Pubblicità e stereotipi di genere

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Pubblicità e stereotipi di genere
Pubblicità e stereotipi di genere
9 02 2009
Abbiamo già toccato altre volte questo tema.
Questa campagna della birra israeliana Gold Star Beer sta facendo molto discutere in Europa (e
forse anche in paesi extraeuropei?). Ho ricevuto diverse segnalazioni in proposito, da Roberto a
Londra, da Marcella e Monica in Italia.
La cattiva notizia è che la campagna ci propina la solita rappresentazione (ormai scontata fino alla
noia) delle differenze di genere: mentre i maschi eterosessuali sarebbero più felici («Thank God
you’re a man» è la headline) perché rudemente e direttamente orientati a una sessualità priva di
sentimenti e preoccupazioni, completata da una “sana” bevuta di birra e da una visita al bagno, le
femmine eterosessuali sarebbero più infelici perché inutilmente inclini a complicarsi la vita con
vestiti diversi per occasioni diverse e con fantasie mal riposte su amore, principi azzurri, famiglia e
bambini.
La buona notizia è che, per quanto orribilmente trita, questa campagna almeno non mette in scena
né corpi femminili nudi né azioni di violenza esplicita fra i generi. Col risultato che molti
commentatori (e commentatrici, ohimè) concludono sorridendo: «Che c’è di male, è carina!». (Di
questo tenore sono la maggior parte dei commenti che ho letto nella blogosfera.)
Che dire? Non è affatto «carina» perché rinforza stereotipi e attribuzioni di valore (più furbi
e felici gli uomini, più scemotte le donne …) che, al contrario, andrebbero scardinati.
Tuttavia c’è di peggio.
E dalla pubblicità non possiamo aspettarci rivoluzioni.
A questo proposito cito Annamaria Testa (che parla dell’Italia, ma il discorso può essere esteso):
«La pubblicità non si colloca mai all’avanguardia proprio perché la sua vocazione è farsi accettare
facilmente, rispecchiando il sentimento medio del pubblico. Possono spingersi un po’ più in là
prodotti d’élite che appaiono su mezzi di comunicazione segmentati e rivolti a un pubblico ristretto.
Ma non si può chiedere alla pasta o ai sofficini che appaiono in prima serata su Rai Uno o su Canale
5 di proporre modelli non condivisi dalla maggioranza degli spettatori. O meglio ancora: di
proporre modelli che il management delle imprese (costituito, nel nostro paese, da una stragrande
maggioranza di maschi in età non giovanissima) ritiene non condivisi. [...]
Insomma, poiché la pubblicità, come ogni altra forma di discorso persuasivo, si fonda sul
consenso, e poiché il consenso si guadagna essendo conformisti (e magari trasgressivi nelle forme,
giusto per colpire e farsi ricordare. Ma difficilmente nella sostanza), non appena cambierà davvero
il ruolo delle donne cambierà anche il ruolo delle donne negli spot. La pubblicità non mancherà di
registrare il cambiamento, magari amplificandolo. Ma un attimo dopo. Di sicuro, nemmeno un
attimo prima.»
(citato in L. Lipperini, Ancora dalla parte delle bambine, Feltrinelli, Milano, 2007, pp. 73-74).