD/envaccounting/
42
Vedasi il sito www.beyond-gdp.eu dove si possono scaricare anche gli Atti del convegno del 2007 «Beyond GDP». In occasione del convegno del 1995 fu presentato il rapporto al
Club di Roma di VAN DIEREN W. (a cura di), 1995 – Taking Nature into Account. Copernicus
Springer-Verlag.
43
Vedasi il sito della Commissione www.stiglitz-sen-fitoussi.fr da cui si può scaricare
l’intero rapporto.
LXIII
di identificare i limiti del Prodotto Interno Lordo (PIL) come indicatore della performance economica e del progresso sociale; di considerare quali informazioni aggiuntive sono necessarie per la produzione
di nuovi indicatori di progresso sociale più rilevanti; di sistematizzare
la possibilità di strumenti capaci di indicare misure alternative e di
discutere come presentare le informazioni statistiche in modalità
appropriate.
La Commissione ha fatto chiaramente presente che il PIL costituisce un’ inadeguata misura per dare conto del livello del benessere
umano, particolarmente rispetto alle sue dimensioni economiche,
sociali ed ambientali.
Il PIL viene ritenuto uno strumento non sbagliato in se stesso,
ma per l’utilizzo errato che ne viene fatto. Un messaggio chiave del
rapporto è che ormai è giunto il tempo per modificare i nostri sistemi
di misurazione delle performance economiche e per porre quindi l’enfasi non più sulla misurazione della produzione economica ma sulla
misurazione del reale benessere delle persone. E, il rapporto aggiunge
altrettanto chiaramente, che le misure del reale benessere devono
essere poste in un contesto di sostenibilità.
Il rapporto inoltre argomenta 12 raccomandazioni che partono
proprio dalla valorizzazione di numerosi aspetti e capacità di misurazione di tanti fattori che non sono compresi nel PIL. La misurazione e
la capacità di assessment riguardante la sostenibilità è stato un impegno centrale della Commissione, proprio perché la sostenibilità pone
la sfida di determinare almeno i livelli correnti di benessere che possono essere mantenuti per le generazioni future.
Il rapporto della commissione Stiglitz diventa oggi una lettura
obbligata per chiunque abbia la volontà di modificare in positivo l’attuale stato delle cose. È quindi un fatto di grande rilevanza che il dibattito politico internazionale si sia arricchito di un ulteriore valido, autorevole ed argomentato strumento quale quello della commissione Stiglitz, che fornisce un significativo contributo per far voltare pagina alle
nostre società, imboccando la strada ineludibile della sostenibilità dei
nostri modelli di sviluppo socio-economici.
Tra le numerose iniziative per approfondire il valore della natura
la comunità internazionale ha dato vita all’autorevole iniziativa definita TEEB (The Economics of Ecosystems and Biodiversity; il sito è
www.teebweb.org), il programma internazionale, diretto dall’economista indiano Pavan Sukhdev, che mira ad avere il ruolo che ha avuto
LXIV
la cosidetta Stern Review sull’economia del cambiamento climatico
dedicandolo, invece, alla dimensione economica relativa alla biodiversità. Nel 2008 è stato resto noto un rapporto intermedio di questo
affascinante lavoro.
Il rapporto finale del programma sarà reso pubblico in occasione
della 10° Conferenza delle Parti della Convenzione sulla Biodiversità
che si terra a Nagoya in Giappone nell’ottobre 2010.
Il rapporto mira a presentare il più autorevole e comprensivo
esame del valore economico della biodiversità e degli ecosistemi e dei
servizi che gli ecosistemi offrono al benessere umano. Si struttura
come un’analisi dello stato delle conoscenze esistenti nell’interazione
tra scienze della natura ed economia e svilupperà uno specifico quadro di riferimento e delle raccomandazioni metodologiche. Il TEEB
mira a rendere più visibile i molti modi in cui noi dipendiamo dalla
biodiversità e a rendere chiari i costi ed i problemi che incontreremo
se non terremo pienamente conto della biodiversità nelle decisioni da
prendere ai vari livelli politici ed economici.
Il TEEB mira a comporre tutte le esperienze, le conoscenze, i
know-how esistenti in tutte le regioni del pianeta per rendere sempre
più la nostra economia, sia nella teoria che nella pratica, basata sui
fondamenti biofisici dei sistemi naturali che la supportano. Il TEEB
dimostra il fallimento dei mercati nel considerare adeguatamente il
valore degli ecosistemi e dell’intera biodiversità del pianeta. Il TEEB
dimostra proprio come le attività mirate alla conservazione, ripristino
e razionale gestione delle risorse e dei sistemi naturali costituiscono
un autentico investimento economico.
La mancanza di un prezzo di mercato per i servizi offerti dagli
ecosistemi e per la biodiversità dimostra che i fondamentali benefici
derivanti da questi beni (in molti casi beni pubblici e collettivi) sono
quasi sempre negletti o sottovalutati nelle decisioni politiche. Gli
effetti di queste sottovalutazioni si riverberano non solo nel peggioramento continuo e progressivo dello stato di salute degli ecosistemi del
mondo intero che oggi sono sottoposti ad una pressione umana senza
precedenti, ma anche sullo stato di salute dell’umanità e del benessere
umano nel suo complesso.
Il valore degli ecosistemi e della biodiversità è oggi paradossalmente invisibile all’economia che guida le scelte politiche nel mondo
intero. Le conoscenze scientifiche acquisite ci dimostrano che il capitale naturale, gli ecosistemi, la biodiversità e le risorse naturali, sono la
LXV
base del benessere delle economie, delle società e degli individui. Il
valore della miriade di benefici che derivano dalla ricchezza della natura presente sul nostro pianeta è ignorata e non presa in considerazione
dal mondo politico-economico che, quotidianamente, decide ciò che
condiziona la nostra esistenza. Stiamo drammaticamente distruggendo
le basi del nostro stock di capitale naturale e lo facciamo prima ancora
di riconoscere il valore che stiamo perdendo. Il persistente degrado dei
suoli, dell’acqua, delle risorse biologiche impatta negativamente sulla
nostra salute, sulla nostra sicurezza alimentare, sulle scelte dei consumatori, sulle opportunità delle attività imprenditoriali.
Recentemente il TEEB ha reso noto anche un «Climate Issues
Update» con lo scopo di influenzare il processo negoziale della 15°
Conferenza delle Parti della Convenzione quadro sui cambiamenti climatici che ha poi avuto luogo a Copenaghen nel dicembre 2009.
L’Update fa il punto su tre questioni molto importanti relative alle
politiche sui cambiamenti climatici: il pericolo dell’imminente perdita
degli ecosistemi delle barriere coralline con conseguenze molto serie a
livello ecologico, sociale ed economico, il valore delle foreste per la
funzione di cattura e stoccaggio del carbonio e la necessità di fermare
la deforestazione planetaria approvando un agreement sul legame
foreste-carbonio e la necessità di avviare politiche mirate a stabilire
«infrastrutture ecologiche» (cioè ripristino e conservazione degli ecosistemi forestali, di tutela delle foreste di mangrovie, dei bacini idrografici, delle zone umide ecc.) in particolare per le loro importanti
funzioni nelle politiche di adattamento al cambiamento climatico.
Il TEEB ha prodotto anche un breve rapporto dedicato ai policy
makers che richiede azioni immediate per quattro punti che vengono
definiti priorità strategiche urgenti:
1) Il blocco della deforestazione e del degrado degli ambienti forestali
e boschivi del pianeta, che costituiscono una parte integrante della
mitigazione per gli effetti del cambiamento climatico e producono
un’amplissima serie di servizi e di beni per le popolazioni locali e
per la più ampia comunità planetaria,
2) La protezione degli ambienti di barriere coralline, ai quali sono
associate le vite di almeno mezzo miliardo di persone , attraverso
sforzi significativi per ridurre l’incremento delle temperature medie
della superficie della Terra e l’acidificazione degli oceani,
3) La salvaguardia e il ripristino delle aree globali di pesca, base fondamentale per una parte della popolazione umana, ormai sull’orlo
LXVI
del collasso, con perdite ingenti valutabili in 50 miliardi di dollari
l’anno,
4) Il riconoscimento del forte legame esistente tra il degrado degli ecosistemi ed il persistere della povertà degli abitanti delle aree rurali,
avviando iniziative concrete per legare i diversi obiettivi del Millennio
(Millennium Goals) sui quali si sono impegnati i governi di tutto il
mondo, in sede ONU.
RESILIENZA: UN CONCETTO CENTRALE DELLA SCIENZA
DELLA SOSTENIBILITÀ
Uno dei concetti più affascinanti e cruciali della scienza della
sostenibilità è quello di resilienza, al quale sono dedicati interi centri
di ricerca44 ed anche uno straordinario coordinamento internazionale
di tanti autorevoli istituti scientifici ed università, coinvolte nell’approfondimento teorico e pratico della resilienza45.
Il concetto ecologico di resilienza è stato pionieristicamente introdotto da CRAWFORD HOLLING, sin dai primi anni Settanta, e definisce la
capacità dei sistemi naturali o dei Social- Ecological Systems, di assorbire un disturbo e di riorganizzarsi mentre ha luogo il cambiamento, in
modo tale da mantenere ancora essenzialmente le stesse funzioni, la
stessa struttura, la stessa identità e gli stessi feedback. Il sistema ha la
possibilità quindi di evolvere in stati multipli, diversi da quello precedente al disturbo, garantendo il mantenimento della vitalità delle funzioni e delle strutture del sistema stesso.
La resilienza, ricorda HOLLING, è misurata dal grado di disturbo
che può essere assorbito prima che il sistema cambi la sua struttura,
mutando variabili e processi che ne controllano il comportamento.
44
Da tre anni esiste a Stoccolma, il prestigioso Stockholm Resilience Institute, vedasi il
sito www.stockholmresilience.org
45
Si tratta della Resilience Alliance (vedasi il sito www.resalliance.org) che costituisce proprio un’ alleanza scientifica tra diversi autorevoli enti, università ed istituti, nata nella seconda
metà degli anni Novanta, ispirata dal lavoro del grande ecologo CRAWFORD (BUZZ) HOLLING, e
che ha dato vita ad un’interessantissima rivista disponibile gratuitamente on line e scientificamente referata, dal titolo «Ecology and Society», precedentemente chiamata «Conservation Ecology»,
che si pone, come obiettivo, la raccolta di riflessioni, analisi e ricerche destinate ad una scienza
integrata della resilienza e della sostenibilità (vedasi il sito www.ecologyandsociety.org).
LXVII
La resilienza di un ecosistema costituisce quindi la sua capacità
di tolleranza di un disturbo senza collassare in uno stato qualitativo
differente, che è invece controllato da un differente set di processi.
In precedenza, in ecologia il concetto di resilienza è stato utilizzato in maniera molto simile al modo in cui viene utilizzato in ingegneria. Infatti il noto ecologo EUGENE ODUM46 afferma: «La stabilità
di resistenza rappresenta la capacità di un ecosistema di resistere alle
perturbazioni (disturbi) e mantenere la sua struttura e funzione intatte. La capacità di resilienza rappresenta la capacità di recupero quando il sistema è modificato da perturbazione».
L’intera trattazione ecologica di ODUM riprende la natura cibernetica degli ecosistemi ed egli è stato indubbiamente un pioniere nell’applicazione all’ecologia dei moderni avanzamenti scientifici che
negli anni Sessanta-Settanta vi furono nell’analisi dei sistemi, nell’energetica e nella cibernetica (lavoro in cui ebbe un ruolo molto rilevante anche suo fratello HOWARD ODUM – sia EUGENE che HOWARD
sono purtroppo scomparsi nel 2002).
Lo stesso EUGENE ODUM, nel testo già citato, ad un certo punto,
scrive: «Con l’incremento di uno stress, il sistema, sebbene controllato, potrebbe non essere capace di ritornare esattamente allo stesso
livello di prima. Infatti C.S. HOLLING (1973)47 ha sviluppato una teoria ampiamente accettata, per la quale le popolazioni e, per inferenza,
gli ecosistemi hanno più di uno stato di equilibrio e dopo una perturbazione spesso ripristinano un equilibrio differente dal precedente».
CRAWFORD HOLLING ha avuto senz’altro il merito di aver applicato all’ecologia gli avanzamenti delle analisi dei sistemi adattativi complessi,
fornendo all’ecologia stessa e, conseguentemente, alle discipline dell’ecologia applicata, della gestione degli ecosistemi ed alla visione integrata di
ecologia, economia e scienze sociali (e quindi della scienza della sostenibilità),
contributi di grandissimo livello e spessore.
In un articolo apparso «Ecology and Society»48 HOLLING insieme ai noti studiosi WALKER, CARPENTER e KINZIG hanno fatto il punto
46
ODUM E.P., 1988 – Basi di ecologia. Edizioni Piccin.
HOLLING C.S.,1973 – Resilience and Stability of Ecological Systems. Annual Review of
Ecology and Systematics, 4; 1-23.
48
WALKER B., HOLLING C.S., CARPENTER S., KINZIG A., 2004 – Resilience, Adaptability
and Transformability in Social-Ecological Systems. Ecology and Society, online http://www.ecologyandsociety.org/vol9/iss2/art5
47
LXVIII
sui concetti fondamentali che determinano il comportamento dei sistemi ecologici e sociali (i cosidetti Social-Ecological Systems) e, penso,
valga la pena riportare brevemente alcune delle loro conclusioni.
Ad oggi gli studiosi della resilienza hanno riconosciuto quattro
caratteristiche della resilienza che sono state definite: latitudine, resistenza, precarietà e panarchia.
Per latitudine si intende l’ammontare massimo in cui un sistema
può cambiare senza perdere la propria abilità al recupero (prima,
quindi, di oltrepassare una «soglia» che, una volta sorpassata, può
rendere difficile o impossibile il recupero stesso).
La resistenza costituisce invece la facilità o la difficoltà di cambiare il sistema, o meglio, quanto e come il sistema è complessivamente resistente rispetto al cambiamento.
La precarietà indica quanto sia vicino l’attuale stato di un sistema ad un limite o una soglia.
La panarchia49 è un termine che viene utilizzato per ricordare che,
a causa delle interazioni a diverse scale, la resilienza di un sistema ad una particolare scala dipenderà dalle influenze degli stati e delle dinamiche alle
scale che hanno luogo al di sopra o al di sotto del sistema stesso.
Un concetto molto significativo che possiamo considerare invece
un po’ l’inverso della resilienza è quello della vulnerabilità. La vulnerabilità ha luogo quando un sistema ecologico o sociale perde le sue
capacità di resilienza divenendo quindi vulnerabile al mutamento che
precedentemente poteva essere assorbito.
In un sistema resiliente il cambiamento ha la potenzialità di creare opportunità di sviluppo, novità, ed innovazione. In un sistema vulnerabile persino piccoli cambiamenti possono risultare devastanti. La
vulnerabilità si riferisce perciò alla propensione di un Social-Ecological
System, di soffrire duramente delle esposizioni agli stress e agli shock
esterni. Meno resiliente è il sistema, minore è la capacità delle istituzioni e delle società di adattarsi e di affrontare i cambiamenti.
Attuare politiche di sostenibilità vuol dire quindi apprendere
come gestire l’incertezza, adattarsi alle condizioni mutevoli che si presentano ma, soprattutto, evitare di rendere sempre meno resilienti i
sistemi naturali ed i nostri sistemi sociali.
49
Termine coniato dagli studiosi del gruppo della resilienza e sul quale è apparso nel
2002 un volume con lo stesso titolo, curato da LANCE GUNDERSON e BUZZ HOLLING, Panarchy,
edito da Island Press. Il termine Panarchy richiama il dio greco Pan.
LXIX
Siamo in un mondo in cui, come abbiamo sin qui considerato, l’umanità sta giocando un ruolo preminente nel modificare i processi
della biosfera, dal livello genetico alla scala globale. Abbiamo un’estrema necessità di mitigare il nostro impatto sui sistemi naturali e di essere
in grado di adattarci alle nuove situazioni, con grandi capacità di
apprendimento e flessibilità.
Le politiche di sostenibilità basate sulle migliori conoscenze
scientifiche transdisciplinari dovrebbero diventare la priorità delle
agende politiche internazionali.
Il costo ambientale, economico e sociale che potremmo pagare,
se ciò non dovesse aver luogo, potrebbe infatti essere altissimo.
VERSO UNA SOCIETÀ SOSTENIBILE:
UN ESSERE UMANO = UNA QUOTA DI NATURA
Anche alla luce di quanto sin qui scritto, ritengo quindi sia
urgente riflettere ai fini di un’azione immediata, rendendo operativa
l’equazione che dovrebbe caratterizzare l’impegno politico ed economico di questo nuovo secolo e cioè un essere umano = una quota di
natura a disposizione.
Credo che questa costituisca la vera grande sfida della sostenibilità nonchè della politica, del diritto e della diplomazia internazionale.
Nel settembre 2009 si è tenuto a Davos in Svizzera, l’importantissimo World Resources Forum, voluto da uno dei grandi pionieri
dello studio dei flussi di materia che interessano i nostri metabolismi
sociali rispetto a quelli naturali, che è FRIEDERICH SCHMIDT-BLEEK,
fondatore e presidente del Factor 10 Institute, insieme a numerosi altri
enti e strutture che si occupano di questa fondamentale questione50.
La dichiarazione finale del Forum che ha visto la partecipazione di
tanti illustri studiosi dell’uso delle risorse, è molto chiara: andare
avanti con il modello di crescita continua di utilizzo delle risorse della
Terra non è possibile, è quindi indispensabile assicurare la stabilità
economica alle società umane in un mondo finito, modificando
50
Vedasi il sito del Factor 10 Institute www.factor10-institute.org e vedasi anche il sito
www.worldresourcesforum.org
LXX
profondamente i nostri sistemi di produzione e consumo. È necessaria
una nuova strategia globale per gestire l’utilizzo delle risorse naturali
che procuri un accesso equo a tutti per il presente e mantenendo le
loro disponibilità per le generazioni future.
Le ricerche sin qui realizzate sui flussi di materia51 dimostrano
che l’estrazione delle risorse a livello globale (relativamente a quattro
grandi categorie: biomassa, minerali, metalli e combustibili fossili) è
cresciuta dai 40 miliardi di tonnellate nel 1980 ai 60 miliardi nel 2008,
con la previsione di toccare gli 80 miliardi di tonnellate nel 2020 e i
100 miliardi nel 2030.
Proprio in occasione del Forum, tra i tanti rapporti e le ricerche
presentate vi è stato un rapporto sul sovra consumo52 che ha fornito
ulteriori interessantissime argomentazioni e informazioni sul tema.
L’attuale economia mondiale utilizza quindi 60 miliardi di tonnellate
annue di risorse ricavate dagli ecosistemi e dalle viscere della Terra, che
sono equivalenti al peso di più di 41.000 edifici equivalenti al noto
Empire State Building di New York (cioè 112 Empire State Building
ogni giorno). Quasi la metà di questa estrazione di risorse ha luogo in
Asia, seguito dal Nord America con circa il 20% e l’Europa e l’America Latina con il 13% ciascuna, Africa con il 9% ed Oceania con il 3%.
Queste risorse naturali comprendono sia le rinnovabili che le
non rinnovabili. Le rinnovabili comprendono tutte le biomasse e
quindi i prodotti agricoli, zootecnici, forestali ed ittici mentre quelle
non rinnovabili includono i combustibili fossili, i metalli ed i minerali
utilizzati per la manifattura di automobili e computers e per costruire
case ed infrastrutture. Oltre a ciò materiali addizionali sono estratti e
rimossi dalla superficie del suolo ma non sono direttamente utilizzati
nei processi produttivi. Questi materiali mobilitano un’ulteriore estrazione annuale di almeno 40 miliardi di tonnellate. Quindi annualmente le nostre società mobilitano sui 100 miliardi di tonnellate di risorse
naturali e materie prime.
51
Ad esempio GILJUM S. et al., 2007 – The material basis of the global economy. Worldwide patterns of natural resources extraction and their implications for sustainable resource use
policies. Ecological Economics, 64; 444-453, e KRAUSMANN F. et al., 2009 – Growth in global
material use, GDP and population during the 20th century. Ecological Economics, 68 (10): 26962705, e vedasi inoltre il sito www.materialflows.net
52
Vedasi il rapporto FRIENDS OF THE EARTH e SUSTAINABLE EUROPE RESEARCH INSTITUTE (SERI), 2009 – Overconsumption? Our use of the world’s naturale resources. Friends of
the Earth Europe il sito www.seri.at
LXXI
Il Forum propone che i nostri sistemi economici rispettino i
limiti biofisici del pianeta. Dobbiamo quindi cercare di stabilizzare
l’uso delle risorse ad un livello di 6-10 tonnellate pro capite l’anno al
2050 (la cifra più indicata è 8 tonnellate pro capite annue; si tratta di
una stima basata sulle conoscenze sin qui acquisite sull’utilizzo corrente totale di risorse diviso per la popolazione mondiale). È evidente
che le ulteriori ricerche in atto possono modificare questi dati, come
avviene sempre nel campo della conoscenza scientifica.
Il metabolismo delle società umane, cioè lo studio della conversione dei flussi di materia ed energia che occorrono alle nostre società
per mantenerle in esistenza, è diventato quindi sempre più un oggetto
di indagine e di analisi interdisciplinare molto importante e significativo, base fondamentale per la scienza della sostenibilità.
I sistemi sociali sono sistemi metabolici che utilizzano energia,
materia ed altre risorse naturali per mantenersi, riprodursi ed incrementare le strutture e le funzioni esistenti.
Il Forum nella sua dichiarazione finale ha concentrato le sue
richieste su alcuni punti fondamentali tra i quali:
– introdurre misure politiche efficaci per rafforzare al massimo la
produttività delle risorse e per far scendere la domanda di esse nel
tempo, utilizzando meccanismi di tassazione, meccanismi di «cap
and trade» (come quelli utilizzati nel Protocollo di Kyoto) ecc.;
– avviare accordi internazionali su target globali pro capite di estrazione e consumo di risorse che dovrebbero essere effettivi al più
tardi entro il 2015, con l’obiettivo di ottenere un disaccoppiamento
veramente significativo tra lo sviluppo economico e l’utilizzo delle
risorse;
– introdurre target dell’uso di risorse soprattutto nelle area di particolare delicatezza, quali gli ecosistemi di acque interne, le risorse
del mare e le foreste tropicali, per ridurre significativamente la rapida distruzione della biodiversità e dei servizi degli ecosistemi;
– rafforzare e focalizzare le ricerche mirate all’obiettivo dell’incremento della produttività delle risorse;
– ottenere un consenso sociale entro il 2012 su indicatori ecologici ed
economici (a livelli macro, meso e micro) legati al valore della natura e che vadano oltre il Prodotto Interno Lordo (PIL);
– ridisegnare i modelli delle imprese affinchè i ricavi siano basati sull’incremento della qualità dei servizi, piuttosto che sulla vendita di
prodotti materiali;
LXXII
– avviare processi per ripensare gli stili di vita e sviluppare i pattern
di consumo basati sulla sufficienza e l’uso attento e parsimonioso
delle risorse naturali.
Già nella seconda metà degli anni Ottanta l’economista olandese
HANS OPSCHOOR ha iniziato a riflettere sul concetto di «spazio ambientale».
Dall’anno del grande Summit della Terra organizzato dalle Nazioni
Unite a Rio de Janeiro il 1992, la Conferenza Mondiale su Ambiente e Sviluppo, l’organizzazione ambientalista Friends of the Earth (FOE) ha sviluppato
questo concetto, avviando un ampio programma, in ambito europeo, per
cercare di individuare obiettivi concreti di sostenibilità per le politiche
dei vari paesi e predisponendo degli interessanti piani nazionali per individuare lo «spazio ambientale» possibile dei singoli paesi.
In questa interessante operazione di teoria e pratica della sostenibilità è stato attore protagonista il ben noto Istituto Wuppertal per il
Clima, l’Ambiente e l’Energia53 che, già da tempo, aveva avviato
importanti ricerche sui flussi di materia e sui cosiddetti «Ecological
Rucksacks» (gli «zaini ecologici» che ogni nostro prodotto si porta
dietro rispetto alla materia mobilitata nell’arco della sua produzione
ma non incorporata nel prodotto stesso).
Il lavoro del Wuppertal ha condotto, in quel periodo, all’elaborazione di due importanti rapporti: uno dedicato all’Europa e l’altro alla
Germania54.
Lo spazio ambientale è al centro di queste riflessioni e viene
definito come il quantitativo di energia, di risorse non rinnovabili, di
territorio, di acqua, di legname e di capacità di assorbire inquinamento che può essere utilizzato a livello mondiale o regionale pro capite,
senza determinare danni ambientali, senza mettere a rischio le generazioni future, senza ledere il diritto di tutti di accedere alle risorse e ad
una buona qualità della vita.
La teoria dello spazio ambientale si basa su di una valutazione
quantitativa e qualitativa dell’uso delle risorse a livello nazionale, comparando i risultati con una «quantità equa» calcolata a livello mondia-
53
Vedasi il sito www.wupperinst.org
WUPPERTAL INSTITUT, 1995 – Europa sostenibile. Maggioli editore, e Wuppertal Institut, 1997 – Futuro sostenibile. EMI editrice.
54
LXXIII
le e regionale. Da questa valutazione deriva l’elaborazione di politiche
adeguate ad assicurare lo sviluppo sostenibile purchè basato su di
un’equa condivisione.
I diversi studi sin qui realizzati, hanno anche posto bene all’attenzione di tutti la necessità che le politiche di sostenibilità vengano
basate su due grandi ambiti complementari e inscindibili e cioè quello
mirato all’efficienza. che significa ottenere gli stessi beni e servizi con
un minor impiego di energia e materiali (e ci serve a guadagnare
tempo ma non certo a risolvere i problemi) e quello mirato alla sufficienza, che significa ottenere benessere con un minor impiego di beni
e servizi (ed è la strada obbligata per l’immediato futuro, soprattutto
per chiunque oggi si trova a livelli di consumo troppo elevati).
La sostenibilità, fa notare WALTER STAHEL, noto studioso dei
cicli di vita dei prodotti e animatore del Product Life Institute svizzero, ha poche applicazioni a breve termine; il suo valore sta nella sua
capacità di visione. Egli racconta la storia di tre tagliapietre ai quali
viene chiesto cosa stanno facendo: uno dice che sta facendo passare le
sue otto ore di lavoro, il secondo risponde che sta tagliando la pietra
calcarea in blocchi, il terzo risponde che sta costruendo una cattedrale. La sostenibilità è la cattedrale che tutti dovremmo cercare di
costruire55.
Ci attende una sfida veramente epocale. Abbiamo le conoscenze
per affrontarla e risolverla per il bene dell’umanità intera. Dipende
solo da noi.
SUMMARY
Biodiversity and sustainability science
Sustainability is based on the complexity science. We are living in an
enchanting intellectual period, extraordinary rich in our knowledge of the reality. The disciplinary boundaries that we indicated in our culture, are now always
more weak. We continue to separate the single elements of our knowledge but
now it is more important to considered, as it is possible, the reality in its complexity. Emergence, as pointed out by theoretical biologist STUART KAUFFMAN, is
therefore a major part of the new scientific worldview. The behavior of large and
55
Citato da LOVINS L.H., Ripensare la produzione. In Worldwatch Institute, 2008, State
of the World 2008, Edizioni Ambiente.
LXXIV
complex systems is not to be understood in terms of simple extrapolations of the
properties of the elements that are their components. At each level of complexity entirely new properties appear, and as the Physics Nobel Prize Winner, PHIL
ANDERSON, wrote, the understanding of the new behaviors requires research
which is fundamental in its nature as any other. This new approach at our way of
knowing the reality are very important for the sustainability, that is the capacity
to create, test and maintain adaptive capability, Sustainability analyzes the interactions of the Social-ecological systems, the relationship between the natural systems and the social systems and it tries to find solutions to maintain these relationships at a dynamic and harmonic equilibrium.
Sustainability is based on the knowledge of our Earth System. Now we
know well, thanks to the research of the Earth System Science, that humans,
both in numbers and in per capita exploitation of the Earth’s resources, is
expanding with significant impact on the world’s ecosystems and natural
resources. Scientists recognize the central role of mankind in geology and ecology by proposing, as made by the Chemistry Nobel Prize Winner, PAUL CRUTZEN, to use the term Anthropocene for the current geological period. Earth
System dynamics are characterized by critical threshold and abrupt changes.
Biodiversity is now in a very critical state, despite the official target to reduce
significantly the rate of the loss of the biodiversity within 2010, subscribed by
the governments of all countries in 2002. In this year, declared by United
Nations, International Year of Biodiversity, the state of the world biodiversity is
continuously declining as illustrated by several recent research and also by the
last «Global Biodiversity Outlook 3», published in 2010 by the Convention on
Biological Diversity. Unfortunately, and this is a real paradox in our so-called
«knowledge society», there is a growing gap between research findings and economic and political commitments.
It is fundamental to link ecology and economy. Earth System Science are
demonstrating that we are reaching the limits to our economic and material
growth in respect to the existing biophysical limits of our Earth, as it was brilliantly demonstrated in the famous Club of the Rome’s report «Limits to
Growth» in 1972. It is extremely necessary to have, in the policy and economics,
new indicators of the progress of human societies. For this purpose are very
interesting all initiatives that are moving towards «beyond GDP». The recent
report of the Commission on the Measurement of Economic Performance and
Social Progress led by Economics Nobel Prize Winners, JOSEPH SIGLITZ and
AMARTYA SEN, made by French President, NICHOLAS SARKOZY, and the reports
published by the TEEB (The Economics of Ecosystems and Biodiversity) an
international initiative started in 2007 in occasion of the G8 environment meeting in Potsdam, supported by United Nations Environment Programme and by
several governments, are a very good basis for guiding the needed change.