Pasquale Mazzella, il sopravvissuto alla bomba atomica
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Pasquale Mazzella, il sopravvissuto alla bomba atomica
L’odissea dell’ischitano che l’ha vissuto da testimone e da protagonista Pasquale Mazzella e l’orrore atomico Pasquale Mazzella di Locatelli Il bombardiere americano “Enola Gay”, così ribattezzato dal suo capitano, alle 8,15 del 6 agosto 1945 sganciò su Hiroshima la prima bomba atomica della storia. L’ordigno sprigionò una potenza micidiale, e illuminando il cielo con la luce di mille soli 200mila persone morirono cancellate dalla faccia della terra. “Al posto di Hiroshima - scrisse nel diario di bordo il pilota dell’aereo - c’è un’orribile nube purpurea che ribolle, espandendosi come un fungo in una pentola di olio nero. E’ uno spettacolo terrorizzante…”. Quella mattina, a qualche chilometro da Hiroshima, un giovane sobbalzò guardando il cielo: era un ischitano, Pasquale Mazzella. Per una circostanza del destino sopravvisse all’atomica ma il ricordo di quell’orrore è rimasto incancellabile. Arzillo e lucido, di taglia atletica oltre il metro e ottanta, Mazzella ha un cuore d’acciaio che ancora oggi, a 92 anni, batte 60 colpi al minuto. Vive a Ischia con la famiglia, dopo una vita ricca di avventure irripetibili. “Il ricordo dell’esplosione atomica non mi lascia mai. racconta - Più gli anni passano più comprendo l’orrore di quel giorno”. Mazzella era prigioniero dei giapponesi. Lo avevano catturato in Cina due anni prima e poi internato in un campo di concentramento. “Quel 6 agosto – continua - eravamo a pochi km da Hiroshima, da cui ci divideva una collina. Era una mattina limpida rinfrescata da un venticello di maestrale. Alle 8,15 sentii tremare un po’ la terra sotto i piedi, cosa normale in Giappone, ove sono frequenti le scosse di terremoto. Poi vidi un lampo con un bagliore accecante. Dopo poco il cielo si oscurò e si scatenò una violenta pioggia. Pensai a un tifone che passava. Invece era il fallout atomico che fortunosamente non arrivò al campo: ci salvò la collina e il vento che soffiava di spalle. Fu così che il mio gruppo di 29 italiani non fu annoverato tra gli “hibakusha”, come chiamavano i colpiti dalle radiazioni atomiche. Non andò allo stesso modo per altri prigionieri americani che si trovavano ad est: sebbene più lontani, furono esposti alla pioggia radioattiva e molti morirono poi di leucemia”. Solo a sera la radio giapponese diede la notizia di una superbomba sganciata su Hiroshima. Nei due giorni successivi all’apocalisse nucleare Mazzella e gli altri prigionieri furono evacuati e trasferiti a Tokio, Kawasaki, Yokohama. L’8 agosto vennero fatti salire sul treno di una linea secondaria che sfiorò la periferia di Hiroshima. “Oscurarono tutti i vagoni per evitare che guardassimo quello spettacolo terrificante. Il convoglio si fermò in una stazione e io, preso dalla curiosità, cercai di spiare dalle fessure dei finestrini. Vidi scene indescrivibili: migliaia di morti e feriti coperti di bruciature come se fossero usciti da un’enorme fornace rovente. Il viaggio proseguì poi normalmente perché il Giappone ha sempre avuto un servizio ferroviario efficiente. Lo scoppio della seconda bomba atomica su Nagasaki, il 9 agosto, per i prigionieri concentrati nella baia di Tokio passò inosservato, ma il 13 ascoltammo alla radio il discorso di resa dell’imperatore Hiro-Hito”. Due giorni dopo, il cielo fu invaso da centinaia di aerei americani che lanciavano cibo con grandi paracadute. “Ma mentre noi corremmo a raccoglierlo, nessun giapponese, e dico nessuno, si chinò per prendere una sola scatoletta. Eppure erano allo stremo per mancanza di cibo: a noi fornivano una razione giornaliera di 100 grammi di riso, che era già tanto, considerato che loro soffrivano la fame. Ricordo che pregai la nostra guardia, il caporale Hishihara, di mangiare un po’ di cioccolato, tanto la guerra era finita. Mi rispose che quel cibo era solo nostro, e ingoiando saliva rifiutò con orgoglio”. Ridotto a una larva umana di 40 chili durante la prigionia, Mazzella non ha mai nutrito sentimenti di rancore per i giapponesi. “Avrei dovuto essere felice perché l’atomica accorciò la mia prigionia. – dice - Ma non fu così. Credo che il lancio delle atomiche su Hiroshima e Nagasaki sia stato uno schiaffo al genere umano, specie se si pensa che avvennero dopo tre mesi dalla resa dei tedeschi, e quindi senza che si potesse mettere in dubbio la vittoria finale”. Dopo la liberazione, l’odissea di Mazzella continuò. “Gli americani mi portarono con loro nelle isole del Pacifico che liberavano dai giapponesi. Ero partito da Napoli nel 1938, a 20 anni. Ritornai a casa nel 1946, dopo aver girato mezzo mondo e portando con me il pezzo di un paracadute americano”. Ma come si trovò in Cina allo scoppio della seconda guerra mondiale? “Nel 1938 fui chiamato a fare il militare di leva e arruolato nel battaglione San Marco. Dopo un breve addestramento venni inviato con un contingente di 500 marinai in Cina, destinazione Shangai. Allora una parte della città era costituita dalle “Concessioni straniere”, cioè in possesso delle potenze occidentali: l’Italia aveva la sua concessione a Tientsin”. Quando la Cina fu invasa dal Giappone, a Shangai si andò organizzando la resistenza e in quel clima Mazzella entrò in contatto con i comunisti cinesi. “Conobbi personaggi che hanno avuto un ruolo storico nella rivoluzione cinese, come Ciu En-lai, ministro degli esteri di Mao”. Nel settembre 1943 la notizia dell’armistizio scompaginò gli equilibri politici e lo stesso battaglione San Marco si divide: decisi a rispettare gli ordini del governo italiano Mazzella partecipò con altri 29 compagni all’affondamento delle nostre navi ferme alla foce del Yangtze: il posamine “Lepanto”, la cannoniera “Carlotto”, la nave ausiliaria “Calitea Il” e il transatlantico “Conte Verde”, che aveva portato un carico di ebrei cacciati dal fascismo. Questa azione imbottigliò molte unità della flotta giapponese provocando una dura reazione nei confronti degli ex alleati italiani. Seguì un processo contro quelli che non accettarono la collaborazione con i giapponesi. Mazzella e i compagni finirono in un campo di concentramento a 30 Km da Shangai e poi trasferiti a Nankino, Pechino, Manciuria, Corea: 4.000 km seguendo la ritirata delle truppe giapponesi fino alla loro cacciata dalla Cina. Il 1945 fu l’anno che mise a dura prova i prigionieri italiani. “I bombardamenti aerei ci fecero spostare a Hiroshima, Nagasaki, Kioto, Yokohama, Tokyo. Ridotti a stracci umani, fummo liberati dagli americani nel settembre 1945”. Ma giunse in Italia nel ’46 perché, trasferito su una nave, dovette seguire gli spostamenti della flotta Usa. “Sono nato nel 1918 e per me il ciclo dell’esistenza sta per concludersi. – mi dice – Auguro alle nuove generazioni di non vedere mai gli orrori delle bombe atomiche”. La bomba atomica sganciata su Hiroshima il 6 agosto 1945