il punto - Centro Studi Calamandrei

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il punto - Centro Studi Calamandrei
IL PUNTO
Le notizie di LiberaUscita
Dicembre 2011 - n° 90
SOMMARIO
LE LETTERE DI AUGIAS
2293 - Quella fine che è espressione di libertà
2294 - Quando viene meno la voglia di vivere
2295 - Perché la Chiesa non condanna don Verzè
2296 - La Cei chiede equità ma la Chiesa non paga l’Ici
2297 - Fine vita, la scelta e la legge
ARTICOLI: LUCIO MAGRI
2298 - Liberi di morire? di Adriano Sofri
2299 - Compassione per i suicidi, troppo facile condannarli - di Vito Mancuso
2300 - Il suicidio assistito è un diritto di libertà - di Paolo Flores D’Arcais
2301 - Il medico salva, non uccide - di Marco Travaglio
2302 - La chiesa, la morte e il libero arbitrio - di Dacia Maraini
2303 - Il suicidio assistito e il suicidio forzato - di Giambattista Scirè
2304 - Le ragioni della volontà - di Maurizio Mori
2305 - Il diritto di morire non esiste - di Gustavo Zagrebelsky
ARTICOLI: CHIESA E ICI
2306 - Basta ai santissimi privilegi del Vaticano - di Marco Politi
2307 - Ma perché il Vaticano non paga l’Ici? - di Pino Corrias
2308 - La Chiesa non fa sacrifici - di Marco Politi
2309 - Concordato Stato-Chiesa: dimenticato l’art. 1 - di Sergio Romano
2310 - Appello di Micromega: anche la Chiesa paghi l’Ici
2311 – Già centomila firme contro la Chiesa Ici/esente - di Paolo Flores D'Arcais
2312 - Chiesa e Ici, una questione morale - di Barbara Spinelli
2313 - Noi siamo chiesa: basta barricate sull'Ici – di Giampaolo Petrucci
ARTICOLI: ABORTO, UNIONI CIVILI, “MANOVRA”, WELBY E ALTRO
2314 - Nel nome dei figli - di Gustavo Zagrebelsky
2315 - Aboliamo l’obiezione di coscienza - di Stefano Rodotà
2316 - Abortire tra gli obiettori - di Cinzia Sciuto
2317 - Unioni civili: per Roma è il primo sì - di Monica Soldano
2318 - Anche a Napoli il registro delle unioni civili - di Francesco Porcellati
2319 - Chi è in pensione come me deve essere chiamato a pagare– di W. Bordon
2320 - Riforma previdenza: non tutto è da buttare - di Silvano Miniati
2321 - In Italia non c’è posto per la cultura liberale - di Federico Orlando
2322 - L’anniversario di Piergiorgio - di Mina Welby e Maria Antonietta Farina
2323 - Cinque anni fa moriva Welby. e con lui la politica - di Alessandro Calvi
2324 - Welby cinque anni dopo - di Massimo Adinolfi
2325 - Anche ai cattolici conviene lo Stato laico - di Valerio Pocar
NOTIZIE DALL’ESTERO
2326 - GB - Suicidio assistito: muore accusando politici codardi
2327 - Bangladesh - taglia le dita alla moglie perché lei vuole studiare
2328 - Spagna – si riapre il dibattito sull’eutanasia
PER SORRIDERE…
2329 - Le vignette di Arnald – la vostra vita appartiene a Dio
2330 - Le vignette di Staino – forse la Chiesa ci ripensa…
2331 - Le vignette di Evans - il maschilismo secondo i punti di vista
LiberaUscita – associazione nazionale laica e apartitica per il diritto di morire con dignità
Tel: 366.4539907 – Fax: 06.5127174 – email: [email protected] – web: www.liberauscita.
2293 - QUELLA FINE CHE È ESPRESSIONE DI LIBERTÀ - DI CORRADO AUGIAS
da: la Repubblica di giovedì 1° dicembre 2011
Gentile Augias, sono rimasta sconvolta dal suicidio di Lucio Magri; lo shock ha poi lasciato il
posto a un'immensa pietà e commozione. Mi sono passate davanti agli occhi le immagini di
lui, dei suoi compagni e del suo tempo, che poi è stato anche il mio. Ho 56 anni e faccio parte
di quella generazione che, nonostante i divieti familiari (soprattutto paterni), si è ostinata a
portare pantaloni, minigonne e zoccoli ai piedi. È banale affermare che poi tutto è cambiato, o
meglio, che tutto è stato ribaltato e l'umanità non ha solo perduto la sua ingenuità ma non è
nemmeno più in grado di recuperarne una fetta, per ora.
Ma perché queste belle intelligenze sono state cancellate persino dai nostri ricordi? Perché
non abbiamo più pensato a loro? Loro che hanno cambiato le nostre vite! Perché ci siamo
accorti che ancora ci sono, solo in un'occasione così terribile e struggente? Ma poi perché
loro, queste belle intelligenze, non si sono fatte largo in mezzo alla volgarità ed alla banalità
che ci circonda? Ci hanno aperto gli occhi e poi ci hanno lasciato soli. Smanettando tra le
notizie sulla vita di Magri, mi è venuta sotto agli occhi la sua carta d'identità; il suo titolo di
studio era la licenza media inferiore? mi ha preso un'enorme tenerezza.
Grazie Lucio, che mi stupisci ancora.
Patrizia Zavattiero – [email protected]
Risponde Corrado Augias
Mi ha fatto piacere la sobrietà con la quale il suicidio di Lucio Magri è stato commentato. Alla
morte si addice il silenzio, alla decisione di uccidersi il rispetto. Nella cultura stoica della
classicità, il suicidio era un gesto supremo, nobile, talvolta indispensabile. Il suicidio assistito,
come oggi lo definiamo, veniva spesso affidato allo schiavo al quale si faceva sorreggere un
gladio contro il quale gettarsi. Così Marco Giunio Bruto dopo la sconfitta di Filippi. A chi lo
esortava a fuggire rispose con le celebri parole: «Fuga sì, ma questa volta con le mani non
con i piedi». E si fece trafiggere. Nello stesso modo, secoli dopo, si uccise il geniale Borromini
ma goffamente, da solo, incastrando la spada nel telaio del letto e lanciandosi contro la lama.
C'è una tragica grandezza in chi decide di porre fine alla sua vita, liberamente, con un atto
d'imperio che l'intelletto impone alla carne, massima espressione di libertà perché della
nostra personale esistenza ognuno di noi è responsabile e padrone.
Il signor Andrea Sillioni (Bolsena, Viterbo) mi ricorda le parole finali di Cesare Pavese:
"Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi". Aggiunge:
«Mettere fine alle proprie sofferenze fisiche e psichiche merita il silenzio e per chi ha fede la
preghiera. Caro Magri, che almeno la terra ti sia lieve».
Era un'epigrafe romana colma di delicato rimpianto: Terra sit tibi laevis.
2294 - QUANDO VIENE MENO LA VOGLIA DI VIVERE - DI CORRADO AUGIAS
da: la Repubblica di sabato 3 dicembre 2011
Gentile Augias, alla morte di Lucio Magri monsignor Sgreccia ha commentato: «Non
possiamo decidere la nostra morte». I Lemuri, una volta consapevoli dell'alterazione
dell'equilibrio demografico in rapporto alle risorse disponibili, si lasciano cadere nel vuoto nel
numero necessario a ripristinare le condizioni di una possibile sopravvivenza per la specie. Si
dirà che i Lemuri non hanno l'anima, ma il concetto di anima, nel senso trascendente, è
asserito e considerato insuperabile solo in virtù di un atto di fede che, in quanto tale, è atto
assolutamente volontaristico e libero. E, a meno che la fede venga imposta come in un
novello medioevo, da ciò discende che ogni uomo è libero di alloggiarla o di respingerla e, per
suo tramite, respingere anche il legame con la divinità e i suoi sacerdoti. Da qui la distinzione
tra credenti e non credenti in rapporto al diritto di disporre della propria vita (e morte), nel
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primo caso demandando a Dio tale diritto, nel secondo riaffermandone l'assoluta e personale
titolarità.
Augusto Benvenuto - Alzano Lombardo (Bg)
Risponde Corrado Augias
La morte di Lucio Magri come già per l'indimenticabile Mario Monicelli è stata accompagnata
da una generale sobrietà violata purtroppo da alcune sbavature. Se posso giudicare dalle
numerose lettere, direi che i sentimenti prevalenti (almeno tra i lettori di questo giornale) sono
stati la comprensione e la pietas.
Mi scrive Roberta Pelletta ([email protected]): «Non riesco a provare altro che grande
rispetto per chi ha il coraggio di andare oltre una vita che non sopporta più. Non importa
perché non la sopporta: se perché malato, depresso o semplicemente non più intenzionato a
vivere. Se siamo esseri chiamati alla responsabilità di adulti, fra quelle responsabilità c'è
anche quella di porre fine alla nostra vita quando lo consideriamo giusto».
Maria Cristina Marcucci ([email protected]): «Alla morte di Magri qualche sproloquio di
troppo. Nessun dono divino, invece, soprattutto nessun "mistero" parola fuorviante e
manipolatrice storicamente carica di indeterminate emozioni. Abbandoniamo i distinguo, le
domande retoriche, le "riflessioni" pubbliche che sanno tanto di ideologia. Ciascuno, se vuole,
rifletta in silenzio, per una volta tenga private le proprie personali convinzioni».
Bruno La Piccirella ([email protected]): «Quando la gioia di vivere si ripiega su se stessa e la
propria vita è compromessa da una qualunque perdita (di persona cara, salute, lavoro,
sicurezza economica, certezza delle proprie capacità), allora, prima di scivolare nel buio, non
resta che l'esercizio della propria libertà di coscienza. È una libertà che non arreca danno ad
altri, che vale sia per chi sceglie di sopportare il dolore confidando in un Dio, sia per chi
sceglie di mettere fine a una vita considerata non più sopportabile».
2295 - PERCHÉ LA CHIESA NON CONDANNA DON VERZÈ’ - DI CORRADO AUGIAS
da: la Repubblica di domenica 4 dicembre 2011
Gentile Corrado Augias, leggo di Don Verzè e della scandalosa gestione del San Raffaele.
Oltre al delirio di onnipotenza che lo ha portato a commissionare una cupola in acciaio da
milioni di euro, avere yacht, opzionare un'inutile flotta di aeroplani, tutte spese folli passate
inosservate, univa questi comportamenti lussuosi ad un fare da vero capobastone mafioso.
Un malinteso senso della missione ecumenica? Ne dubito fortemente. Quando si gestiscono
conti correnti all'estero, misteriose società, e si riesce a comandare anche sulla finanza,
organo statale, dirottandolo a proprio piacimento sui vicini che gli impediscono ulteriori
acquisizioni (e sfracelli ?), siamo di fronte ad una vera associazione a delinquere. O no?
Cosa attendono allora le alte gerarchie d'Oltretevere a sanzionare il ras del San Raffaele con
una santa scomunica? La tristezza nel notare tanto garbato silenzio da parte della Chiesa
dilapida ulteriormente quel poco di credibilità che stentatamente il Papa cerca di ritrovare.
Come mai certi comportamenti laicamente inaccettabili sono religiosamente consentiti?
Marco Bernardi
Risponde Corrado Augias
Don Luigi Maria Verzè è nato nel 1920 e ha dunque superato i 90 anni di vita dando prova
ininterrotta di un'energia e di una capacità di visione straordinarie. A mio parere bisogna
partire da questo per tentare di spiegarsi la serie di catastrofici errori, compreso l'ultimo
imperdonabile e ridicolo di paragonare le sue disavventure giudiziarie alla passione di Gesù.
Il signor Bernardi si chiede che cosa aspettino le gerarchie vaticane a scomunicarlo. Da
osservatore esterno ricordo che il Vaticano, a prescindere da ogni effettiva dimostrazione di
colpevolezza, procede sempre con prudenza in casi del genere, sulla base del noto principio
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"quietare sopire" che si è spesso rivelato il più efficace. I fatti si succedono velocemente,
nuovi eventi fanno scomparire nell'oblio i precedenti. Basta pensare a tutto ciò che non venne
fatto quando scoppiò lo scandalo di monsignor Marcinkus nella gestione della banca vaticana
(il famigerato Ior) o del tempo che è stato necessario perché il Papa si decidesse a
intervenire di fronte all'altro scandalo mondiale dei preti pedofili. O ancora del silenzio
prudente con cui giorni addietro è stata accolta la notizia che il boss mafioso calabrese Giulio
Lampada era stato nominato cavaliere dell'Ordine di san Silvestro papa. Ciò che a noi
maggiormente interessa non è però l'eventuale scomunica di don Verzè ma i comportamenti
di stampo mafioso di un uomo che aveva dato vita ad un ospedale e ad un'università di ottimo
livello, e che si è perso dietro la sua megalomania, causando immenso dolore e la morte di
un suo collaboratore. Di questo don Verzè dovrebbe chiedere perdono invece del suo
vaniloquio su Gesù.
2296-LA CEI CHIEDE EQUITA’ MA LA CHIESA NON PAGA L’ICI - DI CORRADO AUGIAS
da: la Repubblica di mercoledì 7 dicembre 2011
Caro Augias, leggo che la Cei ha dichiarato: «Le misure dovevano essere più eque». Mi
stupisce il risveglio della Chiesa in aperta critica alla gestione del governo. Doveva aspettare
che una persona di buona volontà si rendesse disponibile a sbrogliare la matassa che i
precedenti governi avevano ingarbugliato? Forse anche la Chiesa, come purtroppo tanti
cittadini, aveva davvero creduto alla storiella che la crisi non c'era e che comunque l' Italia
stava meglio degli altri? La Chiesa avrebbe dovuto far sentire la sua voce quando il governo
per anni si è occupato solo di intercettazioni, processo lungo e/o breve, legittimo impedimento
ecc, mai di argomenti concreti per i cittadini. Avrebbe dovuto farsi sentire quando riempivano
le pagine dei giornali scandali, ruberie e sperperi che sottraevano soldi che potevano essere
destinati ai servizi dei cittadini. Quando ha tollerato bestemmie "contestualizzate", scorrerie
libertine, oscenità e offese che se io le confessassi il mio prete mi darebbe penitenze
micidiali. Ora si comincia a criticare il nuovo governo. Ma se vogliamo parlare di equità
chiediamoci: perché io, che sono pensionato e posseggo solo la casa dove abito dovrò
pagare l' Ici e gli immobili commerciali della Chiesa invece no?
Giovanni Conte – [email protected]
Risponde Corrado Augias
La domanda del signor Giovanni Conte, rivolta con grande veemenza, è giusta. Infatti se la
sono posta e ne hanno scritto molti lettori di questo giornale.
Per esempio il signor Gianfranco Costarelli ([email protected]): «Sono pensionato,
proprietario d'un appartamento in Ancona, fatto in cooperativa 33 anni fa, e d'una casetta
ereditata da mia zia nel paese dove sono nato, Cassero di Camerata Picena. Perché nella
manovra non si parla mai di IMU per i beni immobili commerciali della Chiesa?».
Il signor Franco Ajmar: «Mi chiedo, come molti, se non avrà in qualche modo interferito sulle
scelte del governo in tema di tasse il fatto che il presidente del Consiglio e numerosi ministri
siano di stretta osservanza cattolica. Il contributo di oltre 6 miliardi annui che la Repubblica
elargisce alla Chiesa cattolica mi sembra particolarmente sbilanciato non solo in assoluto e
nel merito, ma anche in rapporto ai sacrifici che tutti gli italiani, credenti e non, sono costretti a
fare in questi giorni».
Parlare di 'equità' nelle condizioni di vantaggio di cui la Chiesa cattolica oggettivamente gode
in Italia è stato un gesto improvvido. Sarebbe stato invece generoso (e avveduto anche al fine
di recuperare un'appannata credibilità) se le gerarchie avessero spontaneamente annunciato
di voler contribuire ai sacrifici imposti a tutti dando un costruttivo segno di disponibilità dopo i
numerosi passi falsi del recente passato.
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2297 - FINE VITA, LA SCELTA E LA LEGGE - DI CORRADO AUGIAS
da: la Repubblica di martedì 20 dicembre 2011
Caro Augias, oggi ricorre il quinto anniversario della morte di Piergiorgio Welby. Malgrado il
suo auspicio, fatto proprio dal presidente Napolitano, un dibattito serio tra le forze politiche e
nelle sedi istituzionali sul tema della eutanasia non è mai neanche iniziato. L'unico "frutto",
avvelenato dall'integralismo cattolico, di questi anni e delle dolorose vicende (Nuvoli ed
Englaro in primis ) che hanno fatto seguito a quella di Welby, è la legge inumana e
incostituzionale sul testamento biologico. Il Parlamento continua ad ignorare il fenomeno
estesissimo della eutanasia clandestina (si fa ma non si dice), così come i suicidi e i tentati
suicidi di malati terminali (oltre 2 mila l'anno, ci informa l'Istat, il doppio dei morti sul lavoro):
se non quando le vittime sono persone famose come Monicelli o Magri. Nel caso di
quest'ultimo, i giornali hanno rivelato agli italiani che le nostre pessime leggi, dopo il turismo
dei divorzi brevi e quello della fecondazione assistita, stanno incrementando anche il "turismo
eutanasico" verso la Svizzera.
Carlo Troilo - Roma
Risponde Corrado Augias
Ipocrisia, scrive il signor Troilo. Sì, certo, ipocrisia. Ma ci si può chiedere non senza ragione
se in un paese come il nostro, dove le posizioni libertarie sono sempre state difficili e di
minoranza, non sia da preferire l'ipocrisia del "si fa ma non si dice" al tentativo di fare una
legge destinata a diventare una mostruosità umana come per la procreazione assistita e il
testamento biologico. Si tratta di temi sui quali ogni serena discussione è resa ardua da chi
non accetta mediazione alcuna su principi che considera "non negoziabili". Allora meglio
niente. Il tema della fine vita è delicatissimo e, forse, nella situazione data, una decisione
caso per caso sarebbe da preferire anche a prescindere dall'ipocrisia. Decisione da parte di
chi? Dell'interessato in primo luogo, se possibile, dei suoi familiari, del medico curante.
Decidere su che cosa? La casistica è ampia. Piergiorgio Welby chiedeva solo che si mettesse
fine ad un'esistenza "vegetale" per lui insopportabile. Lucio Magri è andato in Svizzera per
essere accompagnato alla morte con dignità e senza dolore. Entrambi i casi sono
condivisibili. Diversa invece l'ipotesi dell'eutanasia vera e propria ovvero se io chiedessi a un
medico di iniettarmi un liquido letale come dovetti fare anni fa per un cane molto malato
senza speranza. Il mio suicidio riguarda solo me, è l'esercizio estremo della mia libertà sulla
mia carcassa. Il coinvolgimento di un terzo, come sostiene giustamente Gustavo
Zagrebelsky, trasforma il gesto d'un individuo in un fatto sociale, quindi meritevole di
attenzione giuridica.
Così in ogni caso si dovrebbe discutere la materia, con laica ragionevolezza, civile
attenzione, senza dogmi, senza anatemi.
Commento. Per riprendere le parole di Corrado: non si tratta soltanto di “chi” può decidere e
“su che cosa” può decidere, ma anche “sul come”. Non ci sarebbe bisogno dell’intervento di
un “terzo” (come peraltro avviene in Svizzera: Lucio Magri ha bevuto di sua volontà il
bicchiere di pentobarbital) se in Italia fosse consentito di morire “con dignità e senza dolore”.
Purtroppo così non è, per cui chi vuole suicidarsi (ricordo che il suicidio non è un reato) deve
necessariamente farlo con modalità strazianti e dolorose, per sé e per i suoi cari. gps
2298 - LIBERI DI MORIRE? DI ADRIANO SOFRI
da: la Repubblica di giovedì 1 dicembre 2011
"Non siamo padroni", questa sì che è una bella espressione, sarebbe piaciuta anche a Lucio
Magri. Ma se vogliono metterci in balia di un altro padrone, allora siamo pronti a rubargliela e
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riprendercela, "la nostra vita". Quando non si sia a questo punto, quando non si voglia
pignorarci la vita, lasciamo diritti e doveri ai codici, avere e dare ai registri contabili. Teniamoci
la contraddizione. Mi è preziosa la facoltà di scegliere se vivere o morire, e però mi fa
disperare e ribellare l´eventualità che una persona che amo scelga di morire. Non solo:
nessuna proclamazione sulla virtù del suicidio mi impedirà di desiderare che il mio prossimo
improvviso, l´uomo della spalletta del ponte, rinunci al suo salto, e di tendergli una mano
perché torni di qua.
Il suicidio è un sublime tema filosofico e un grandioso tema sociologico e statistico, ma è un
altro affare nei fatti, e nei fatti i suicidi sono altrettanto diversi quante sono le persone che li
compiono. Nei commenti a vicende come questa non vale la pena di attardarsi fra l´uno o
l´altro partito preso religioso, che riescono a ripetersi imperterriti nella loro lingua morta. C´è
una pena che cambia di colpo le cose, e non è affatto così condizionata dall´una o dall´altra
fede, dall´esistenza o dall´assenza di una fede. Il suicidio assistito – prende un suono
sindacale, come tutte le formule burocratiche. Ha un risvolto, il suicidio abbandonato,
spoliato. Stiamo parlando oggi di un uomo vicino agli ottant´anni, che era andato e tornato, è
andato e non è più tornato, dunque era libero. Ne aveva novantacinque Mario Monicelli, che
si schiantò davvero come il sarto di Ulm, e non si illudeva affatto di volare.
Ci sono due gruppi nei quali il suicidio infierisce: i giovani, e i carcerati. Mi colpisce un´affinità
fra il suicidio degli adolescenti (la loro seconda causa di morte, se non sbaglio, dopo i disastri
stradali) e quello dei detenuti che si ammazzano nei primi tempi della loro galera, spesso
senza essere stati giudicati. Nella loro primavera, non alla fine di un inverno. La galera è fatta
per indurre chi ci incappa (anche i guardiani) alla disperazione e all´insensatezza, dunque
all´incombenza e alla tentazione del suicidio, e al tempo stesso è regolata in modo da
simulare il divieto del suicidio. Vi tolgono la cintura dei calzoni e dell´accappatoio, il fornellino
del gas, i vetri e tutto ciò che taglia. Basta pensare per un momento – immaginarlo,
immaginarvisi – a uno che annodi di nascosto i lacci delle scarpe, ammesso che sia riuscito a
tenerseli, e scelga con cura il minuto necessario a sventare lo sguardo d´altri in quella ressa,
per capire che cos´è un suicidio non assistito.
Si chiedono, i giornali, quale ultimo lago svizzero, quale ultimo pensiero abbiano attraversato
la mente del morente: nella cella sordida cui alludo ogni energia estrema, ogni ultimo
pensiero è riservato a un muro sporco e alla determinazione millimetrica necessaria a farcela.
Ma questo non è un ennesimo articolo sul carcere, insinuato surrettiziamente nella
commozione per la morte di Magri. Parlo di tutti, dei liberi, e del punto in cui prigionia e libertà
si rovesciano l´una nell´altra. Il nervo più profondo del totalitarismo sta nella pretesa
capricciosa che le democrazie riservano ai regolamenti penitenziari, salvo trasferirle ai
testamenti biologici: di impedirti di vivere e di impedirti di morire. Di renderti impossibile la vita
e la morte. Le reti o le barriere piazzate lungo il Ponte di Spoleto o attorno alla Torre di Pisa
servono a non sporcare il greto e il selciato, non a dissuadere i suicidi.
La lezione dello stoicismo, gli amici convocati, il convito, la conversazione e il commiato, resta
magnifica, ma è davvero distante. Vicina a noi è l´aberrazione dei suicidi-omicidi, questa sì
un´epidemia contagiosa e gregaria e orrenda, ebbra dell´illusione di non morire soli e non
uccidere soli; ora imprevedibilmente riscattata da gesti oscuri come quello di Sidi Bouzid (la
città tunisina dove un ambulante si diede fuoco dando il via alla "rivoluzione dei gelsomini",
ndr). Non si sceglie di morire come per una liberazione: questo è un eufemismo. Si sceglie, o
ci si rassegna, a non poter più essere liberati. Che questo venga da una malattia senza riparo
e piena di mortificazione, o da un´anima vedova e spezzata, o dall´offesa di una bambina cui
siano stati tagliati a forza i capelli, non è questione da dibattito. Né la distinzione fra una
malattia "terminale" e una depressione: certo che una depressione si può curare, ma credete
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che Magri non lo sapesse? Si può volere con ogni fibra di un corpo martoriato la vita fino
all´ultimo istante, e si può ripudiarla anche quando si sia un corpo sano. In ogni caso faremo
di tutto perché i nostri cari, e magari il nostro prossimo, restino attaccati alla propria vita. Ma
desidereremo una Svizzera per noi e dunque per tutti. La ricetta, «Si sciolgono 15 grammi di
pentobarbital di sodio in un bicchiere d´acqua…», non è cinica là e affabile qua, dove
dev´essere spacciata di nascosto. È strana, la Svizzera, lo è proverbialmente. Ha le banche, i
caveau, è neutrale e affarista. È terra di rifugio, neutrale e accogliente. Noi siamo, quanto a
caveau, una Svizzera colossale, e quanto ad accoglienza, una penisola di piccole Svizzere
clandestine, in cui si muore al nero. Certo la ricetta e la liceità dell´assistenza al suicida non
tolgono il dolore, la disperazione e lo schianto. Immagino che anche in Svizzera una tromba
delle scale possa attirare più che una bevanda antiemetica. Primo Levi era un chimico,
avrebbe saputo come fare.
Voglio dire un´ultima cosa. Il lusso supremo della civiltà umana sta nel disporre di una propria
vita personale, dunque di una propria personale morte. Vite e morti venivano e vengono
spazzate e mietute all´ingrosso, senza riguardo all´età – anzi, con una predilezione per i
giovani. Quando succede, si può provare a resistere oltre ogni limite immaginato, scampare,
e cedere poi quando sia passata la tempesta, e le persone restituite a un loro destino
individuale. Améry, Levi… Adesso stiamo pensando a uno di noi, che siamo appena diventati
sette miliardi. Questo lusso prezioso è ogni giorno a repentaglio. Nelle altre pagine i titoli
sull´euro, su Durban, su Teheran, parlano d´altro, parlano di quell´antico anonimo mercato
all´ingrosso delle vite e delle morti.
2299-COMPASSIONE PER I SUICIDI TROPPO FACILE CONDANNARLI- DI V. MANCUSO
da: la Repubblica di giovedì 1° dicembre 2011
Il compito dei cristiani non è emettere sentenze negative Piuttosto bisogna saper assaporare
l´energia vitale e dare un valore spirituale all´esperienza religiosa. Di fronte a un gesto
estremo come quello di Lucio Magri è naturale che negli animi si accendano le passioni. E
che da queste sorgano giudizi di approvazione o disapprovazione a seconda delle
provenienze culturali. Ogni coscienza responsabile sa però che la complessa situazione del
nostro mondo non ha certo bisogno di "kamikaze del pensiero" che ripetono aprioristicamente
convinzioni vecchie di secoli. Ha bisogno piuttosto di analisi pacate e di conoscenza oggettiva
perché l´etica non divenga un motivo in più di divisione, ma realizzi la sua vera missione di far
vivere in armonia gli esseri umani. E in questa prospettiva si impone alla mente una prima
inderogabile condizione: rispetto. Aggiungo che se c´è una situazione in cui hanno senso le
parole di Gesù «non giudicare» (Matteo 7,1), è proprio quella nella quale un essere umano
sceglie di porre fine alla sua vita. Sostengo in altri termini che, di contro a una tradizione
secolare che non ha esitato a condannare nel modo più crudo i suicidi, oggi il compito della
teologia e della fede responsabile è di sospendere il giudizio, offrire dati, produrre analisi, al
fine di generare pietas.
La riflessione umana presenta un dato sorprendente: mentre tutte le grandi tradizioni spirituali
dell´umanità, sia religiose sia filosofiche, condannano senza mezzi termini l´omicidio, per il
suicidio le cose non sono altrettanto chiare. Nelle religioni rimangono di gran lunga prevalenti
le posizioni di condanna, com´è il caso di ebraismo, cristianesimo, islam, e poi di induismo,
buddhismo, confucianesimo. Il medesimo orientamento di condanna è maggioritario in
filosofia, come mostrano Platone, Aristotele, Kant, Hegel, Heidegger. Tra i filosofi però si
danno anche punti di vista che giungono a non condannare, talora anzi a valutare
positivamente, il suicidio: così gli epicurei, gli stoici, Montaigne, Nietzsche, Jaspers. Ma
l´aspetto veramente sorprendente, soprattutto per un cristiano, è il fatto che la Bibbia non
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condanni mai, in nessun luogo, il suicidio. L´hanno osservato nel ´900 i maggiori teologi
contemporanei, tra cui Karl Barth, Dietrich Bonhoeffer, Hans Küng. «Il suicidio non viene mai
esplicitamente vietato nella Bibbia», scrive Barth, aggiungendo che si tratta di «un fatto
veramente seccante per tutti quelli che volessero comprenderla e servirsene in senso
morale!».
Sono una decina i suicidi narrati dalla Bibbia e per nessuno vi è una condanna. Anzi un
suicida, per l´esattezza Sansone, viene perfino ricordato dal Nuovo Testamento tra i padri
della fede. Non deve stupire quindi che nella Bibbia si ritrovino parole come queste: «Meglio
la morte che una vita amara, il riposo eterno che una malattia cronica» (Siracide 30,17). Nel
libro di Giobbe si legge di uomini che «aspettano la morte», «che la cercano più di un
tesoro», «che gioiscono quando la trovano» (Giobbe 3,21-22), e non per condannare questi
uomini, perché chi viene condannato è piuttosto chi sostiene con arroganza e intransigenza la
prospettiva contraria come i cosiddetti amici di Giobbe cioè i dogmatici Elifaz, Bildad, Zofar,
Elihu. Certo, tutti sanno che dalla Bibbia emerge soprattutto il messaggio della sensatezza e
della sacralità della vita, quello secondo cui la nostra vita è «nelle mani di Dio» (Salmo 16,5),
in Dio è «la sorgente della vita» (Salmo 36,10) ed esiste quindi una sorta di rifugio
imprendibile dentro cui la nostra energia spirituale più preziosa, detta tradizionalmente anima,
non corre pericolo: «Non abbiate paura di coloro che uccidono il corpo, ma non hanno potere
di uccidere l´anima» (Matteo 10,28).
Alla luce di questi dati emerge che il compito dei cristiani oggi non è di emettere condanne
qualificando negativamente le sofferte scelte di chi si suicida. È piuttosto di vivere la fede
nella dimensione spirituale dentro cui l´anima vive al sicuro, anche quando il corpo tradisce. È
da questa prospettiva spirituale che io giungo a valutare negativamente il suicidio, e a lottare
perché la fiducia verso la vita non venga mai meno, ma si possa assaporare ogni istante
l´energia vitale che ci è stata data (se da un Dio personale o dall´impersonalità del processo
cosmico, a questo riguardo è una questione secondaria).
Concludendo l´articolo sul compagno di tante battaglie, ieri Valentino Parlato scriveva della
necessità di «affrontare l´attuale, e storica, crisi della sinistra, per ridare alle donne e agli
uomini la speranza di un cambiamento, di una uscita dall´attuale stato di mortificazione degli
esseri umani». Ottimo obiettivo, ma per raggiungerlo io non conosco modo migliore di
ospitare fino all´ultimo dentro di sé un sentimento di gratitudine verso la vita in tutte le sue
manifestazioni, quel medesimo sentimento che ha portato Violeta Parra a comporre e a
cantare la sua bellissima canzone Gracias a la vida.
2300 - IL SUICIDIO ASSISTITO È’ UN DIRITTO DI LIBERTÀ - DI P. FLORES D’ARCAIS
da: Il Fatto Quotidiano di venerdì 2 dicembre 2011
Se la tua vita non appartiene a te, amico lettore, ne sarà padrone un altro essere umano,
finito e fallibile non meno di te. Ti sembra accettabile? Su questa terra infatti si agitano e
scontrano solo e sempre volontà umane, una volontà anonima e superiore che si imponga a
tutti, oggettivamente o intersoggettivamente, è introvabile. Chi ciancia della volontà di Dio è
blasfemo (come può pensare di conoscere ciò che è incommensurabile con la piccolezza
umana?). In realtà attribuisce a Dio la propria volontà, lucrando sulla circostanza che nessun
Dio potrà querelarlo per diffamazione.
Il Dio cattolico di Küng considera lecita l’eutanasia, il Dio altrettanto cattolico di Ratzinger
l’equipara all’omicidio. Perché in realtà si tratta dell’opinione di Küng e dell’opinione di
Ratzinger, umanissime entrambe e non più autorevoli della tua. Perciò, rispetto alla tua vita, o
il padrone sei tu o il padrone è un altro “homo sapiens”, eguale a te in dignità (così Kant, e
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ogni democrazia anche minima), vescovo, primario ospedaliero, pater familias o altra
“autorità” che sia.
Ma poiché siamo tutti eguali, deve anche valere il reciproco: se il padrone della tua vita può
essere qualcun altro, tu potrai a tua volta decidere della sua vita contro la sua volontà. Se c’è
davvero qualcuno che accetterebbe si faccia avanti. Ma non ce n’è nessuno. Nella realtà
esistono solo “homo sapiens” finiti, fallibili e peccatori come te e come me, amico lettore, che
pretendono di imporre alle altrui vite la loro personale volontà, ma mai accetterebbero di
essere soggetti ad analoga mostruosa prevaricazione.
Perciò, senza perifrasi: il suicidio assistito è un diritto? Sì. Fa tutt’uno col diritto alla vita e alla
libertà, inscindibili. La “Vita” che qualcuno vuole “sacra” è infatti la vita umana, non il “bios” in
generale (ogni volta che prendiamo un antibiotico, come dice la parola, facciamo strage di
“vita”), e la vita umana è tale perché singolare e irripetibile, cioè assolutamente MIA. Se non
più mia, ma a disposizione di volontà altrui, è già degradata a cosa: “Instrumentum vocale”,
dicevano giustamente gli antichi.
Per Lucio Magri la vita era ormai solo tortura. Per Mario Monicelli la vita era ormai solo
tortura. Per porvi fine, Lucio Magri ha dovuto andare in esilio e Mario Monicelli gettarsi dal
quinto piano. La legge italiana vieta infatti una fine che non aggiunga dolore al dolore già
insopportabile: su chi ti aiuta incombe una condanna fino a 12 anni di carcere. E per
“assistenza” al suicidio si intende anche quella semplicemente morale! Due casi
raccapriccianti di anni recenti: un coniuge accompagna l’altro nell’ultimo viaggio (solo questo:
la vicinanza) e deve patteggiare una pena di oltre due anni, altrimenti la sentenza sarebbe
stata assai più pesante. Una signora di 54 anni, affetta da paralisi progressiva, decide di
andare da sola in Svizzera, proprio per non coinvolgere la figlia. Che tuttavia le prenota il taxi
per disabili che la porterà oltre frontiera. È bastato per l’incriminazione: ha dovuto patteggiare
un anno e mezzo di carcere.
Ma quando si vuole porre fine alla tortura che ormai ha saturato la propria esistenza, si ha
sempre bisogno di assistenza: il pentobarbital sodium non si trova dal droghiere, solo un
medico lo può procurare. L’alternativa è appunto l’esilio o lo strazio estremo dell’angoscia
aggiuntiva: gettarsi sotto un treno o nel vuoto o nella morte per acqua. Le anime “virili” che si
sono concessi perfino l’ironia (“se uno vuol farla finita ha mille modi, senza piagnistei di
‘aiuto’”: i blog ne sono pieni), hanno davvero oltrepassato la soglia del vomitevole.
Altre obiezioni grondano comunque ipocrisia o illogicità. “Se vedi uno che si sta impiccando
che fai, rispetti la sua libertà o intanto lo salvi?”. Ovvio che lo salvo, poiché potrebbe essere
un momento di sconforto. Ma i casi di cui parliamo sono sempre e solo riferiti a scelte
lungamente maturate, ponderate, ribadite. Lucidamente e incrollabilmente definitive (a
maggior ragione se chi vuole morire subito è un malato terminale comunque condannato a
morte). Da rispettare, dunque, se a una persona si vuole bene davvero: anche se la fine della
sua tortura ci procura il dolore della sua assenza per sempre.
Altrettanto pretestuosa l’accusa che il medico verrebbe costretto a praticare l’eutanasia a
chiunque la chieda. Nessuno ha mai avanzato questa richiesta, ma solo il diritto - per il
medico che questo aiuto vuole dare - di non rischiare il carcere come un criminale. Spiace
perciò particolarmente che Ignazio Marino, clinico e cittadino dai molti meriti, abbia dichiarato:
“Non dividiamoci tra ‘pro vita’ e ‘pro morte’, il tifo da stadio non è giustificabile di fronte alla
fragilità umana”.
A parte la scurrilità del “tifo da stadio”: essere “pro choice” non è essere “pro morte” ma per la
libertà di ciascuno di decidere liberamente, mentre troppi “pro vita” sono semplicemente “pro
tortura”, poiché pretendono di imporla a chi invece la vive come peggiore della morte. Tu hai
tutto il diritto di dire che mai e poi mai ricorrerai al suicidio assistito, che la sola idea ti fa
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orrore. Ma che diritto hai di imporre questo rifiuto a me, cui fa più orrore la tortura, visto che
siamo cittadini eguali in dignità e libertà?
2301 - IL MEDICO SALVA, NON UCCIDE - DI MARCO TRAVAGLIO
da: il Fatto quotidiano di venerdì 2 dicembre 2011
Io non voglio parlare di Lucio Magri, che non ho conosciuto e non mi sognerei mai di
giudicare: non so come mi comporterei se cadessi nella cupa depressione in cui l’avevano
precipitato la vecchiaia, il fallimento politico e la morte della moglie. So soltanto che non
organizzerei una festicciola fra i miei amici a casa mia, con tanto di domestica sudamericana
che prepara il rinfresco per addolcire l’attesa della telefonata dalla clinica svizzera che
annuncia la mia dipartita. Una scena che personalmente trovo più volgare e urtante di quella
del pubblico che assiste alle esecuzioni nella camera della morte dei penitenziari.
Ma qui mi fermo, perché vorrei spersonalizzare il gesto di Magri, quello che viene chiamato
con orrenda ipocrisia “suicidio assistito” e invece va chiamato col suo vero nome: “Omicidio
del consenziente”. Ne vorrei parlare perché è diventato un fatto pubblico e tutti ne discutono e
ne scrivono. E molti tirano in ballo l’eutanasia, Monicelli o Eluana Englaro, che non c’entrano
nulla perché Magri non era un malato terminale, né tantomeno in coma vegetativo
irreversibile tenuto artificialmente in vita da una macchina: era fisicamente sano e integro,
anche se depresso. Altri addirittura considerano il “suicidio assistito” un “diritto” da importare
quanto prima in Italia per non costringere all’ “esilio” chi vuole farsi ammazzare da un medico
perché non ha il coraggio di farlo da solo. Sulla vita e sulla morte, da credente, ho le mie
convinzioni, ma me le tengo per me perché, da laico, non reputo giusto imporle per legge a
chi ha una fede diversa o non ce l’ha. Dunque vorrei parlarne dai soli punti di vista che ci
accomunano tutti: quello logico, quello giuridico, quello deontologico e quello pratico.
Dal punto di vista logico, non si scappa: chi sostiene il diritto al “suicidio assistito” afferma che
ciascuno di noi è il solo padrone della sua vita. Ammettiamo pure che sia così: ma proprio per
questo chi vuole sopprimere la “sua” vita deve farlo da solo; se ne incarica un altro, la vita
non è più sua, ma di quell’altro. Dunque, se vuole farla finita, deve pensarci da sé.
Dal punto di vista giuridico c’è una barriera insormontabile: l’articolo 575 del Codice penale,
che punisce con la reclusione da 21 anni all’ergastolo “chiunque cagiona la morte di un
uomo”. Sono previste attenuanti, ma non eccezioni: nessuno può sopprimere la vita di un
altro, punto. Se lo fa volontariamente, commette omicidio volontario. Anche se la vittima era
consenziente, o l’ha pregato di farlo, o addirittura l’ha pagato per farlo. Non è che sia “trattato
da criminale”: “È” un criminale. Ed è giusto che sia così. Se si comincia a prevedere qualche
eccezione, si sa dove si inizia e non si sa dove si finisce. Se si autorizza un medico a
sopprimere la vita di un innocente, come si fa a non autorizzare il boia a giustiziare un folle
serial killer che magari è già riuscito ad ammazzare pure qualche compagno di cella?
Dal punto di vista deontologico, altro muro invalicabile: il “giuramento di Ippocrate” che ogni
medico, odontoiatra e persino veterinario deve prestare prima di iniziare la professione:
“Giuro di… perseguire la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica dell’uomo e il
sollievo della sofferenza, cui ispirerò con responsabilità e costante impegno scientifico,
culturale e sociale , ogni mio atto professionale; di curare ogni paziente con eguale scrupolo e
impegno…; di prestare, in scienza e coscienza, la mia opera, con diligenza, perizia e
prudenza e secondo equità, osservando le norme deontologiche che regolano l’esercizio
della medicina e quelle giuridiche che non risultino in contrasto con gli scopi della mia
professione”. Non occorre aggiungere altro. Come si può chiedere a un medico di togliere la
vita al suo paziente, cioè di ribaltare di 180 gradi il suo dovere professionale di salvarla
sempre e comunque? Sarebbe molto meno grave se chi vuole suicidarsi, ma non se la sente
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di farlo da solo, assoldasse un killer professionista per farsi sparare a distanza quando meno
se l’aspetta: almeno il killer, per mestiere, ammazza la gente; il medico, per mestiere, deve
salvarla. Se ti aiuta ad ammazzarti è un boia, non un medico.
Dal punto di vista pratico, gli impedimenti alla legalizzazione del “suicidio assistito” sono
infiniti. Che si fa? Si va dal medico e gli si chiede un’iniezione letale perché si è stanchi di
vivere? O si prevede un elenco di patologie che lo consentono? E quali sarebbero queste
patologie? Quasi nessuna patologia, grazie ai progressi della scienza medica, è di per sé
irreversibile. Nemmeno la depressione. Ma proprio una patologia passeggera può obnubilare
il libero arbitrio della persona che, una volta guarita, non chiederebbe mai di essere
“suicidata”. Qui di irreversibile c’è solo il “suicidio assistito”: ti impedisce di curarti e guarire,
dunque di decidere consapevolmente, cioè liberamente, della tua vita. E se poi un medico o
un infermiere senza scrupoli provvedono all’iniezione letale senza un’esplicita richiesta scritta,
ma dicendo che il paziente, prima di cadere in stato momentaneo di incoscienza e dunque
impossibilitato a scrivere, aveva espresso la richiesta oralmente? E se un parente ansioso di
ereditare comunica al medico che l’infermo, prima di cadere in stato temporaneo di
incoscienza, aveva chiesto di farla finita?
Se incontriamo per strada un tizio che sta per buttarsi nel fiume, che facciamo: lo spingiamo o
lo tratteniamo cercando di farlo ragionare? Voglio sperare che l’istinto naturale di tutti noi sia
quello di salvarlo. Un attimo di debolezza o disperazione può capitare a tutti, ma se in quel
frangente c’è qualcuno che ti aiuta a superarlo, magari ti salvi. Del resto, il numero dei suicidi
è indice dell’infelicità, non della “libertà” di un Paese. E, quando i suicidi sono troppi, il
compito della politica e della cultura è di interrogarsi sulle cause e di trovare i rimedi. Che
senso ha allora esaltare il diritto al suicidio ed escogitare norme che lo facilitino? Il suicidio
passato dal Servizio Sanitario Nazionale: ma siamo diventati tutti matti?
Commento. No, caro Travaglio, no. Tutto il suo ragionamento (logico, giuridico, deontologico
e pratico) è basato sul seguente principio: “chi vuole sopprimere la sua vita deve farlo da
solo; se ne incarica un altro, la vita non è più sua, ma di quell’altro”. Benissimo. Fra l’altro si
tratta di un principio riconosciuto già dal codice penale laddove non prevede alcuna sanzione
a carico di coloro che “tentano” il suicidio (né a carico degli eredi di coloro che ci riescono).
Ciò premesso, trattandosi di un diritto, spero converrà che spetti all’interessato scegliere le
modalità del suo suicidio, affinché sia il meno straziante e il più indolore possibile. Il metodo
esiste, senza passare dal Servizio sanitario nazionale, senza infrangere il codice penale e il
codice deontologico, senza gettarsi dalla tromba delle scale o dalla finestra di un ospedale o
impiccarsi, senza spararsi nel cervello, senza bisogno della “assistenza” di nessuno. In Belgio
e in Olanda i medici possono acquistare in farmacia il “kit della buona morte”, ossia il
“pentobarbital di sodio”, usato anche nella clinica svizzera di Dignitas. In Italia ciò non è
consentito, e coloro che decidono di morire con dignità e senza sofferenze sono costretti –
come Lucio Magri – ad emigrare.
Con dispiacere debbo, infine, rilevare il suo cattivo gusto di definire la veglia funebre – perché
tale era - degli amici di Lucio Magri come una “festicciola volgare e urtante”. Così lei offende,
oltre che gli amici di Lucio, anche i milioni di italiani che in occasione della morte dei loro cari
ritengono cortese offrire ai visitatori del defunto ciò che lei chiama un “rinfresco”.(Giampietro
Sestini)
2302 - LA CHIESA, LA MORTE E IL LIBERO ARBITRIO - DI DACIA MARAINI
da: il Corriere della Sera di martedì 6 dicembre 2011
La notizia della morte di Lucio Magri mi ha molto colpita. Ho conosciuto Magri tanti anni fa nel
pieno della sua felicità politica. Ricordo di essere stata folgorata dalla sua bellezza e dalla sua
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intelligenza festosa e ironica. Un uomo che qualsiasi donna avrebbe volentieri corteggiato.
Peccato che fosse già impegnato.
Ora leggere della sua crudele decisione di tagliare ogni rapporto con la vita mi sorprende e mi
addolora. Istintivamente si pensa: chissà se discutendo, magari arrabbiandosi, non avrebbe
rinunciato a darsi la morte. Ma è un pensiero infantile perché sono sicura che gli amici del
Manifesto e le persone a lui care hanno provato in tutti i modi a fargli cambiare idea. La sua
decisione deve essere stata talmente radicale e profonda da rifiutare ogni consolazione.
Dicono che la risoluzione sia stata provocata dalla morte precoce di una moglie amata. Può
darsi. I rapporti di ciascuno di noi con la morte sono misteriosi e profondi e nessuno dovrebbe
sindacare sulle decisioni che si prendono, ma solo «simpatizzare» con il dolore.
Certo colpisce la determinazione razionale con cui ha affrontato le cose. Un uomo che di
impeto si butta sotto un treno o che ingoia una manciata di pillole e muore fra atroci dolori non
fa lo stesso effetto di chi a freddo inizia un percorso anche burocratico verso la propria
eliminazione: l'appuntamento col medico, la prenotazione del biglietto e forse anche di un
albergo se l'operazione è prevista di prima mattina, la scelta dei vestiti (ci sarà bisogno di una
valigia?). E quanti soldi bisognerà portarsi dietro? E chi deciderà del funerale? Cremazione o
sepoltura? Ogni cosa deve essere stabilita in anticipo e con precisione. Ecco è proprio questa
precisione e il controllo sulle emozioni che impressiona. Ci vuole coraggio per essere coerenti
fino in fondo.
Ma perché Magri ha dovuto andare in Svizzera per affrontare una morte che non strazia il
corpo ma lo consegna intero e dignitoso alla tomba? La risposta la sappiamo: in Italia vige il
divieto cattolico a disporre del proprio corpo. Questo non impedisce che decine di persone si
suicidino ogni giorno buttandosi da una finestra, o puntandosi una pistola in bocca. La Chiesa
li ignora. Ma per uno che organizza razionalmente la propria fine con l'aiuto di un medico
pietoso, arrivano le parole di condanna.
Che il divieto valga per i cattolici è comprensibile ma per chi cattolico non è? Perché la
Chiesa, che ha accettato per secoli la pena di morte e la tortura, ha da ridire sulla libera
scelta di morire? Non sarà esattamente l'autonomia della decisione a ripugnarle? Il fatto che
così facendo la persona sfugge al controllo di chi vuole stabilire il destino delle anime e dei
corpi? Non sarà la pratica del libero arbitrio, contro cui combatte da sempre, a sembrarle
inaccettabile? Tutto può essere perdonato, salvo la sovrana decisione di sé. In tanti Paesi
che si pretendono democratici questa libertà è oggi considerata una solida conquista.
A quando la compiutezza di un diritto che emancipi la nostra Repubblica dai condizionamenti
della Chiesa?
2303 - IL SUICIDIO ASSISTITO E IL SUICIDIO FORZATO - DI GIAMBATTISTA SCIRÈ
da: www.cronachelaiche.it di giovedì 8 dicembre 2011
L’unico motivo per cui, forse, sarebbe stato corretto parlare del personalissimo, e come tale
non giudicabile, gesto di Lucio Magri poteva essere l’immediata approvazione in parlamento
di una legge netta, chiara, definitiva, sul fine vita. Per nessun’altra ragione sarebbe stato
giusto parlarne nel modo, a dir poco invasivo, spettacolare, roboante, come se ne è parlato.
In primis, per rispetto dello stesso Magri, che non avrebbe voluto. Ma soprattutto per un’altra
ragione.
Chi ha qualche anno di età, o chi magari ha studiato un po’ la storia, o semplicemente ha
ascoltato la canzone Primavera di Praga di Francesco Guccini, ricorda e sa chi fu Jan Palach,
il patriota cecoslovacco che si bruciò vivo il 19 gennaio 1969 in piazza Venceslao a Praga per
protestare contro la repressione sovietica. Quel suicidio fu, oggettivamente, un gesto
rivoluzionario, perché assurse a emblema, a simbolo, andò oltre al significato specifico e
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personale della singola, quanto peraltro importante, vita umana, ma valse per una
moltitudine, fu qualcosa di corale. Come sappiamo la storia, a volte, si ripete. Ecco che allora
Mohamed Bouazizi, il 17 dicembre 2010, si dava fuoco in una strada della Tunisia per
protestare contro lo stato e la polizia che non gli permettevano di esercitare quello che, a
ragione, riteneva un suo diritto: la possibilità di lavorare per guadagnarsi da vivere. Quel
gesto di protesta estremo, quel suicidio, come fu nel caso di Palach, è altrettanto
rivoluzionario, perché ha innescato una rivolta collettiva, che ha dato il via alla Primavera
araba. Dalla rivoluzione dei gelsomini in Tunisia partiva quella lotta di liberazione, a livello di
massa, che, al grido di “Pane e libertà“, si espandeva un po’ dappertutto nel Maghreb e poi
fino in Siria. Circa un mese fa, Dawa Tsering, un monaco tibetano, si è bruciato vivo nei
pressi del monastero di Kardze, invocando la libertà per il suo popolo dall’oppressione cinese.
Un gesto che riporta alla mente l’immagine dei monaci buddisti che, durante la guerra del
Vietnam, si davano fuoco a Saigon per protestare contro la guerra. Lasciarsi morire con una
determinazione e un distacco impressionanti. Azioni apparentemente contro se stessi ma che
in realtà sono contro l’ingiustizia sociale e la mancanza di diritti nel mondo intero. Tutti suicidi
rivoluzionari, simbolici, come a volere dire che la vita materiale è un nulla, un’inezia, di fronte
alle idee, ai pensieri dell’umanità. Nulla da dire, insomma, tanto di cappello.
Questi sono solo alcuni suicidi davvero straordinari che hanno fatto storia in ognuno di noi,
non solo perché dovrebbero insegnarci il rispetto per quelle morti “anonime” che si
consumano in silenzio; ma per sollevare la vera preoccupazione che dovrebbe tenerci tutti
quanti allerta: in tutto il mondo, e anche in Italia, nell’indifferenza assoluta di stampa e media
di ogni tipo, esiste un malessere di vita molto più comune e generalizzato legato al mondo del
lavoro che rischia di diventare un vero e proprio detonatore. I sociologi e gli psicologi più
avvertiti ne parlano come di una sorta di moderna malattia di massa delle società avanzate.
La crisi economica e finanziaria di questi ultimi anni ha reso ancor più preoccupante e grave
questa condizione. Si tratta del suicidio da lavoro. Il normale suicidio da lavoro, che purtroppo
non fa mai notizia, e di cui non si parla mai, è un fenomeno incredibilmente in crescita.
Coinvolge tutti i ceti sociali e tutte le categorie lavorative, senza distinzioni.
Basta ricordare qualche esempio per rendersi subito conto che non si tratta di un allarmismo
esagerato. Un dirigente della Gifas Electric di Lucca, da poco licenziato, prima uccide due
suoi colleghi, perché non era riuscito a raggiungere i traguardi prefissati dai vertici
dell’azienda, poi si spara nel bagno della ditta. Un giovane trentenne di Ragusa, appena
licenziato da una catena di supermercati con l’accusa di aver cambiato cinque buoni sconto
da 1 euro invece di utilizzarli direttamente, si suicida lasciando moglie e un bambino piccolo.
Un imprenditore di una ditta di intonaci vicentina, che non riusciva più a pagare gli stipendi ai
suoi venti dipendenti e l’amministratrice di una fabbrica di rivestimenti plastici a tecnologia
avanzata, che aveva dovuto far ricorso alla cassa integrazione per tutti i suoi lavoratori, si
tolgono la vita nell’indifferenza più totale delle rispettive comunità. Alcuni forse ricorderanno il
caso dell’infermiera dell’ospedale San Paolo di Napoli, quella che si prelevava il sangue in
quantità progressiva, fino a morirne, per protestare contro il mancato pagamento del suo
stipendio. Ancor più grave, in questo caso, perché vittima suicida dell’inadempienza di
un’istituzione pubblica. E ancora, il magazziniere di un mobilificio di Pordenone suicidatosi
dopo aver saputo che non gli avrebbero rinnovato il contratto, o l’operaio della Fincantieri di
Castellammare di Stabia licenziato in tronco e uccisosi davanti ai familiari. Molto di recente,
un assistente di polizia penitenziaria di Battipaglia, a causa delle pressioni psicologiche
inflittegli dai carcerati e dai suoi superiori, ha deciso di farla finita. Infine, ma l’elenco potrebbe
continuare a lungo, un laureato con lode in filosofia a Palermo si è gettato dal settimo piano
della facoltà di lettere: dopo il dottorato ormai conseguito in filosofia del linguaggio, il tutor gli
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aveva fatto intendere chiaramente che non aveva futuro dentro l’università perché i posti
venivano assegnati solo ed esclusivamente per raccomandazione e non certo per merito. Il
giovane ha lasciato un foglio con scritto “La libertà di pensare è anche la libertà di morire“.
Il problema dei suicidi di massa nel mondo del lavoro, messi in atto da parte di gente comune,
è un fenomeno globale, nel senso che riguarda tutto il mondo, e deve interrogarci tutti,
nessuno escluso. Basti citare il caso della France Telecom, dove, negli ultimi due anni ci sono
stati una cinquantina di dipendenti di diverso ordine e grado che si sono tolti la vita, per motivi
vari, cioè per depressione, stress, clima lavorativo opprimente, competizione, fatica fisica e
psicologica. Ma ce ne sono molti altri, in Usa, in Cina, un po’ dappertutto. E c’è di più: la
Mazda di Tokio, con una storica sentenza, è stata costretta a risarcire con milioni di euro i
familiari di un giovane che si era suicidato per “eccesso di lavoro”. Si è giunti a un punto, così
paradossale e allucinante, che, per tutelarsi da questo problema, una filiale della Apple a
Shenzhen ha chiesto addirittura ai suoi lavoratori di sottoscrivere un contratto in cui si
impegnano a non uccidersi in cambio di un aumento del 30% dello stipendio. Insomma,
saremmo alla farsa se non fosse, purtroppo, una questione drammaticamente seria.
Ecco allora, alla luce di quanto raccontato, non credete che sia più deontologicamente
corretto stare in silenzio di fronte a certi drammi o eventualmente parlare del malessere e
della condizione drammaticamente complicata di tanti giovani e meno giovani lavoratori in
questa società post-moderna, che arrivano fino all’estremo atto di uccidersi, piuttosto che
accanirsi a giudicare il motivo per cui Magri decida di essere lui solo, non lo Stato, non i
giudici, non la chiesa, e neppure la società o i suoi amici e parenti nel salotto di casa, ad
avere il diritto di stabilire se continuare o no a vivere in questo mondo?
2304 - LE RAGIONI DELLA VOLONTA’ - DI MAURIZIO MORI
da: il Fatto di mercoledì 14 dicembre 2012
Marco Travaglio ha commentato (Il Fatto, 2 dicembre) il suicidio assistito di Lucio Magri a
partire dai “soli punti di vista che ci accomunano tutti” (logico, giuridico, deontologico e
pratico) per concludere che saremmo “tutti matti” (cioè fuori dalla realtà) se accettassimo tale
pratica. Posso capire il suo personale sconcerto emotivo, ma perché la conclusione valga per
tutti il ragionamento proposto deve essere corretto.
Per Travaglio “dal punto di vista logico, non si scappa: chi sostiene il diritto al ‘suicidio
assistito’ afferma che ciascuno di noi è il solo padrone della sua vita... ma proprio per questo
chi vuole sopprimere la ‘sua’ vita deve farlo da solo; se ne incarica un altro, la vita non è più
sua, ma di quell’altro. Dunque, se vuole farla finita, deve pensarci da sé” e non chiedere
aiuto.
Ma Travaglio direbbe anche che chi è padrone dei suoi soldi dovrebbe tenerli sempre con sé,
perché se li mette in banca non sono più suoi? O che il cittadino non deve mai cedere la
sovranità politica, perché se delega un rappresentante la perde? La dilagante corruzione
politica e finanziaria può anche supportare la tesi di Travaglio, ma dal punto di vista logico
l’inferenza non vale. Non considero il richiamo all’art. 575 c. p. perché, dal punto di vista
giuridico, il problema non è la presenza del divieto, ma sapere se esso sia giusto.
Ed è banale dire che lo è perché se si ammette “una qualche eccezione, si sa dove si inizia e
non si sa dove si finisce”. Dal punto di vista deontologico a Travaglio basta il giuramento
d’Ippocrate che, però, è più una sorta di vecchio totem cui molti ancora si inchinano per
noblesse oblige, che un punto davvero unificante.
Lo stesso Travaglio dà una precisa indicazione per rifiutarlo quando osserva che “non si può
chiedere a un medico di togliere la vita al suo paziente” perché il Giuramento impone il
“dovere professionale di salvarla sempre e dovunque”. Se così fosse, allora andrebbero
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radiati dalla professione medici come Mario Riccio e Amato De Monte o infermieri come
Cinzia Gori che non hanno salvato “sempre e dovunque”. Se Travaglio conviene che quelli
citati (e altri come loro) sono invece bravi operatori sanitari, allora in certe circostanze è lecito
(o anche doveroso) spegnere la macchina o sospendere la terapia e lasciare morire. Ma se è
lecito lasciar morire per evitare che il paziente soffra, perché, per lo stesso scopo e a parità di
condizioni, non dovrebbe essere lecito anche l’intervento che aiuta a morire? Per Travaglio,
dal punto di vista pratico, ci sarebbero “infiniti impedimenti” contro il suicidio assistito. Ma
questi sono gli stessi che già ora si presentano per la sospensione delle terapie: anche per
queste si può dire che un parente avido potrebbe richiederle per ereditare prima; o che non
vanno mai sospese perché “quasi nessuna patologia, grazie ai progressi... è di per sé
irreversibile”. Eppure, come siamo riusciti a regolare l’assistenza alla sospensione delle
terapie, così si può pensare di regolare anche l’assistenza al suicidio.
La vera ragione che porta Travaglio a essere contro la morte volontaria è che per lui “il
numero dei suicidi è indice dell’infelicità, non della ‘libertà’ di un Paese”. Ma questa tesi
valutativa vale sempre e per tutti? Non può darsi che per alcuni si dia un’infelicità strutturale e
ineliminabile a prescindere da malattia, solitudine, difficoltà economiche o di altro tipo?
Bisogna lasciare che costoro pongano fine da soli alla propria infelicità intrinseca? La moralità
non ci chiede di ascoltare anche la loro richiesta e di prestare loro aiuto? Se l’infelicità che
muove al suicidio dipendesse solo e sempre da difficoltà contingenti, non sarebbe più
facilmente rimovibile prevedendo assistenza? Per esempio, nel 2008 in Italia sono stati
(ufficialmente) accertati 3459 suicidi: è proprio sicuro Travaglio che sia giusto lasciare che
facciano tutto da soli? Che si buttino dalle torri o sotto i treni choccando o anche mettendo in
pericolo altri? Sono tutti sempre e solo dei “matti” o dei “depressi”? L’infelicità psicologica non
è altrettanto seria di quella organica e meritevole di altrettanto rispetto? Non è forse solo un
tabù religioso quello che ci porta a precludere l’aiuto a morire?
Non posso rispondere qui a queste domande, ma sono pronto a farlo. Una parola ancora
vorrei dire sulla morte volontaria di Lucio Magri, che non ho conosciuto: non diciamo che la
sua scelta è dipesa dal fallimento politico unita alla depressione. Sarebbe killeraggio vero e
proprio, togliendogli la possibilità di un ultimo messaggio. Diciamo invece che, forse, è stato
uomo all’avanguardia e che, almeno in questo, ci ha indicato la via.
2305 - IL DIRITTO DI MORIRE NON ESISTE - DI GUSTAVO ZAGREBELSKY
Intervista di Silvia Truzzi – da: il Fatto di mercoledì 14 dicembre 2011
Con questa intervista al costituzionalista Gustavo Zagrebelsky e l’intervento di Maurizio Mori
(al quale risponderà domani Marco Travaglio) proseguiamo il dibattito iniziato il 2 dicembre
dopo la morte di Lucio Magri
Il diritto può essere “una corruzione del comune sentire o uno strumento attraverso cui
scrutare un orizzonte più profondo”. Comincia così la conversazione con Gustavo
Zagrebelsky, autore di un libro che non a caso s’intitola “Il diritto mite” (Einaudi, 1992).
Parliamo della decisione di Lucio Magri (scomparso in una clinica svizzera dove l’hanno
aiutato a togliersi la vita) e in generale della scelta di morire.
Con una premessa: “Quello che sto per dire è in una prospettiva laica. Vorrei usare argomenti
non dico condivisibili, ma almeno comprensibili per chiunque. Se si parte da una prospettiva
religiosa, si escludono a priori tutti coloro che non l’accettano”.
Il discorso sul darsi la morte è molto sdrucciolevole, non trova?
Su queste questioni ultime, si è sempre penultimi. Sono discorsi ‘allo stato’ delle proprie
attuali riflessioni. Guai alla sicumera. Nelle questioni di questo genere, la problematicità è un
dovere.
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Cos’è il suicidio?
La tragedia più grande. Stiamo toccando, dal punto di vista morale e cognitivo, un tema
sconvolgente. Ma è un tema composito. È difficile trattarne in generale, tanto più volendo
stabilire una norma che valga sempre e per tutti.
Ci sono molti suicidi?
Sì. Il suicidio può dipendere da molte ragioni. Non si può non tenerne conto.
Esempi?
Il suicidio per solitudine, delusione, angoscia, vergogna, rimorso. Tutte queste sono ragioni
morali che possono crescere al punto d’essere decisive, anche se all’origine sono minime,
come il classico ‘brutto voto’. Le si può riassumere in una frase dell’etica kantiana: ‘Se sulla
terra non c’è speranza di giustizia, non c’è posto per gli uomini’. Quando una persona, nutrita
d’ideali, vede che tutto è inutile, perde la speranza. Nella nostra società, ci si toglie la vita per
aver perso il lavoro. Nelle carceri ci si suicida per disperazione; nei campi di sterminio, ci si
appendeva alle reti ad alta tensione; nelle carceri degli aguzzini, ci si impiccava per timore di
non resistere alle torture e di tradire i compagni; nelle foreste del Mato Grosso, i nativi si
uccidevano gettandosi nelle cascate, davanti all’invasione portoghese. Il suicidio può essere
un atto dimostrativo, di accusa. Ricorda Jan Palach? C’è anche il suicidio filosofico, quello
degli stoici, quando ci si trova in una situazione eticamente senza sbocco.
Ce lo spiega meglio?
Ho in mente il gioco immensamente crudele degli aguzzini nei campi nazisti. Si aprivano i
vagoni e usciva una mamma con due bambini per mano: ‘Scegline uno’. Qual è la via
d’uscita? Non certo la scelta. C’è solo il suicidio.
Ne “I Demoni” di Dostoesvkij, Kirillov si suicida per dimostrare che Dio non esiste.
Compie un atto di estrema libertà. Chi è Dio? Colui che dà e toglie la vita. Kirillov dice: mi
tolgo la vita e prendo il posto di Dio. Ma ci sono anche suicidi inspiegabili, come quello di
Primo Levi e tanti altri scampati ai lager, che si sono uccisi a distanza di tanti anni. Perché?
Una delle spiegazioni è l’avere visto l’orrore dell’essere umano che ti toglie ogni speranza
nell’umanità. Ma è inutile cercar di spiegare tutto. Il suicidio appartiene spesso alla sfera
dell’insondabile.
Come si comporta il nostro diritto penale di fronte alla volontà di morire?
In modo apparentemente ambiguo. Non punisce il suicidio. Lo considera un mero fatto. Se
fosse un delitto, si punirebbe il tentativo. Cosa che non è.
Ci manca che uno prova a uccidersi, non ci riesce e pure lo mettono in galera.
Vero. Ma quello che importa è che non c’è sanzione se tu cerchi di ucciderti da solo. In questi
confini estremi dell’esistenza individuale il diritto non può far nulla, ed è bene che taccia.
Lasciando che ciascuno gestisca i suoi drammi ultimi da solo.
Però ci sono gli articoli 579 e 580 che puniscono l’omicidio del consenziente e l’istigazione o
aiuto al suicidio.
Questi, infatti, sono delitti.
Non c’è contraddizione? In un caso, il diritto tace, in altri punisce. Eppure sempre con suicidi
si ha a che fare. Come si spiega?
In un modo molto semplice. Se tu ti uccidi da solo questo è considerato un fatto, un mero
fatto – che resta entro la tua personale sfera giuridica. Ma se entra in gioco qualcun altro,
diventa un fatto sociale. Anche solo se sono due: chi chiede di morire e chi l’aiuta. E ancor
più se c’è un’organizzazione, pubblica o privata che sia, come in Svizzera o in Olanda. La
distinzione ha una ragione morale.
Quale?
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Se la gran parte dei casi di suicidio deriva da ingiustizie, depressione o solitudine il suicidio
come fatto sociale ci pone una domanda. Può la società dire: va bene, togliti di mezzo, e io
pure ti aiuto a farlo? Non è troppo facile? Il suo dovere non è il contrario: dare speranza a
tutti? Il primo diritto di ogni persona è di poter vivere una vita sensata, e a ciò corrisponde il
dovere della società di crearne le condizioni.
Vale anche per chi soffre sapendo di dover morire?
Certamente. Una cosa è il suicidio come fatto individuale; un’altra, il suicidio socialmente
organizzato. La società, con le sue strutture, ha il dovere di curare, se è possibile; di alleviare
almeno, se non è possibile. In ogni caso, non confondiamo il nostro tema con quello del rifiuto
di trattamenti medicali, anche se ciò può portare alla morte. Posso voler non essere curato, o
curato in un certo modo, anche se ciò comporta la morte: ma questo non è voler morire. Il
rifiuto delle cure è un diritto e, come tale, deve essere rispettato. Ma ripeto, è un problema
diverso.
Non c’è un “diritto di morire”?
C’è la morte che ci si dà, come dato di fatto. Ma l’espressione che ha usato contiene una
contraddizione. Parliamo di diritti o libertà come espansione delle possibilità. Si può parlare di
diritto al nulla, o di libertà di nulla? A me pare una mostruosità.
O il massimo della libertà.
D’accordo: come per Kirillov. Ma andiamo a leggere I Demoni e comprendiamo, oltre la
genialità di Dostoevskij, il gelo di quel personaggio.
Commento. Ripeto a Zagrebelsky quanto detto a Marco Travaglio. Appurato che il suicidio è
un “mero fatto personale”, che “non c’è sanzione se tu cerchi di ucciderti da solo” ma che non
può essere un “fatto socialmente organizzato” e neppure si può essere aiutati da altre
persone, si pone la domanda: se è un mio diritto suicidarmi perché non posso scegliere il
modo più semplice e indolore possibile, optando magari per una dose di pentothal anziché
gettarmi dalla finestra o impiccarmi o spararmi alla testa o tagliarmi le vene? Intuisco la
risposta: in Italia è proibita la vendita del pentotal perché procura la morte. E allora perché
non si proibisce la vendita delle pistole, dei coltelli, delle asce, delle seghe elettriche e di
qualunque arnese che può procurare la morte?
Consiglio agli utenti: se conoscete un medico belga o olandese chiedetegli di comprare in una
farmacia del loro paese un “kit” per l’eutanasia, rimborsategli il costo di 60 euro e fatevelo
dare: non si sa mai..(Giampietro Sestini).
2306 - BASTA AI SANTISSIMI PRIVILEGI DEL VATICANO - DI MARCO POLITI
da: il Fatto Quotidiano di domenica 4 dicembre 2011
Gli italiani vogliono che la Chiesa paghi l’Ici. Solo il 12% appoggia l’esenzione totale. Sarà
bene che il governo Monti ne tenga conto. Perché sacrifici per tutti deve significare veramente
per “tutti”. Non è il proclama di un bollettino ateo. È il risultato di una seria e ampia inchiesta
sulla religiosità dell’Italia contemporanea, condotta da Franco Garelli uno dei più importanti
sociologi cattolici, già autore negli anni Novanta di una fondamentale indagine per conto della
Conferenza episcopale.
L’inchiesta rivela che gli italiani sono portatori di una fede molto individualizzata, flessibile,
attenta ai grandi valori indicati dalla Chiesa cattolica. Ma sono fedeli dotati di grande realismo
nel giudicare gli appetiti economici e politici della gerarchia ecclesiastica.
Dunque se l’inchiesta registra un’adesione di principio del 57% di interrogati al sistema dell’8
per mille per finanziare le varie religioni (pur mancando spiegazioni e risposte specifiche sul
meccanismo distorto che non rispetto il “non-voto” della maggioranza degli italiani) sull’Ici
l’italiano non scherza: l’87% non ammette scappatoie perché la Chiesa non paghi,
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approfittando di attività economiche agganciate a edifici religiosi. Il 54,8 afferma seccamente
di essere “contrario a qualsiasi tipo di esenzione”. Il 32,9 l’ammette unicamente per “edifici a
finalità religiosa”.
Finora la Cei non ha mai voluto scremare con una propria accurata inchiesta interna quanti
siano i propri enti che approfittano di un’interpretazione capziosa delle legge attuale (che
ammette una zona grigia basata sull’esenzione “anche” ad attività economiche legate a un
edificio religioso), mentre i governi precedenti non hanno avuto il coraggio di limitare le
esenzioni “esclusivamente” alle mura di chiese, cappelle o conventi.
La grande maggioranza della società – lo testimonia F. Garelli Religione all’italiana ed. Mulino
– non condivide nemmeno la continua richiesta di soldi delle autorità ecclesiastiche per le
scuole confessionali. Il 43% è in linea con la Costituzione e sostiene che “chi vuole scuole
non statali se le paghi”, mentre un altro 37% ritiene che la scuola “debba essere soltanto
statale”.
Da questo punto di vista gli italiani, che al 70% (tra convinti e agitati da dubbi) affermano di
credere in Dio e che al 65% sarebbero allarmati se chiudesse la parrocchia di quartiere e che
invitano al 71% la Chiesa di tenere fermi i propri principi, esprimono poi nel concreto giudizi
molto precisi. Il 63% ritiene che “la Chiesa predica bene, ma non mette in pratica ciò che
afferma”. E due terzi degli italiani sostengono che “oggi in Italia la Chiesa e le organizzazioni
religiose hanno troppo potere”.
La ricerca di Garelli è estremamente ricca e porta alla luce molte contraddizioni degli italiani e
dei cattolici, suddivisi a loro volta in: convinti e attivi, convinti non sempre attivi, cattolici per
tradizione ed educazione, infine persone che “condividono alcune idee del cattolicesimo”. La
stagnazione del pontificato ratzingeriano, che non affronta nodi cruciali della vita ecclesiale,
risalta dai giudizi espressi in merito ad alcuni tabù del Vaticano. Il 47% è favorevole ad abolire
il celibato (contro il 33 che lo vuole mantenere). Paradossalmente è ancora minore
l’opposizione al sacerdozio delle donne. Contrari 27%, favorevoli 43, sullo sfondo di un 28%
incerto.
Papa Ratzinger da alcuni anni ha perso il consenso della maggioranza degli italiani. Il suo
governo ha provocato una spaccatura netta. Il consenso nei suoi confronti si ferma al 49,4%.
2307 - MA PERCHÉ IL VATICANO NON PAGA L’ICI? - DI PINO CORRIAS
da il Fatto quotidiano di martedì 6 dicembre 2011
Non avendo Ruby da farsi perdonare, né lo spergiuro sulla testa dei figli, né tanto meno le
vacanze con Previti, Gheddafi e Putin, ci chiedevamo cosa diavolo avesse Mario Monti da
farsi perdonare per avere messo in salvo anche questa volta il Vaticano dalla nuova
fucilazione di tasse che a quanto pare dovrebbe salvarci la pelle, bucherellandocela. Tra le
ragioni azzardavamo pure la santità di Corrado Passera che per di più risulta un poco
ottenebrata dal recente divorzio e perciò ancora più sensibile ai soffici ammonimenti della
virtuosa gerarchia. Ci chiedevamo (dunque) come mai venisse di nuovo tassata la prima casa
di tutti i cristiani, tranne quella dei padri della cristianità. E insomma, perché mai le grasse
casse di Ratzinger che già ci aspirano l’8 per mille non dovessero almeno restituirci i 600
milioni di Ici non versati ogni anno.
È a quel punto della giornata che si è fatto vivo monsignor Giancarlo Bregantini, responsabile
della Cei per i problemi sociali, che ha detto: “La manovra poteva essere più equa.
Specialmente coi redditi alti”. Tipo i patrimoni Vaticani? Ma questo monsignor Bregantini che
oggi parla di corda in casa dell’impiccato, ci è o cristianamente ci fa?
2308 - LA CHIESA NON FA SACRIFICI - DI MARCO POLITI
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da: il Fatto quotidiano di mercoledì 7 dicembre 2011
La Chiesa si autoesenta, sacrifici mai. Resta attaccata ai suoi privilegi, ma è prodiga di
consigli sull’equità della manovra. È da agosto che l’opinione pubblica aspetta dalla Cei un
segnale di disponibilità ad aiutare lo Stato a ripianare il suo debito colossale. In tempi passati
i vescovi fondevano l’oro dei sacri calici per sostenere la difesa di un regno invaso. Ora che il
nemico finanziario è molto più subdolo e spietato, non succede nulla. Dalla gerarchia non è
giunto il più piccolo segnale di “rinuncia”. Solo la dichiarazione del Segretario di Stato
Vaticano, Tarcisio Bertone, che ha affermato: “Il problema dell'Ici è un problema particolare,
da studiare e approfondire”.
Eppure quello che pensano gli italiani è chiarissimo. Sono contrari all’esenzione dell’Ici, sono
contrari a spolpare le casse dello Stato ai danni della scuola pubblica, perché credono al
principio costituzionale che chi fonda una scuola privata la paga con i propri soldi.
Soprattutto gli italiani sono convinti a grande maggioranza che la Chiesa predica bene e
razzola male. Vedere per credere l’indagine del professor Garelli sulla “Religione all’italiana”.
Quando si parla di soldi, la gerarchia ecclesiastica si rifugia subito nel vittimismo, accusa
complotti da parte dei nemici della Chiesa, si attacca a errori di conteggio sbagliati per
qualche dettaglio o di chi mette sullo stesso piano la Cei (organismo nazionale) e il Vaticano,
realtà internazionale.
Nessuno trascura l’aiuto sistematico che è venuto in questi anni alle fasce più povere da
parrocchie, episcopato e organizzazioni come la Caritas o Sant’Egidio. Ma ora è il momento
di gesti straordinari e di uno sfoltimento di privilegi come avviene in tutto il Paese. Ci sono fatti
molto precisi su cui la gerarchia non ha mai dato risposta e che costituiscono privilegi
inaccettabili specialmente nella drammatica situazione economica attraversata dal Paese. Ne
elenchiamo alcuni, che indignano egualmente credenti e diversamente credenti.
Non limitare l’esenzione Ici agli edifici strettamente di culto è un’evasione fiscale legalizzata.
L’attuale sistema di conteggio dell’8 per mille è truffaldino perché non tiene conto del fatto che
quasi due terzi dei contribuenti – non mettendo la crocetta sulla dichiarazione delle tasse –
intendono lasciare i soldi allo Stato. In Spagna, dove è stato a suo tempo copiato il sistema
italiano, si conteggiano giustamente soltanto i “voti espressi”. In Germania il finanziamento
alle chiese luterana e cattolica avviene con una “tassa ecclesiastica” che grava direttamente
sul cittadino. Se il contribuente non vuole, si cancella.
L’attuale sistema dell’8 per mille è uscito fuori controllo. Doveva garantire una somma più o
meno equivalente alla vecchia congrua data dallo Stato ai sacerdoti, ma essendo agganciata
all’Irpef la somma che il bilancio statale passa alla Cei è cresciuta a dismisura. Nel 1989 la
Chiesa prendeva 406 miliardi di lire all’anno, oggi il miliardo di euro che incassa equivale a
quasi 2.000 miliardi di lire. Cinque volte di più!
L’8 per mille è stato pensato (ed è approvato come principio dalla maggioranza degli italiani)
per finanziare il clero in cura d’anime e l’edilizia di culto in primo luogo. Ciò nonostante la
Chiesa si fa pagare ancora una volta a parte i cappellani nelle forze armate, nella polizia,
negli ospedali, nelle carceri, persino nei cimiteri. Si tratta di decine di milioni di euro.
Nessuno ignora quanti splendidi preti siano impegnati specialmente nelle prigioni, ma è il
sistema del pagamento aggiuntivo che non è accettabile. Lo stesso vale per le decine di
milioni aggiuntivi versati dallo Stato, dalle regioni e dai comuni per l’edilizia di culto, che è già
coperta dall’8 per mille.
Per non parlare dei milioni di euro elargiti ogni anno attraverso la famigerata “Legge mancia”.
Invitando a uno stile di vita più sobrio per la festa di san-t’Ambrogio in Milano, il cardinale
Scola afferma che con gli anni si è stravolto il concetto di “diritti”. In un clima di benessere e
“senza fare i conti con le risorse veramente disponibili si sono avanzate pretese eccessive in
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termini di diritti nei confronti dello Stato”. Verissimo. C’è da aggiungere che anche la Chiesa
ha partecipato alla gara.
Non è bastato che gli insegnanti di Religione venissero stipendiati dallo Stato, si è preteso
che da personale extra-ruolo venissero anche statalizzati.
Contemporaneamente si è iniziato a mungere le casse statali per finanziare le scuole
cattoliche. Altrove in Europa lo fanno, ma non c’è l’8 per mille. È l’ingordigia nel ricorso ai
fondi statali che spaventa.
Quanto al Vaticano, i Trattati lateranensi garantiscono ad esempio un adeguato fornimento
d’acqua al territorio papale. Non è prepotenza il rifiuto di contribuire allo smaltimento delle
acque sporche? Costa all’Italia 4 milioni di euro l’anno. Cifra su cifra ci sono centinaia di
milioni che possono essere risparmiati. Il premier Monti può fare tre cose subito. Decretare
che, come accade in Germania e altri Paesi, i finanziamenti statali vanno solo a enti che
pubblicano il bilancio integrale di patrimoni e redditi: così gli italiani e lo Stato conosceranno il
patrimonio delle diocesi. Limitare l’esenzione dell’I-ci esclusivamente agli edifici di culto.
Attivare la commissione paritetica prevista dall’art. 49 della legge istitutiva dell’8 per mille per
rivedere la somma del gettito. Sarebbe molto europeo.
2309 - CONCORDATO STATO-CHIESA: DIMENTICATO L’ART. 1 - DI SERGIO ROMANO
da: il Corriere della Sera di mercoledì 7 dicembre 2011
Posso scusare l'ignoranza della lettrice sulle ragioni dell'esenzione dei beni della Chiesa e di
quella di tutte le istituzioni laiche «no profit» (piccolo particolare dimenticato forse
scientemente dagli anticlericali di destra e di sinistra), ma non posso accettare il suo, in un
certo verso, censorio attacco alla libertà di esponenti della Chiesa cattolica a prendere
posizione sulla gestione della politica nel nostro paese. Devo forse ascoltare come cattolico
solo i pareri delle centrali sindacali, dei partiti o del Pontefice romano?
Giorgio Vittorio Bossi
Risponde Sergio Romano
Caro Bossi,
Fra l'Italia e la Santa Sede esiste da più di ottant'anni un Concordato. Quello firmato da
Mussolini nel 1929 garantiva alla Chiesa un certo numero di diritti e privilegi. Quello firmato
da Bettino Craxi nel 1984 ha tenuto conto della evoluzione delle sensibilità pubbliche,
soprattutto nei due decenni precedenti, e comincia con un articolo nuovo, molto importante,
che ha il merito di precisare meglio il principio fondamentale del documento. Secondo l'art. 1,
«La Repubblica Italiana e la Santa Sede riaffermano che lo Stato e la Chiesa cattolica sono,
ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani, impegnandosi al pieno rispetto di tale
principio nei loro rapporti e alla reciproca collaborazione per la promozione dell'uomo e il
bene del Paese».
Tradotta in linguaggio corrente, questa frase significa che ciascuno dei contraenti s'impegna a
non interferire negli affari dell'altro. So che non è sempre facile tracciare una frontiera tra gli
affari dello Stato e quelli della Chiesa in un Paese dove politica e religione sono purtroppo
strettamente intrecciati sin dalla fine dell'Impero romano. Ma vi sono circostanze in cui la
violazione del principio è evidente.
Mussolini non fu «concordatario», ad esempio, quando dichiarò guerra all'Azione cattolica e
cercò d'impedire che la Chiesa aspirasse alla formazione della gioventù italiana.
La Chiesa non fu concordataria quando la Segreteria di Stato partecipò alla redazione della
Costituzione rivedendo e discutendo i progetti dei singoli articoli che alcuni deputati della
Democrazia cristiana sottoponevano alla sua attenzione. E non fu concordataria quando il
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cardinale Ruini, allora presidente della Conferenza episcopale italiana, esortò gli italiani ad
astenersi dal voto nei referendum sulla procreazione assistita.
Un caso particolare è quelle delle pubbliche dichiarazioni del cardinale Angelo Bagnasco,
successore di Ruini alla presidenza della Cei. I suoi interventi sono spesso stati interpretati
come un indice della maggiore o minore simpatia della Chiesa per il governo Berlusconi.
Questo non sarebbe accaduto se la Chiesa non si fosse comportata, in alcune particolari
questioni, come una lobby. Quando una istituzione spirituale chiede al governo di legiferare o
non legiferare su specifici problemi come la procreazione assistita, la ricerca sulle cellule
staminali o il testamento biologico, che cosa può promettere in cambio se non voti e
consenso?
Questo rapporto nuoce allo Stato, nuoce alla Chiesa e non è concordatario. Se davvero tiene
al Concordato, la Chiesa dovrebbe rispettare anzitutto il suo primo articolo.
2310 - APPELLO DI MICROMEGA: ANCHE LA CHIESA PAGHI L’ICI
La rivista Micromega ha lanciato un appello pubblico al Presidente Monti affinché anche la
Chiesa partecipi ai sacrifici imposti a tutti gli italiani pagando l'ICI sugli immobili di sua
proprietà non destinati ad uso religioso e di culto (http://temi.repubblica.it/micromegaappello/?action=vediappello&idappello=391231). Si riporta qui sotto il testo dell'appello ed il
messaggio inviato dal sottoscritto sotto la sua firma. Giampietro Sestini
APPELLO DI MICROMEGA
Presidente Monti,
Lei ha appena presentato una manovra "lacrime e sangue" in cui si chiedono pesanti sacrifici
ai cittadini, tra le misure previste anche la reintroduzione dell'Ici (in futuro Imu). Eppure i
privilegi della Casta e della Chiesa non vengono intaccati: rimane in vigore quella legge
simoniaca approvata dal governo Berlusconi per cui il Vaticano è esente dal pagamento
dell'Ici.
Per questo chiediamo al suo governo, affinché vengano mantenute quelle promesse di equità
nella manovra, di abolire questo ignobile privilegio.
MESSAGGIO n. 7354 di Giampietro Sestini
Se dobbiamo risanare il bilancio dello Stato italiano per non uscire dall'Europa o peggio
affondarla, prima di colpire indiscriminatamente tutti i cittadini lavoratori e pensionati
attraverso l'aumento dell'IVA e della benzina e la mancata indicizzazione delle pensioni, il
Governo (e il Parlamento) comincino a tagliare le esenzioni fiscali immotivate (es: ICI su
immobili commerciali della Chiesa), abolire i privilegi odiosi (es: distribuire alle varie Chiese,
non solo a quella cattolica, l'8x1.000 dell'Irpef anche di coloro che non effettuano alcuna
scelta), ridurre gli eccessi di spesa pubblica (es: n° Comuni e province, n° parlamentari e
consiglieri comunali, provinciali e regionali nonché i loro compensi eccedenti la media
europea, vitalizi immeritati, servizi gratuiti, ecc.), perseguire anche penalmente chi froda lo
Stato ed i cittadini onesti tramite l'evasione fiscale, far pagare di più chi dispone del superfluo.
2311 – GIA’ CENTOMILA FIRME CONTRO LA CHIESA ICI/ESENTE - DI P. F. D'ARCAIS
da: www.micromega.net di venerdì 9 dicembre 2011
Centomila firme in 48 ore! E’ un vero e proprio tsunami laico e democratico, quello scatenato
dall’appello di MicroMega con cui si esige dal governo Monti che faccia pagare l’Ici anche alla
Chiesa. Una cifra così impressionante mi sembra (ma forse ricordo male) non sia stata
raggiunta in così poco tempo neppure da appelli lanciati da siti che hanno ogni giorno milioni
di visitatori.
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Evidentemente questo successo nazional-popolare indica che nel paese è ormai larghissima
l’indignazione per i privilegi smisurati e tabù di cui gode tutto ciò che è protetto dalla
Conferenza Episcopale Italiana. Forse si tratta anzi del convergere di due motivi di
indignazione: la cinica immoralità di una Chiesa che stando ai suoi testi sacri dovrebbe
essere dalla parte dei poveri (è più facile che un cammello...) e invece continua a non pagare
le tasse, mentre vengono chiesti sacrifici a pensionati che non arrivano alla fine del mese, e
la stanchezza che sta virando in rivolta per l’opprimente presenza della volontà clericale in
ogni circostanza della vita pubblica, materiale e spirituale, malgrado uno Stato democratico
sia tale solo se libero dall’influenza di qualsivoglia Chiesa (lo sapeva già il liberale
conservatore Cavour, e in tempi di 150° anniversario varrebbe la pena applicare il suo “libera
Chiesa in libero Stato”).
Credo che ogni lettore e navigatore possa perciò dare un contributo formidabile a questo vero
e proprio movimento che sta dilagando sul web. Non limitandosi a firmarlo, ma facendo
circolare con tutti i mezzi di comunicazione alla portata di ciascuno: facebook, sms, indirizzari
e-mail, interventi nei microfoni aperti di trasmissioni radio, messaggi nei blog di trasmissioni
televisive...
Il successo dell’appello sta provocando le prime crepe anche nell’establishment cattolico,
qualcuno anche parecchio “in alto” si sta domandando se non sia meglio rinunciare a qualche
privilegio anziché pagare lo scotto di una ostilità crescente fra gli stessi credenti. La tua
partecipazione attiva a questo movimento potrebbe essere decisiva per costringere il governo
Monti a cambiare, almeno sul punto Ici/Chiesa, le sue pessime decisioni.
Per firmare vai a: bit.ly/ici-chiesa
2312 - CHIESA E ICI, UNA QUESTIONE MORALE - DI BARBARA SPINELLI
da: Micromega di giovedì 8 dicembre 2011
È scandaloso che la Chiesa italiana chieda più equità nella manovra, e non sia sfiorata dal
dubbio che anche lei debba contribuire ai sacrifici chiesti agli italiani, pagando come ciascuno
l’Ici sugli immobili. Non dovrebbe neppure aspettare che il governo discuta la questione.
Dovrebbe anticipare le mosse dell’esecutivo ed esigere – qui, subito – di essere tassata come
lo sono tutti, di contribuire al risanamento italiano con una parte delle proprie ricchezze. Se
non lo fa, non potrà esser chiamata Chiesa della povertà, Chiesa che assiste gli ultimi, i
derelitti. Confermerà di essere una lobby come le altre, e anzi più potente delle altre: perché
più ascoltata, perché – anche quando tace, proprio perché tace – più rumorosa.
Da quando la crisi si è acuita, molti personaggi facoltosi – in Italia, Usa, Francia – hanno
chiesto di essere tassati di più, ritenendo di godere di privilegi non meritati e di dover alleviare
le sofferenze dei concittadini. Non si sono sentite richieste simili dalle massime autorità
ecclesiastiche, che di privilegi ne hanno molti e che in Italia influiscono sulle scelte politiche
dei governi con un’insistenza e un’efficacia del tutto inusuali in altri paesi d’occidente. Così
facendo, la Chiesa italiana conferma ancora una volta che il Samaritano straniero ha più
compassione dei sacerdoti e leviti, che passano accanto al perseguitato e al ferito cambiando
marciapiede.
Quanto al governo Monti, una cosa è chiara: tra le prove che aveva di fronte a sé ce n’era
una essenziale, ed era quella della laicità. L’ha mancata, esonerando la Chiesa da una
tassazione che è giusta solo se coinvolge in prima linea i più ricchi, più potenti e più
organizzati. Anche pagare le tasse su immobili che la Chiesa usa a fini commerciali è una
questione morale. È un brutto inizio, dal quale ci si possono attendere i peggiori compromessi
su altri temi etici – testamento biologico in primis – che solo per una minoranza di italiani
prefigurano valori non negoziabili.
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2313 - NOI SIAMO CHIESA: BASTA BARRICATE SULL'ICI – DI GIAMPAOLO PETRUCCI
da: Adista notizie n. 95 del 19 dicembre 2011
«La Chiesa decida unilateralmente di pagare l’Ici su ogni attività commerciale e sconfessi
l’arrogante editoriale del direttore dell’Avvenire». È l’appello lanciato dal movimento Noi
Siamo Chiesa, lo scorso 9 dicembre, per bocca del portavoce nazionale, Vittorio Bellavite,
indignato per la decisione del quotidiano dei vescovi di pubblicare, per due giorni consecutivi
«in modo provocatorio», lo stesso editoriale, in prima pagina, firmato da Marco Tarquino. Il 7
e l’8 dicembre scorsi, il direttore di Avvenire difendeva a spada tratta l’esenzione dell’Ici: le
attività commerciali riconducibili alla Chiesa – argomentava – pagano l’Ici come tutte le attività
commerciali del Paese. Non la pagano, invece, gli enti che operano come una onlus, a livello
sociale, religioso e culturale. «Chi dice il contrario, mente sapendo di mentire», con una
«campagna di mistificazione» creata ad hoc per «colpire e sfregiare un doppio bersaglio: la
Chiesa e l’intero mondo del non profit». «Vorrebbero riuscire a tassare anche la solidarietà»,
incalzava Tarquinio, «e vogliono farlo nel momento in cui la crisi fa più male ai poveri». «Sono
militanti del Partito radicale e politicanti male ispirati e peggio intenzionati», è l’accusa finale.
Bellavite si dichiara speranzoso per le parole di apertura pronunciate a sorpresa la scorsa
settimana dal presidente della Cei, card. Angelo Bagnasco («In linea di principio, la normativa
vigente è giusta, in quanto riconosce il valore sociale delle attività svolte da una pluralità di
enti no profit e, fra questi, degli enti ecclesiastici. Questo è il motivo che giustifica e al tempo
stesso delimita la previsione di una norma di esenzione» ma «è altrettanto giusto se vi sono
dei casi concreti nei quali un tributo dovuto non è stato pagato, che l’abuso sia accertato e
abbia fine. In quest’ottica non vi sono da parte nostra preclusioni pregiudiziali circa eventuali
approfondimenti volti a valutare la chiarezza delle formule normative vigenti, con riferimento a
tutto il mondo dei soggetti non profit»), ma raccoglie comunque la sfida di Avvenire.
Esiste una «legislazione sostanzialmente bipartisan», si legge nel comunicato, che permette
a «tante attività commerciali gestite da enti ecclesiastici di non pagare l’Ici quando esse siano
collegate ad iniziative ecclesiali, caritative, di culto o altro». A pagare l’imposta, precisa di
seguito, sono solo le «attività “esclusivamente” commerciali». Ed è proprio su questo punto
che si consumano fraintendimenti e raggiri della norma, con un danno «pesante dal punto di
vista del mancato gettito fiscale».
Lo dimostrano, spiega Bellavite, i contenziosi aperti da molti Comuni colpiti dal mancato
introito e anche la «controversia in sede europea dove si obietta che questa esenzione
rappresenterebbe un aiuto di Stato in deroga alle norme sulla libera concorrenza».
In pieno dibattito sulla manovra “lacrime e sangue” del governo Monti, da più parti è stata
avanzata la richiesta di colpire – oltre ai pensionati e ai ceti meno abbienti del Paese – anche
quei privilegi che in Italia ritengono di poter uscire illesi dalla crisi. Tra cui l’esenzione Ici di
molto patrimonio immobiliare ecclesiastico. Con questo timore, scrive Bellavite, Avvenire «fa
le barricate», proponendo «un testo tanto arrogante» che «non fa i conti con la realtà, anzi,
che la nega sfacciatamente. Tanta acrimonia mi sembra una manifestazione di debolezza
oppure della consapevolezza che, con lo scontro frontale, si otterrebbe il risultato di
mantenere lo status quo (e quindi il privilegio) grazie anche alla nuova situazione politica e
alla scarsità di “cattolici adulti” in Parlamento».
Il movimento non intende certo far pagare le attività “realmente” impegnate nel sociale e nelle
attività di culto, prosegue Bellavite: chiede solo alla Chiesa «maggiore sobrietà e che inizi a
rinunciare a qualcosa del molto che riceve in Italia dalle istituzioni per favorire una maggiore
disponibilità ad ascoltare il proprio vero messaggio, quello del Vangelo, presso un’area di
opinione infastidita (o disgustata) dall’incalzare di queste pretese clericali».
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Ma il nodo è anche un altro: «Nel mondo cattolico si deve mettere in moto un movimento di
base che, ispirandosi al Concilio, convinca e costringa le strutture ecclesiastiche a
smantellare le barricate e a dimostrare concretamente, anche a partire da questa questione
dell’Ici, di essere anch’esse partecipi delle difficoltà e dei sacrifici che incontrano in questi
tempi tanti del nostro popolo».
2314 - NEL NOME DEI FIGLI - DI GUSTAVO ZAGREBELSKY
da: la Repubblica di venerdì 2 dicembre 2012
Il costituzionalismo si trova oggi di fronte alla sfida, che è una vitale necessità, di allargare lo
sguardo in una nuova dimensione, finora ignorata: il tempo. Per introdurre questo argomento
con una digressione, prendo a prestito dal volume dell´archeologo-antropologo Jared
Diamond, intitolato Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere (Einaudi), la storia
di Pasqua, l´isola polinesiana a 3700 chilometri a est delle coste del Cile, scoperta dagli
europei nel 1722, celebre per i 397 megaliti.
Pasqua, quando gli esseri umani vi posero piede alla fine del primo millennio, era una terra
fiorente, coperta di foreste, ricca di cibo dalla terra, dal mare e dall´aria, che arrivò a ospitare
diverse migliaia di persone, divise in dodici clan che convivevano pacificamente. Quando vi
giunsero i primi navigatori europei, trovarono una terra desolata, come ancora oggi ci appare:
completamente deforestata, dal terreno disastrato e infecondo, dove sopravvivevano a stento
poche centinaia di persone.
L´enigma di Pasqua, per com´è stato sciolto dagli studiosi, è un grandioso e minaccioso
apologo su come le società possono distruggere da sé il proprio futuro per gigantismo e
imprevidenza. La causa prima del collasso sarebbe stata la deforestazione, cioè la
dissipazione della principale risorsa naturale su cui la vita nell´lsola si basava. Pasqua è un
monito. Non parla soltanto di polinesiani d´un millennio fa. Parla di noi: di sfruttamento
imprevidente delle risorse, con effetti funesti sulle generazioni a venire.
Come possiamo condensare in una sola frase la parabola di Pasqua? Per soddisfare appetiti
di oggi, non si è fatto caso alle necessità di domani. Ogni generazione s´è comportata come
se fosse l´ultima, trattando le risorse di cui disponeva come sue proprietà esclusive, di cui
usare e abusare.
Il costituzionalismo può ignorare questioni di questo genere? Se il suo nucleo minimo
essenziale e la sua ragion d´essere sono – secondo la sintesi di Ronald Dworkin – la
protezione del diritto di tutti all´uguale rispetto, la risposta, risolutamente, è no, non può
ignorarle. Fino al tempo nostro non c´era ragione di affrontarle. Ogni generazione compariva
sulla scena della storia in un ambiente naturale e umano che, se pure non era stato migliorato
dai padri, certamente non ne era stato compromesso. Il costituzionalismo non ha avuto finora
ragioni per occuparsi delle prevaricazioni intergenerazionali. Ma molte ragioni ha oggi, e
drammatiche.
Per quale ragione la cerchia de "i tutti" che hanno il diritto all´uguale rispetto dovrebbe essere
limitata ai viventi e non comprendere anche i nascituri? Basta porre la domanda per
rispondere che non c´è alcuna ragione: gli uomini di oggi e di domani hanno lo stesso diritto
all´uguale rispetto, perché uguale è la loro dignità.
Ma oggi assistiamo alla separazione nel tempo dei benefici – anticipati – rispetto ai costi –
posticipati –: la felicità, il benessere, la potenza delle generazioni attuali al prezzo
dell´infelicità, del malessere, dell´impotenza, perfino dell´estinzione o dell´impossibilità di
venire al mondo, di quelle future. La rottura della contestualità temporale segna una svolta
che non può lasciare indifferenti la morale e il diritto.
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In termini giuridici, la questione che si pone al costituzionalismo è la seguente: fin dall´inizio
(ricordiamo l´art. 16 della Déclaration dei diritti del 1789), la sua nozione chiave è stata il
diritto soggettivo, da contrapporre in vario modo al potere arbitrario.
Ma il diritto soggettivo presuppone un titolare presente. "Diritti delle generazioni future" è una
di quelle espressioni improprie che usiamo per nascondere la verità: le generazioni future,
proprio perché future, non hanno alcun diritto da vantare nei confronti delle generazioni
precedenti. Tutto il male che può essere loro inferto, perfino la privazione delle condizioni
minime vitali, non è affatto violazione di un qualche loro "diritto" in senso giuridico. Quando
incominceranno a esistere, i loro predecessori, a loro volta, saranno scomparsi dalla faccia
della terra, e non potranno essere portati in giudizio. I successori potranno provare
riconoscenza o risentimento, ma in ogni caso avranno da compiacersi o da dolersi di meri e
irreparabili "fatti compiuti".
Bisogna prendere atto che la categoria del diritto soggettivo, in tutte le sue varianti di
significato (diritti di, da, negativi, positivi, di prestazione, ecc.), è inutilizzabile tutte le volte in
cui è rotta l´unità di tempo. È invece la categoria del dovere, quella che può aiutare. Le
generazioni successive non hanno diritti da vantare nei confronti di quelle precedenti, ma
queste hanno dei doveri nei confronti di quelle; esattamente la condizione della madre, nei
confronti del bambino quando lo porta ancora in grembo. Il costituzionalismo dei diritti, senza
rinunciare alla sua aspirazione centrale di essere al servizio della resistenza all´arbitrio, deve
scoprire i doveri, non semplicemente in quanto riflessi, cioè in quanto controparte dei diritti,
ma come posizioni giuridiche autonome che vivono di vita propria, senza presupporre
l´esistenza (attuale) delle corrispondenti situazioni di vantaggio e dei relativi titolari.
Dobbiamo riconoscere che questo mutamento di paradigma vede il costituzionalismo
completamente impreparato, anzi ostile. In nome dei diritti, non dei doveri, da due secoli
conduce la sua battaglia. I doveri sono stati e sono tuttora la parola d´ordine dei regimi
autoritari e di quelli totalitari. Si tratta però di costruire una mentalità, una cultura, e da ciò
trarre spunto per comportamenti adeguati, anche senza che si debbano attendere
proclamazioni giuridiche formali.
Innanzitutto, le norme che riconoscono diritti e facoltà dovrebbero essere interpretate, tutte le
volte in cui siano alle viste conseguenze potenzialmente pregiudizievoli sulla condizione di
coloro che verranno, in una prospettiva oggettiva, in base alla massima: la terra appartiene
tanto ai viventi quanto ai non ancora viventi; i diritti dei primi sono condizionati dall´uguale
valenza anche per i secondi. Il che – non si può non riconoscere – comporta possibili
restrizioni ai diritti in senso soggettivo.
I diritti, nei casi anzidetti, devono essere intesi come beni o istituzioni di lungo periodo. Per
estenderli nel tempo futuro, può essere necessario ridurne la portata nel tempo presente.
Conosciamo già situazioni di questo genere, nelle quali entra in gioco il cosiddetto "principio
di precauzione", vigente, in forza di norme di diritto nazionale, europeo e internazionale, per
esempio in materia ambientale, energetica e sanitaria. Qui, parlando di costituzionalismo, si
dice che quel principio dovrebbe essere assunto come elemento conformativo dell´intero
modo di concepire il diritto costituzionale. Il diritto costituzionale di oggi deve essere un "diritto
prognostico", che guarda avanti, fin dove, nel tempo, le previsioni scientifiche permettono di
gettare lo sguardo.
Ma c´è dell´altro. Il giudizio prognostico non è un giudizio politico; è un giudizio tecnicoscientifico. Ora, a parte la difficoltà forse insuperabile di individuare scienziati e tecnici
realmente indipendenti dagli interessi immediati da sottoporre a verifica, la prospettiva che si
apre è la tutela tecnocratica sulla politica. Orbene, la politica, nella sua versione democratica
come nelle sue degenerazioni populiste e demagogiche, s´incarna in istituzioni dei (non: dai)
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tempi brevi. Le decisioni devono essere in sintonia con l´interesse prevalente che la società,
come più o meno autonomamente e veridicamente se lo rappresenta, ed è a dir poco
improbabile che, nella considerazione di tale interesse, entrino con il peso che meriterebbero
ansie e preoccupazioni per la sorte di società diverse, ipotetiche, lontane nel tempo. A questo
interesse momentaneo, infatti, la politica deve rendere conto.
Fermiamoci qui. Siamo nel regno delle contraddizioni. Il costituzionalismo, nel quadro di
allora, era il mondo dei diritti, ma ora il mondo ha bisogno di doveri. Il costituzionalismo ha
prodotto democrazia, ma oggi la democrazia mostra di poter essere une regime di
saccheggio delle risorse, per i viventi contro i posteri. Per questo, si ricorre a momenti ed
elementi di natura scientifico-tecnocratica, ma la ragione del saccheggio sta precisamente
nello sviluppo della tecnica senza altro fine che se stessa. Quindi, la tecnica, per essere
benefica, dovrebbe poter essere a sua volta controllata. Ma da chi? Dalla democrazia, che è
proprio colei che ha ne ha bisogno?
Doveri e tecnocrazia fanno paura, non c´è che dire. Ma sono necessari proprio alla luce delle
premesse e delle promesse del costituzionalismo, una volta che non lo si intenda come mero
egoismo dei viventi. Le contraddizioni sono intrinseche. Saranno distruttive? Non lo
sappiamo. Quel che sappiamo è che esse chiamano a un compito non facile, su un terreno
incerto dove molto è da pensare e costruire, tutti coloro i quali, nello studio e nella pratica,
richiamandosi
ai
valori
permanenti
del
costituzionalismo,
intendono
agire
"costituzionalisticamente". Il costituzionalismo ha avuto una storia. La questione è se avrà
una storia. L´avrà in quanto riuscirà a incorporare nella democrazia, senza annullarla o
umiliarla, la dimensione scientifica delle decisioni politiche. Questa, mi pare, è l´ultima sfida
del costituzionalismo, l´ultima sua metamorfosi.
2315 - ABOLIAMO L’OBIEZIONE DI COSCIENZA - DI STEFANO RODOTA’
Intervista di Cinzia Sciuto – da: la Repubblica D di sabato 3 dicembre 2011
«Oggi, a più di trent’anni dall’approvazione della legge sull’interruzione di gravidanza, la
possibilità dell’obiezione di coscienza dei medici andrebbe semplicemente abolita». Non usa
mezzi termini Stefano Rodotà, professore emerito di Diritto civile all’Università La Sapienza di
Roma ed ex presidente dell’Autorità garante per la protezione dei dati personali.
Professore, ma si può obbligare un medico ad agire contro la propria coscienza?
«Quando la legge è stata approvata la clausola dell’obiezione di coscienza era ragionevole e
giustificata: i medici avevano iniziato la loro carriera quando l’aborto era addirittura un reato
ed era comprensibile che alcuni di loro opponessero ragioni di coscienza. La legge 194 ha
saggiamente raggiunto un difficile equilibrio tra il diritto dei medici a non agire contro la
propria coscienza e quello della donna a interrompere la gravidanza. Oggi però chi decide di
fare il ginecologo sa che l’interruzione di gravidanza è un diritto sancito dalla legge, che
rientra nei suoi obblighi professionali e non è più ragionevole prevedere una clausola per
sottrarvisi».
Ma ritiene che una tale modifica sia concretamente fattibile?
«Temo di no, in questi anni abbiamo assistito a una generale stigmatizzazione delle donne
che abortiscono e si sono fatti tentativi legislativi – penso alla proposta di legge regionale del
Lazio di modifica dei consultori – che vanno nella direzione opposta. Ma per garantire il diritto
delle donne all’interruzione di gravidanza, non è necessario cambiare la legge, basta
applicarla».
In che senso?
«Già oggi gli ospedali non possono trincerarsi dietro la scusa di non avere medici disponibili a
effettuare le interruzioni di gravidanza perché questo è un servizio che deve
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obbligatoriamente essere fornito, come previsto dall’articolo 9 della legge 194, e le strutture
che non lo garantiscono possono essere considerate responsabili sotto il profilo civile e
penale».
Può essere sufficiente ricorrere a non obiettori ‘a gettone’, come già fanno alcuni ospedali?
«Ritengo di no, per due ragioni: innanzitutto perché per gli aborti terapeutici è necessario
avere personale strutturato e in secondo luogo perché non devono crearsi medici di serie A
che fanno tutto il resto e medici di serie B che fanno solo aborti, con il rischio di una
dequalificazione professionale. Gli ospedali possono, e devono, invece fare dei bandi per
l’assunzione di personale strutturato non obiettore».
Ma non si configurerebbe come un trattamento discriminatorio nei confronti degli obiettori?
«No, perché si tratterebbe di adempiere a un obbligo normativo a cui gli ospedali non
possono sottrarsi. E si tratta di un obbligo della massima importanza. In questione infatti non
c’è solo il diritto all’interruzione di gravidanza, ma il diritto alla salute della donna, che è un
diritto fondamentale della persona e che non è mera assenza di malattia, ma benessere
fisico, psichico e sociale. Se una donna che ha deciso di interrompere la gravidanza vive
questa scelta in condizioni di malessere e di angoscia perché non sa se, quando e in che
condizioni riuscirà a interromperla, c’è una evidente violazione del suo diritto alla salute, che è
un diritto fondamentale della persona che non può essere subordinato a esigenze
burocratiche o a mancanza di personale».
Un diritto che in Italia è sempre più difficile vedere rispettato, tanto che sono sempre di più le
donne che vanno all’estero.
«I due grandi obiettivi della 194 erano l’eliminazione degli aborti clandestini e il contrasto al
fenomeno del turismo abortivo, che creava una sorta di ‘cittadinanza censitaria’, per cui le
donne che avevano i soldi salivano su su charter, andavano ad Amsterdam o a Londra e
facevano l’interruzione di gravidanza senza correre il rischio di morire. Oggi purtroppo si
stanno ricostruendo i meccanismi censitari e selettivi che con la 194 si volevano combattere».
2316 - ABORTIRE TRA GLI OBIETTORI - DI CINZIA SCIUTO
da: la Repubblica D di sabato 3 dicembre 2011
È l’alba, le prime luci del nuovo giorno iniziano a penetrare nella stanza dove Francesca nel
suo letto piange in silenzio. Tra poco inizierà la procedura per l’induzione di un travaglio
simile a quello di un parto. Ma Francesca non deve partorire, deve abortire. La nuova vita che
porta in grembo da 23 settimane è affetta da una gravissima malformazione del cervello, la
oloprosencefalia. Francesca Pieri, che all’epoca aveva 35 anni, è ricoverata già da due giorni
in un grande ospedale romano ma non ha ancora iniziato la procedura di induzione, che
consiste nell’introduzione nell’utero di ‘candelette’ di prostaglandina per stimolare le
contrazioni del travaglio. Fino alla 12ma settimana l’interruzione di gravidanza avviene tramite
raschiamento, ma dopo il feto è troppo grande ed è necessario un vero e proprio travaglio di
parto.
«Il giorno del ricovero», racconta, «è servito per il disbrigo di tutte le pratiche burocratiche. Il
secondo invece non ho fatto niente, ho semplicemente aspettato». Quel giorno infatti erano di
turno solo medici obiettori, che si sono rifiutati di avviare la procedura di induzione. Francesca
quindi ha trascorso tutto il giorno in mezzo a donne in travaglio, bambini appena nati, nonni
euforici, fiori e regali, in attesa del medico non obiettore che le introducesse la prima
candeletta. Era da sola, con quella vita sospesa in pancia e un profondo dolore nel cuore.
Non le rimaneva altro che piangere, in silenzio. Ma anche il pianto le è stato negato:
«Signora, cosa piange? Si prepari, questo sarà il giorno più lungo della sua vita». La voce è
arrivata dal corridoio, proprio alle prime luci dell’alba. È l’ora del cambio turno, finalmente sta
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per arrivare un medico non obiettore ma il suo collega prima di andarsene ha voluto lasciare il
segno. Sono passati molti anni, ma quelle parole fredde come il ghiaccio Francesca ce le ha
scolpite nella testa, e non le dimenticherà mai.
E lei è stata persino «fortunata»: una volta che ha iniziato la procedura di induzione, che è
durata in totale un giorno e mezzo, non ha più incontrato medici obiettori.
Al contrario di Gea Ferraro, che al quarto mese di gravidanza scopre che il suo bambino è
affetto da trisomia 18, una patologia talmente grave da essere definita dai medici
‘incompatibile’ con la vita. Gea, che quel figlio l’aveva tanto desiderato, decide di interrompere
la gravidanza. Contatta personalmente una ginecologa non obiettrice che lavora in un altro
ospedale della capitale (e che preferisce non essere citata: «Facciamo già tanta fatica a
lavorare, non voglio crearmi ulteriori inimicizie tra i colleghi»). La dottoressa programma il
ricovero in maniera da farlo coincidere con il proprio turno. L’induzione viene avviata, ogni 3
ore viene inserita una candeletta, ma nel frattempo c’è il cambio turno, Gea guarda l’orologio,
si accorge che sono passate più di 3 ore dall’ultima somministrazione e chiede perché non le
venga inserita la terza candeletta visto che il travaglio non si è ancora avviato: «Io queste
cose non le faccio», si è sentita rispondere. Gea ha quindi aspettato, non ricorda neanche
quanto, finché qualcuno è venuto a somministrarle la terza dose del farmaco. Il suo travaglio
è durato 18 ore.
Quello dell’aborto sta diventando sempre più un percorso a ostacoli, nel quale le donne – già
provate da una delle scelte più dolorose della loro vita – devono fare lo slalom tra ostacoli
burocratici e medici obiettori. Obiettori che aumentano sempre di più: secondo i dati forniti dal
ministero della Salute si è passati, tra i ginecologi, dal 58.7% del 2005 al 70.7 nel 2009. Ma il
numero di medici realmente preposti alle interruzioni di gravidanza, soprattutto agli aborti
terapeutici, è ancora più basso di quel che sembra: «Gli aborti entro la dodicesima
settimana», spiega Silvana Agatone, presidente della Laiga, un’associazione che riunisce i
ginecologi in difesa della 194, «sono fatti in day hospital, si tratta di interventi programmati, la
cui durata è nota e per i quali è possibile chiamare medici ‘a gettone’». Cosa che invece non
è possibile per gli aborti terapeutici, quelli oltre i 3 mesi, che, come abbiamo visto, possono
essere anche molto lunghi e dunque hanno bisogno di essere seguiti da personale
strutturato.
«Poiché non esiste un elenco dei medici non obiettori», continua la dott.sa Agatone,
«abbiamo fatto una indagine empirica, dalla quale risulta che i ginecologi non obiettori
strutturati dentro gli ospedali italiani sono circa 150 e, poiché i giovani non sembrano
particolarmente sensibili a questo problema, c’è il rischio concreto che man mano che gli
attuali medici non obiettori vanno in pensione non vengano sostituiti». Al Secondo Policlinico
di Napoli, per esempio, dallo scorso luglio a effettuare gli aborti è rimasto solo un medico, che
è anche il responsabile del Centro per le interruzioni di gravidanza dell’ospedale.
Strano destino quello dell’obiezione di coscienza, che, come scrive Chiara Lalli nel suo
recente libro C’è chi dice no (Il Saggiatore), «ha subìto negli ultimi anni un vero e proprio
stravolgimento e oggi è spesso usata come un ariete per contrapporsi ai diritti individuali
sanciti dalla legge».
L’obiezione di coscienza nasce infatti per opporsi a un obbligo universale che riguardava tutti
i cittadini (maschi) e a cui non era possibile sottrarsi: l’obbligo di leva. Chi sollevava
l’obiezione di coscienza andava incontro a pesanti conseguenze, persino penali, come
raccontano alcuni obiettori della prima ora nel libro di Lalli.
Il moderno obiettore, invece, non solo non paga nessuno scotto per la sua scelta, ma, al
contrario, ne ottiene indubbi vantaggi, sia in termini di soddisfazione professionale che di
carriera. È per questo che il numero degli obiettori è vertiginosamente salito negli ultimi anni:
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fare aborti non è certamente gratificante e l’obiezione di coscienza – fatti salvi coloro che la
sollevano per convinzione – è un’ottima scappatoia offerta dalla legge per sottrarsi a una
parte sgradevole del proprio lavoro. Una legge che però è molto chiara: l’obiezione di
coscienza può essere sollevata esclusivamente in relazione al «compimento delle procedure
e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l'interruzione della
gravidanza».
Non può essere legittimamente sollevata, per esempio, per rifiutarsi di somministrare un
analgesico durante il travaglio abortivo oppure di fare il raschiamento dopo l’espulsione del
feto, ad aborto già avvenuto, o ancora di certificare lo stato psicologico della donna. Sono
invece tante le testimonianze che le donne affidano soprattutto ai forum in rete e che
raccontano di travagli durati molte ore, se non giorni, senza il minimo sostegno farmacologico
né psicologico.
Donne che portano avanti il travaglio abortivo in stanza, affianco ad altre: Francesca ricorda
che la ragazza che era in stanza con lei ha espulso il feto sul suo letto, lì affianco, da sola,
mentre lei iniziava ad avere le prime contrazioni. Un’altra donna racconta su un forum: «Mi
hanno indotto il parto per 12 ore per poi essere lasciata sola al momento dell’espulsione del
feto. Mi hanno lasciato la mia bambina in mezzo alle gambe e in mezzo al sangue per 4 ore e
nessuno si è degnato di venire a vedermi».
Anche Laura Lauro, napoletana, che ha abortito alla 21ma settimana, ricorda che al momento
dell’espulsione è stata lasciata sola: «Ho espulso un feto vitale, nessuno si è preoccupato di
tagliare subito il cordone e portarlo via. Quando l’ho sentito che mi sfiorava le cosce ho urlato
perché lo portassero via subito».
Tutto questo però ha solo in parte a che fare con l’obiezione di coscienza. Se infatti il singolo
medico può rifiutarsi di praticare l’aborto, la struttura sanitaria è in ogni caso obbligata – è
sempre la 194 a stabilirlo – a garantire il servizio di interruzione di gravidanza e i
«procedimenti abortivi devono comunque essere attuati in modo da rispettare la dignità
personale della donna». Dignità che invece è troppo spesso calpestata.
Un’altra donna racconta su un forum il suo calvario: dopo essersi sottoposta a vari tentativi di
procreazione medicalmente assistita, rimane incinta di due gemelli. Alla ventesima settimana
perde uno dei due. Dopo una decina di giorni rifà l’ecografia: «Liquido amniotico inesistente,
arti inferiori oramai infilati nel canale», non c'è più niente da fare neanche per il secondo. Ma il
battito c’è ancora, chissà per quanto, e quindi per procedere all’aborto terapeutico c’è bisogno
del certificato dello psichiatra, ma quello in turno è obiettore e si rifiuta di firmarlo: «La sera un
medico con la coscienza e l’umanità che a qualcuno ancora rimane, prende la responsabilità
di togliermi dall’incubo, una pasticca, una sola basta per avere un altro travaglio».
Troppo spesso i dibattiti sull’aborto non fanno i conti con le esperienze concrete che le donne
vivono sulla propria pelle. Per Francesca – che oggi ha altri due bambini ma che si sente
pienamente madre anche di quella figlia mai nata – l’aborto è stato un discrimine nella sua
vita, un momento che ha segnato un prima e un dopo.
E non riesce proprio a capire l’accanimento dei sedicenti sostenitori della vita: «Come se io
fossi per la morte! La verità è che ogni esperienza è a sé. Io stessa, pur non essendo affatto
pentita della mia dolorosa scelta, non so dire cosa farei se mi dovessi trovare di nuovo nella
stessa situazione. So però che la sola idea di non poter decidere mi atterrisce. È per questo
che sarei disposta anche a incatenarmi perché sia garantita a ogni donna la possibilità di
scegliere».
2317 - UNIONI CIVILI: PER ROMA E’ IL PRIMO SI’ - DI MONICA SOLDANO
da: www.radio100passi.net di mercoledì 7 dicembre 2011
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Roma, 7 dicembre, in uno dei 20 municipi della Città, il Municipio XI, si è conclusa con un si,
la delibera che ha così istituito il registro delle unioni civili, proposta congiuntamente dal
Pd, Sel, Idv. Dodici i voti favorevoli, due gli astenuti, uno del Pd e uno dell'API, solo sette i voti
contrari. Dovrà essere così predisposto un regolamento che la renda esecutiva.
Lo annuncia in una nota Carla Di Veroli, assessore alle Politiche Culturali, Giovanili e Pari
Opportunità del Municipio Roma XI. Che ribadisce:''Con l'applicazione di una delibera come
questa intendiamo sollecitare un proposta di legge governativa che disciplini, riconoscendo
loro pari diritti, tutte le convivenze diverse dalla famiglia tradizionale".
La delibera giuridicamente, prende le mosse dalla Raccomandazione del Parlamento
Europeo del 16 marzo 2000, che ha posto l'attenzione sul rispetto dei diritti umani nei Paesi
dell'Unione Europea. L'auspicio della UE era quello di garantire alle famiglie monoparentali,
alle coppie non sposate e alle coppie dello stesso sesso, parità di diritti rispetto alle coppie e
alle famiglie tradizionali, in particolare in materia di legislazione fiscale, regime patrimoniale e
diritti sociali.
Ancora una volta, a Roma, il municipio XI, può vantare di aver portato al traguardo una
seconda delibera di importanza simbolica e sociale, la precedente era stata quella sul registro
per far assumere rilievo alle dichiarazioni di volontà sul fine vita, come ha ricordato in una
nota anche l'Assessore alle Politiche sociali del Municipio XI, Andrea Beccari (SEL).
Nei dintorni della Capitale, il comune di Ciampino si era già dotato di questa opportunità per i
cittadini. A Palermo, qualche settimana fa il registro delle coppie di fatto era stato approvato
con 19 sì, 3 no e 5 astensioni. Anche lì, la mozione era stata presentata da un fronte
trasversale e ha avuto come primi firmatari Fabrizio Ferrandelli, di Idv, Stefania Munafò,
consigliere del Pdl autosospesa, attualmente nel gruppo misto. Un segnale dei tempi che
fanno maturare la politica, ma ancora si tratta di atti amministrativi, che aiutano ad ampliare le
maglie, ma occorrono altre interconnessioni e non solo di rilievo simbolico.
A livello nazionale, invece, non si è più mosso nulla, mentre occorrerebbe rendere esplicite
una volta per tutte anche da una legge nazionale queste pari opportunità, nelle unioni ed il
libero accesso all'istituto del matrimonio (senza discriminare in base all' orientamento
sessuale) per evitare che singole coppie, siano costrette a far valere i loro diritti, ove non
riconosciuti, nei tribunali civili, caso per caso. Ricordiamo, infatti, che la giurisprudenza, in
Italia, ha già anticipato la politica ed ha fatto passi avanti anche in Corte Costituzionale,
quando con la sentenza 138 del 2010 si è negata la possibilità di far rientrare il matrimonio
omosessuale nella fattispecie prevista dagli articoli 29 e 30 della Costituzione, ma solo
perché si è sollecitato il Legislatore ad intervenire sulla questione con nuove norme specifiche
che lo esplicitino, pur riconoscendo il diritto al riconoscimento giuridico delle unioni civili
anche omosessuali.
Questo cosa significa? Dopo quella sentenza, ogni coppia omosessuale che si sentisse
discriminata in quanto coppia, potrebbe ottenere facilmente la sua ragione ricorrendo ad un
magistrato e proprio in forza della sentenza 138 della Consulta. L'auspicio è, tuttavia, che la
politica sappia parlare e tradurre in una legge nazionale questa presa di coscienza giuridica
già esplicita nell'ordinamento, per farne un atto pubblico che possa avere non solo una
valenza giuridica tra le parti, ma anche un valore civico, culturale e morale verso tutti.
Commento. Ricevuto dall’assessore Andrea Beccari la notizia della istituzione del registro
delle unioni civili al Municipio XI di Roma, LiberaUscita ha così risposto:
Caro Andrea, grazie per l'iniziativa e per le notizie: spero che la decisione dell'XI Municipio,
se adeguatamente pubblicizzata, rappresenti uno stimolo per i Comuni più "avanzati" a fare
altrettanto, così come avvenuto a suo tempo per il registro dei testamenti biologici del X
Municipio. Per diffondere ai ns. soci e simpatizzanti di tutta Italia una informativa adeguata ti
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chiedo di inviarci, se puoi, il testo della delibera consiliare, l'eventuale regolamento operativo,
le modalità per iscriversi al registro, i nomi dei consiglieri favorevoli, di quelli astenuti, di quelli
contrari e quanto ritieni opportuno. Suggerimento: si potrebbe utilizzare un unico registro "dei
diritti di cittadinanza" per le dichiarazioni su testamenti biologici, unioni civili, donazione
organi, cremazioni, funerali laici, ecc.?Cari saluti. Giampietro Sestini
2318 - ANCHE A NAPOLI IL REGISTRO DELLE UNIONI CIVILI - DI F. PORCELLATI (*)
Due delibere approvate a fine novembre dalla Giunta Comunale di Napoli avviano l'iter per
l'istituzione del Registro delle Unioni Civili per la nostra città.
«Con la prima delibera - spiega una nota - la Giunta de Magistris approva una proposta al
Consiglio Comunale per istituire il Registro dell'unione civile sulla base di un regolamento
approvato dall'organo esecutivo del Comune. Con la seconda delibera invece il Comune
istituisce nel proprio ambito territoriale un sistema finalizzato ad attestare, integrando con
propri modelli la modulistica anagrafica standard predisposta dall’Amministrazione Statale, la
sussistenza di “una famiglia anagrafica costituita da persone legate da vincoli affettivi”».
Secondo il sindaco, con le nuove delibere, «anche Napoli compie un passo significativo verso
il riconoscimento pieno dei diritti civili e per la piena attuazione della Costituzione».
La Giunta si sofferma sul senso del secondo provvedimento: «Sull'esempio dei Comuni di
Padova e Bologna questa delibera riprende il decreto attuativo del 1989 della legge
sull'anagrafe datata 1954 che nell'articolo 4 definisce la famiglia come "... un insieme di
persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli
affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune" e colma, in attesa che si
compia l'iter legislativo per l'istituzione del registro delle Unioni Civili, un vuoto di diritti per
tutte quelle coppie che vedono negato il loro riconoscimento ai fini amministrativi».
La Consulta Napoletana per la Laicità delle Istituzioni, cui LiberaUscita partecipa per il mio
tramite, ha inviato al Comune di Napoli la comunicazione che allego.
(*) Francesco Porcellati è il responsabile di LiberaUscita per la Campania
Comunicato stampa
La Consulta Napoletana per la Laicità delle Istituzioni esprime estrema soddisfazione per la
decisione dell’Amministrazione cittadina di avviare le procedure per l’istituzione di un Registro
delle Unioni civili. Si tratta di una conquista di civiltà per la quale da tempo la Consulta stessa
e tutto l’associazionismo laico si battevano.
In attesa ora del Registro dei Testamenti biologici, auspichiamo che questo provvedimento
possa spingere anche il Parlamento nazionale a legiferare in maniera conseguente,
recependo ciò che da tempo è già realtà in tantissimi comuni italiani.
Per la Consulta
Giancarlo Nobile (Coordinatore cittadino)
2319 - BORDON: CHI È IN PENSIONE COME ME DEVE ESSERE CHIAMATO A PAGARE
Intervista di g.c. - da: la Repubblica di domenica 11 dicembre 2011
ROMA - «Questa storia per cui non si può toccare il vitalizio dei parlamentari che sono già
andati in pensione è completamente sbagliata».
Willer Bordon, i diritti acquisiti si possono toccare?
«Non voglio indulgere in forme di esagerato populismo, però cosa vuol dire diritti acquisiti?
Tutti sono diritti acquisiti anche quello del pensionato con 946 euro al mese a cui si tocca la
pensione. In una situazione di guerra dei mercati come quella in cui ci troviamo, parlare di
diritti acquisiti fa sorridere».
Quindi, rinuncerebbe al vitalizio?
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«Sarei molto più tranquillo con la mia coscienza.
Lei si è dimesso da senatore nel gennaio del 2008
«Si, il giorno in cui compivo 59 anni. Penso che la politica sia un mestiere di alta
professionalità ma non può essere l’unico nella vita e il periodo in cui fai attività pubblica ti
dev'essere conteggiato nella pensione ora con il sistema contributivo. Lancio una
provocazione: facciamo una lega di chi vuole pagare più tasse, ad esempio 2 punti in più di
Irpef per i redditi alti».
Commento. In riferimento all'intervista di Repubblica all'ex senatore Willer Bordon dal titolo
"chi è in pensione come me deve essere chiamato a pagare" mi chiedo: lo slogan che i “diritti
acquisiti non si toccano” significa che anche i “privilegi acquisiti” non possono essere toccati?
Ha ragione quindi Bordon quando pone la domanda: “Cosa vuol dire diritti acquisiti?”.
La classe politica sinora ha preferito dribblare la questione, ma oggi, di fronte ad una
manovra economica di “lacrime e sangue”, è giunto il momento di affrontare l’argomento, se
si crede veramente nell’equità. In tema di pensioni, una soluzione equa sarebbe quella del
“Conto previdenziale personale”, recentemente sostenuta in un convegno da Giorgio
Benvenuto e Silvano Miniati e pubblicata su l’Avanti del 18 dicembre (vedi articolo di Miniati
sotto riportato). Si tratta in sostanza di realizzare il principio “Una persona, una pensione” da
calcolare TOTALIZZANDO tutti i contributi versati ai diversi fondi dal lavoratore e dal datore
di lavoro, compresi quelli figurativi, ed applicando un’unica normativa valida per tutti gli italiani
(ad esempio, quella obg dell’INPS). Il riparto tra i vari fondi dell’importo della pensione così
calcolata avverrebbe in proporzione all’ammontare delle contribuzioni versate a ciascun
fondo. In tal modo si farebbe piazza pulita dei privilegi contenuti nelle diverse normative
(comprese quelle di Camera e Senato) ma anche di alcune penalizzazioni ingiuste, come ad
esempio quella di non considerare utili a pensione i contributi versati alla gestione separata
INPS per i periodi inferiori ai tre anni di collaborazione coordinata e continuativa.
Contestualmente, poiché il livello della pensione sarà correlato al livello dei contributi versati e
quindi all’ammontare delle retribuzioni percepite, occorre che lo Stato intervenga per riportare
a livelli “equi” i compensi e le liquidazioni eccessive riconosciute ai propri dirigenti, manager,
amministratori, parlamentari ed eletti, anche perché il loro costo viene sostenuto da tutti i
cittadini tramite le imposte e le tasse.(Giampietro Sestini)
2320 - RIFORMA PREVIDENZA: NON TUTTO E’ DA BUTTARE - DI SILVANO MINIATI
da: l’Avanti! di domenica 18 dicembre 2011
La delicatezza della situazione politica ed economica impone a tutti noi l’obbligo di analizzare
ogni provvedimento del governo Monti con il massimo di saggezza e realismo, soprattutto
quando la parte migliore di un provvedimento rischia di essere oscurata dalle parti che non
sono invece condivisibili.
Per quanto riguarda le pensioni, abbiamo già detto quanto sia inaccettabile qualsiasi
provvedimento che intervenga per bloccare o rallentare un meccanismo di indicizzazione pur
imperfetto e dannoso per i pensionati. Si tratta di un meccanismo che, sommando i suoi effetti
a quelli delle addizionali e della mancata restituzione del fiscal drag, ha provocato in meno di
dieci anni la riduzione del valore reale di una pensione media di circa il 30%. Altrettanto
negativa appare la decisione di intervenire sull’età pensionabile, senza affrontare
contestualmente il problema dei lavori usuranti e dei disoccupati over 45, che non riescono a
ritrovare il lavoro.
Esiste, tuttavia, tra le proposte avanzate dalla ministro Fornero una proposta di grande rilievo
che, se attuata seriamente, potrà finalmente portare alla realizzazione di un sistema
previdenziale con regole davvero uguali per tutti. Decidere il passaggio al sistema contributivo
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per tutti, se lo si facesse realmente, rappresenterebbe una svolta davvero epocale,
sostanzialmente identica a quella che abbiamo proposto attraverso l’adozione del Conto
previdenziale personale.
Cerchiamo di riepilogare in modo sintetico perché sarebbe lecito parlare di svolta epocale.
Passare tutti al contributivo significa che, per ogni cittadino, giovane precario, parlamentare,
grande manager o generale che sia, valgono le stesse regole.
A ben vedere, la legge Dini conteneva questa scelta, che fu poi volutamente disattesa a
fronte delle prime reazioni negative. Oggi si ripresenta l’occasione e sia il governo che le
forze politiche e il sindacato non possono perdere di nuovo una occasione storica.
A nessuno sfugge il fatto che stabilire, da domani, regole uguali per tutti azzera una giungla di
privilegi, ma non interviene su quelli già goduti o in essere. Intervenire su questi ultimi non
sarà un percorso agevole.
Le prime avvisaglie in materia non sono affatto incoraggianti. Fini e Schifani, dopo aver
discusso con la ministro Fornero, avanzano una proposta per le pensioni dei deputati che
appare chiaramente inaccettabile. Che senso ha riproporre per i deputati e senatori età
diverse da quelle previste dalla legge? Se 65/67 anni rappresentano il limite fissato dalla
legge, questo deve valere per tutti. Sarebbe oltretutto incomprensibile una norma che
fissasse la pensione a 65 anni per chi ha fatto una sola legislatura e a 60 per chi ne ha fatte
più di una.
Il principio della assoluta parità nelle regole e nei trattamenti andrebbe invece valorizzato al
massimo, non perdendo l’occasione per dare una verniciata di equità ad un sistema che, per
il futuro, non avrebbe più bisogno di interventi traumatici.
In questa prospettiva, anche la scelta delle pensioni integrative previste nei contratti potrebbe
finalmente riprendere vigore, a condizione che lo Stato compia scelte chiare e incisive per
sostenerle.
2321 - IN ITALIA NON C’È POSTO PER LA CULTURA LIBERALE - DI F. ORLANDO
da: Europa di giovedì 15 dicembre 2011
Spett.le segreteria di redazione, è nostra consuetudine acquistare Europa ogni giovedì per
poter leggere l’articolo della rubrica Lib di Federico Orlando (se non ricordo male titolo e
autore), ma da qualche tempo non lo vediamo più. È cambiato il giorno di uscita, forse?
Grazie per la risposta, con i migliori saluti.
Natalia Coreggioli, Fondazione Libro Aperto - Ravenna
Risponde Federico Orlando
Gentile signorina, la segreteria mi passa la sua lettera e ne approfitto per risponderle
direttamente. Alcune settimane fa, si è deciso di aumentare da due a tre – quando possibile –
le pagine collegate cultura&spettacoli; di conseguenza è stata soppressa una pagina, la
Seven, che pubblicava tre rubriche giornaliere: stampa (Scripta manent), internet (Bloggeria)
e tv (La teledipendente). C’era poi una quarta rubrica settimanale riservata alle culture
politiche: martedì Lab (socialista), mercoledì Catto (cattolica), giovedì Lib (liberale), venerdì
She (femminile), sabato Green (verde).
Uno schema che rispondeva all’iniziale carattere pluralistico del Pd, la forza politica a cui
Europa fa riferimento. Mi rendo conto del disagio del lettore, abituato a trovare in un giorno
fisso della settimana, l’articolo che gli stava più a cuore. Ma, almeno per chi legge il giornale
ogni giorno, cerchiamo di recuperarne qualche contenuto negli articoli che ciascuno di noi
scrive in altre parti del giornale.
Spero così di aver risposto anche ad altre domande che, come la sua, provengono da
fondazioni, riviste, circoli e lettori che si richiamano al liberalismo (si richiamano, ma fra loro
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non si trovano mai, continuando ciascuno con la sua boriosa autonomia individualistica,
causa non ultima del disastro liberale del Novecento).
Così oggi tutti gli illiberali – che in Italia vanno dagli ultramiliardari agli stracci, dagli intellettuali
agli analfabeti, dagli atei ai clericali, dai nazisti ai polpotisti – sparano sulla più alta
costruzione istituzionale del liberalismo, il parlamento, con la scusa di attaccarne gli indegni
nani e ballerine che lo popolano e lo spolpano e facendo un unico mucchio tra costi dei politici
e costo della democrazia. Si spiega col generale qualunquismo antiliberale che conduttori
televisivi così diversi, come Vespa, sempre ligio al potere, o Santoro e Gruber, che sono stati
parlamentari europei e ne sono usciti per riassestarsi su poltrone televisive, attacchino
tutt’insieme “la Casta” (individuando tra le Caste solo quella parlamentare: tutte le altre sono
amabili, rispettabili, di diritto divino?).
Perché Monti ha tollerato nel suo decreto una norma che solo il parlamento e nessun governo
o magistratura può dettare? Così, con la complicità non disinteressata dei grandi quotidiani e
delle oligarchie che li finanziano, gli stipendi dei parlamentari hanno fatto e fanno da cortina
fumogena alle grandi ricchezze salvaguardate, la patrimoniale, l’Ici della Chiesa, i privilegi
delle corporazioni, la svendita delle frequenze tv, finite in fondo alle pagine e ai notiziari.
Come se non fossero parte integrante della “questione morale” e miniera senza fondo di
ricchezza da restituire alla comunità.
Lasciamo perdere i giornalisti qualunquisti involontari. Ma si rendono conto Monti e il governo
di quale spettacolo abbia offerto martedì sera La7 con lo sbudellamento fra il deputato
nazionale Giro e la eurodeputata Serracchiani, costretti come in un’autodafé di santa
inquisizione a doversi giustificare con le rispettive buste paga in mano? Chi risponderà alla
legge, se qualche pazzo, fiorentino o no, sparerà o lancerà bombe contro chi incarna, parola
impronunciabile, il parlamento?
In Francia, quando i deputati della IV Repubblica s’ingozzavano di parole e privilegi mentre
l’Algeria era in rivolta, dovettero togliere le coccarde tricolori alle macchine perché la gente
tirava pietre ai semafori. Da anni ripetiamo a Lorsignori che finirà così anche in Italia, dove
però non c’è De Gaulle, capo della Resistenza, che mandò i deputati a casa e prese a calci
nel sedere i lapidatori, ripristinando la legge per tutti. In Italia, finora, ci hanno pensato
Napolitano, Scalfaro, Ciampi, liberali per necessità, a difendere stato di diritto, etica e
parlamento. Nella rubrica Lib queste idee hanno sempre circolato. Potrebbero farle circolare
un po’ di più i liberali, se fossero almeno uniti anziché sparpagliati, come avrebbe detto
Sarchiapone.
2322- L’ANNIVERSARIO DI PIERGIORGIO - DI MINA WELBY E M. ANTONIETTA FARINA
da: l’Unità di martedì 20 dicembre 2011
Ci sono momenti, gesti, che raccontano più e meglio di qualsiasi discorso. Per esempio,
l’ultimo quadro di Piergiorgio Welby: una donna. È una donna coi capelli biondi, gli occhi
chiusi, la guancia è appoggiata alle mani giunte. È un quadro dipinto nel 1998, vi si coglie
tutto l’amore che Piergiorgio nutriva per la vita, l’amore, le cose belle. Poco dopo sarebbe
andato «altrove», come desiderava e voleva: perché lui che aveva tanto amato la vita, non ce
la faceva più. La speranza, si dice, è l’ultima a morire; per lui, morire era diventata l’ultima
speranza.
Piergiorgio ci ha lasciato cinque anni fa, dopo aver lottato, con tutte le sue forze per il diritto a
una vita che fosse degna di chiamarsi tale; e per il diritto di morire altrettanto dignitosamente,
a non soffrire quando questa sofferenza è atroce, senza scopo.
Aveva scritto, Piergiorgio, una bella lettera al presidente della Repubblica Napolitano. «Il mio
sogno, la mia richiesta, che voglio porre in ogni sede... è ottenere l’eutanasia. Vorrei che
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anche ai cittadini italiani sia data la stessa opportunità che è concessa ai cittadini svizzeri,
belgi, olandesi».
Il presidente rispose. La risposta di un laico che sa cos’è la misericordia, che non giudica e
cerca di comprendere. Il presidente si augurava che il messaggio di «tragica sofferenza» di
Piergiorgio rappresentasse «occasione di non frettolosa riflessione su situazioni e temi di
particolare complessità sul piano etico, che richiedono un confronto sensibile e approfondito...
Il solo atteggiamento ingiustificabile sarebbe il silenzio, la sospensione o l’elusione di ogni
responsabile chiarimento». Ma è quello che è avvenuto.
Prima di Piergiorgio, a colpire l’opinione pubblica, a scuoterne le coscienze, la vicenda di
Luca Coscioni; abbiamo avuto poi altri casi: Monicelli, il grande regista, che sceglie di
sfracellarsi e porre fine alle sue sofferenze; e recentemente Lucio Magri, per porre fine alla
sua sofferenza è dovuto «emigrare» in Svizzera. In comune queste storie hanno l’averci fatto
riflettere, averci fatto toccare con mano una realtà che esiste, quotidiana; e che pure si nega,
si occulta. In comune queste storie ma di quante altre, di persone comuni, che non fanno
«notizia», veniamo a conoscenza con l’associazione Luca Coscioni! hanno il fatto che i loro
protagonisti rivendicano dignità: della vita e della morte; non vanno giudicati, ma vanno
rispettati. Noi sentiamo il dovere, di lottare perché questo diritto, questa facoltà siano
rispettate; e perché chi soffre e non vuole esercitare quel diritto e quella facoltà sia nella
condizione di poterlo fare.
Per anni, colpevolmente, chi soffre per gravi malattie neurodegenerative e le loro famiglie
sono state abbandonate a loro stessi; il precedente governo non ha voluto, nonostante le
tante assicurazioni, procedere all’indispensabile aggiornamento del nomenclatore e dei Livelli
Essenziali di Assistenza. Ora le cose, finalmente, sembrano essere cambiate. Il Governo
Monti ha accolto un ordine del giorno radicale in questo senso, assicurando che in tempi
rapidi si farà quello che non è stato fatto finora. Anche questa è stata una battaglia di Luca e
di Piergiorgio, ed è una conquista che in loro nome va intitolata.
2323 - CINQUE ANNI FA MORIVA WELBY. E CON LUI LA POLITICA - DI A. CALVI
da: il Riformista di martedì 20 dicembre 2011
Cinque anni fa moriva Piergiorgio Welby. E con lui moriva la politica: rinchiusa in un Palazzo
che rassomiglia sempre più a una cripta invece che a una agorà, è rimasta nuda di fronte alla
propria incapacità di dare risposte alla società. Era la notte tra il 20 e il 21 dicembre del 2006
quando a Welby fu staccato il respiratore. Fu, quella, la prima di una lunga serie di sconfitte
per il Parlamento. Era il 2006, appunto. Sono cambiate molte cose da allora, è cambiata la
stessa geografia politica; ciò che non è cambiato, però, è la sostanza. Il traccheggiare incerto
del Parlamento attorno ai temi più delicati, come la bioetica, lo testimonia.
All’epoca, in commissione Sanità al Senato andava in scena uno spettacolo che avrebbe
dovuto mettere in guardia su cosa sarebbe stato il futuro Pd. Ds e Margherita si facevano la
guerra sul testamento biologico, e avrebbero continuato così ancora per mesi. Avevano la
maggioranza, erano alleati, ma di quella legge non se ne fece nulla. Poi, fu anche peggio. E
dire che gli inviti alla serietà non erano mancati. Tra tutti, quello di Giorgio Napolitano al quale
Welby aveva scritto invocando una vita dignitosa. «Io amo la vita», scrisse; e spiegò: «Morire
mi fa orrore, purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita, è solo un testardo e insensato
accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche. Il mio corpo non è più mio... è lì,
squadernato davanti a medici, assistenti, parenti».
Napolitano raccolse il messaggio. «Esso scrisse il Presidente della Repubblica può
rappresentare un’occasione di non frettolosa riflessione su situazioni e temi, di particolare
complessità sul piano etico, che richiedono un confronto sensibile e approfondito, qualunque
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possa essere in definitiva la conclusione approvata dai più. Mi auguro che un tale confronto ci
sia, nelle sedi più idonee, perché il solo atteggiamento ingiustificabile sarebbe il silenzio, la
sospensione o l’elusione di ogni responsabile chiarimento».
Poche settimane dopo, Welby morì. La sera del 20 dicembre prima di cena diede ancora
un’ultima occhiata alla posta elettronica. Poi, un disco di Bob Dylan. «Lui era sereno»,
raccontò su queste pagine sua moglie, Mina. «Se ne è andato così. Io gli tenevo la mano, gli
sono stata accanto fino all’ultimo battito. Fu sedato e contemporaneamente staccato dal
respiratore mentre già andava addormentandosi. Poco prima gli avevo chiesto se era proprio
sicuro. Lui disse soltanto: sì».
Amava la vita, Welby, ma era consapevole della propria condizione. Inchiodato in un letto,
imprigionato nel suo corpo dalla distrofia muscolare progressiva, ormai respirava soltanto
perché era attaccato a un respiratore. E non poteva più muoversi. Non c’era speranza di
migliorare. Porre fine a quella condizione dolorosa era una possibilità dignitosa. Fu la sua
scelta. Era parte di una battaglia politica. La politica, però, tradì quella battaglia e le speranze
di Napolitano. Gli anni successivi non furono neppure gli anni del silenzio: furono quelli della
elusione. In quella legislatura non se ne fece nulla del testamento biologico. Poi, fu anche
peggio. Nacque il Pd; e poi il Pdl. E morì Eluana Englaro. E la politica morì una volta ancora.
Il corpo dei malati divenne terreno sul quale i partiti presenti in Parlamento misurarono
tattiche di piccolo cabotaggio. Le Camere, poi, diedero vita a una corsa contro il tempo e
contro il corpo di quella donna già morta da anni e che era ormai soltanto un simulacro della
vita che fu. Inutili gli appelli del padre Beppino. Ad ascoltarlo furono soltanto i giudici, i quali
applicano la legge. La politica, allora, si scatenò su quel fronte. Il Parlamento, su iniziativa del
Pdl, trascinò la Cassazione in un rovinoso conflitto tra poteri dello Stato di fronte alla Corte
Costituzionale, nell’arrogante pretesa di impedire ai giudici di applicare la legge,
considerando ciò una invasione di campo seppure, allo stesso tempo, continuava a non
decidere nulla. Alla fine, rimediò uno schiaffo dalla Consulta.
La smorfia di quel senatore del Pdl che, la sera che arrivò la notizia della morte di Eluana,
concluse il suo intervento in aula con un gesto di stizza, non si può dimenticare: era il volto
rabbioso della sconfitta. E sembrava contenere una minaccia.
Era il 9 febbraio del 2009. Sono passati anni, ma neppure quella minaccia il Parlamento è
riuscito a mettere in pratica; soltanto il tentativo di approvare una legge discutibile che fa la
spola tra Camera e Senato. «Ma io - dice oggi Mina Welby - spero che questa legge rimanga
nei cassetti e che ne venga proposta una come si deve».
Nel frattempo la politica si è dissolta, sostituita dai tecnici. Ma è inutile cercare il colpevole
della sua morte: non è omicidio, è un chiaro caso di eutanasia.
2324 - WELBY CINQUE ANNI DOPO - DI MASSIMO ADINOLFI
da: l’Unità di mercoledì 21 dicembre 2011
Non è giusto. O è giusto così. Dinanzi alla morte di una persona cara, nessuno è in grado di
rimanere così impassibile da non chiedersi se sia giusto che debba morire. Morire così.
Morire ora. Anche quando ci rassegniamo, per esempio per l’età avanzata, non sentiamo
meno il bisogno di elevare il processo naturale del morire nella sfera dello spirito, che è, in un
senso minimale, ciò per cui nel morire ne va del senso del vivere e dell’aver vissuto.
Non è giusto, oppure è giusto così. Ma la giustizia, qui, non è l’obbligo contratto innanzi a una
legge, umana o divina, bensì la misura della comune appartenenza all’umanità e al senso,
che si compie assegnando alla cultura (all’elaborazione dell’uomo) ciò che altrimenti
apparterrebbe solo alla natura. Così la nascita, così la morte, così tutti i fenomeni di
passaggio, gli attraversamenti di soglie, i transiti al confine. Perciò non è giusto che moriamo:
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non lo è in assoluto, non già solo in rapporto a questa o a quella morte, poiché il mero morire
naturale non ci appartiene in quanto uomini. E perciò è giusto che noi moriamo, quando è
resa giustizia (onore, rispetto, sepoltura) a chi muore, e all’umanità che muore con lui. Un
tratto che però caratterizza la «seconda modernità» che noi viviamo è l’ampliamento delle
scelte a nostra disposizione: scelte trasferite dapprima dall’ambito naturale a quello
istituzionale, poi da quello istituzionale a quello individuale. Un processo che sociologi e
filosofi presentano spesso come una perdita di sostanzialità, perché pone su esili spalle,
quelle del singolo individuo, decisioni che investono l’orizzonte più grande del vivere e del
morire. Non si muore quasi più, ma ogni volta, in luogo del «si» muore, si compie così un «io
muoio» o un «tu muori».
Più difficile è dunque trovare la misura, la giustizia. Dopo i casi di Piergiorgio Welby e di
Eluana Englaro, il Parlamento italiano ha ritenuto di averla trovata. Piergiorgio Welby è morto,
giusto cinque anni fa, avendo ottenuto, al termine di una lunga, lucidissima battaglia, che
fosse staccato il respiratore che lo teneva artificialmente in vita. Eluana Englaro è morta dopo
che il padre, al termine di una battaglia altrettanto lunga, ebbe ottenuto, grazie a un tribunale,
l’interruzione dell’alimentazione artificiale, conformemente alla supposta volontà della figlia. I
due casi hanno scosso profondamente le coscienze, mostrando quale viluppo di azioni e di
decisioni vi sia oggi dove prima c’era un semplice accadimento naturale. E hanno anche
portato il Parlamento a tentare di legiferare, con un accanimento pari a quello terapeutico, sul
cosiddetto testamento biologico. L’obiettivo: porre limiti stretti tanto alla libertà del malato
quanto a quella del medico. In questo modo, però, soglie sottilissime, che devono ancora
trovare una stabile configurazione di senso intorno a un letto d’ospedale o al capezzale di un
malato, sono state disegnate d'autorità, fissate rigidamente in una disposizione di legge.
Ma la soglia è, soprattutto, un’esperienza, come il primo bacio, come un esame di maturità o
come il primo giorno di lavoro: chi vorrebbe mai disciplinare per legge i passi da compiere per
affrontare l’ingresso nel mondo adulto, prepararsi alle peripezie dell’amore o agli affanni della
vita professionale? Perché sottrarre al singolo uomo il più antico e più arduo compito, quello
di cimentarsi con le prove dell’inizio e della fine? In uno Stato democratico, una legge si fa per
proteggere i deboli dai forti, non già per assicurare ai forti un potere di controllo o di
disciplinamento sui deboli. Ciò che valeva per gli antichi sovrani, detentori del potere di vita o
di morte sui sudditi, non può valere per i cittadini.
A cinque anni di distanza dal caso Welby, ci si può dunque chiedere, «sine ira ac studio»,
perché quella legge. E soprattutto se non sia l’umanità dell’uomo garanzia più solida di
giustizia che non l’impero della legge, in casi estremi come quelli che riguardano il vivere e il
morire. Senza dogmatismi, senza sicumere, disposti a riflettere e, se del caso, a cambiare. A
utilizzare lo strumento legislativo, se è per difendere e non per coartare, o a accantonarlo, se
è per dare responsabilità e non puro arbitrio.
2325 - ANCHE AI CATTOLICI CONVIENE LO STATO LAICO - DI VALERIO POCAR
da: Critica Liberale n. 193-194
Anche i laici hanno valori non negoziabili. Tra altri, quello della libertà di tutte le concezioni
ideali e di tutte le confessioni religiose di fronte alla legge, da cui seguono quello della
tolleranza e del rispetto delle diverse opinioni e quello della pari libertà di ciascuno di
professarle. Se questi sono elementi essenziali della laicità, affermare che vivere in uno stato
laico migliori la qualità della vita dei laici è un'ovvietà, ai limiti della banalità braunhoferiana.
Affermare che la qualità della vita delle minoranze d'opinione, comprese quelle religiose, è
migliore nello stato laico è del pari lapalissiano.
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Ma, per le maggioranze religiose (vere o sedicenti o presunte tali) che possono esercitare
pressioni forti sulle istituzioni a proprio favore e giovarsi del loro uso strumentale, traendone
più o meno grandi privilegi, è meglio vivere in uno stato laico o in uno stato confessionale
ispirato e indirizzato dalla religione di riferimento? Parlo dei credenti, s'intende, non delle
gerarchie. E penso a qualsivoglia stato confessionale, di diritto o di fatto, cattolico, islamico,
ebraico che sia. Sono laico e non credente, e forse non dovrei immischiarmi in questioni che
non mi toccano direttamente. Tuttavia, sono convinto che gli appartenenti a una religione,
anche se in maggioranza avrebbero buone ragioni, non meno dei laici, per preferire che lo
stato e le pubbliche istituzioni siano ispirati ai princìpi della laicità. E non solo perché
dovrebbero avere consapevolezza del rischio che i propri correligionari hanno corso in altri
tempi o ancora possono correre in altri luoghi, quando e dove uno stato confessionale d'altra
ispirazione, religiosa o atea che sia, li discrimini, li zittisca o tolleri che siano discriminati e
anche perseguitati.
V'è di più. Solo lo stato laico, che non discrimina e non concede privilegi sulla base delle
opinioni, consente il dialogo tra diversi orientamenti di pensiero, religiosi e non religiosi che
siano. A ben vedere, infatti, solamente lo stato laico può essere, se mi si passa
quest'espressione, autenticamente ecumenico. Ed è difficile negare che proprio soltanto dal
confronto tra le posizioni le più diverse i convincimenti, non importa di quale orientamento,
possono nutrirsi, verificarsi ed eventualmente rafforzarsi.
Solo lo stato laico, del resto, può consentire la pacifica convivenza di cittadini portatori di
opinioni diverse e creare una tolleranza senza risentimenti. Alla fine, il più sottile e più
subdolo dei modi di negare la libertà d'opinione è, infatti, proprio quello di ammetterle tutte
privilegiandone però una sola in particolare. Il privilegio non solo sollecita il risentimento di
coloro che ne sono esclusi, ma suggerisce un irragionevole senso di superiorità in coloro che
ne sono beneficiari, stimolando una reciproca diffidenza che nuoce allo spirito di fratellanza
che, in accordo con princìpi condivisi e affermati anche da molte religioni, piacerebbe che
connotasse i vincoli sociali. Troppo spesso le divisioni sociali si ispirano alle differenze
religiose, il più delle volte fomentate dalle disparità di trattamento tra l'una e l'altra
confessione.
Soltanto lo stato laico consente il libero confronto delle opinioni, anche di quelle religiose.
L'autenticità del convincimento nei propri valori e nei propri princìpi sta nel porli
continuamente in discussione e nel nutrirli giorno per giorno di consapevole riflessione
interiore. La riflessione consapevole, dal canto suo, non può reggersi sul principio d'autorità e
non può riposare sui vantaggi che possano derivare dall' adesione a questa o a quella visione
religiosa del mondo, e non penso solamente a comodità materiali e pratiche, ma anche a
quella grande comodità che consiste nell' essere sollevati dalla sofferenza e dal peso del
pensiero e del dubbio. Tutto al contrario dello stato laico, lo stato confessionale con la mano
destra offre, a coloro che a quella confessione si rifanno, qualche privilegio e l' offa dell'inerzia
mentale e di una rassicurante pigrizia, che rappresentano poi le basi stesse che garantiscono
quel medesimo stato confessionale, mentre, con la mano sinistra, sottrae, proprio a coloro
che a quella confessione si richiamano, la linfa della tensione morale della quale la fede si
nutre. Per portare un esempio che ci riguarda da vicino, dobbiamo proprio alla Controriforma
e alla Chiesa tridentina di essere divenuti "sanza religione", come peraltro Machi avelli aveva
già compreso. Qualsiasi formazione religiosa, anche se maggioritaria, dovrebbe pretendere
dallo stato che non le sia concesso privilegio e, anzi, dovrebbe pretendere di poter vivere,
libera come tutte le opinioni, con la tensione morale che nutre e onora i perseguitati.
Non è un paradosso. Solamente la laicità dello stato è presidio e garanzia della fede pensosa
e dello spirito di fratellanza universale, valori di ogni vera credenza religiosa.
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2326 - GB - SUICIDIO ASSISTITO: MUORE ACCUSANDO POLITICI CODARDI
Dalla Associazione Dignity in Dying del Regno Unito (http://www.dignityindying.org.uk/), che
promuove il diritto a morire con dignità sia a livello parlamentare e di governo sia tra la
popolazione inglese, abbiamo ricevuto in data 8 dicembre la seguente lettera di Geraldine
McClelland, di 61 anni, malata di cancro terminale, la quale ha deciso di recarsi in Svizzera
per mettere fine alla sua vita. Per ulteriori informazioni sulla morte con dignità nel Regno
Unito: www.campaignfordignityindying.org.uk. (Traduzione di Alberto Bonfiglioli)
Nel mese di settembre u.s. ho deciso di recarmi all’estero per morire. Dopo aver preso le
necessarie misure, a ottobre mi sono messo in contatto con Dignity in Dying chiedendo il loro
aiuto per rendere pubblico il mio punto di vista sulla morte assistita. Si troverà qui di seguito
una lettera aperta a tutti gli interessati nella questione. Ho pregato Dignity in Dying di
distribuire la lettera in mio nome ai media quando io sarò a Zurigo.
Il mio nome é Geraldine McClelland e ho scelto di morire oggi. Ho 61 anni e sto morendo di
cancro ai polmoni e al fegato, metastasi di un cancro al seno diagnosticato due anni fa. Ho
passato la mia vita di lavoro alla BBC producendo programmi quali Watchdog, Food and
Drink, Health Check e Crimewatch (simili a “Report”, “mi manda Rai3”, “Elisir”, “Chi l’ha visto”,
NdR). Sono stata fortunata: ho potuto ritirarmi dieci anni fa e godermi il mio tempo viaggiando
per il mondo. Adesso il cancro ai polmoni mi sta causando seri problemi per respirare e devo
rimanere confinata nel mio appartamento. Ho scelto di recarmi all’estero per morire perché
non posso ottenere la morte che voglio nel Regno Unito. Vorrei avere la possibilità di mettere
fine alle mie sofferenze, diventate oramai insopportabili, rimanendo a casa mia, con la mia
famiglia e i miei amici. Purtroppo le leggi di questo paese me lo impediscono. Sto andando
quindi all’estero per beneficiare di una compassionevole legge della Svizzera.
Mi ero preoccupata quando gli svizzeri furono chiamati a votare se gli inglesi (e altri cittadini
non svizzeri) potessero continuare ad aver accesso alla morte assistita in quel paese. Per
fortuna gli elettori si sono espressi a schiacciante maggioranza per mantenere a persone
come me la possibilità di morire come avevano scelto, anche se sono stranieri.
Non sono triste per il fatto di morire oggi. Sono arrabbiata perche la codardia dei nostri politici
m’impedisce di morire a casa mia nel paese dove sono nata, ma non sono triste. Sono sicura
della mia decisione e mi sento sollevata perché non sarò costretta a continuare la mia
sofferenza. Che nessuno si senta triste per me. Se qualcuno sentisse qualcosa leggendo
questa lettera, gli chiederei di trasformare quello che sente in una lotta per cambiare la legge
in modo che altre persone non debbano viaggiare per morire e quelli che non sono in grado
di farlo o che non possono sostenerne le spese non debbano affrontare il suicidio da soli o
continuino a soffrire contra la loro volontà. In questo senso, io sono stata fortunata per
poterlo fare. Credo che le cure di fine vita che ho ricevuto, per altro buone, avrebbero dovuto
includere la scelta di non dover sopportare una tale sofferenza durante le mie ultime
settimane di vita e credo che tutti dovrebbero avere questa possibilità di scelta. Non credo
che mio fratello e mia sorella debbano considerarsi trasgressori della legge per il fatto di
essere con me al momento della mia morte. Nessuna delle persone care a chi ha scelto di
morire dovrebbe trovarsi in una simile situazione.
La mia decisione è stata presa: ho scelto di morire a Zurigo, alle mie condizioni e con la mia
famiglia intorno a me. Ciò perché é troppo tardi per cambiare la legge ma prego tutti coloro
che sentono l’importanza di questo problema di far sentire la loro voce. Mi rendo conto che é
una questione difficile, ma quando la morte non può evitarsi, deve esistere la tolleranza e il
rispetto della scelta di ognuno.
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Commento: così come Geraldine in Gran Bretagna, in Italia la “codardia dei politici” ha
impedito a Lucio Magri di morire serenamente e senza tragedie a casa sua. Ciò per attenersi
al principio dettato dalla Chiesa Cattolica Romana che “le leggi divine vengono prima delle
leggi degli uomini e la vita appartiene a Dio sino alla morte naturale”. Cosa ci sia di “naturale”
nel vivere fra atroci tormenti o collegati a macchinari sconosciuti ai tempi del Cristo è tutto da
spiegare, così come non si comprende come i veri insegnamenti del Cristo, ossia la pietà e la
compassione, siano invece trascurati e traditi. Né si comprende perché la Chiesa, che
sostiene che la vera vita è quella eterna, debba opporsi così tenacemente al suo
raggiungimento pur di prolungare le sofferenze di coloro che vorrebbero ricongiungersi con
Dio. A meno che non sia sicura che siano tutti destinati all’inferno…(Giampietro Sestini)
2327 - BANGLADESH - TAGLIA LE DITA ALLA MOGLIE PERCHÉ LEI VUOLE STUDIARE
da: yahoo.notizie di domenica 18 dicembre 2011
E’ successo a Dacca, in Bangladesh. Rafiqul Islam ha legato la giovane moglie di appena 21
anni, l’ha imbavagliata perché non potesse urlare e le ha tagliato le cinque dita della mano
destra. Il motivo? Lei era appena tornata dagli Emirati Arabi per un viaggio di studio.
“Era infuriato e geloso, perché lei studiava all’università e mentre la sua istruzione non era
mai andata oltre le scuole elementari” ha spiegato all’agenzia di stampa AFP il capo della
polizia locale Mohammad Salauddin dopo la cattura del folle.
Rafiqul Islam, 30 anni, ha già confessato la sua responsabilità e sarà processato per
sfiguramento permanente, un crimine che può essere punito secondo la legislazione del
Bangladesh con il carcere a vita. La giovane moglie, Hawa Akhter, è già tornata nella casa
dei genitori e si è detta pronta per tornare sui libri: “Userò l’altra mano” ha coraggiosamente
spiegato al quotidiano locale The Daily Star.
Il problema degli attacchi violenti contro le donne istruite è tra i più gravi della comunità
islamica del Bangladesh. A giugno, un uomo ha cavato gli occhi della moglie, perché non
riusciva a sopportare di essere disoccupato mentre lei insegnava all’università di Dacca, la
capitale.
2328 - SPAGNA - SI RIAPRE IL DIBATTITO SULL’EUTANASIA - DI REVES RINCÒN
Articolo pubblicato sul quotidiano El Pais del 23 dicembre 2011 – traduzione Aduc Salute
Pedro Martinez chiedeva che il proprio caso aprisse di nuovo il dibattito sull'eutanasia in
Spagna, e ci è riuscito. Pedro, 34 anni, soffriva di sclerosi multipla amiotrofica ed è morto
lunedì scorso a Siviglia grazie ad una sedazione somministratagli dai medici dell'associazione
“Derecho a Mori Dignamente” (DMD). La sanità andalusa si era rifiutata di fargli sapere che
non era nemmeno in "stato di agonia", il requisito stabilito dalla legge che consente di
anticipare il fine vita. I medici del MDM dissentono e gli esperti in bioetica credono che
situazioni come questa mostrano le tante incongruenze che potrebbero non esserci più se
fosse riformato il codice penale.
Cinque giorni prima di morire, Pedro ha condiviso col quotidiano El Pais la propria decisione,
su cui non aveva dubbi. “Quando non puoi essere autosufficiente non è una vita degna”,
disse. Il dottor Luis Montes, Presidente federale del MDM, ha seguito il caso ed ha assicurato
che la situazione era insopportabile. Il malato era entrato in contatto con l'associazione poco
più di un anno e mezzo fa. “Noi gli abbiamo detto che stavamo cercando una soluzione
all'interno del servizio sanitario pubblico. Ma non eravamo in grado di garantirgli che ciò
collimasse con la sua volontà”.
Pedro era soddisfatto. Il suo caso ha seguito le norme della sanità pubblica, così come
prevede la legge statale Autonomía del Paciente e la legge andalusa sulla Muerte Digna,
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rifiutando di ricevere qualunque trattamento che potesse prolungargli la vita. Quando il suo
stato si aggravò, ha chiesto ai medici di cure palliative dell'Ospital Macarena che lo
sedassero, ma questi valutarono che la sua condizione non era terminale. L'Assessore
andaluso alla salute, Maria Jesùs Montero (PSOE) avvallò la valutazione di questi medici.
“Abbiamo studiato attentamente questo caso, ma non c'erano le circostanze cliniche
necessarie per una sedazione palliativa. Per cui si sarebbe trattato di una eutanasia e questo
oggi non è possibile”, dice Montero.
Il presidente del MDM non è della medesima opinione. “Pesava pochissimo, aveva
l'anoressia, 40 respirazioni al minuto, non poteva quasi del tutto deglutire. Era una evidente
fase terminale, di quelle per cui è indicata la sedazione palliativa”. “L'alternativa fornita dalla
sanità pubblica era che avrebbe dovuto smettere di mangiare. E quando avrebbe avuto
tremori, etc.. allora sarebbe stato possibile sedarlo. Questa è crudeltà”.
I medici palliativi lo visitarono per l'ultima volta la settimana scorsa e la diagnosi, secondo
l'assessore alla Salute, era sempre la stessa. “Clinicamente non era in agonia.
Evidentemente avrebbe potuto entrare in una fase terminale in qualunque momento, ma non
si poteva decidere quando”, dice Montero. Il suo dipartimento ha conosciuto i dettagli sul
finale di Pedro grazie a El Pais e ritiene che negli ultimi giorni avrebbero potuto prodursi
"cambiamenti" che avrebbero reso possibile la sedazione.
L'assessore ricorda che questo è il tipico caso che è regolamentato in altri Paesi, ma non in
Spagna. Dovrebbe diventarlo? “Quando si discusse la legge statale si decise di rimandare gli
aspetti relativi a questa situazione, per cui nello specifico abbiamo sempre fatto riferimento
alle norme del Governo spagnolo. Ma il dibattito è necessario e arricchente, e portare
all'attenzione dell'opinione pubblica situazioni come questa è positivo per proseguire una
certa riflessione”.
L'aiuto al suicidio è considerato un reato dall'articolo 143 del codice penale. Il professore di
Diritto Penale dell'Università di Malaga José Luis Dìez Ripollés insiste sul fatto che la chiave
è sapere se Pedro fosse in una fase terminale. “Se era così, non ci sarebbero stati problemi
ad applicargli la sedazione. In tutti i casi nessuna legge stabilisce un punto a partire dal quale
si debba considerare che si è entrati in una fase terminale. Ma se non si è in questa fase, e si
ha una qualità di vita molta bassa, per una malattia che a breve ti condurrà alla morte, noi
inciampiamo in un presupposto che non è adeguatamente risolto dalla nostra legislazione, e
per questo è necessario che questa legislazione sia riformata”.
Vicoria Camps. Presidente del Comité de Bioética de España, e Luis Cabré, capo del
Servicio de Cuidados Intensivos dell’ospedale di Barcellona e membro del Observatori de
Bioètica i Dret, convengono che la differenza notevole tra etica e casi come questo sia
insostenibile. “Credo che in questo caso la cosa più' etica da fare sarebbe stata aiutarlo a
morire, ma questo oggi non è giuridicamente contemplato”, dice Vicoria Camps, che sostiene
anch'essa che si riveda l'articolo 143 del codice penale. “Quello che succede è che le
persone hanno paura di rivedere questo articolo perché ciò darebbe spazio all'eutanasia e vi
è un settore della società che non lo accetterebbe”. Per questo - dice la Camps - i
responsabili politici hanno optato per una vista corta. “Tutti sappiamo che situazioni come
quella di questo ragazzo si verificano molto spesso”.
Più duro è Cabré, che ritiene pura ipocrisia la situazione attuale. “Questo è ciò che succede
quando non si vuole affrontare la realtà sociale”, dice. “Se questo ragazzo fosse stato sedato,
si poteva considerare un'eutanasia e questo oggi è reato. Però, da un punto di vista etico,
siamo tutti d'accordo che è lui stesso il responsabile della propria vita e, se chiede una
sedazione terminale, bisogna dargliela, non solo dirlo”.
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2329 - LE VIGNETTE DI ARNALD – LA VOSTRA VITA APPARTIENE A DIO
2330 - LE VIGNETTE DI STAINO – FORSE LA CHIESA CI RIPENSA…
2331 - LE VIGNETTE DI EVANS - IL MASCHILISMO SECONDO I PUNTI DI VISTA
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