023. Fenomenologia dello scormaglio1 e briscola Stiamo pesando il
Transcript
023. Fenomenologia dello scormaglio1 e briscola Stiamo pesando il
023. Fenomenologia dello scormaglio 1 e briscola Stiamo pesando il mosto ormai da ore ed io inizio a sospettare che il Prigno non sia un tipo di taglio cosmico. Le lancette si rivoltano sulla schiena, le signorine si rinfrescano per la cena. Ma quando io scendo di cavallo… perché l’hai vista la sella sulla zampa del Calippo con tutto il mantello tirato di fuori… l’hai sentita la trottola… ta-ta-tac sul tavolo… l’orecchio appuntito… e l’orecchio è sovrano, porco d’un ermellino a dondolo, l’ha capita anche mia nonna zuava. E non puoi vestirlo di scampoli come un radicchio di Boboli… non puoi spulciarlo con i soliti intingoli al miele d’arpeggio, un po’ su dalle scale… un po’ giù di morale… il sopracciglio più in alto della corda rigida... le labbra a singhiozzo nella strofa tumida… Vecchie strategie moscovite con la pera dentro l’occhiolino. Non possono che sapere d’acquavite, anche se nessuno sa come ce le abbiano infilate sotto. E mi dispiace dirtelo così… quarant’anni a chinotto e pandorini Bauli gettati ai passeri... Specialmente dopo avermi segnalato i tuoi punti nella maniera più scontata, Spazio… la più facile a dirsi che poi a darsi per vinta nel giro buono d’un taccuino zeppo d’insulti maiuscoli. Perché Sandokan dormirà pure da quando il gallo canta tre volte a quando il gallo canta tre volte… ordinario come un’elevazione al cubo, una muta di lupetti storditi dalla vulcanica celeste… come quest’aperitivo al ginger da ribrezzo, che sul cubo c’è già la Robby d’abbastanza dubitabile… ma un’occasione simile non se la lascia certo scappare sotto il naso. Per quanto vacuo possa apparire di varice in sogno, sotto quella riga così domestica che lo incatena sempre al dunque. 1 N.d.C. Dal brazzaghese scurmài, soprannome giocoso e dal tono un poco turchino per gli uditori assisi a circolo, ma non sempre gradito allo scherzato in calzamaglia blues. Però non è che ogni quattro parole devo infilarci le virgolette come i vigili palette... Non è che ad ogni sputo di gatto devo spuntare anche la frangia al ratto, devo multare i crocifissi assisi, fare pire di stoccafissi lisi, devo strizzare occhiolini irti come capezzoli giancarli, rivoltare trombe, ramazzar sudari... Non è che ad ogni passo falso devo per forza risalire il pero. La vigilessa fa abbastanza paura da sola a Brazzaga, e di occhi neri ne ho già raccolti due da dimenticare. Vi arrangiate antonelli, come ho dovuto fare io in questa bella pagina di danza ritmica. Giusto un filo di cipolla per non trascurare la morosa. 238 La briscola è come una vita intensa, diceva la mamma di non so chi, posata admodum pecorum sull’ottomana Aldobrandi. E noi che abbiamo dovuto intingere tanta lirica nel latino sbriciolato, tanto pane da sviluppo fino, non possiamo che accodarci. Servono i carichi di valore per vincere e tutti vorrebbero pescarne qualcuno di grosso dal mazzo. Mai visto vincere senza i punti. Non è che sia una cosa da pensarsi giusta o sbagliata. È una cosa da considerare però, un fatto bell’e buono di cui prendere atto mentre si passa di turno. Punti giusti, punti veri. Poi però funzionano solo quelli che confortano la stella del minuto, quella certa voglia di funghi che folleggia inattesa, andando e venendo leggiadra come una fiammiferaia in minigonna e paltò, non importa se ormai usa al diluvio, una lattoniera da brindisi nel suo purgato approccio al cornicione. Una che ha assolto le mani sotto il tavolo per darsi ad intendere intanto ch’era ora. E i casi sono sempre di quelli più giusti. Non ci sono Biancanevi che imbriglino il motore quando uno ha le catene obbligatorie sotto il sedile. Se il caso è contromano invece, e alle volte capita che si rivolti senza un motivo proprio come se l’avesse, i punti non sono altro che pesi ingombranti sulle spalle. Cicatrici sviate dal fumo d’un ginepraio turco, e si può confidare di portarsene a casa un mezzo pacchetto solo se gli altri giocatori si sdragano appena dal cenacolo ludico, sempre che la mano itineraria non sia di quelle gravi. O se il destino per una volta ha voluto esserci così amico da farci dono di quei cosiddetti fermini, che è costume diffuso schernire con una smorfia di disgusto nonostante tutto, quasi fossero alette di tacchino recise tra parentesi, Alfette diesel col portapacchi blu. Perché non li riteniamo all’altezza del nostro pugno richiuso, noi gentiluomini impermeabili e così ripassati, del nostro comodo d’uso. È necessario anche un compagno svelto di memoria a breve termine e, cosa non da tutti, di calcoli statistici sul lungo lago, un appartamento a Venezia, due cric nel baule… uno biondo e uno moro… il quale non pensi ad altro che alla briscola in quel preciso frangente. Intesa senza asterischi da accollarsi alla Grazia del Padre, che di gratis non c’è più nemmeno la punteggiatura in questa democrazia della buccia, capilettera dal capo chino. E non si senta poi un campione affermato in ogni gesto che inscena, talmente sicuro del dubbio da potersi permettere di baciarne la rima nell’antro d’un pulpito. Nonché, bisogna pur dirlo alle giovani madri, per quanto vai a capire dove stia la linea sull’asfalto… fino a qua sei giovani, da qua in poi sei madri… una considerevole dose di fondoschiena da metterci dentro le birre medie a fustini grandi. Oltre a un culatello tipico da spinarsi con le pere, che di quelli invece non se ne vorrebbe mai avere abbastanza sotto i denti. 239 Ebbene il Prigno ed io, come si dice a rigor melodrammatico e come s’addice a gente così ben educata come noi, che slatiniamo struzzi indemoniati da un mattino al mattino seguente, incucchiaiati in una campanella zampognara da far venire i riccioli, noi poveri razzi sottomessi alla cupidigia d’un bottone rosso sangue, rosso Pompei… ebbene… dicevo… di solito realizziamo tutti questi connotati della briscola in quattro. E infatti vinciamo abbastanza spesso. Purtroppo tuttavia, quando lui non è asceso in solennità propizia, o quando non s’è sganciato dal manico dello skilift, penso io sorvegliandolo afflitto, non gli pulsa la vena panica sopra al mantello, non gli gira il dado in monica sotto il cappello, non c’è verso d’andare oltre i quarti di finale. Birra media e Calippo non possono convivere più d’un morso svagato, è sacrosanto. Se poi ci spinano le arachidi nel fianco… Il Prigno è un uomo dotato d’assolute capacità sportive in qualsiasi ambito agonistico decida d’applicarsi, sono grandi fortune, ma regge un temperamento troppo incostante per farsi enciclopedia da sottoscala. Il compagno ideale se ha voglia di giocare a quel dato gioco, la migliore arma dell’avversario quando è contrariato. Se già vinciamo tre a zero… primo tempo Bernaccone e Panizza brother… secondo tempo Maiemi in contropiede e rigore ciccato dal Dio… lui può decidere di scartare all'improvviso tutta la difesa, la nostra dico, e segnare un’autorete di collo pieno, petto e coscia d’appoggio, calamitato come un san Cristoforo da cruscotto, un Padrepio al gran gala. Acseee… Poi carezza dolcemente il portiere sulla nuca fradicia, comprensivo e raggiante… Cazzo ha segnato… Mentre l’altro piange dal nervoso con i suoi guanti di pelle bianca ancora turgidi, comprati apposta per l’occasione… uguali a Walter Zenga… Perché immagina l’ultima mezz’ora di bordate battenti, di picchiate radenti. E lo si capisce già dalla vibrazione dell’orecchio… la stella sulla zampa del Calippo… tutto il mantello grosso tirato di fuori, da sotto… un po’ rosso a dire il vero… Ma sarà questa sciocca stagione, no? per via della stazione. Quando il torneo ci vede dominare senza rivali, lui è capace di calare la Checca 2 in prima mano, nonostante sia briscola e le altre 2 Mio nonno definiva Chèca l’asso di denari, e a volte pure mia sorella in giro per i boschi con un cappuccio rosso. Di solito i brazzaghesi la chiamano invece col nome di Pitùna, non mia sorella, l’asso di denari, ridimensionandone di proposito le qualità rapaci al livello del semplice tacchino facoltoso di campagna. Lo insegnano anche alla scuola di spionaggio. Gloglo! Gloglo! Non so dire se il nonno avesse appreso il vocabolo da qualche cavaliere ruspante per cantarlo meglio, oppure se volesse alludere a qualcosa di pastorizio che sapeva solo lui, visto che poi dirigeva il coro della chiesa e chiamava Pitùna la nonna. Misteri del vernacolo familiare che non saranno mai svelati ai nostri denti da pane, soprattutto ora che i boschi scarseggiano e i funghi segugi si addomesticano nel freezer. 240 carte siano punti di contorno o scartini a bastoni, esclusivamente allo scopo di vedere lo sconcerto che la sua mossa provoca sulla piazza del mercato, e permettere così all’avversario di recuperare quella sporta minima di speranza già sulla soglia di Maurizio… un respiro allegro di garganza, chiave che gira lenta nella toppa, stroppa che s’inchiavarda dritta nella grotta… Non si sa mai di chi o di chissà cosa, ma parlando di così in via, e basta che respiri in questo ambito, si arriva a sera un altro giorno. Elementi essenziali nel rendere molto più gustosa ogni vittoria che gli va e che gli viene, o che spesso gli avanza. Maledéta la Cavàla, concludeva allora mio nonno senza riferirsi a nessuno di scopabile in particolare, cla broetta soemmia cun la bàla. Uno bestemmia e poi è costretto a ritrattare in ginocchio, quando non addirittura in latino. Lui… maledéta la Cavàla. Perché sono attesi dalle decine di spettatori sempre presenti, gli altrettanto attillati ruzzoloni per confidenza a collo alto, estremismi in sicurezza latte alpino arpionati sul bebè di bordo, che purtroppo lo hanno trovato miserabile e protagonista all’ultima curva doppia, alla palla sfatata, alla mano richiesta povera in piano, senza che il sinistro ne abbia in qualche modo dotato la zucca d’un mezzo chilo di sale garbato, integrato, il contegno forbito d’una quantità di fresca cautela, d’un metro e mezzo di buona candela. Che ce la infilavamo subito sotto il sedile se ci stava ancora. Il Prigno può vincere dieci a zero senza pietà sfoggiando un sorriso dannato ma non cattivo in faccia, che alla fine risulta anche simpatico. Oppure col medesimo ghigno può concedere il pareggio al nemico di turno e poi giocarsela a chi fa goal vince tutto, a chi è più alto prende la coppa dallo scaffale ed inizia ad affettare svelto… mentre noi portiamo da bere che mio cugino lavora in cantina... Acseee… In questi varchi d’eccesso libertario si abbandona poi supino all’arte dello scormaglio, mai ubriaco va detto per inciso, l’ennesimo campo sportivo dove riesce a primeggiare senza rivali. I sogni sono come le nuvole diceva la solita madre, bisogna saperli dipingere se non si vuole finire furibondi con una testa cotonata dai ghingheri. Per la verità nei propositi d’ogni buon brazzaghese medio trova un posto significativo il desiderio d’eccellere in quest’antica disciplina artistica, accostabile alla maestria dei più grandi cesellatori d’ogni tempo e luogo, all’arte secolare del maneggio sotto i tavoli, del gioco di mano, tiro da villano, per la sensibilità e lo stile richiesti nel polso… il ritmo costante… il bel tratto fervente... Si devono individuare nel prescelto gli elementi giusti da sciancare a tempo debito. Poi si devono prevedere gli effetti della manipolazione sulla ciurma avida… certi skidi soetta i’oengi… perché l’uditorio è sì guardone, ma è pur 241 sempre parte imprescindibile in un tribunale quantistico. E quanti sarebbero quegli altri lì? Tutti, davvero troppi da sculacciare insieme in una promessa che odora d’acquavite. Servono professionisti molto preparati in grado di captare con l’adeguato gusto le vibrazioni prodotte dal proprio sedile d’appartenenza. Alto e basso, regolabile su e giù ad un tempo solo, come una scala mobile già arrivata a destinazione ma sempre pronta a ricominciare il suo servizio senza fine. Un rasoio Philips con la batteria perpetua, come le signorine con gli zoccoli che sciabattano d’estate, le viti del Meccano. Ogni angolo del mondo è qualificato da particolari inclinazioni fertilizzanti, da caratteristici sedimenti di gruppo, e ciascun paese vanta il suo pastore in merito, il suo maggiordomo da tetto in calze bianche a riga doppia, due baffi coloniali dalle parti di Venezia, due palle… che si attarda imbottigliato nel traffico fin da quando era ciclostilabile. Ma di fenomeni come il Prigno, credetemi, se ne sono visti davvero pochi. Lui è il fuoriclasse che sorride ammiccando dietro al giornale di ieri. E senza mai averne letto uno di giornali, non c’è motivo, oggi o ieri, ma che c’entra? E non fa nessuna fatica ad ottenere poi lo stesso risultato che i poveri analisti da bancone, gli stoccafissi che pigiano brodaglie in un misto d’interiora scozzesi, raggiungono forse dopo innumerevoli tentativi di lettura a tasso alcolico, solo per caso fortuito, e comunque a seguito di sforzi al di fuori delle proprie fauci così ingrembiulate in un colletto bianco delle elementari… elementari tristi come le birre medie quando sono già vuote. Mai visto casi non fortuiti dopotutto, in un senso o nell’altro. A lui invece basta aprire bocca e desiderare un’etichetta. Mentre questa prende magicamente forma incollandosi addosso alla maglia dell’eletto come un tatuaggio malese, un’orchestra di sanguisughe ferma al semaforo di mezzo che strombazza duro per vendetta, senza speranze di rammenda nemmeno a scrosci di laser, a risucchio di panzer, nemmeno coi rutti di Sganzerla, le rollate gelide della Merla. I più fortunati si fanno poi condurre fin sull’ultima pagina del giornale mai letto, ieri, o domani, generalmente fra parentesi tonde e di norma a ridosso del nome di battesimo, del cognome del fuoco, o in anticipo d’una riga rispetto al cospicuo elenco dei familiari presbiti, diaconi… spesso, e mi spiace, così poco consoni. Capita alle volte che ci si dimentichi del nome di partenza e il soggetto scormagliato è come se rinascesse a nuova vita, questa volta Maiuscola, lasciando nell’oblio il proprio trascorso da educanda, con tutti i suoi peccati più o meno originali sotto una gonna orsolina. Giusti e più o meno lesti come sempre, ma in ogni caso miseri, così dannatamente scalzi in confronto alla meraviglia evocata da quella 242 giarrettiera in tacco quindici, epifania dell’essenza perfetta che la anima nel verbo. E solo un genio come il Prigno poteva essere in grado d’intravederla fra le pieghe dell’apparenza e riportarla alla luce in tutto il suo splendore. Solo uno come lui poteva scolpire la magia del tacco in una zeppa di sughero. Ubi Maior, zio… crepitante come un tordo allo spiedo… Mini Minor… Perché la genetica non si lascia imbottigliare con le pere. Mai, neanche quelle sovietiche. Il suo talento prodigioso si è manifestato nel corso d’un giro a Paroliamo, assurdo passatempo concepito per il tavolo della cucina, ma da noi sempre praticato in un giardino d’ortensie olandesi, per non sottostare alle imposizioni nominali così avare di merendine, ad un di-a-da inconsultabile, inconsolabile… ma dà a toe surèla… Mai sofferti i sottoarticolati da marciapiede che vogliono fare i chopper. Sovversivi ante merenda sul prato, noi trombettieri aggiunti alla calura, parrucchieri smunti dalle brache corte. Anche perché non avevamo ancora i tavoli adatti per spalmarci sopra l’albicocca, e forse neanche un’albicocca abbastanza matura per farci un po’ di festa. Era uscita una combinazione piuttosto impegnativa con un sacco di consonanti tedesche e tre sole vocali. Le solite troie da treccia e bauletto segreto che ti discriminano perché pisci in piedi. Mai fare l’errore di mettersi a farla da seduti davanti a una femmina da campeggio, pensavo intrepido, altra razza. Comunque la clessidra stava per decretare la fine delle ostilità che avrebbe sancito me stesso come il primo campione del quartiere, quando a lui brillarono gli occhi. Quel lampo beffardo sarebbe presto diventato familiare a tutto il paese e alle numerose località di villeggiatura in seguito visitate. Dalle sue labbra scaturì dunque il Verbo, e Questi d’incanto divenne la fonte prima del nostro universo quotidiano: «Qqquprigno!» Incominciammo infatti a chiamarci in questo modo divertente, benché la gloria rimanesse interamente in dote al Qupi, o Quprigno, o solo Prigno, il quale, vista la grande stima registrata specialmente sul fronte femminile, decise d’applicarsi come non aveva mai fatto in nessun altro campo della sua umana esperienza, in questa attività assai poco remunerativa sul piano della concretezza materiale… ma non era poi detto. Anche quella era materia in fondo, giusta o sbagliata non era rilevante. E poi era un fatto scientifico inconfutabile che fosse anche comoda. Con la notorietà così guadagnata, avrebbe potuto un giorno aprire qualsiasi attività senza timori di sorta, dal locale pubblico sul sedile posteriore allo spaccio e riparazione di macchinari avicoli. Quest’ultimo solo con scaffalatura alta perché non ci stava sul sedile di dietro. E da quell’anno, aggiungerei che non l’ho ancora detto e mi pare invece fondamentale, cominciava ad essere 243 interessante per noi tutti anche il fronte femminile su quel sedile in finta pelle. Sì insomma le ragazze nella loro curiosa interezza, per quanto considerate a piccole porzioni come appoggiate sottovuoto in fila sul banco. Anche il retro. Così, senza un motivo apparente, o con l’apparenza di tanti motivi tutti insieme da perderci la testa a fiumi e non dimenticarli mai più, questo è sicuro… Soprattutto il mistero delle tette, se devo dirne uno di quelli critici, e ci facemmo infatti tutti esperti di magheggio. Anch’io mi diletto ogni tanto nell’arte dello scormaglio, più che altro come hobby ancora poco costoso. Ma senza padroneggiare le qualità che appartengono solo al nobile Prigno, al massimo arrivo a battezzare wilmer un soggetto dal passo minuscolo, oppure posso scrivere «Dio è uscito» sulla porta dell’agriturismo Bertazzoni quando Sandokan va in missione. Ovviamente sulla lavagnetta dei commenti lasciata in bella mostra sotto il cartello anti-Bottardi… una tristezza… proprio in previsione di situazioni del genere. Mompracem dovrebbe insegnare agli audaci, c’è sempre tempo per un riscatto a gettone. L’abilità del Prigno o Quprigno a dir si voglia, trova forma in ben altre modalità espressive classificabili all'incirca in tre grandi gruppi, detti anche semi dagli osservatori più ossessionati, e ce n’è sempre di quelli maniaci dell’ordine, e che andiamo di seguito a sviscerare confidando di tenerceli in riga. La prima tipologia è la più semplice a dirsi che poi a darsi per vinta in una mano balorda dal fiocco slacciato, e comprende tutta quella serie di storpiature che nome e cognome del subalterno in cresta possono subire nell’arco di una vita, solitamente accogliendo suffissi dal tratto intuitivo, come «-one» e «-ino», 3 pensate, se si è magri o appena più in carne. E questo lo capirebbe anche una nonna media in fusto grande, per quanto possa forse risultare perplessa all’altezza del cotechino in brodo, c’è da capirla in mezzo a tutti quei crauti. I quali in seguito diventano facilmente «-illo», «-icchio», o addirittura «-igno», con la variante portoghese «-iñho» se crescendo ci si fa ancora più smilzi, o si sviluppano precise attitudini di fuga, di brache dai lembi calanti, di lombi rotanti, che uno non l’avrebbe mai 3 N.d.C. Le virgolette in questo caso sono strettamente necessarie, come quelle che seguono. Quelle altre di prima che non ho considerato invece, no. E perché? E perché no? O anche perché m’avevano rotto il «cazzo». E mettile di qua che è francese, e mettile di là ch’è dialetto dalmata, e il discorso si fa a dirotto, e segnale bene che dicono qualcosa ma potrebbero anche sembrare qualcosa d’altro di scopabile e Manuel poi non capisce… ‘fanculo la virgoletta. Chissà chi l’ha sculacciata da piccola… gli Assiri? i Sumeri? E dirò di più… ‘fanculo la maiuscola e sua sorella… ‘fanculo gli Ittiti ai semafori… bisogna liberarsi dalle sanguisughe in fila una per volta. Chi capisce, Capisce. 244 immaginato di scappare proprio sul più bello. Questi suffissi vengono poi applicati anche agli ordini successivi e risultano particolarmente sensibili alle influenze culturali in voga. Come un poco d’«-insky» giunto con i nuovi ricchi dell’Est, qualche lirismo latino utilizzato in particolar modo dai seminaristi a giornata, e persino la parecchio sofisticata chiusura in «-ix», accessibile soltanto ai contrabbandieri di pozioni galliche. Certe realtà adulterine vanno infatti onorate con il proprio essere autentico tirato di fuori, se è un poco rosso e logoro non fa niente, e l’unica condizione affinché ciò sia davvero possibile è quella di nascere cadendo direttamente nel pentolone. È un dato di fatto per noi che stiamo sempre ficcati nella merda, un presupposto assoluto. Come la nebbia umida che rivolta le ossa. Ed è solo così che può crescere il collo alle giraffe nei bar. I nomi degli atleti d’ogni sport concepibile fanno invece parte del secondo gruppo, dai campioni blasonati ai ciucciabrina. Anzi, sono soprattutto questi ultimi a godere maggiormente dei favori del pubblico quando vengono applicati a qualcuno. Bisognerebbe magari farglielo sapere a quei poveri ragazzi per risollevarne un poco il morale finito ormai al di sotto d’un livello regolabile in tacche, e non parlo del sedile dal barbiere stavolta. Gli N. C. sono come gli F. W., diceva sempre la mamma di non so chi, un po’ tutti e nessuno. O ci stai dentro per intero, wilmer, ti infili un bel Nome in testa, o non se ne fa nulla. Poi però i pupazzi si riprenderebbero venendo meno al proprio ruolo di spunta tacco… lo scormaglio non sarebbe più così azzeccato… il creativo dovrebbe pensarne uno nuovo d’altrettanto eloquente… insomma, è meglio che le cose restino come già stanno adesso. Le schiappe continuino a masticare il brodo in giuggiole, a pescare patatine dai sacchi bigi, e i pastori rimangano persuasi che per fare pipì sia meglio alzare una zampa per volta. Anche perché alzarne due insieme… non so… a me metterebbe un pelo d’ansia. Mentre i più osannati campioni seguitino a risplendere sui campi da gioco e sulle spalle di qualche emerito etichettato, ma perlomeno degno epigono di tanto colore in avanzo. Non sia mai che spunti l’aurora senza motivi. O forse ce l’avrà pure il suo motivo la signora, ma non ho mai fatto in tempo a chiederglielo. Così, senza una giustificazione falsificabile sul diario, può essere che di mattina presto ci si apostrofi a vicenda con un Gullit di buona annata. Oppure che il Prigno mi onori con un inatteso Fittipaldi, ed io gli risponda con un altrettanto cortese Gimondi, senza pescare troppo nella Bundesliga che la guardano solo a Torino. Che i maratoneti vadano a braccetto con i pugili e i tennisti escano a cena con le fidanzate delle tenniste, inciampando in qualche sciatore 245 bolognese di poche parole, ciò nondimeno dotato d’una classe destinata a non avere più eguali in questo universo. Quarta o anche quinta elementare, non cambia la media degli elementi in causa e nemmeno la birra, se è chiara, ma mai più. Una volta ho preso del Mansell da un reggiolese incollato alla mia targa mentre frenavo in curva. Ma in genere si elargiscono a piene mani dei Barrichello e dei Barros, oppure dei Pacione, almeno fino a quando l’artista è venuto a villeggiare sui laghi di Mantova. Da allora, per pudore, si è preferito ripiegare sui numerosi fuoriclasse dell’Inter. Il terzo gruppo rappresenta il livello tecnicamente più elevato, quello che necessita anche delle maggiori qualità celesti, e solo in pochi predestinati sanno innalzarsi degnamente ad esso anche una sola volta nella vita, il breve tempo d’un respiro affannoso, l’effimera corsa di una stella d’agosto. Il Prigno è invece di casa in quei lidi squisiti. Un nome di per sé insignificante viene accostato per chissà quali alchimie a quello da scormagliare. Anzi, spesso lo sostituisce realizzando la simbiosi perfetta, come se l’esistenza della persona taciuta fosse rimasta inutile fino a quell’istante, o unicamente protesa a tale unione. Come se i fringuelli, scormaglio e mutanda, bargiglio e pudenda, non attendessero altro dalla vita. Una vita inutile fino a quel momento, processione vana di chinotti dalla marca impronunciabile e pandorini con cartocci unti da gettare a terra in un giorno qualunque, da un finestrino qualunque, in un bar qualunque. Anche lungo la strada. La possibilità era aperta a tutti, eppure solo il Prigno ha saputo coglierla, o ha saputo infonderle quel tocco indefinibile che l’ha trasformata per sempre. Poiché se la medesima iniziativa fosse stata avanzata da me, anche con lo stesso termine, ma proprio lo stesso preciso, magari avrebbe messo di buon umore il parroco per mezza giornata, avrebbe ribaltato il sagrestano addetto ai tappi, ma smuovere gli animi utopici della Bocciofila... oddio, o scantonare la Sganzerla da sotto il tavolo… è davvero tutt’altra storia. Abbiamo eliminato il Prizziñho e suo fratello al primo turno. Non è stato difficile. Basta avere di fronte un Prigno tranquillo e tutto fila sul triplo quattro a zero, con o senza tresette in villeggiatura. Più duro del previsto s’è invece rivelato il secondo turno gaudioso contro Calzobalzo e Ronchina Scimionazzi, il Can Contadicchio. Il Prigno sudava perché aveva caldo, diceva, mentre in realtà pensava a una rossina di Pegognaga ed io continuavo a dargli calci sotto il tavolo per svegliarlo, rischiando di vedermi ingrandire le orecchie fino al naso nella considerazione di nicchia. Mi sentivo come inquisito da una manica intera di casco e parrucco, ripugnanti erbazzoni ricoperti di strutto. Ero arato fino in fondo alle reni da una mandria di matrone 246 sgarbate, su poltrone sdrucite, mezzo soprani e tutta rinite, il resto a sottane sgambate, basette imbrunite… Con le malelingue non sai mai come comportarti. Se distendi una gamba hai fatto un piedino, se segni l’asso di denari hai proposto un fine settimana intimo al tuo compare… che poi si vede dal Calippo, no? …il mantello sceso di fuori… bordeaux… la spilla sulla zampa del foulard… Se infine stai assolutamente immobile per evitare queste storie, che sinceramente rompono i coglioni, per quanto importanti come un secchio di merda sul letamaio della stalla grande… perché poi non gliene frega niente di te… allora sei solo una checca pentita perché hai mostrato un comportamento remissivo. Att l’ò détt me… Al parla, al parla, al parla… e po’ dòpu… al cioeccia al latìn cun i àsan... L’abbiamo spuntata tre a due alla quinta, ma solo perché ho mentito sulla pegognaghese, sostenendo fosse chiamata «Bevo solo a canna» di cognome, e il Prigno, uomo all’antica per certi versi, dopo un breve pianto nostalgico non l’aveva più pensata. I quarti sono scivolati via, appena allietati dalla parlantina sterile di un incompetente Naturama Biolandino in coppia fissa con Morsicellix il Vecchio, che il giovane fa su i gelati. I quali hanno tentato più volte di lasciarci intendere che se gli avessimo concesso l’incontro, in cambio ci avrebbero indicato le coordinate all’interno del campo santo, la X segnata sulla mappa del tesoro, dove avremmo potuto anche illuminarci sotto le bende corsive. E cos’è andato a fare Diomede a Katmandu la scorsa estate, secondo loro? Ad estendere le percezioni sensoriali? Probabilmente. Tuttavia ha voluto renderne partecipi anche gli amici più stretti con un sacchetto di semenza benedetta, ora ingentilita in qualche serra sotterranea al tranquillo riparo dalle canapizzazioni tipiche dell’aria aperta in questi luoghi così inospitali per buona parte dell’anno. Ed eccoci qua contrapposti agli amici di sempre, Sandokan Bertazzoni e il Saltapicchio Pinotti, con un Prigno instabile e disposto a non far pesare troppo la supremazia esorbitante che lo solleva da ogni responsabilità etica. Mica l’ha chiesto lui tutto quel talento in corpo, tutto quell’estro in circolo. Un furgone in lontananza gracchia la sua musica pittoresca. Squadroni di femmine oltre i settanta restano appollaiate dietro le tende della finestra che punta la strada, pronte a scattare come belve al primo grido di megafono. Mentre un bambino scopre le gioie del sesso e sua madre quelle del gesso essiccato al sole. Il Siupafemmino si dice sia caduto dalle scale. Chissà se questa volta vinceremo noi o se invece il Prigno scivolerà con eleganza in ultima mano, magari esordendo come suo solito di carico grosso prima ancora di esserci guardati in faccia... Poi 247 gettando le briscole più alte perché tanto ne ha due. Per finire col regalare qualche punticino extra, un punticino del cazzo… visto che loro ne contano così pochi di punticini del cazzo… rifiutandosi ripetutamente di strozzare… cazzo! Bisogna ammettere però che senza di lui non mi divertirei per nulla, e proprio questi momenti di follia costituiscono invece l’aspetto più piacevole del gioco ad esistere. Il Prigno è fatto così e va preso nel modo in cui si alza al mattino, e al mattino dopo ancora. Con i calzoncini bianchi della Nazionale o con la maglietta di Ayrton Senna tutta sudata, senza inutili strappi o forzature mistiche da infilarci la pera sotto, e senza pretendere che possa cambiare la propria natura, o anche solo le mutande d’una settimana, per una stupida vittoria. Esageratamente semplice per le qualità uniche che lo raddrizzano. E il suo segreto è proprio questo. Lui si avvale ad ogni istante della facoltà libera di sognare. E per poterla mantenere sempre vispa ha scoperto come ogni tanto si debba saper rinunciare a qualcosa. Anche perché gli amici più simpatici, ma tutti gli amici sono i più simpatici alla fine dei conti, possano festeggiare a loro volta. Non c’è un motivo da rincorrere in questo fatto, una ragione da annotare, è un fatto e basta. E poi ha piuttosto fretta, e lo si capisce già dall’orecchio… la sella sulla zampa del Calippo… tutto il mantello paonazzo di fuori… il piede che spilucca il tavolo… in quanto «Bevo solo a canna», una rossina elettrica di Pegognaga, è giù in macchina ad aspettarlo sotto il sedile dalle cinque, e certe virgolette occasionali dimenticate distrattamente in un prato estivo… come dire al punto in cui siamo giunti alle mani… scottano. 4 4 N.d.C. Il maestro ha fretta, tant’è che l’editore mi chiama Armando… Ma s’è sganciato dallo Skipass? …ma ha sdoppiato l’Ermellino? … e la Vena come fa? E siccome tutte le femmine prima o dopo ripassano per Romanore, volteggi da accompagnarsi a prescindere con un vino buono perché da sole è un peccato, mi piacerebbe tanto sapere com’è stato che la sorella del Wollyghan, che tra l’altro mi piaceva un camper, sia finita distesa su quel sedile a molla. Allo stesso modo sarebbe interessante capire come una persona dal carattere mite come il gen. Haynau possa essersi mutata in Jena Plessken, o come un tizio uscito nudo dalla doccia con l’asciugamani in testa come un turbante… eravamo al calcetto… sia diventato per sempre Gheddafi, per evolvere da lì a poco, pettinato di tutto punto e rivestito, in un Gheddafaiga in the night. Mi chiedo come si possa avere il cuore di chiamare Pessgatùn una fanciulla per giunta carina e Pèssgard uno che non è nemmeno suo amico, o come sia mai potuto accadere che il cognome di un tale sia finito a un tal altro, misteri del concepimento verginale. Magari si portava in tasca un amuleto confezionato con i chiodi di Malavasi… Come se mi dessero del Guglielmo solo perché mangio spesso la pizza dell’Armanda, morosa storica del Tellini. Lo si legga come un esercizio di vita. La vita è solo questo in fondo, almeno per noi che siamo tutti fenomeni. E visto che ci stavamo giusti nel titolo ma non trovavo la categoria, mi ci sono aggiunto. Tanto piove lo stesso. 248