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ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI. MODIGLIANA
CAFFÈ MICHELANGIOLO
R I V I S T A D I D I S C U S S I O N E
fondatore e direttore Mario Graziano Parri
Pagliai Polistampa
In copertina: Oriana Fallaci in un ritratto del 1993.
Nella testata: Adriano Cecioni, Interno di Caffè Michelangiolo, 1865 ca., acquerello, Firenze, collezione privata.
Direttore responsabile
Mario Graziano Parri
Direttore editoriale
Natale Graziani
In redazione
Elena Frontaloni, Enrico Gatta, Antonio Imbò
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Anna Maria Bartolini, Marino Biondi, Ennio Cavalli,
Zeffiro Ciuffoletti, Franco Contorbia, Simona Costa,
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Redazione
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Alla rivista si collabora su invito. Per inderogabili esigenze editoriali, i contributi, redatti in conformità con le “Norme di editing”
richiamate nella rivista, devono essere registrati in formato RTF
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Registrato al Tribunale di Firenze n. 4612
del 9 agosto 1996.
ABBONAMENTI, ORDINI, INFORMAZIONI
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3 numeri annuali: Italia e Unione Europea € 22,00
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intestato Polistampa S.n.c. - Firenze
Una copia: € 8,00
Numero arretrato: € 10,00
Il presente fascicolo è stato chiuso in tipografia
il 10 Novembre 2006 con una tiratura di 2.500 copie.
Pubblicazione associata
all’Unione Stampa Periodica Italiana
Caffè Michelangiolo
Quadrimestrale - Anno XI - n. 2 - Maggio-Agosto 2006
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TERZA PAGINA
Donna come me
di Mario Graziano Parri
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BUONE ARTI
Il soffio dell’interiorità
intervista a Oriana Fallaci
di Maria Antonietta Cruciata
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A Edoardo Fallaci
di Oriana Fallaci
Oriana
di Mario Graziano Parri
Le opere e i giorni
a cura della Redazione
POESIA
The Lightness of Not Being
di Judy Gahagan
L’oscuro avvento
di Mario Graziano Parri
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BIBLIOTECA DEL VIAGGIATORE
Mi chiamo Kathy M.
di Mirella Billi
Mehr Nicht
di Elena Frontaloni
La croce del Sud
di Marco Gaetani
SFOGLIATURE
Il Pantheon degli Uffizi
di Anna Maria Piccinini
Sulle tracce di Fontamara
di Patrizia Tocci
Prego… un caffè?
di Mario Graziano Parri
ARTI ED EVENTI
Boldini e “ses amis”
di Piero Pacini
Violet del Palmerino
di Valerio Viviani
Risarcimento per Galileo Chini
di Piero Pacini
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TACCUINO
All’insegna della vita
di Mario Graziano Parri
A Pitigliano 1° Festival
delle letterature europee
di Sandro Melani e Valerio Viviani
Massimiliano Rosito
e i sessant’anni di “Città di Vita”
di Piero Pacini
Premio letterario nazionale
degli Oscuri
a cura della Redazione
BLOC-NOTES
di Bartleby
FONDI DI CAFFÈ
Stato di veglia
di Mario Graziano Parri
LE LETTURE
Sherlock l’Americano, di Sandro Melani; Tragedia: teoria e pratica, di
Elena Frontaloni; Andature classiche, di Giovanna Fozzer; La resistenza delle parole, di Monica Venturini; I migliori anni del fare cultura,
di Elena Peccia; Allo zoo di Isabella,
di Leandro Piantini; L’ascolto della
memoria, di Dante Maffia; Sulle tracce di Émile, di Monica Venturini; Dieci racconti, di Elena Frontaloni; Poeti di combattimento, letterati d’avanguardia, di Milva Maria Cappellini; Ricucire l’ombra dell’infanzia,
di Danilo Breschi; Poesia d’amore e
luce, di Monica Venturini; Omaggio a
Gherardini di Eda Siechi Cocchi.
NORME DI EDITING
per i collaboratori
di Caffè Michelangiolo
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IL VINCASTRO
Notizie
dell’Accademia degli Incamminati
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Collaboratori
MIRELLA BILLI è professore ordinario di Lingua e letteratura
inglese all’Università di Viterbo. È autrice di Le strutture
narrative nel romanzo di Henry Fielding (Milano 1974),
Virginia Woolf (Firenze 1975), Il vortice fisso, la poesia di
Sylvia Plath (Pisa 1983), Il gotico inglese (Bologna 1986),
Il testo riflesso (Napoli 1993). Ha pubblicato saggi sulla
letteratura inglese del Settecento e dell’Ottocento, sul romanzo e il teatro contemporaneo, sulla poesia e narrativa femminile. Per Marsilio ha tradotto e curato La stanza di Jacob di Virginia Woolf (19992).
Piero Pacini è nato a Tuoro sul Trasimeno nel 1936 e
risiede a Firenze. È autore di studi monografici su Gino
Severini e sulla cultura figurativa tra ’800 e ’900; ha indagato aspetti della civiltà figurativa fiorentina tra il Manierismo e la tarda età barocca. Collaboratore di riviste a
diffusione internazionale, è stato redattore di “Antichità
viva”; ha curato mostre di artisti contemporanei in Italia
e all’estero. Tra le ultime pubblicazioni: Le sedi dell’Accademia del Disegno (Firenze 2001) e Galileo Chini pittore e decoratore (Soncino, CR, 2002).
Elena Frontaloni è nata a Jesi nel 1980. Si è laureata in
Lettere classiche nel 2003, con una tesi sui Dialoghi con
Leucò di Cesare Pavese. È attualmente iscritta al terzo
anno di dottorato in Italianistica presso l’Università di Macerata, con un progetto di ricerca sul modello sceneggiatura
nel Pasolini degli anni Sessanta. Si occupa prevalentemente di rapporti fra parola e immagine, con particolare riguardo alle intersezioni fra cinema e letteratura, continuando però a coltivare l’interesse per le sopravvivenze del
mito nel Novecento letterario italiano ed europeo.
ANNA MARIA PICCININI (qui nel Ritratto di Gianni Cacciarini,
part., 2004) è nata a Firenze, dove vive e dove si è
laureata in lettere. Docente nella scuola superiore e poi
giornalista culturale, si è occupata in particolare di argomenti storico-artistici con collaborazioni a varie riviste fra
cui, e per lungo tempo, al “Giornale dell’Arte”. Ha lavorato al riordinamento del Fondo Enrico Vallecchi presso
l’archivio contemporaneo del Gabinetto G.P. Vieusseux e
ha contribuito al riordino tutt’ora in corso del Fondo
Ugo Ojetti alla Biblioteca Nazionale di Firenze. Ha pubblicato saggi sull’incisore Pietro Parigi, su Ardengo Soffici, sulla casa editrice Vallecchi.
Marco Gaetani lavora presso il Dipartimento di filologia
e critica della letteratura dell’Università di Siena. È professore a contratto di Etica alla facoltà di medicina dello stesso ateneo.
Sandro Melani è docente di Letteratura inglese all’Università della Tuscia (Viterbo). I suoi studi prevalenti riguardano la letteratura sia britannica sia statunitense
dell’Otto e Novecento. Tra le sue pubblicazioni la monografia su D.H. Lawrence (1982), il volume sul fantastico vittoriano (L’eclissi del consueto, 1996), il saggio sulle configurazioni dell’altrove in Ruth Prawer Jhabvala, Kazuo
Ishiguro e Bruce Chatwin (Lontani altrove, 2002) e scritti
su Laurence Sterne, Emily Dickinson, Joseph Sheridan Le
Fanu, Christina Rossetti, Bram Stoker, Vernon Lee, L.P. Hartley, Raymond Chandler, Shashi Tharoor. Vive a Firenze.
Maria Antonietta Cruciata si è laureata in lettere a
Firenze con una tesi su Luigi Pirandello, con cui ha vinto il primo Premio Pirandello-Ugo Mursia. Ha collaborato con Giorgio Luti nel dipartimento di italianistica
dell’università di Firenze. Insegna e scrive su varie riviste letterarie e per il quotidiano “La Nazione”. Svolge
attività redazionale per case editrici fiorentine. Nel luglio del 2003 ha pubblicato con Cadmo (Firenze) una
monografia dedicata a Dacia Maraini.
2
PATRIZIA TOCCI è nata a Verrecchie (L’Aquila), nel 1959. Si è
laureata in filosofia alla Sapienza di Roma. Insegna materie letterarie negli istituti superiori. Ha pubblicato Un
paese ci vuole, l’Aquila 1990 (prose e poesie) con introduzione di Vittoriano Giannangeli e Pietra serena, Chieti 2000 con introduzione di Anna Ventura. Una silloge inedita è stata pubblicata con il commento di Angelo Fabrizi
nel n. 1 anno 2003 di “Caffè Michelangiolo”. Tra i segnalati al premio “Eugenio Montale”, ha vinto il primo
premio Marianna Fiorenzi. Per una poesia d’amore (giuria presieduta da Cesare Garboli).
Monica Venturini è nata nel 1977 a Roma dove vive. Si è
laureata nel 2002 in Letteratura Italiana moderna e contemporanea a La Sapienza con una tesi sull’opera poetica di Jolanda Insana con la professoressa Biancamaria
Frabotta. Nello stesso anno ha vinto il concorso per il
Dottorato di ricerca in Italianistica, coordinato dal professor Romano Luperini, presso l’Università di Siena. Attualmente sta ultimando la tesi di dottorato riguardante l’opera di Amelia Rosselli e svolge attività di cultore della materia presso l’Università degli studi Roma Tre di Roma
con la professoressa Simona Costa.
Valerio Viviani (qui con la figlia Beatrice) è professore associato di Letteratura inglese all’Università della Tuscia ed
è redattore della “Rivista di Letterature Moderne e Comparate”. Si occupa in particolare di autori elisabettiani e
contemporanei, con scritti su Christopher Marlowe, Sir
Philp Sidney, Thomas Nashe, Robert Greene, Sir Thomas
Browne, Graham Swift, Kazuo Ishiguro, Michael Ondaatje,
Ian McEwan e in due volumi, Il gioco degli opposti: modelli
neoplatonico nella drammaturgia di Christopher Marlowe
(Pisa 1998) e La storia e le storie: quattro romanzi contemporanei (Pisa 2002). Ha tradotto in italiano Lenten
Stuff di Thomas Nashe (Piatto di Quaresima, Venezia 1994)
e ha curato la versione italiana di The Changeling di Thomas Middleton e William Rowley (I lunatici, Venezia 2004).
Caffè Michelangiolo
Terza pagina
DONNA COME ME
di Mario Graziano Parri
vano nell’ottobre del ’67 fra i Marines alla vigilia della battaglia di Dak-to e all’aeroporto
militare di Da Nang in attesa dell’elicottero
alla volta di Huè. In altri, colta dall’obiettivo di
Leopardi, lettera al Giordani
21 marzo 1817
Simon Petri mentre corre china sotto le raffiche
sul Y Bridge a Saigon, nel ’75. Ma i ritratti cui
ro andato in via Giovanni Prati, una trapiù teneva, così mi parve, erano quelli fissati
versa di via delle Campora, sopra Porta
dall’obiettivo di Oliviero Toscani sullo sfondo di
Romana. Una palazzina gialla, con altre
Manhattan e Wall Street, e i primi piani di
due o tre l’una accanto all’altra il risultato decoGrazia Neri: la personificazione di una donna,
roso di una cooperativa di giornalisti. Sul camla raffigurazione di un carattere. L’immagine di
panello un nome di copertura: quello di Marcolin, già capore- una femminilità. L’elmetto e lo zaino delle missioni in guerra,
dattore alla “Nazione” e poi direttore del “Piccolo”. Varcavi un ma anche le unghie smaltate e gli occhi con il tocco di bistro.
cancello verde e prendevi sulla destra, per un breve vialetto la- Lei mi vede ora, è fortunato… qualche anno fa non l’avrebbe
stricato attraverso un fazzoletto di giardino fino a un portone. Lei scampata. Credo che fosse l’Eau de Joy il suo profumo, quelstava al piano terreno, socchiuse la porta con una certa riluttanza lo delle grandi dive. Di lei avevo letto Un uomo, nel ’79 vine senza togliere la catenella. Mi spiegò che era assillata da un tale citore del Viareggio, e poi pagine di Insciallah che in Francia
Chiambretti, uno della televisione che ti faceva la posta per stra- aveva appena ottenuto il premio Antibes: l’impressione era
da e magari ti si infilava in casa sparandoti domande a brucia- quella di eccesso dei tratti descrittivi (ma Geno Pampaloni non
pelo. Ne sapeva qualcosa Strehler, mi disse. Agguati e tallona- ha sempre sostenuto che l’eccesso fa bene alla letteratura?), e
menti per le vie di Milano.
che vi agisse uno spirito avventuriero che andasse dritto alEra l’ottobre del 1993, ed era un’altra Oriana Fallaci. Non l’attacco della storia e le facesse fretta. Se non assalta il potequella raccontata (presentando anche qualche conto in sospeso) re, l’intelletto non giunge mai alla sua forza piena: l’aveva già
da vari suoi colleghi sui giornali la mattina del 16 settembre scoperto un’altra donna, Madame de Staël. La più famosa
2006, a ventiquattr’ore dalla sua morte a Firenze dove lei era ar- giornalista del mondo: così il generale Cao Ky accolse la Falrivata undici giorni prima con un volo privato da New York. Una laci a Taynin, sul confine cambogiano. La verità della cronagiovane laureata in lettere aveva avuto l’ardire di chiederle un’in- ca però non le era sufficiente, voleva essere riconosciuta come
tervista da pubblicare sul trimestrale “Michelangelo”: lei aveva scrittore della verità inventata: uno scrittore prestato al gioraccettato nonostante fosse restia a concederle, ma voleva prima nalismo, come Malaparte. Come Hemingway, appunto. E Dos
conoscere il direttore. Mi chiese se c’era una parentela con Fer- Passos, Jack London, Kipling, Dickens. La critica era restia a
ruccio Parri. Alla lontana, le dissi anche se lui e mio padre era- riconoscerla per tale?… nell’Atene democratica gli scrittori si
no due gocce d’acqua. Si accese la sigaretta e versò del Blanc Sou- rivolgevano direttamente al popolo intero, e lei veniva letta in
verain in due sottili calici, e ora sfogliava gli ultimi numeri del- venticinque lingue da venti milioni di individui. Lettori che di
la rivista. Si soffermò sull’intervista di Hemingway a Clemen- solito non frequentano la parola scritta ma che venivano conceau: era stata rifiutata dal “Toronto Star” e ritrovata da William quistati dalla strepitosa biografia dell’autrice e dal suo eroismo
Burril agli inizi del ’92 nella bibliotedi prima linea.
ca di Boston intitolata a John FitzgeMi aspettavo che dicesse la sua
rald Kennedy. Sulla copertina di quel
sull’impaginazione del fascicolo in cui
“Michelangelo” (anno XXI, n. 1-2, gensarebbe comparsa l’intervista. Invece
naio-giugno 1992) compariva Giorgio
no: però scrisse di suo pugno le didaCaproni. Non ha pensato che potrei
scalie delle foto; riguardò poi le bozze
starci io sulla prossima, con la mia incon le proprie risposte, e più volte e
tervista? No, non ci avevo pensato.
con acribia le domande. Perché le sue
Allora non è un buon direttore, disse.
ai padroni del pianeta, lei usava moLe darò una fotografia che mi ha fatdificarle. Per farle più acuminate, più
to Francesco Scavullo. Io faccio vengraffianti, più irrevocabili. Sulle prime
dere, sa? E sono anche più bella di
si era mostrata perplessa che a porle a
Caproni e più brava di Hemingway,
lei fosse una ragazzina che usciva dalsoggiunse con un sorrisetto ironico che
l’università. Ha venticinque o ventisei
era la maschera della verità.
anni, le dissi. Appunto, replicò. Io ne
Tornai il giorno dopo, lei mi pas- Oriana Fallaci all’aeroporto di Da Nang nel 1968, in attesa di avevo sedici quando cominciai, e a
sò una decina di scatti che la ritrae- imbarcarsl su un elicottero per raggiungere la città di Huè.
diciannove ero all’“Europeo” di ArriNon di meno Ella può esser certa che
se io vivrò, vivrò alle Lettere, perché
ad altro non voglio né potrei vivere.
E
Caffè Michelangiolo
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Terza pagina
go Benedetti. Ma non infierì oltre: le piaceva essere in un foglio
letterario stampato a Firenze. Mi propose di aggiungere in quello stesso fascicolo l’inedito addio con cui aveva salutato suo padre al cimitero degli Allori, cinque anni prima. Fa un certo effetto rileggerne oggi l’incipit, il rito che la riguarderà diciotto
anni più tardi è annunciato già lì:
lorché sarà ministro e vicepresidente del Consiglio. Ed ebbe
molti altri amori: l’ultimo con Lawrence Rockfeller, uno della
massima dinastia finanziaria americana. Oriana Fallaci il suo con
Alekos Panagulis protagonista della Resistenza greca lo visse
sulle pagine del suo libro di maggior successo.
Con Malaparte, scrittore d’azione anche lui e sfacciata primadonna, il faccia a faccia non ci fu mai. Amori clamorosi nel
Non ci saranno cerisuo pedigree (nel trenta
Virginia Agnelli, nel cinmonie religiose. La religioquanta l’indossatrice amene di mio padre era la liricana che a Capri si getta
bertà, e la libertà non ha
nel vuoto), e il gioco di farbisogno di litanie o paralo fuori che non è mai
menti. Non si nutre di rismesso. Si continua a vocerche o speranze extralerlo un irregolare del Noterrene. Ci limiteremo
vecento, forse è questa condunque ad accompagnardizione che ha trattenuto
lo alla sua tomba e a dirgli
la Fallaci. Ma soprattutto
addio.
deve aver contato il batteQuando “Michelangesimo di una medesima terlo” uscì (anno XXIII, n. 1,
ra: due “maledetti”. Permanent Resident negli Stagennaio-marzo 1994), se ne
fece dare un centinaio di
ti Uniti continuo a tenere
esemplari, e non protestò
casa anche a Firenze e in
che l’intervista venisse
Toscana, ha scritto nel curdopo le pagine dedicate a Ernest Hemingway e Martha Gellhorn in un locale di Manhattan nel novembre del 1940. riculum che mi dette. Più
Arturo Loria. Il 27 marzo
di una volta sono andato a
c’erano state le elezioni poprenderla al n. 3 di Borgo
litiche e con la vecchia cinquecento con cui mi muovevo in San Lorenzo, dove aveva il suo dentista. Non sono a New York
centro l’avevo accompagnata al seggio, erano le ultime ore. i più bravi?, osservai una volta. Ci stessi io sulla Upper East
Prima di entrarci osservò i manifesti sui muri di piazza Santa Side… Qui sono ancora meglio, tagliò corto lei. Pensai che quel
Maria Novella. Che facce, disse. Il mio amico Vanni Sartori le di più stesse nella confidenza della lingua, nella familiarità con
dovrebbe vedere, non capisce niente della politica italiana. È da Dante e col Giambullari. Stavo per dirglielo, ma in via de’ Sertroppo tempo in America. Poi bruscamente mi domandò: lei per ragli fui costretto a una repentina frenata. Stesi un braccio dachi ha votato? L’avevo affidato a Mariotto Segni il mio voto: ave- vanti a lei, istintivamente, per evitarle l’urto sul parabrezza.
va vinto alla lotteria, ma ancora non sapevo che avesse perdu- Guardi che in bocca ho una fortuna, fece. E rise. Aveva passato il biglietto. Lei mi telefonò in piena notte, le proiezioni prean- to una vita su blindati, anfibi, elicotteri: non la impressionava
nunciavano una inaspettata riuscita della destra. Parri!, fece. Mi certo una vecchia cinquecento. Però che qualcuno le aprisse la
ha fatto votare per un perdente! Farfugliai una risposta: a sen- porta per farcela salire, questo sì.
tire il suo Malaparte, a vincere sono buoni tutti. Credo fosse
Era via de’ Serragli la strada per casa sua, ma anche quella
quella giusta perché abbassò la cornetta e per qualche giorno per raggiungere il Conventino. Aveva in mente un nuovo libro:
non si fece sentire.
il romanzo di Firenze e della sua famiglia. Era alla ricerca di
Non tanto con Hemingway era la sfida quanto con Martha materiali, e da quelle parti dovevano trovarsi indizi che riguarGellhorn, la terza moglie. Con un lancio travolgente di cinque mi- davano bisnonno, nonno e padre. Se non lo stato maggiore, lì era
lioni di copie “Life” aveva sì pubblicato in anteprima sulle sue dislocata una testa di ponte del movimento operaio. Gli antichi
pagine Il vecchio e il mare che al suo autore frutterà il Nobel; ma laboratori artigiani erano però adesso nient’altro che scheletri,
lei, la Gellhorn, era stata ben di più: la prima e più celebre inviata e nessuno da quelle parti sembrava disposto a ricordare. Lei tutal fronte. Guerra di Spagna, secondo conflitto mondiale: due tavia non arretrava, stambugi e androni in abbandono venivaepopee dell’annichilimento universale, i valori supremi annien- no esplorati e su chi si trovava sul suo passo scaricava raffiche
tati. Uno scenario d’apocalisse che è mancato a Oriana Fallaci. di domande che non avevano risposta. C’era una brutale proL’autore di Addio alle armi fu un grande spaccone piuttosto che vocazione negli sguardi che le rivolgevano quei grossi e restii inun uomo più grande della vita come è stato detto (“larger than terpellati, ma li bloccava quel popo’ di piglio. Parri, non è tanlife”): al suo editore scrisse nel ’49 di aver abbattuto per diver- to quello che cerco ma quello che voglio! Lo schiamazzo, il rugtimento centoventidue tedeschi prigionieri, e qualcuno ci ha gito della rivolta. Il preliminare dell’azione contro le egemonie
perfino creduto. A quell’epoca la Gellhorn lo aveva già mollato, e gli arbìtri del potere. Contro lo straripare della politica, quescrisse un romanzo ispirato a Pacciardi, l’Humphrey Bogart di sto fato dell’età moderna come aveva previsto Napoleone. Una
Casablanca (la Bergman era Martha, Paul Henreid era Ernest) utopia che fluiva nelle vene della sua famiglia a partire dal faconosciuto al tempo in cui comandava il Battaglione Garibaldi a moso congresso di Firenze del 1861. In particolare le premeva
Guadalajara e che poi a Roma frequenterà molto da vicino al- mettere le mani sull’atto di solidarietà con gli internazionalisti
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Caffè Michelangiolo
Terza pagina
condannati a Roma come malfattori nel
estremi a essere in studio, nei consigli
febbraio del 1889, fra di loro Errico Mad’amministrazione, in tribunale, nelle
latesta. C’erano le firme degli iscritti alla
commissioni tributarie, all’Ordine dei
federazione fiorentina. Già orfani della
dottori commercialisti, alle lezioni a VilCarboneria, erano ormai una tribù spala Favard. Io stavo nei paraggi, la macrita quegli anarchici che lanciavano clachina pronta per volare agli ospedali.
mori verso l’impossibile. Ne rimaneva
Spesso accadeva che non ce ne fosse il
l’eco sentimentale, come l’Addio Lugano
tempo, e dove capitava mi avventuravo
bella del livornese Pietro Gori: storia d’ain endovene e flebo. Una lotta fino almor tradito tra la bella città del Canton
l’ultimo fiato. Senza tregua, senza patto,
Ticino e i cavalieri erranti dell’ideale,
senza quartiere. Per quanto riguarda
espulsi dalla “repubblica borghese” dopo
Oriana Fallaci, passai la mano all’amico
i clamorosi attentati del ’94 culminati
Vittorio Cosimini. Un uomo della grancon l’uccisione del presidente francese
de editoria e un gentiluomo: dovrebbe
Carnot. Per lei tutte chiacchiere, i fatti
proseguirlo lui il capitolo Fallaci. Glielo
voleva. I documenti. Non la poesia, benavevo presentato qualche tempo prima,
sì il marchio a fuoco di quei caratteri che
lui allora era a capo della Utet (già Pomhanno fornito una fiera e cruda passione
ba) e in quegli archivi lei pensava di troal socialismo italiano. E alcuni dei cervarci qualcosa.
velli più confusi ma anche alcune delle
La guerra di Oriana Fallaci si è procoscienze più immacolate che l’Italia abtratta più a lungo. Si trattava di un nebia mai avuto, aggiungeva Montanelli: Oriana Fallaci e Alekos Panagulis in una foto del 1974. mico di cui aveva paura ma che non tema a questo lei però storceva la bocca.
meva. Era penetrato nella sua famiglia,
Quando se ne tornava a New York per lei era sottinteso che una quinta colonna. Me lo raccontò al primo incontro. Sua sodovessi procedere io in quelle sue indagini, sul campo e nelle bi- rella Neera… e anche Paola era stata aggredita. Non ricordo se
blioteche. Mi telefonava dal suo ufficio alla Rizzoli nella Cin- le dissi di Carla, comunque lo seppe. E più volte ne domandò a
quantasettesima, immensi vetri e sterminato tavolo me lo im- Cosimini. Lei ora è agli Allori, Carla a San Donato sopra l’Apmaginavo. Là era l’imbrunire, qua era notte. Oh… Signora parita. Mi sono chiesto spesso in questi anni che cosa ne fosse del
Fallaci! come sta? Subito mostrava di irritarsi. Gliel’ho già det- romanzo di famiglia, mi aspettavo sempre di vederlo nelle lito! mi chiamano tutti Oriana, solo lei… Appunto! Signora Fal- brerie. Evidentemente qualcosa era intervenuto, per tenerselo
laci è più intimo, non trova? Allorché stava per rientrare in Ita- nascosto dentro. Così come non si è trattato della esibizione di
lia me lo faceva annunciare dalla sua seuna inattuale Cassandra il soprassalto di
gretaria, Ilaria Sartori. La vidi nel marrabbia e orgoglio, piuttosto l’atto di rizo del ’95, l’ultima volta. Mi chiamò nel
bellione estremo a un male che la stava
pomeriggio, per stare insieme a cena.
corrompendo. Un male lungo e implacaPorti sua moglie, aggiunse. È da tanto
bile, con cui si trovava da sola a lottare.
che vorrei conoscerla.
E che ingigantiva di momento in moEra la terza o la quarta cena alla Logmento, si espandeva. Fino a diventare il
gia del piazzale Michelangiolo, e anche
male del mondo. Io voglio pensare che
questa volta si mangiò orribilmente ma
l’abbia scritto, e magari tenuto in un caslei lì era coccolata. Le tenevano una sasetto perché è il genere di libro che non si
lettina in disparte, non c’era nessun altro.
può licenziare se non postumo. Il libro
Mangiava poco e parlava. Dopo la riacdella verità della vita. Che forse non si
compagnammo in via Prati, sarà stato
venderà a milioni di esemplari ma che gli
intorno alla mezzanotte. Un giovedì. Non
Hemingway e i Malaparte non sono riuvolle che arrivassi fino al portone, si sofscititi a scrivere.
fermò al cancello e guardò verso la macLa sua morte lei l’ha voluta a Firenze.
china dov’era rimasta Carla. Mi piace
Una morte in punta di piedi, lei che ci
sua moglie, disse. Una intelligenza pronaveva abituato ai colpi di scena. Lascia
ta, ed anche una gran bella donna.
nelle anime attente quel senso di panico
E tornò a guardare dalla parte di Carla.
che subentra alla scomparsa di persona
Ma c’è qualcosa, aggiunse. Non so, è
che si elevi alta e forte sulle lambiccate élicome se la sofferenza la velasse… Vada
te al neon, che al massimo fanno la croParri, non la lasci sola. Richiuse il cannaca e mai la storia. Per quel che mi concello, e sulle pietre echeggiò il breve piccerne ho il rammarico di non averla più
chiettio dei ripidi tacchi.
avvicinata, anche se non c’è uomo che
Meno di un mese dopo Carla si scoriesca per molto a stare con una donna
prì il tumore. La guerra durò ventidue Curzio Malaparte e Virginia Agnelli fotografati a Pae- che impegni senza sosta tutte le sue famesi. Lei continuò quasi fino ai giorni stum in un’estate degli anni Trenta.
coltà.
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Caffè Michelangiolo
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Buone arti
Oriana Fallaci: «Le mie corrispondenze di guerra sono racconti,
le mie interviste ai potenti della terra sono pièce».
Riproponiamo il “ritratto di se stessa” comparso nel 1994
sulla rivista di scienze umane “Michelangelo”
IL SOFFIO DELL’INTERIORITÀ
intervista a Oriana Fallaci di Maria Antonietta Cruciata
P
uò la parola scritta accettare il
silenzio, o se interrogata «maestosamente tacere»? Può la parola parlata isolarsi dal ricco e caotico
contesto dell’esistenza e porsi, impune
nello spazio neutro e muto della pagina scritta? Può insomma l’una escludere l’altra, o l’una servirsi dell’altra,
senza mortificare o tradire o ignorare la
specificità di ciascuna? Nella trentasettesima edizione di Lettera a un
bambino mai nato, un romanzo breve
che Panagulis non esitò a definire addirittura «poema»,
Oriana Fallaci sembra rispondere a questi interrogativi, leggendo, recitando, interpretando se stessa. Dando insomma
voce ad una tragedia umana
spinta ad oltrepassare i confini
sorvegliati della letteratura in
nome di un movimento del
dire che sia perfezione di senso e di oralità. Ecco dunque
farsi strada l’esperienza del limite violato, del nome che diviene pensiero, del segno che
diviene suono, del silenzio che
diviene ritmo, dell’inerzia della parola che diviene passione
della parola parlata. Ed è proprio lungo questa linea di confine che prende avvio la presente intervista fatta di domande inoltrate già scritte e di
risposte restituite già scritte,
come presagio di un incontro
ancora possibile.
Che cosa l’ha spinta a registrare per un’intera estate Lettera a un bambino mai nato?
L’
idea che il libroparlato,
come amo chiamare l’audio-libro, possa molto contri-
6
buire alla diffusione della cultura e in
particolare della letteratura. Vede, leggere con gli occhi e cioè da soli richiede tre lussi a cui la gente s’è disabituata: tempo, concentrazione, immobilità.
Il tempo perché oggi la vita è assai più
complicata di quanto lo fosse un secolo fa o anche cinquant’anni fa: bombardati da informazioni, sollecitazioni, curiosità che prima non esistevano,
ci troviamo con molte più cose da fare.
Da vedere, sapere, scoprire. E questo ci
accorcia le giornate, ci riduce il tempo… La concentrazione perché il
trionfo del cinema e della tv ha sostituito il dominio della parola scritta con
quello delle immagini. Come dice il
Professore nella seconda lettera di Insciallah nessuno resiste al narcotico richiamo dello schermo: al perpetuo svago offertoci dalla moderna Medusa che
ignora le nostre meningi. E questo favorisce la pigrizia mentale… L’immobilità perché, grazie ai veloci mezzi di
trasporto, la nostra è diventata una società mobile. Una società che non sta mai ferma,
che si sposta continuamente da
un punto all’altro del pianeta e
del proprio territorio. Per lavorare, per divertirsi, per incontrarsi… Di conseguenza, e
nonostante la pletora dei libri
pubblicati, si legge assai meno.
E molti non leggono più. Non è
dunque giusto che qualcuno
legga ad alta voce per chi non
legge o legge troppo poco? Non
è dunque utile che qualcuno
riempia i ritagli di tempo di
chi non ha tempo di fermarsi e
leggere con gli occhi? Il mio
esempio tipico è quello dell’automobilista che si sposta
da una città all’altra o da un
capo all’altro della sua città e
che durante il viaggio si fa
compagnia ascoltando la radio. O meglio, le canzoni che la
radio trasmette. Però c’è anche l’esempio di chi fa un lavoro manuale, cioè un lavoro
che consente di pensare a cose
diverse da quelle che si stanno
facendo. Il lavoro d’una sarta,
d’una domestica, d’un imbianLa copertina di “Michelangelo” (anno XXIII, n. 1, gennaio-marzo 1994,
chino, d’un trattorista… Tutta
direttore Mario Graziano Parri) su cui uscì l’intervista alla scrittrice, che qui
viene riproposta integralmente. L’intenso ritratto è di Francesco Scavullo. gente che lavorando è solita
Caffè Michelangiolo
Buone arti
ascoltare la radio, le canzoni anzi le canzonacce
che la radio trasmette.
Non è meglio offrir loro
un libroparlato?
In un’altra intervista
lei ha definito questa sua
fatica «un ritorno alle origini, un poetico imbarbarimento». Perché?
P
erché lo è. Perché non
ho inventato nulla di
nuovo. Perché la sola e
vera novità del mio libroparlato sta nel fatto che lo
abbia letto io: cosa che in
Italia anzi in Europa nessuno aveva mai tentato.
Come non mi stancherò Oriana Fallaci a New York, ritratta dall’obiettivo di Oliviero Toscani.
mai di ripetere, è da Adamo ed Eva che la cultura si diffonde scare caverne. Cioè un uomo che pensa
attraverso la parola parlata cioè a come noi e pensando elabora leggi e
voce… Vede, io non ho un’illimitata fi- leggende, storie e poesie da diffondere
ducia nelle conclusioni che gli studiosi di bocca in bocca, tramandare di figlio
traggono dalle scoperte archeologiche. in figlio. Ma cos’altro si fa quando, in
L’archeologia è una scienza così incon- una sala di registrazione, si incide su
trollabile, così inesatta. Si affida quasi nastro un libro?
sempre alle ipotesi, tira quasi sempre a
indovinare. Però non abbiamo altro per
In parole diverse, ritiene che l’aucercar di sapere chi siamo, da dove ve- dio-libro sia un nuovo metodo di traniamo. E, se è vero che i Sumeri sono smissione orale?
stati i primi a tradurre la
parola parlata in parola
scritta, se è vero che le tavolette di argilla trovate a
Uruk risalgono al 3500
a.C., dobbiamo dedurne
che il sistema grafico ha
appena cinque o seimila
anni. Un niente in confronto ai tre milioni di
anni che si attribuiscono
all’Uomo. E, quando cerco di immaginare l’Uomo
della preistoria, io non
vedo uno scimmione come
Koko: il gorilla allevato in
California e al quale la
professoressa Francine
Peterson ha insegnato a
maneggiare i pennelli,
mangiare col cucchiaio,
contare fino a dieci. Vedo
un uomo così intelligente
da saper accendere il fuoco, inventare la ruota,
fabbricare arnesi, affre- Oriana Fallaci in zona di guerra (pressi di Huè, Vietnam, 1975).
Caffè Michelangiolo
E
sattamente. Ma più
che un nuovo metodo
direi uno sviluppo. L’estremo sviluppo d’un sistema che non s’è mai
estinto, che è rimasto anche dopo l’avvento della
parola scritta. E non solo
presso i popoli nomadi,
cioè i popoli che non potevan spostarsi portandosi dietro l’ingombrante
carico dei papiri o delle
tavolette d’argilla… Pensi al Gilgamesh, il poema
sumero che racconta le
imprese di re Uruk. A
quanto pare, è stato composto nel 2600 a.C. e trascritto nel 2000 a.C. Ciò
significa che per seicento
anni venne trasmesso a
voce. Oppure pensi allo Shihching, la
raccolta di versi che è alla base della
poesia cinese. A quanto sembra, risale
al 1600 a.C. ed è stato trascritto da
Confucio verso il 500 a.C. Ciò significa che per oltre mille anni venne trasmesso a voce come il Gilgamesh.
E non è opinione comune che le discontinuità dell’Iliade e dell’Odissea
siano dovute alla lunga trasmissione
orale? Non è una realtà storica che i
Vangeli di Luca e Marco e
Matteo siano stati trascritti sessanta anni dopo
la morte di Cristo, quello
di Giovanni ben cento
anni dopo, e che prima di
allora siano stati diffusi a
voce?
In Insciallah il Professore tiene sul muro un foglio che dice «Il linguaggio parlato è di sua natura sciatto e impreciso».
Il linguaggio scritto invece dà tempo di riflettere e
scegliere le parole. Però,
nel suo audio-libro scrittura e oralità interagiscono armoniosamente.
L’una vive dell’altra e la
parola scritta diviene
azione, memoria che non
sa tacere. Qual è il suo
rapporto con la scrittura
e l’oralità?
7
Buone arti
I
o non sono un oratore. E
perché non dimentico mai
neanche un attore, un’atche la parola scritta è voce.
trice, sebbene molti sostengano che con la lettura di
Lei ha più volte affermato
Lettera a un bambino mai
che scrivere è una gran
nato mi sono rivelata attrice.
pena, un gran sacrificio, ma
Io sono uno scrittore. Amo la
che fa compagnia in quanto
parola scritta, mi esprimo
lo si esercita in solitudine.
bene attraverso la parola
Perché trova la solitudine
scritta, e non so improvvisanecessaria all’atto creativo?
re un discorso a voce. La
prova è che, quando mi chiaerché insieme col silenzio
aiuta a raggiungere la
mano nelle università americane e dò una lecture, non
concentrazione. Io non so
come facessero certi scrittori
improvviso mai. Scrivo tutto
prima. Sia alla Harvard Unifrancesi, a scrivere tra la
gente e il fracasso del Café
versity che alla Yale University o alla Boston University, Nello scatto di Oliviero Toscani un angolo dello studio di Oriana Fallaci nel- de Flore o del Café Deux Masua casa di New York. Al muro, l’elmetto del Vietnam, la borraccia e lo zaigots. Non so come facciano
tanto per citarne qualcuna, la
no usati dal 1967 al 1975. Sullo zaino la scritta: «Se ferita in azione o ucmi hanno sempre visto par- cisa in azione, prego informare l’ambasciata italiana a Saigon. Se uccisa in certi giornalisti a scrivere in
una stanza piena di colleghi
lare coi fogli in mano… Peg- azione prego inviare il corpo all’ambasciatore Tornetta. Grazie.».
che telefonano o discutono o
gio: anche se devo fare un
rapido discorsino, me lo scrivo prima. maltrattare il congiuntivo e il condi- ridono. Se non sono sola e intorno a me
Anni fa, a Chicago, ricevetti la laurea zionale, offendere la consecutio tem- non c’è silenzio, il più assoluto silenzio,
in Lettere honoris causa. Dovevo ac- porum. Significa anche non tener con- io non riesco a stilare nemmeno una
cettarla con un ringraziamento che non to del suono delle parole, non dare rit- didascalia. Ogni rumore mi disturba,
durasse più di cinque o sei minuti, ep- mo alla frase e alla pagina, bistrattar- ogni presenza mi irrita. Quando scripure me lo scrissi. Lo feci proprio per- la con rozzezze fonetiche. Detesto tut- vevo Insciallah nella mia casa di New
ché il linguaggio parlato è di sua natu- to ciò che le toglie scorrevolezza e di- York, successe una cosa terribile. Di
ra sciatto e impreciso, quello scritto in- sturba l’orecchio. Detesto le assonanze, colpo la strada sulla quale si aprono le
vece dà il tempo di riflettere e sceglie- le allitterazioni, le rime… Quelle che in finestre dello studio divenne un parre le parole. Ergo, nel mio audio-libro italiano vengono coniugando all’im- cheggio di limousines con la radio acscrittura e oralità si fondono in quan- perfetto o al participio passato i verbi cesa, e dalla mattina alla sera era un
to leggo un testo scritto. Cioè elabora- regolari, ad esempio. O quelle che ven- gracchiar di vociacce che chiamavano
to, limato. Chiarito questo, però, mi gono avvicinando vocaboli col medesi- gli autisti. Senza contare il baccano di
lasci dire qualcosa che ho già detto anzi mo suono: “condizione”, “convinzio- chi ingannava l’attesa chiacchierando
sempre detto: la parola scritta non è ne”, “situazione”, “affermazione”… sul marciapiede, e il piffero d’un cretimuta. È voce. V’è un continuum ma- Per evitarle faccio capriole da acroba- no che per non annoiarsi suonava ininteriale, un rapporto fisico, fra l’appa- ta, piroette da giocoliere. E sa perché ci terrottamente. Beh, non potevo più
rente astrattezza della parola scritta e riesco? Perché parlo mentre scrivo, scrivere. Non ne fui capace finché la
polizia li cacciò. Durante la
la corporeità della parola
registrazione di Lettera a un
parlata. Lo stesso continuum
bambino mai nato, lo stesmateriale, rapporto fisico,
so. Molti mi chiedono perché
che v’è tra la musica scritta e
mi sono autodiretta, perché
la musica suonata. Infatti io
da sola ho scelto le musiche,
non scrivo a bocca chiusa.
le ho mixate, le ho montate.
Mentre scrivo, parlo. Mi biE ogni volta rispondo: «Non
sbiglio le parole, me le recito.
mi serviva un regista». Ma il
Cosa che mi serve, oltretutto,
vero motivo è un altro. È che
a comporre il testo col ritmo
un regista avrebbe interrotto
che è in me: a dargli la mula mia solitudine, turbato la
sicalità, l’armonia, la metrimia concentrazione. C’era
ca che cerco. Vede, secondo
già il tecnico del suono a inme la metrica non appartiecrinarla. Se avessi potuto,
ne alla poesia e basta. Ci
avrei fatto a meno anche di
vuole anche nella prosa. Selui. Inoltre le dirò: io non
condo me scrivere male non
significa soltanto fare errori Un autografo di Oriana Fallaci: la trascrizone di propria mano delle dispo- sono una persona troppo socievole. Non hanno tutti i
di ortografia e di sintassi, sizioni impresse sullo zaino da lei usato in Vietnam dal 1967 al 1975.
P
8
Caffè Michelangiolo
Buone arti
Una immagine emblematica: Oriana Fallaci in una
foto scattata da Simon Petri sul Y Bridge, a Saigon, nel 1975, durante un’offensiva.
torti coloro che mi accusano di «gretagarbeggiare». Perché a stare con la
gente, spesso mi annoio. A stare sola,
invece, non mi annoio mai.
La spina dorsale, il filo conduttore
di Insciallah, è l’equazione di Ludwig
Boltzmann che lei identifica con la formula della Morte. E il tema della morte c’era, c’è, anche in Lettera a un
bambino mai nato. Perché?
C’
era, c’è, anche in Un
uomo: libro che incomincia e finisce coi funerali
del protagonista. C’era, c’è,
anche in Niente e così sia:
diario di guerra e quindi di
morte. C’era, c’è, anche in
Se il Sole muore, dove il verbo morire si trova addirittura nel titolo. Però in ciascuno
di essi v’è un tema parallelo:
il tema della Vita. Più che la
morte, quindi, direi che il
tema dei miei libri è l’eterno
scontro tra la Vita e la Morte.
Perché? Mah! Sarebbe come
chiedermi perché ho gli occhi
celesti. Per rispondere a certe domande bisognerebbe
fare un’indagine genetica o
autopsicanalizzarsi. Proviamo la seconda via… Beh
Caffè Michelangiolo
perché sono cresciuta nella guerra, cioè
sotto i bombardamenti, i cannoneggiamenti, le sparatorie, il terrore: suppongo. Perché ho conosciuto la fame, il
freddo, la paura, la lotta per la sopravvivenza. Perché quando i fascisti
hanno arrestato mio padre, che era un
capo della Resistenza, ho letto “La Nazione” di Firenze che sotto un titolo a
quattro colonne – un titolo che lo definiva «terrorista», anzi «pericoloso terrorista» – insinuava che lo avrebbero
fucilato… Perché, quando sono andata a visitarlo in carcere, l’ho trovato
sfigurato dalle torture e l’ho sentito
dire alla mamma: «Vedrai che non mi
fucileranno. Vedrai che mi manderanno in un campo di concentramento in
Germania. Un posto come Dakau o
Mathausen». Quasi che Dakau e
Mathausen fossero state Montecarlo o
Acapulco… Perché da adulta sono tornata alla guerra e da corrispondente
di guerra ho seguito quasi tutte le guerre del nostro tempo. Quella in Vietnam, quella in Pakistan, quelle del Medio Oriente: su fino alla guerra nel
Golfo… Perché sono rimasta ferita da
schegge e pallottole, una delle quali
m’ha beccato in un polmone, e poi
sono stata buttata tra i morti della
morgue dove mi hanno lasciato un bel
po’ credendo che fossi morta anch’io…
Perché ho visto troppe stragi, troppi
cadaveri. Perché uno di quei cadaveri
era quello dell’uomo che amavo. Perché tutte le persone che amavo son
Un altro ritratto della scrittrice “al quale teneva
molto”, eseguito da Oliviero Toscani.
morte, incluso mio padre e mia madre
e mia sorella Neera. Perché odio la
Morte e rifiuto di accettarla, perché
amo disperatamente la Vita… Infatti se
analizza bene i miei libri noterà che si
concludono tutti col trionfo della Vita.
«Morire, una semplice battuta di arresto. Una pausa di riposo, un breve sonno per prepararsi a rinascere, a rivivere
per morire di nuovo sì ma per rinascere ancora, rivivere ancora, vivere vivere vivere all’infinito», dice Angelo prima
di saltare in aria con la terza
nave, alla fine di Insciallah. E
Lettera a un bambino mai
nato finisce con queste parole: «Ora muoio anch’io. Ma
non conta. Perché la Vita non
muore».
Con Insciallah lei ha appena vinto il premio internazionale che ogni anno i francesi attribuiscono a uno
scrittore «la cui opera ha
marcato un’epoca»: il premio
Antibes. Che cosa rappresenta questa vittoria per lei?
L
Oriana Fallaci, con il chador, durante la storica intervista a Khomeini, pubblicata sul “Corriere della Sera”, del 26 settembre 1979.
e risponderò con la mia
consueta, brutale sincerità. Una vittoria che non mi
aspettavo e che mi è caduta
sulla testa come un vaso di
9
Buone arti
gerani. Io non concorro mai ai premi,
Come guarda, oggi, al giornalismo manettandomi con gli inviolabili ceppi
non credo molto ai premi. Soprattutto che ha fagocitato tanta parte della sua della cronaca esatta, dell’informazione
in Italia, sono onorificenze che la gen- vita?
precisa, ha ritardato per almeno
te si scambia col sistema della taranvent’anni la conquista del traguardo
tella napoletana: «Io dò ’na cosa a te,
on gratitudine e con rancore. Gra- che m’ero prefissa da ragazzina. Il tratu dai ’na cosa a me». Nel medesimo
titudine perché al giornalismo io guardo del romanzo. Mi ha impedito di
tempo, però l’ho visto come un ricono- devo molto. L’esercizio dello scrivere, volar subito nei cieli della fantasia, inscimento che Insciallah merita. È un ad esempio. Il denaro che fin da ado- somma. Mi ha rubato tempo prezioso.
bel libro, Insciallah. Un libro impor- lescente sono stata costretta a guada- Inoltre… Voglio confidarle una cosa:
tante. Un po’ difficile, forse,
intellettualmente, il giornaliun po’ troppo intriso di prosmo non mi ha mai soddiblemi matematici che possosfatto. Mi è sempre stato
no infastidire il lettore meno
stretto come una giacca
preparato. Infatti alcuni non
stretta, scomodo come un
sono riusciti a leggerlo tutto
paio di scarpe scomode, e la
ed altri non l’hanno capito.
sua verità non mi è mai baPerò ha una struttura narstata. È così incompleta, la
rativa e un’architettura di
verità vera della cronaca. La
cui vado assai fiera, ha un
verità offerta dal giornalipathos che mi convince, e lo
smo. È così parziale, acciconsidero il mio romanzo
dentale, transitoria. Non
migliore. Il più maturo. In
dura e ben di rado ci serve
Francia è piaciuto molto.
da specchio. La verità inPerfino a Francoise Giraud
ventata anzi reinventata del
cui non piace mai nulla.
romanzo, invece, è una ve«Non fatevi spaventare dal- Oriana Fallaci fotografata nel campo dei Marines il giorno precedente la batta- rità eterna. Universale. Una
la mole di questo libro» in- glia di Dak-to, nell’ottobre 1967. In Vietnam, la scrittrice andò per la prima vol- verità nella quale chiunque
nel 1967, iniziando la sua carriera di corrispondente di guerra. Ci sarebbe poi
cominciava la sua critica, ta
può riconoscersi. «Alekos
tornata per otto anni consecutivi, fino alla cessazione delle ostilità, nel 1975.
«ricordatevi che i grandi lisono io», mi disse, dopo aver
bri della nostra giovinezza
letto Un uomo, una settantaerano lunghi come questo ed anche gnarmi per mangiare, pagare gli studi, quattrenne signora di Milano. «Quel
più lunghi. Guerra e pace, ad esempio. aiutare la mia famiglia. E una vita dif- bambino sono io» mi disse, dopo aver
Per non parlare de La Recherche, di ficile, spesso dolorosa, ma interessante. letto Lettera a un bambino mai nato,
Proust…». E in America Paul William Un’esistenza ricca di vantaggi che un un povero falegname di Firenze.
Roberts, altro critico non generoso, lo altro mestiere non avrebbe potuto pro- E dopo aver letto in francese Inscialha definito, bontà sua, «uno dei mi- curarmi. Quello di guardar da vicino i lah, un ragazzo di Beirut mi ha scritto:
gliori romanzi degli ultimi vent’anni». più grossi eventi della nostra epoca, «Bilal è mio padre Ahmed. Quando lo
Nonché altre lodi che non oso ripetere. viverci dentro come un tarlo nel le- ha conosciuto?» Non l’ho mai conoSì, mi consola molto che la giuria del gno… Quello di trovarsi a tu per tu sciuto. Bilal è un personaggio complePremio Antibes – una giuria composta coi padroni del mondo e dialogarci, a tamente inventato.
di gente incontentabile, quasi tutti volte litigarci… Quello di andare alle
membri dell’Académie Française – lo guerre e in esse misurarsi col proprio
Esiste un episodio che illustra il suo
abbia scelto. Ma v’è un altro motivo coraggio o la propria paura, la propria dualismo di giornalista e di scrittore?
per cui quel riconoscimento mi inor- dignità… Infine, o soprattutto, l’avgoglisce: sia in inglese che in francese ventura. Io non so vivere, non avrei
ualismo non è la parola giusta
Insciallah è stato tradotto da me. saputo vivere, senza avventura. Qualperché – ecco il punto – quel duaE tradurlo in inglese è stato abbastan- siasi cosa mi accada, anche una di- lisno non è mai esistito. Come Malaza facile: con l’inglese io sono pratica- sgrazia o una malattia mortale, io la parte, come Hemingway, come Dos
mente bilingue. Tradurlo in francese è trasformo in avventura. Sfida, avven- Passos, come Jack London e Kipling e
stato, al contrario, una gran fatica. tura. E di avventure il giornalismo me Dickens e tutti gli scrittori che hanno
Tremavo, il giorno in cui Gallimard ne ha regalate parecchie. Però nessuna incominciato col giornalismo o al giorl’ha pubblicato. Guardavo lo pseudo- m’è venuta gratis, ciascuna m’è costa- nalismo si sono dedicati, io ero uno
nimo che m’ero data come traduttore, ta un prezzo assai alto, e oggi posso scrittore anche quando scrivevo amVictor France, e dicevo: «Povero si- affermare che da me il giornalismo ha manettata dagli implacabili anzi ingnor France! Che diranno del signor preso più di quanto m’abbia dato. Per- violabili ceppi della cronaca esatta,
France?». Ora invece dico: beh, non si ché, ubriacandomi con l’avventura, ha dell’informazione precisa. Anziché di
premia un libro tradotto male. Se requisito troppo a lungo le mie doti di dualismo, quindi, parlerei di dramma.
l’hanno premiato, significa che ho fat- scrittore: le ha sequestrate, tenute in E, in quel senso, di episodi ve ne sono
ostaggio, per almeno vent’anni. E am- molti. Le racconterò il più significatito un buon lavoro.
C
D
10
Caffè Michelangiolo
Buone arti
vo. Nell’inverno del 1974-1975, gli
anni in cui infuriavano le polemiche
sull’aborto, l’allora direttore dell’“Europeo” – Tommaso Giglio – mi chiamò
e mi disse: «Ti dò quattro mesi per far
sull’argomento un’inchiesta a puntate.
Non voglio sapere come la fai, dove la
fai, con chi la fai. Voglio che tu la faccia e basta. Torna a primavera con un
centinaio di cartelle». Io andai a casa,
e invece di organizzare l’inchiesta infilai un foglio nella mia Olivetti. Quasi in stato di trance, incominciai a scrivere: «Stanotte ho saputo che c’eri.
Una goccia di vita scappata dal nulla.
Me ne stavo con gli occhi spalancati
nel buio e d’un tratto, in quel buio,
s’è acceso un lampo di eertezza. Si,
c’eri. Esistevi». Insomma, l’inizio di
Lettera a un bambino mai nato. Da
quel giorno, per quattro mesi che poi
divennero sei, non feci altro. E quando il libro finalmente fu concluso mi
presentai a Giglio con quello. «Senti,
Tommaso», farfugliai tutta imbarazzata «io l’inchiesta non l’ho mica fat-
Oriana Fallaci vista da Oliviero Toscani sullo sfondo di Manhattan e Wall Street.
ta… Però ho scritto un romanzo, e se
vuoi pubblicarlo a puntate…». Gesù
mio, quanto si arrabbiò! Gli andò il
sangue al cervello. «Disgraziataaa!»
gridava. «Irresponsabileee! Che me ne
faccio io d’un romanzooo! Portalo ai
tuoi editori il romanzooo!» Povero Giglio. Aveva ragione lui, inutile dirlo.
Avevo commesso una scorrettezza, una
carognata. Ma a riflettere sull’aborto,
sul dilemma nascere o non-nascere,
quel libro m’era scoppiato in testa
come uno starnuto. E quei quattro
mesi di libertà mai goduta m’erano
sembrati una fortuna da usare in qualcosa di meglio che un’inchiesta. In parole diverse, e per adeguarmi al suo
vocabolo «dualismo», lo scrittore aveva spazzato via il giornalista. Aveva
vinto sul giornalista cui la verità della
cronaca non bastava.
Cos’è che non è mai stato detto, o
non sufficientemente detto, sul suo lavoro?
Q
Oriana Fallaci in una strada di New York.
Caffè Michelangiolo
uello che le ho appena spiegato.
E cioè che – come Malaparte, come
Hemingway, come Dos Passos, Jack
London, Kipling, Dickens, come tutti
gli scrittori dedicatisi al giornalismo –
non sono uno scrittore “venuto” dal
giornalismo bensì uno scrittore “prestato” al giornalismo. Se preferisce,
uno scrittore che ha fatto un bel giornalismo proprio perché era scrittore.
Rilegga le mie corrispondenze di guerra o le mie interviste ai padroni del
mondo: le prime sono racconti,
short-stories, piuttosto che corrispondenze. Le seconde sono pièces teatrali,
piccole commedie, piuttosto che interviste. Più o meno, il caso che “Michelangelo” ha dimostrato pubblicando
proprio nel primo numero di questa
sua nuova serie l’intervista che Hemingway fece a ventitré anni con Clemenceau… Comunque anche questa
verità taciuta, o negata o non capita,
ora incomincia a farsi strada. Presto
uscirà la biografia professionale che un
docente di letteratura italiana e francese di una università americana mi
ha dedicato. E la tesi sostenuta nelle
seicento pagine di quel libro è proprio
quella ch’io fossi uno scrittore anche
quando facevo il giornalista. Bene,
bene… Come dice il santo proverbio,
meglio tardi che mai.
■
NOTA
L’intervista di M.A. Cruciata a Oriana Fallaci uscì in esclusiva dodici anni fa sul trimestrale
di scienze umane “Michelangelo” (Anno XXIII Nuova Serie n. 1 - Gennaio-Marzo 1994, Dir.
M.G. Parri). Il titolo è stato dettato dalla stessa
Oriana Fallaci e sue sono anche le didascalie alle
immagini da lei stessa fornite.
11
Buone arti
L’addio al padre della figlia Oriana dal pulpito della cappella
nel cimitero degli Allori a Firenze il 9 febbraio 1988
A EDOARDO FALLACI
di Oriana Fallaci
N
on ci saranno cerimonie religiose. La
religione di mio
padre era la libertà, e la
libertà non ha bisogno di
litanie o paramenti. Non
si nutre di ricerche o speranze extraterrene. Ci limiteremo dunque ad accompagnarlo alla sua
tomba e a dirgli addio.
artista. «Non dimenticate
che vostro padre è un artista» ci scrisse la mamma
poco prima di morire, dieci anni fa. Lo era, nel senso più vasto del termine, e
non perché disegnasse così
bene o intagliasse così
bene il legno. Era anche
molte altre cose. Un libertario disciplinato che condannava acerbamente
rima che questo avchiunque scambiasse la livenga, però, devo rinbertà per licenza. Un bragraziarvi anche a nome
vo cittadino che insieme ai
delle mie sorelle d’essere
diritti invocava i doveri e
venuti a salutarlo. La voad ogni pretesto brontolastra presenza ci consola Jacopo del Sellaio (1442-93), Cristo deposto nel sepolcro (part.), tavola, Firenze, Gal- va «oggi si parla troppo di
perché se potesse vedervi leria dell’Accademia. Dietro la testa del Cristo, la raffigurazione di Firenze.
diritti e troppo poco di do– io lo so – il babbo sarebveri». Un democratico
be felice d’avere intorno a sé i vecchi
coerente che tollerava gli avversari più
compagni di fede e di lotta, gli amici di
odiosi e si ribellava con civiltà agli abuieri e di oggi, i rappresentanti del cosi pubblici e privati. Un nemico della
mune di Firenze cioè della sua amatissifurbizia che disprezzava i compromessi
ma patria, e quelli del sindacato Artie le ipocrisie quanto i fanatismi. Un saggiani e del sindacato Metallurgici. Sagio che non cercava, che non ha mai derebbe altrettanto felice d’essere onorato
siderato, la ricchezza e la fama. Infatti
da queste bandiere: le sole che avessero
ha sempre vissuto del suo lavoro malun significato per lui, le sole nelle quali
pagato e poi della sua pensione, questo
si riconoscesse. La bandiera di Giustizia
piccolo grande uomo che agli sciocchi
e Libertà, anzitutto, sotto la quale comsembrava un uomo qualsiasi: un uomo
batté durante la Resistenza e fu arreche non contava nulla o contava poco.
stato da Mario Carità, torturato a Ville
Non si smentì mai, non tradì mai se
Triste coi suoi compagni del partito
stesso. A un certo punto della sua vita,
d’Azione. E poi la bandiera della fiom,
deluso da una classe politica che aveva
di cui fu uno dei fondatori e per cui latradito i suoi sogni e i suoi ideali, si ritirò
vorò con tanta dedizione, tanto buonin superbo esilio come un Cincinnato in
senso, senso di responsabilità, quando il
cerca d’una impossibile pace tra gli alsindacalismo era una cosa seria. Infine,
beri e i fiori che amava con la delicatezil gonfalone di Greve in Chianti, la sua
za di una fanciulla. Si trasferì nella camseconda patria, dove lo incontravate
pagna di Greve in Chianti e qui rimase:
ogni sabato mattina a fare la spesa o a
solo coi suoi cani e i suoi gatti, le sue api
godersi il mercato in piazza.
e le sue oche, le sue caprette e i suoi picSiete qui perché gli volevate bene.
cioni, i suoi conigli e le sue galline che
E gli volevate bene perché lo conoscenon ammazzava mai e che quindi invate. Dunque non v’è bisogno che vi
vecchiavano insieme a lui: da lui nutriparli troppo a lungo di quest’uomo delite e rispettate come persone. «Gli anidel Sellaio (1442-93), San Giovannino, tazioso e difficile, simpatico e intelligente, Jacopo
mali» diceva «sono meglio degli uomini.
vola, Washington, National Gallery of Art. Si noti
scontroso e divertente, orgoglioso e mo- al di sopra del braccio del santo la rappresenta- E ti fanno più compagnia». (Chi podesto, dolce e ferrigno: complicatissimo, zione di Firenze.
trebbe negarlo.) Però nel superbo esilio
P
12
Caffè Michelangiolo
Buone arti
restò sempre attento agli
Credo che mi abbia udieventi della Storia, agli
to, che sia morto ascoltando
errori e alle colpe di chi
quelle parole. Era lucido.
aveva tradito i suoi sogni
Comunque glielo dico di
e i suoi ideali: sempre
nuovo, dinanzi a voi, con
informato, pronto a dare
sterminata ammirazione,
giudizi lucidi e lungimisterminata fierezza: «Babranti, a fustigare con befbo, che uomo coraggioso
farda ironia eppure senza
eri! Che uomo straordinarancore le congreghe e le
rio!». E dinanzi a voi, insiemafie di una politica che
me alle mie sorelle, lo rinchiamava «la manjoir, la
grazio per tutto quello che
mangiatoia». Eh! Non
mi ha dato, che ci ha dato,
conosceva giri di frase, il
per tutto quello che mi ha
babbo. Lo sa chi, come
insegnato, che ci ha inseme, fu testimone del lungnato. Per esempio, a dire
go tormento che nel 1978
pane al pane e vino al vino,
lo indusse a divorziare
a non avere paura di nulla e
dal partito socialista itadi nessuno, ad essere persoliano con quella lettera
ne perbene. Lo ringrazio
fiera e terribile che incodelle sue severità, delle sue
minciava: «Sono Edoarinflessibilità, delle sue indo Fallaci, di anni settransigenze. Lo ringrazio
tantaquattro, e da cindelle sue tenerezze nascoste,
quantaquattro iscritto al
del suo amore burbero e
Psi. Questa è la mia lette- Raffaellino del Garbo (1466-1524), Resurrezione, Firenze, Galleria dell’Accademia.
profondo, senza smancerie
ra di dimissioni, e quelli
e senza tradimenti. Lo rinche seguono i motivi che costringono la gliel’ho detto. «Babbo» gli ho detto, grazio anche del rispetto che aveva per le
«che uomo coraggioso sei! Che uomo donne, questo femminista ante-litteram.
mia coscienza a presentarle…».
straordinario!»
Quest’uomo antico e così moderno. E poi
oglio che sappiate come è
lo ringrazio per quello che ha
morto. È morto come ha
dato agli altri, al paese, con le
vissuto: con irriducibile coragsue lotte mai celebrate e i suoi
gio e incantevole dignità. È morsacrifici mai ricompensati e il suo
to combattendo l’unico nemico
esempio umile, mai applaudito.
che potesse piegarlo e distrugRingraziatelo anche voi, ma
gerlo: la malattia che uccide. Per
non con gli applausi. Ringrazialunghi mesi e poi strazianti settelo in silenzio, con la mente e
timane le ha resistito come resicol cuore. Questi piccoli grandi
stette agli aguzzini di Mario Cauomini che agli sciocchi sembrarità, le ha fatto la guerra come la
no uomini qualsiasi, uomini che
faceva ai fascisti di ogni chiesa e
non contano o contano poco,
di ogni colore. E ha perduto, stasono la base della società: la salvolta. Non perché avesse ottanvezza della civiltà. Peccato che lo
taquattro anni, (era un vecchio
capiscano in pochi e anche quei
forte, fino a poco tempo fa si arpochi, quando è ormai troppo
rampicava sugli olivi con agevotardi per dirgli grazie ad alta
lezza: avrebbe potuto vivere anvoce: negli orecchi.
cora), ma perché la malattia che
tutto. Ora andiamo a sepuccide era troppo più forte di
lui. Però ha perduto bene. A tepellirlo, a farlo riposare accanto alla mamma che lo amò
sta alta, a denti stretti, da eroe.
tanto e che fu in ogni senso deDalla sua bocca non è mai uscigna di lui.
to il più infinitesimale lamento.
■
Mai. Non ha mai dato un attimo
NOTA
di soddisfazione, a quel nemico.
Mai. Fino all’ultimo. E mentre
L’Addio uscì anch’esso nel citato famoriva tra le mie braccia, a Raffaellino del Garbo (1466-1524), Resurrezione (nel particolare, la scicolo di “Michelangelo” del gennaiomarzo 1994.
mezzogiorno di domenica scorsa rappresentazione di Firenze), Firenze, Galleria dell’Accademia.
V
È
Caffè Michelangiolo
13
Buone arti
«Thank you, madame», disse la giornalista
«You’re welcome, miss Fallaci», rispose Greta Garbo
ORIANA
di Mario Graziano Parri
P
er la recentissima consultazione
elettorale l’ho accompagnata al seggio. Il suo si trova nella sede della
palestra Libertas, a fianco del Chiostro
Verde: votano lì i residenti all’estero. Avevo fermato la cinquecento a ridosso della Loggia di San Paolo e ci eravamo incamminati attraverso la piazza. Nel fondo, la facciata di Santa Maria Novella
era in quell’ora del crepuscolo che infonde una vitalità estatica alle cose. Attraversavamo quel luogo che dava la sensazione di un’isola, estraneo agli eventi e
dove passato e presente non hanno un
reale significato e l’avvenire in parte è
già passato. Il cappello di lei (ne porta
sempre) ricordava quello di certi paggi
con occhi celesti (anche lei li ha) delle
pitture fiorentine del Quattrocento e immetteva nella sua femminilità una stravaganza maliziosa; il calpestio dei suoi
tacchi molto alti e rapidi era come l’eco di
un tempo immaginario che rintoccasse
in una più profonda e meditata attesa.
Quando fu nella cabina si udì quella
sua voce che può anche far pensare alla
Dietrich: «Lo sapevo, ho sbagliato!». Uscì
Oriana Fallaci ritratta da Francesco Scavullo.
14
con la scheda gialla tenuta alta. Ci fu un
po’ di scompiglio, lei con decisione propose: «Me ne date una seconda, questa
l’annullo ripetendo il segno sopra tutti i
simboli». Probabilmente non sapevano
bene che cosa fare, si era avvicinato anche il carabiniere di guardia: ma lei esibiva un piglio che non ammetteva replica, aveva tagliato ben altri nodi.
Poi fummo di nuovo nella piazza, non
c’era quasi più luce. Non mi ricordo la
conversazione, mi distraeva quel grumo
di nostalgia malinconica e umana che
tinge la sera. Sono rare nella vita le situazioni che si definiscono nella memoria: sì, lo stigma di un particolare stato
d’animo… Non so chiarirmi il perché
ma sentivo che era una di quelle, la nostra erranza attraverso la piazza deserta
lasciava una traccia non prestabilita. Riflettevo sulla vita di lei, era andata diritta allo scopo come una freccia: ecco come
aveva fatto a diventare il mito che era,
un testimone che ci ha raccontato tutte le
guerre del nostro tempo recente, un interlocutore dei cosiddetti potenti della
terra. Le vite della maggior parte di noi
hanno invece contorni meno netti, vengono definite piuttosto da quello che non
è stato.
Certo, come ammette lei stessa c’è
qualcosa dell’attore in lei (e chi non vorrebbe esserlo? pochi però hanno la consapevolezza della recita). Quei passettini
veloci e avventurati comunque non avevano niente di studiato, erano l’indizio invece di quel certo che di ferrigno e epico
che lei ha in sé (del resto non porta il
nome della protagonista del romanzo cavalleresco Amadigi di Gaula?) e che si ritrova nei suoi libri. Henry Bauchau, l’autore della deliziosa favola Diotima e i leoni, ha detto che in questa nostra società
convinta di trovare a tutto soluzioni tecniche (dunque esteriori) l’epopea ha più
che mai il suo posto e la sua necessità.
«Per impegnarsi sulla via della verità interiore occorre rinunciare alle soluzioni
bell’e pronte e probabilmente al trionfo,
ma occorre anche rinunciare risoluta-
mente a rinunciare. L’epica è l’uomo in
cammino». È proprio ciò che hanno intuito i milioni di lettori che lei ha in tutto
il mondo, e che tuttora stentano a riconoscerle i critici di casa.
Non so come stiano le cose quando è a
New York, ma in quella parte dell’anno in
cui risiede a Firenze la sua vita è la clandestinità. Si sente più volte al giorno con
la sorella Paola che abita nel Chianti, e
per il resto ha contatti solo con quei pochi
cui è affidata il rischio del segretissimo
numero del suo telefono. Che cosa fa per
tutta la giornata (e per parte della notte)?
Vive i dubbi e le angosce del libro che ancora una volta è chiamata a scrivere. Sa
che i personaggi sono da qualche parte e
l’aspettano, come Edipo e Antigone
aspettavano Sofocle. Anche lei, per citare la Yourcenar delle Memorie di Adriano,
«è giunta in quella fase dell’esistenza in
cui l’essere umano si abbandona al suo
demone, segue una legge misteriosa che
gli ingiunge di distruggere o superare se
stesso». Potrebbe fare viaggi, gettar via
un po’ di soldi: se ne sta invece tappata
nel proprio studio, con la stilografica che
Greta Garbo in un ritratto del 1951
Caffè Michelangiolo
Buone arti
si impunta sull’interrogativo implacabile
del foglio bianco (perché la scrittrice di
guerre dove sono state impiegate tecnologie avveniristiche non usa il computer,
allo stesso modo del futurista Palazzeschi il quale non ha mai saputo che cosa
fosse una macchina per scrivere). Lei, il
personaggio italiano conosciuto sul pianeta più ancora di Pavarotti (è interessante osservare che in una civiltà come
l’attuale dove si deve ad ogni costo apparire in televisione per dare la prova a sé
e agli altri di esistere, lei in televisione
pressoché mai è comparsa) potrebbe godersi quella gloria in moneta che è la popolarità, e invece la sfugge per chiudersi
a tu per tu con il suo fato.
Mentre la lasciavo davanti a casa sua,
ripensavo alla definizione che mi aveva
dato di sé, «scorbutica e scontrosa», e a
un episodio che mi aveva raccontato.
A Manhattan lei abita dal 1965 nella
Cinquantaquattresima Strada: nello
stesso isolato, alla Cinquantasettesima,
stava Greta Garbo. Sul medesimo pianerottolo dell’attrice c’era anche l’abitazione di Henry, un vecchio reporter americano amico di ambedue. L’attrice era
spesso in casa di lui: quando vi arrivava
gente correva però a chiudersi nel bagno
o in cucina per non essere veduta, e vi rimaneva fino a che gli intrusi non se ne
erano andati. La giornalista non ancora
all’apoteosi professionale, ma già implacabile incubo degli ambasciatori italiani in quei paesi da dove inviava i servizi, pensò di dare a Henry una lettera
per la Garbo in cui le chiedeva un’intervista. L’attrice rispose in una scrittura
minuta su un piccolo foglio azzurro: le
diceva di non averne mai date in vita
sua e che desiderava rimanere coerente
con un impegno preso con se stessa; ma
se tale impegno non ci fosse stato, era
solo a lei che avrebbe concesso un’intervista. Alcuni anni più tardi si incontrarono per caso in un negozio di delicacies nel comune isolato. Erano faccia
a faccia sulla porta, fuori pioveva. La
Garbo aveva una grande e lunga mantella e un cappello a cono: alta e con
quel suo viso tuttora divinamente luminoso, stringeva un piccolo fagotto. La
Fallaci era intrigata da vari pacchi e
dall’ombrello. L’attrice le tenne la porta
aperta per farla passare, sorpresa la
giornalista disse: «Thank you, madam».
«You’re welcome, miss Fallaci», rispose
la Garbo. Si trovarono per un tratto a
Caffè Michelangiolo
LE OPERE E I GIORNI
uomo, che uscirà nel 1979. Li riprenderà nel
1980, con la celebre intervista a Khomeini, e
Oriana Fallaci è nata a Firenze, dove ha
poi con quelle a Gheddafi e a Deng Xiao
studiato al liceo classico Galileo Galilei, frePing. Successivamente sarà a Beirut, subito
quentando poi per un biennio i corsi di medopo il massacro del contingente francodicina. Dal 1965 Permanent Resident negli
americano. Nella capitale libanese era già
Stati Uniti, vive a
stata molte volte fino
New York pur contidall’inizio degli anni
nuando a tenere casa
Settanta, e questi
a Firenze. A sedici
viaggi ispireranno Inanni ha esordito nel
sciallah, pubblicato
giornalismo (anche le
nel 1990 dopo sei
sorelle minori Neera e
anni di lavoro (sue
Paola seguiranno queanche le traduzioni in
sta strada) come crofrancese e in inglese).
nista giudiziario del
Tranne I sette pec“Mattino dell’Italia
cati di Hollywood, suo
Centrale”. Tre anni
primo libro pubblicadopo comincia a colto nel 1958 presso
laborare con “L’EuroLonganesi, tutti i sucpeo” diretto da Arrigo
cessivi titoli sono apBenedetti, di cui diparsi con Rizzoli.
verrà ben presto inScrittrice tradotta in
viato speciale. Hanno
venticinque lingue
inizio così i grandi re- Barbara Nahmad, Ritratto di Oriana Fallaci, (fra cui il cinese, l’hinportage che la impor- 2006, Torino, Galleria Ermanno Tedeschi.
di, il persiano, il benranno subito fra le
gali, il giapponese, il
massime firme del giornalismo. Racconta
tailandese, il coreano) e le cui opere sono difl’insurrezione ungherese (a Gyor viene arrefuse in trentatré paesi (solo in Italia del rostata dai sovietici), la società hollywoodiana,
manzo Lettera a un bambino mai nato, del
l’avvento dell’astronautica: esperienze che si
1975, sono state vendute due milioni di coriverseranno in libri divenuti presto famosi
pie, Oriana Fallaci ha scritto anche l’intro(come Il sesso inutile, del 1960, nato dal suo
duzione a Il richiamo della foresta di Jack
viaggio intorno al mondo; come Se il Sole
London nella Biblioteca Universale Rizzoli
muore, del 1965, sulla conquista della luna).
nel 1975. La Mugar Memorial Library della
Quale corrispondente di guerra segue ininBoston University conserva nella «Oriana
terrottamente il conflitto in Vietnam fino alla
Fallaci Collection» tutti i suoi manoscritti,
caduta di Saigon. È presente anche in tutti
gli appunti, i documenti professionali, le fogli altri teatri di guerra, fino al conflitto nel
tografie, i nastri con le interviste. La Chicago
Golfo (fu fra i primi a entrare a Kwaitt City),
University le ha conferito la laurea honoris
e nelle insurrezioni in America Latina (ricausa in letteratura. Ha ricevuto due volte il
mase ferita gravemente nella strage di piazpremio Saint Vincent per il giornalismo, il
za Tlatelolco a Città del Messico, addirittuBancarella per Niente e così sia, il Viareggio
ra risvegliandosi alla morgue fra i cadaveri).
per Un uomo, il Super Bancarella, l’HeParallelamente avvicina i potenti della terra
mingway e l’Internazionale Antibes per In(il generale Giap, van Thieu, Golda Meir, Insciallah, il Baguttino, il Napoli, lo Scarfoglio
dira Gandhi, Alì Bhutto, Hussein di Giordaper altri libri.
nia, Hailé Sellassié, Arafat, Kissinger, lo scià
Negli ultimi cinque anni, quando irrevodi Persia) che confluiranno in un libro paracabile si sarà fatta la sua sfida alla «malattia
digmatico, Intervista con la Storia, del 1974.
che uccide», scriverà la dibattuta trilogia: La
Sospende questi incontri nel 1976, alla morRabbia e l’Orgoglio, 2001; La forza della
te di Alekos Panagulis (conosciuto nel 1973
Ragione, 2004; Oriana Fallaci intervista se
e con cui ha vissuto fino alla sua tragica
stessa. L’Apocalisse, 2004.
scomparsa) per dedicarsi alla stesura di Un
La Redazione
camminare affiancate sul marciapiede:
poi la Fallaci si fermò deliberatamente
davanti a una vetrina di lampade Tiffany e attese che l’altra si allontanasse,
non voleva che la propria presenza e il
precedente dell’intervista mancata potessero turbare quel suo geloso esilio dal
mondo e dalla realtà.
Oriana entrò in casa, io girai l’auto.
La poesia è anche in certi ritegni che oggi
vengono ritenuti inattuali. Come la poesia, appunto.
Firenze, 31 marzo 1994.
■
NOTA
Questo testo, con il medesimo titolo, apriva
il citato “Michelangelo” con l’intervista a Oriana
Fallaci.
15
Poesia
THE LIGHTNESS OF NOT BEING
di Judy Gahagan
So Emilio was dead.
And I’d brought my winter shoes
sagging from the same old tread
in the same old grooves
for him to mend.
The same old thoughts.
But it’s summer now
and his stone kiosk
I’d climb up to is doused
in sun and butterflies;
he’d look up
when my shadow reached
into his cool stone room
to look over my old shoes.
So wafery watery-blue-eyed Emilio
has left his body
for the sea on its bluest days;
today its silk cover’s seamed
invisibly and stretched
over faint breathing.
to remember the winter news –
lumpen bodies swilling un-piloted down
[a river?
sospese sul filo per la festa;
tremolano e si spengono una dopo l’altra
quando non guardi.
But the cumulo-nimbus is climbing
and I remember
how down a different river
they were launching dead souls
in coloured paper lanterns
bobbing with joy
and lightweight as Emilio
Riappaiono
come foto sulle lapidi,
prendono la morte rigorosamente,
come la prenderà Emilio
ora definito in bianco e nero
benché morto
non diafano come era,
gli occhi colmi di blu dopo blu
dei pomeriggi estivi.
to be piloted till the estuarine streams
engulfed them and listing they coalesced
into a collective glimmer
of souls on the edge of the dark.
Emilio’s stone room’s empty
of his weightless wantless
presence.
The cumulo-nimbus reaches its altitude
and the butterflies dither.
La leggerezza del non essere
Some people here seem,
like Emilio, like fairy-light bulbs
on a wire hung for a fête,
to flicker and go out in ones
when you’re not looking.
Così Emilio era morto
ed io ho portato le mie scarpe invernali
sformate dai soliti passi
lungo i soliti solchi
poiché lui le ripari.
They re-appear
as photographs on gravestones
taking death gravely
as Emilio will
in black and white and definite now
though dead
I soliti pensieri.
not diaphanous as he was,
eyes filled with the blue after blue
of summer afternoons.
Guardava su
quando la mia ombra riempiva
la sua fresca stanza di pietra
per riguardare le mie vecchie scarpe.
I’m holding out these old shoes
as if to sell them
on some ice-gristled street,
in a terminal grey city.
Isn’t this a genetic fault-line
to treat so heavy,
to bring along a shadow to every summer
[party,
16
Ma ora è estate
e il suo chiosco di pietra
lassù è bagnato
di sole e farfalle.
Così Emilio dagli occhi limpidi e blu
ha lasciato il suo corpo
per il mare nei suoi giorni più blu;
oggi il suo sudario di seta è orlato
invisibilmente e strappato
sopra un lieve respiro.
Qui certe persone sembrano,
come Emilio, luminarie da fiabe,
Sto mostrando queste vecchie scarpe
come se volessi venderle
su una strada ghiacciata
in una città grigia terminale.
Non è questa una faglia genetica
avere un passo così pesante,
portare un’ombra ad ognuna festa estiva,
ricordare le notizie invernali –
cadaveri galleggiando senza pilota giù
[nel fiume?
Però il cumulo-nembo sale
ed io ricordo
come giù in un fiume diverso
hanno lanciato anime morte
in lanterne di carta colorata
ondeggiando di gioia
e leggere come Emilio
ad essere pilotate finché la foce
le inghiotta e loro si capovolgano
fondendosi in un bagliore collettivo
di anime su l’orlo del buio.
La stanza di pietra di Emilio è vuota
della sua presenza
priva di peso e bisogno.
Il cumulo-nembo raggiunge la sua
[altitudine
e le farfalle esitano.
traduzione di Roberto Boncini e Manfred Pfister
[Judy Gahagan, Night Calling, Enitharmon Press,
Londra, 2003]
Caffè Michelangiolo
Poesia
L’OSCURO AVVENTO
di Mario Graziano Parri
A Alessandro Gioli, per la morte del padre
Non c’è di dolcezza che possa uguagliare la Morte
Più Più Più
Intendi chi ancora ti culla:
intendo la dolce fanciulla
che dice all’orecchio: Più Più
Dino Campana, Il canto della tenebra
La trattoria sulla provinciale
di Barbaruta, come non farci sosta
Sandro?… la minuta ragazza con quel filo di sorriso
quasi apposta per noi che appronta il boccale
di rosso e il baccalà con cipolle sotto la precaria
loggia. L’altra sera a pochi giorni dall’oscuro avvento
anche i piatti erano insipidi e scarni
e nell’aria c’era sussurrante
un presago rodere di pioggia. E dopo
sulla panchina là fuori
nell’errante frinire dei grilli
nostalgia e dolore rigavano il ricordo
nell’opaco fresco dell’ora, la sinecura del prete
e la sua distratta preghiera
nell’indifferente gravità della chiesa, il commiato
incolore, la sciatta messinscena. Definitivamente
un uomo non muore, il suo finire
solo segna la compiuta avventura
quando la vita n’è sazia. Se ne va così
com’è venuto, con la stessa
immacolata grazia del primo giorno in cui
s’affaccia al buio del domani. E tuttavia
qualcosa lascia di sé nell’indecifrato
giro delle stelle, una traccia
che vana non renda
la breve eternità del suo passato.
settembre 2006
[Michelangiolo, Giudizio universale, particolare del gruppo degli eletti].
Caffè Michelangiolo
17
Biblioteca del viaggiatore
Il ricordo del dolore è ancora dolore nel recente romanzo di Kazuo Ishiguro
MI CHIAMO KATHY H.
di Mirella Billi
È
ancora la memoria, come già nei
romanzi scritti tra il 1986 e il 2000
– A Pale View of Hills (Un pallido
orizzonte di colline), An artist of the Floating World (Un artista del mondo effimero);
The Remains of the Day (Quel che resta
del giorno) e nel più recente When we were
orphans (Quando eravamo orfani) – che
costituisce il tessuto narrativo dell’ultimo
romanzo di Kazuo Ishiguro, Never Let Me
Go (tradotto inspiegabilmente, nell’edizione Einaudi 1966, Non lasciarmi, mentre la
versione corretta, corrispondente all’inglese,
dovrebbe essere Non lasciarmi andare, o,
ancor meglio, per rendere il rafforzativo
implicito in “never”, Ti prego, non lasciarmi andare, infatti coerente con il senso e il
messaggio del romanzo).
Nei romanzi precedenti di Kazuo Ishiguro, nato a Nagasaki nel 1954, ma trasferitosi nel 1960 con la famiglia in Inghilterra, dove vive, i personaggi – l’anziano pittore di Un Artista del mondo effimero, e il
maggiordomo inglese di Quel che resta del
giorno – si interrogano sgomenti, dopo
averle ignorate o inconsapevolmente favorite, quando non addirittura tacitamente
approvate, sulle ideologie criminali che hanno insanguinato il mondo e sulla seconda
Guerra mondiale, culminata con l’orrore
della bomba atomica sul Giappone, di cui
Ishiguro, nella sua infanzia, deve avere visto direttamente gli spaventosi effetti e che
viene spesso evocato nei suoi libri. Alla ricerca del passato sono ancora i protagonisti
dei romanzi più recenti, The Unconsolable
(Gli Inconsolabili) e di When We Were
Orphans (Quando eravamo orfani), il primo, un musicista, incapace di riportarlo
alla memoria, il secondo, un giovane che,
tornato a Shangai per ritrovare i genitori, si
accorge di essere arrivato troppo tardi, e
che proprio il metodo “scientifico-poliziesco” con cui ha condotto le sue ricerche, è
quello che gli ha impedito di vedere e capire la realtà.
In Non lasciarmi andare (citerò sempre
in seguito il romanzo con questo titolo), il
passato che viene rievocato nel raccontodiario di Kath, personaggio e narratrice, è
quello degli ultimi trent’anni, che corri-
18
La copertina della edizione inglese dell’ultimo
romanzo di Kazuo Ishiguro, Never Let Me Go,
2005. In Italia è stato pubblicato nel 2006 da
Einaudi con il titolo Non lasciarmi.
spondono alla sua età, come si afferma nell’incipit:
Mi chiamo Kathy H. Ho trentun
anni, e da più di undici sono un’assistente. Sembra un periodo piuttosto lungo, lo so, ma a dire il vero loro vogliono
che continui per altri otto mesi, fino alla
fine di dicembre. A quel punto saranno
trascorsi quasi esattamente dodici anni
[…] So per certo che loro sono contenti
del mio lavoro, e, nel complesso, lo sono
anchio io. I miei donatori hanno sempre
reagito meglio del previsto. I loro tempi
di recupero sono stati eccezionali, e quasi a nessuno è stata attribuita la definizione di “agitato”, persino prima della
quarta donazione. (La traduzione italiana, come in seguito, è di chi scrive)
Già nell’inizio della rievocazione di Kath
appaiono alcuni termini misteriosi e in-
quietanti, che non saranno mai esplicitamente spiegati, ma il cui significato agghiacciante verrà gradualmente alla luce e
in modo sempre più esplicito nelle tre parti successive in cui il racconto è diviso (una
divisione non mantenuta nell’edizione italiana, anche se essenziale all’interpretazione del romanzo), e che corrispondono all’infanzia, all’adolescenza e alla gioventù
dei personaggi, alla loro progressiva maturità e alla piena consapevolezza, in tempi e
spazi diversi, della loro sorte. Si scoprirà, infatti, che i personaggi e i protagonisti di cui
Kath scrive, a cominciare da se stessa, e
dagli amici Tommy e Ruth, sono dei cloni,
destinati a “produrre” e “donare” (il significato sostanzialmente positivo dei due termini è, come per altri, abilmente rovesciato in negativo dall’autore), siano essi “assistenti” o semplici “donatori”, i loro organi,
in quattro diverse occasioni, fino al “completamento” della loro funzione, ovvero la
morte, che giunge inesorabile, quando non
prima, con l’ultima mutilazione.
Questi esseri umani non hanno genitori,
né passato, e neppure futuro: l’H. che Kath
fa seguire al proprio nome non è quella di
un cognome, ma di un luogo, Hailsham, la
scuola-convitto dove lei e numerosi altri ragazzi trascorrono l’infanzia e l’adolescenza,
unico luogo d’origine, identità umana e sociale, e dimora, che, nonostante tutto, essi
conoscano. Isolata dal mondo esterno e da
qualsiasi realtà sociale circostante, Hailsham è apparentemente del tutto simile a
centinaia di scuole inglesi, dove i ragazzi,
come migliaia di loro coetanei, conducono
una vita “normale” (il termine ritorna ripetutamente nel romanzo in tutta la sua
inquietante e amara ambiguità), tranquilla
e “protetta”, tanto da essere, anche nel momento della resa dei conti, persino rimpianta. A Hailsham vivono isolati, secondo
una routine sempre uguale,.scandita dagli
impegni scolastici e dai rapporti con i compagni e gli insegnanti e interrotta soltanto
dal periodico evento della Sale (la Svendita), in cui i ragazzi si scambiano i loro oggetti personali, raccolti qua e là e custoditi
gelosamente in scatole nascoste sotto i letti
come tesori, in una competizione apparenCaffè Michelangiolo
Biblioteca del viaggiatore
temente innocente, ma che prefigura il ben
più tragico e macabro scambio a cui sono
destinati.
Tra gli oggetti di Kath, il preferito è una
cassetta dal titolo Songs after Dark di una
cantante degli Anni Cinquanta, rappresentata sulla copertina in un abito da sera viola, la sigaretta accesa tra le dita, sullo sfondo di palme e camerieri in giacca bianca,
un’immagine con cui Kath si identifica, sognando altri mondi, un’altra identità e un
altro destino. La cassetta contiene la sua
canzone preferita, Never Let Me Go, che dà
significativamente il titolo al romanzo, e
sulle note della quale Kath balla da sola,
abbracciata a un cuscino, nella sua stanza,
in una delle scene più toccanti del libro.
Al contrario che in altre scuole inglesi,
invece delle attività sportive vengono incoraggiate quelle “artistiche”, e i prodotti migliori di questa “creatività” indotta e persino obbligata – come avviene per Tommy –
vengono scelti da Madame, una signora che
visita periodicamente l’istituto, per una misteriosa “Galleria” dove verranno, a quanto viene detto, raccolti ed esposti. Altri misteri, oltre quelli delle destinazione dei lavori creativi dei ragazzi della scuola, al ruolo di Madame, alla crisi e al licenziamento
di una delle insegnanti, e episodi o eventi
inspiegabili, affiorano nel diario di Kath,
in cui la frammentarietà e talora l’imprecisione dei ricordi, l’attenzione esasperata ai
dettagli, la registrazione quasi ossessiva di
conversazioni e commenti, oltre a essere tipici dei diari di un’adolescente sensibile e
emotiva – riprodotti in modo magistrale da
Ishiguro con la consueta abilità nell’amalgamare modelli narrativi e linguaggi diversi e di sondare ed esprimere così la complessità della condizione esistenziale individuale rapportata a una particolare fase storico-culturale – lasciano avvertire un turbamento più profondo per un destino peraltro noto e persino tacitamente accettato,
ma così terribile da non poter essere che
rimosso, e compensato da sogni e illusioni,
labili ma indispensabili per sopravvivere
alla disperazione. Il superficiale e ingannevole benessere di cui i ragazzi di Hailsham
godono nasconde infatti una bel diversa
realtà: sono privi di un’identità,di una famiglia, di un passato e del futuro, e sono
considerati soltanto sacrifici umani utili per
la salute e la vita di altri, corpi fornitori di
“pezzi di ricambio”. A Hailsham, si legge,
non è concesso fumare, e ai ragazzi vengono mostrate foto di organi devastati di fumatori, ma non per convincerli a difenderCaffè Michelangiolo
si dai pericoli del fumo, bensì per conservare sani i propri organi per coloro che li riceveranno (un’allusione, simile a molte altre su aspetti della vita contemporanea disseminate da Ishiguro nel romanzo, alle
scritte minacciose sui pacchetti di sigarette,
vòlte non già a convincere i fumatori a di-
Lo scrittore Kazuo Ishiguro.
fendere la loro salute, ma a tutelare i produttori di sigarette da denunce e risarcimenti miliardari!).
A questa loro condizione i protagonisti
del romanzo reagiscono in vari modi, rifugiandosi, come Kath, nei rapporti umani e
nei sentimenti, nell’amore per Tommy, ribelle e appassionato, e nell’amicizia per
Ruth, enigmatica e affascinante, aggressiva
e manipolatrice per autodifesa, che combatte il suo tormento con patetiche fantasie
e sogni impossibili, fino alla fine.
Il “diario” adolescenziale di Kath, nella
sua semplicità e banalità, ma anche nei suoi
impliciti interrogativi e nei suoi silenzi, gradualmente traccia la vera immagine di questa sinistra realtà, che richiama, per le immagini che presenta e il linguaggio in cui si
esprime (anche in questo romanzo Ishiguro
si rivela maestro nell’ibridazione di generi e
di forme popolari), le atmosfere cinematografiche di Blade Runner commiste con
quelle letterarie di John Wyndham in The
Chrysalids o, specificamente riguardo al
commercio di organi, al più recente (1996)
libro di M. Marshall Smith, dal significativo titolo Spares.
Hailsham appare un microcosmo emblematico del mondo contemporaneo, dove
la distopia finisce per coincidere con la
realtà, passata e presente. Le attività apparentemente innocenti e banali che vi si svolgono, a cominciare dalla peculiarità degli
studi (l’insegnamento della geografia è limitato alle sole contee inglesi, e viene condotto su foto tolte da un calendario, tra cui
manca quella del Norfolk), il totale isolamento da qualsiasi realtà umana e sociale
esterna, evocano sinistri confronti con prigioni o campi di detenzione. I lavori “creativi” dei ragazzi di Hailsham ricordano le
immagini agghiaccianti, consegnateci dalla
documentazione storica, dei disegni fatti
dai bambini nel campo di sterminio di Treblinka, o quelle dei piccoli giapponesi, colpiti dalle radiazioni atomiche, e condannati a morire dopo lunghe sofferenze, intenti a
costruire cestini di carta. L’isolamento di
Hailsham nella tranquillità della campagna inglese riporta alla mente gli esperimenti militari su armi chimiche e batteriologiche condotti in laboratori nascosti nel
verde dell’Oxfordshire, o quelli che, già negli Anni Settanta, in idillici contesti rurali,
hanno portato alla pericolosa clonazione
animale. Alla memoria – e alla coscienza –
di chi legge il romanzo, un’abile tessitura di
allusioni riporta il ricordo delle manipolazioni genetiche perpetrate sugli inermi prigionieri dei campi di sterminio in tranquilli paesetti austriaci, e di quelle realizzate,
sempre nella Germania nazista, sia pure
nella massima efficienza e in lussuosi alberghi e cliniche, con l’unione di aitanti ufficiali delle SS a bellissime donne tedesche
per la procreazione di bambini di pura razza ariana, frutto, invece che di amore e di
desiderio, di uno scellerato “esperimento”
(non dissimile, peraltro, da quello tentato
più recentemente negli Stati Uniti, con l’incontro di uomini geniali e belle donne per la
“produzione” di figli perfetti e smentito anch’esso, con il suo seguito di sofferenze, dall’imperscrutabile opera della natura).
Il romanzo fa inoltre affiorare i timori
del mondo contemporaneo per le manipolazioni criminali rese possibili dalla straordinaria evoluzione della scienza una volta
che se ne impadroniscano mani distruttive,
e pone interrogativi sul progresso tecnologico, che sembra fornire soltanto – e a pochi – un superficiale benessere materiale,
pagato a caro prezzo dai meno fortunati,e in
nome del quale vengono compiute azioni
inumane, e si tollerano, o addirittura si assecondano, guerre e stragi, in cui si ripeto-
19
Biblioteca del viaggiatore
no, in ogni parte del mondo, e con la stessa efferatezza, ma con maggiore efficienza,
gli orrori del passato.
Lo sfondo distopico del romanzo si rivela, dunque, un quadro reale, così come
reale è, nel nostro presente, il traffico di organi umani, cui fa esplicitamente riferimento il romanzo, espiantati con la violenza, come si scopre ogni tanto con raccapriccio nelle cronache, a esseri disperati e
indifesi, spesso bambini.
Questo atto estremo di sfruttamento e di
violenza sugli esseri umani si fa, nel romanzo, emblema della disumanizzazione
di tanta parte del nostro mondo contemporaneo, in cui, inoltre, la violenza non è esercitata solo sui corpi, ma sulle menti, nella
quali si reprime e si tacita ogni riflessione,
ogni reazione, ogni ribellione, anche quella
delle vittime, che diventano complici dei
loro stessi carnefici. Il silenzio e il controllo,
indotti o imposti – come avviene nel romanzo nei confronti di Tommy – o dai più
esercitati sia per convenienza, sia per necessità, o per incapacità a opporvisi, coprono o mistificano – ora come nel passato –
qualsiasi nefandezza e orrore, qualsiasi ingiustizia e sofferenza, anche da parte di chi
dovrebbe, per definizione, essere impegnato a combatterli. In Non lasciarmi andare
sono proprio questi ultimi, come Miss Lucy
e Madame, autorevole esponente di un’associazione umanitaria (anche questa un’allusione all’ipocrisia di tante istituzioni assistenziali, laiche o religiose) che, pur affermando l’umanità dei ragazzi, e commuovendosi alla loro sorte, invece di difenderli
e di aiutarli a reagire e a ribellarsi, denunciando quanto avviene e opponendosi all’orrore della loro condizione, convincono le
vittime ad accettarla e a sottomettervisi.
Troppo vili per gridare la loro indignazione
nei confronti di chi ne è responsabile, si nascondono dietro edulcoranti astrazioni o
pietose menzogne, e mentre si fanno complici di misfatti, si preoccupano, come fa
Madame con i ragazzi di Hailsham, delle
loro anime!
Alla disumanizzazione generale, si contrappone l’umanità dei protagonisti del romanzo, ai quali la sempre più matura consapevolezza del proprio destino, ormai prossimo, non toglie la capacità di amare, di
comprendere, e soprattutto di sperare. E la
speranza non li abbandona neppure dopo il
trasferimento da Hailsham al gelido e cupo
ambiente dei Cottages, un luogo descritto
con una terminologia che ne sottolinea
l’aspetto e le caratteristiche militaresche
20
(allusive di quelle sempre più evidenti nel
mondo contemporaneo). Gli edifici cadenti adibiti ad alloggio ricordano non solo le
baracche di una caserma, ma soprattutto
quelle dei prigionieri nei campi di concentramento; coloro che vi abitano da qualche
tempo sono chiamati “veterani”, e, come
dei soldati, sono ormai inquadrati in un rigido sistema di regole e privati di qualsiasi
traccia di individualità. Li omologa definitivamente, anche nei gesti più elementari,
l’influenza, pervasiva e alienante, della televisione, peraltro unico contatto consentito con il mondo esterno Il terribile freddo
che grava sui Cottages – così come su tanta parte dell’agghiacciante mondo contemporaneo – prefigura, insieme alla figura di
un guardiano che ricorda il dantesco Caronte, la morte che aspetta tra breve questi
giovani, dei quali, una volta usciti di lì –
“fatti andar via” – non si saprà più nulla,
come se non fossero mai esistiti. Il trasferimento da Hailsham ai Cottages corrisponde inoltre al passaggio dall’adoloscenza e
alla maturità, e si esprime attraverso una
coerente trasformazione del linguaggio del
racconto, che si fa più concreto, meno evasivo e dispersivo, rivelando una sempre
maggior lucidità e consapevolezza della
propria sorte nei personaggi, ma anche la
persistenza di desideri e sogni, e soprattutto della speranza.
È questa che li spinge nel Norfolk, luogo sconosciuto e dunque idealizzato, dove
forse è possibile, per Ruth, ritrovare persone e luoghi in cui riconoscersi, e prospettare un futuro, e dove si affaccia l’illusione di
un dilazionamento della condanna che li
aspetta. Ancora una volta, le descrizioni dei
luoghi, e le suggestioni che evocano, oltre a
regalare al lettore pagine bellissime, esprimono metaforicamente ciò che il testo tace
o lascia soltanto intuire, e che non potrebbe sopportare la crudezza delle parole.
L’impressionante scogliera a picco sul mare
a Cromer evoca vividamente il dramma di
vite sospese, che ancora non sanno rassegnarsi alla loro condanna, così come, più
tardi, la nave incagliata e in disfacimento su
una spiaggia desolata prefigura l’approdo
finale, nella solitudine e nell’abbandono.
Nel Norfolk, comunque, Tommy ritrova per
Kath la cassetta scomparsa a Hailsham,
con la sua canzone preferita e la sua straziante invocazione, «non lasciarmi andare»; nel Norfolk emerge l’ultima illusione,
quella che l’amore, come accordo e simbiosi di due persone e di due anime, possa salvarli, o almeno ritardare il compiersi del
loro destino. Rivelatasi anche questa vana,
rimane ancora una speranza, che infatti
solo l’amore può realizzare, quella, grazie
alla memoria, di “non essere lasciati andate”, di non sparire nell’oblio, ma di lasciare una traccia di sé, un segno duraturo della propria esistenza. È Kath, con il suo diario-racconto, che realizzerà questa speranza, incidendo nella scrittura la propria storia, quella di Tommy e Ruth, e, con loro, di
tanti altri.
Il libro si chiude, in una pagina indimenticabile, sulla sua figura solitaria nel
paesaggio del Norfolk, tra “distese di campi deserti”, sotto i suoi “immensi cieli grigi”,
in attesa di riunirsi per sempre a Tommy:
L’unica concessione che mi regalai,
un’unica volta, un paio di settimane
dopo che Tommy ebbe completato il suo
ciclo, fu di andare nel Norfolk […]
Oltrepassai un campo dietro l’altro […]
poi alla fine scorsi alcuni alberi in lontananza, vicino al bordo della strada, così
fermai e scesi dall’auto. Mi ritrovai davanti a un terreno coltivato. Un reticolato mi impediva di entrare nel campo […]
Lungo tutto il reticolato, e in particolare
in basso vicino al terreno, erano rimasti
impigliati ogni genere di detriti […]
simili a quelli che ritrovano sulla spiaggia […] Allo stormire del vento che spazzava quei campi deserti, mi feci trasportare dalla fantasia; perché, dopotutto, mi
trovavo nel Norfolk, e erano passate solo
due settimane da quando avevo perso
Tommy. Pensavo a quei detriti, alla plastica che sventolava tra i rami degli alberi, alla striscia di cose ormai irriconoscibili intrappolate lungo il reticolato, e
socchiusi gli occhi, e immaginai che quello fosse il punto dove tutto ciò che avevo
perduto dagli anni dell’infanzia era stato gettato a riva; adesso mi trovavo lì, e
se avessi aspettato abbastanza, una minuscola figura sarebbe apparsa all’orizzonte, all’estremità del campo, e a
poco a poco sarebbe diventata più grande, finché mi sarei resa conto che era
Tommy, e lui mi avrebbe fatto un cenno
di saluto con la mano, forse mi avrebbe
chiamata. La fantasia non andò mai oltre questa immagine – non glielo permisi – e sebbene le lacrime mi scendessero
lungo le guance, non singhiozzai, né persi il controllo. Rimasi un po’ ferma ad
aspettare, poi tornai verso l’auto, per andarmene via, qualunque fosse il luogo
verso cui ero diretta.
■
Caffè Michelangiolo
Biblioteca del viaggiatore
Propositi e temi della narrativa di Thomas Bernhard
nel denso numero che “aut aut” dedica al grande austriaco
MEHR NICHT
di Elena Frontaloni
È
Raoul Kirchmayr a delineare,
in una sintetica ma esaustiva
Premessa, gli intenti e i temi del
numero monografico di “aut aut” dedicato a Thomas Bernhard*. Un autore entrato fra le pagine della rivista
nel 1997 – con la velenosa antiheideggeriana contenuta in Antichi maestri – e di cui oggi s’indaga l’opera
narrativa in base al rapporto tra commedia e tragedia, le due muse già dubitativamente invocate dallo stesso
Bernhard in un breve testo del 1967.
Tradotto per la prima volta in Italia da
Vittoria Rovelli Ruberl (“Adelphiana”,
1, 1971, pp. 291-298) e riproposto
fra i Materiali del volume pubblicato
nel marzo 2005 (pp. 17-21), È una
commedia? È una tragedia? rappresenta la prima articolazione di quel
«nesso tra tragico e comico» (p. 17),
che tanto profondamente incide nelle
scelte stilistiche e narrative dell’autore, da diventare filtro privilegiato per
la comprensione del suo rapporto con
la scrittura, il linguaggio, la filosofia.
Configurandosi, in ultima istanza,
come «la questione che a nostro giudizio muove la passione e il desiderio
di Bernhard per la scrittura e, di rimando, quelli nostri, i suoi lettori»
(p. 3).
La Premessa di Kirchmayr rispecchia le acquisizioni dei dieci contributi raccolti nella parte centrale del
volume (tutti prodotti da studiosi d’altissimo calibro) e pone l’accento sull’oscillazione quale cifra fondamentale dalla prosa di Bernhard, «uno scrittore tragicomico», intento a «far saltare il rapporto di complementarietà e
di opposizione tra i due generi teatrali e dunque il significato complessivo e
canonico di tale distinzione, mettendo
all’opera, piuttosto, una scrittura che
è al contempo tragica e comica, e che
si nutre di un pathos tragico così esagerato da trasformarsi in comico e di
una vis comica così iperbolica da moCaffè Michelangiolo
Manfredi, Thomas Bernhard, 2003, part., olio,
cm. 120 x 130.
strare il suo aspetto tragico» (p. 3).
L’immagine è quella del pendolo, appeso con cura certosina sopra ogni giro
di frase e fatto gravitare non tanto fra
La copertina del fascicolo monografico di “aut
aut” (n. 325, gennaio-marzo 2005, Il Saggiatore,
Milano) dedicato a Thomas Bernhard.
un nord e un sud ugualmente scomodi, quanto nel «quadrato scenico» dell’altrove: un’altra parte, un’altra direzione in cui i contrasti, anziché annullarsi o riposare l’uno sulle inconciliabilità dell’altro, si radicalizzano e
ridicolizzano, risolvendosi in una raggelata eppure instabile sobrietà. Di
qui, l’opzione per un lessico scarno,
che mira all’«estenuazione» del linguaggio tramite la ripetizione cortocircuitante e il paradosso. Di qui anche la carica filosofica di una prosa
che tende a corrodere dall’interno il
genere letterario senza privarlo della
sua riconoscibilità, che sfrutta il meccanismo della citazione in vista di un
voluto dispiegamento dell’artificio,
che, infine, si propone quale «messa in
scena (teatrale e artificiosa) del pensiero» (p. 4).
Nel famoso monologo Tre giorni
(1971), Bernhard assimilava la pagina
iniziale di ogni suo lavoro alle prime
fasi di uno spettacolo: «si alza un sipario, appare il titolo, oscurità totale
– lentamente, dallo sfondo, dall’oscurità, emergono parole che, lentamente,
si trasformano in accadimenti di natura esteriore e interiore, particolarmente chiari proprio grazie alla loro
artificiosità» (p. 13). La cristallina penombra che lambisce le prime battute
di ogni romanzo è anche l’atmosfera in
cui l’autore mette gradualmente in
moto l’armamentario delle citazioni e
dei rimandi intertestuali, finendo per
porre il lettore davanti agli strumenti
materiali della sua scrittura e, quindi,
provocarne il riconoscimento. La decisività di questo momento ha indotto
il curatore del volume a ritagliare, fra
i contributi critici, alcuni spazi interamente dedicati agli incipit bernhardiani. Un percorso che va dalla folgorante descrizione della pratica ospedaliera su cui si apre Gelo (1963), al
laconico «Patria, nonsenso» che inaugura la tirata di In alto (1959, 1989),
21
Biblioteca del viaggiatore
dove l’erranza volutamente domenicale dei personaggi di Bernhard si
smaschera nella sua essenza voyeuristica e peripatetica: «scrivo il mio articolo e lo consegno in redazione, faccio una passeggiata, avanti e indietro
per ore, questa gente: buffoneria, illusione: i loro volti distorti, come potrebbero uscire dalla prigione in cui
sono stati rinchiusi, non c’è la minima
speranza» (p. 169).
Altre peculiarità del volume – che
meriterebbe l’inclusione fra i più utili
contributi italiani su Bernhard anche
solo per la ricchezza, la cura e la varietà del materiale presentato – sono
l’apparato iconografico prelevato dal
libro Thomas Bernhard Häuser
(1995), la prima traduzione italiana
di Tre giorni ad opera di Anna Calligaris, la riproduzione fotografica di
due fogli dattiloscritti provenienti dal
Thomas-Bernhard-Archiv di Gmuden:
l’incipit de L’origine (1975) e una pagina di Correzione (1975). La terza e
ultima parte del numero, inoltre, propone una sorta di appendice documentaria della critica pregressa e si
sofferma su un aspetto decisivo quanto a tratti inafferrabile della prosa
bernhardiana: quello dell’ipotesto filosofico. I Materiali posti a conclusione si aprono infatti sugli ancora fondamentali e imprescindibili interventi
di Claudio Magris (Thomas Bernhard:
la geometria della tenebra, 1977) e
Wedelin Schmidt- Dengler (Undici tesi
sull’opera di Thomas Bernhard,
1986), per concludersi con due importanti saggi appositamente scritti da
Marti Huber e Manfred Mittermayer
per questo numero monografico. Rispettivamente dedicati ai due principali riferimenti filosofici di Bernhard:
Wittgenstein e Montaigne, i contributi mostrano come entrambi gli autori
vengano fagocitati dalla pagina dello
scrittore tramite i meccanismi della
letteraturizzazione e dell’identificazione.
Alla Premessa di Kirchmayr, segue
una prima sezione occupata da tre
scritti di Thomas Bernhard; dopo i già
ricordati Tre giorni (trascrizione di un
monologo pronunciato nel lungometraggio Der Italiener del regista Ferry
Radax) e È una commedia? È una tragedia? (cronologicamente coincidente
con quello che Claudio Magris ha de-
22
finito il «capolavoro» dell’autore, Perturbamento) viene riproposto Goethe
“muore” (1982) nella traduzione
approntata da Micaela Latini per
“Almanacchi nuovi” (1, 1999, pp.
116-128).
Propedeutici alla lettura degli interventi critici e accostati per la loro
importanza «in termini di genere e di
Johan Wolfgang von Goethe in un ritratto di Karl
Stieler del 1828.
modalità di scrittura», gli scritti affrontano i temi su cui il numero monografico si concentra: la poetica della prosa «come artificio teatrale» (Tre
giorni), il rapporto tra tragico e comico (Èuna commedia? È una tragedia?), «il gusto […] per il paradosso
condotto fino all’esasperazione»
(Goethe muore). Ma sono, questi tre
aspetti, interdipendenti, impossibili da
riconoscere separatamente in una pagina programmatica o in un racconto.
Piuttosto, s’intrecciano a formare il
bozzolo da cui si libera – procedendo
raso terra, con circospezione e provocatoria perfidia – ogni pagina e affermazione dello scrittore. E questo a
partire da Tre giorni , dove un
Bernhard interprete di se stesso scandisce in tre momenti il suo ragionare
intorno alla solitudine, alla scrittura,
al contrasto, alla malinconia. Il monologo si apre infatti sulle «prime im-
pressioni» della giovinezza, dominate
dall’immagine di una macelleria sanguinolenta quanto perfettamente ordinata, dal precoce sguardo su un cadavere, da particolarissimi brani musicali datati 1944 e 1945. Il primo,
«certo non un brano di musica classica», è l’urlo di una vicina contro l’amato guardiano dell’infanzia – «Tuo
nonno, te lo spedisco ben io a Dachau!»; il secondo, «forse una dodecafonia», è un’aggressione, la prima
di una lunga serie, ai margini di un
bosco e della partecipazione mancata
alla sepoltura di un amico del fratello.
Due “soglie” che il lettore non faticherà a riconoscere nella maggioranza
dei romanzi dell’autore.
Sono le scuole e i temi della narrativa di Bernhard: l’irridere come musica e in quanto musica gli agguati
della vita, e, sanatori-orfanotrofi ancor più importanti, «l’essere soli, separati e isolati, da una parte, e poi
dall’altra, l’esasperata sfiducia che
proviene dall’essere solo, separato, isolato» (p. 9). Una scelta, dunque, più
che il lascito di una celata sindrome
dell’abbandono, seppure motivata da
didascalismi autobiografici che si rintracciano, sdoppiati, nei due gemelli di
Amras (1964). Si pensi ancora al Rudolph di Cemento (1982), vessato da
un desiderio di separatezza e reclusione che conduce alla smania di viaggiare, di andarsene: conferma
Bernhard che «dalla solitudine, dall’esser soli deriva solo un esser soli,
un essere separati più radicale. Alla
fine si cambia scena a intervalli di
tempo sempre più brevi. Città sempre
più grandi, si crede che la piccola città
non basti più» (p. 9).
Il Secondo giorno (che accoglie la
pagina già citata riguardo l’espediente teatrale utilizzato nei romanzi) si
arrovella intorno al tema del contrasto, eletto dall’autore a motivo della
sua resistenza e permanenza nel mondo e nella scrittura. Si rileva qui il gap
del cominciamento, quell’«ansia dell’inizio» analizzata da Reitani nel saggio che apre la sezione critica del volume (Abitare le tenebre, p. 39) e sempre in questa sede affrontata da Micaela Latini (La “ prima” frase. A partire da Cemento, pp. 97-108): «la difficoltà è cominciare. Per lo stupido
non è una difficoltà, lui non sa proprio
Caffè Michelangiolo
Biblioteca del viaggiatore
che cosa siano le difficoltà. Per lui è
uguale, non ci pensa su. Fa figli o fa
libri, fa un figlio o fa un libro – fa figli e libri senza sosta. Per lui è uguale, non ci pensa su […] Fin dall’inizio
ci sono forti contrasti, probabilmente
ci sono sempre stati. […] ciò che contrasta è qualcosa di materiale. Il cervello ha bisogno di contrasti», perché
«in realtà non si vuole nulla se non
addormentarsi, e non saperne più nulla. Poi improvvisamente di nuovo il
desiderio…» (p. 10).
Non si forza la lettera del testo – e
si riconosce un ulteriore, indovinato
Leitmotiv del numero monografico – a
guardare le battute centrali del monologo sotto la lente del desiderio e
della seduzione. Due concetti apparentemente poco bernhardiani, a cui
però l’autore stesso affida il ruolo di
motori immobili del contrasto e della
scrittura. «Uno che scrive», si definisce Bernhard, per «improvvisa opposizione contro me stesso» (p. 12). Ma
non solo: «d’altra parte accade che
sono proprio gli autori per me più importanti i miei più grandi antagonisti
e nemici. È un continuo difendersi
proprio da quelli da cui si stati completamente sedotti»: Musil, Pavese,
Pound, dove «non si tratta di lirica,
ma di prosa assoluta» (p. 13). E se il
rapporto di Bernhard con Musil e
Pound salta immediatamente all’occhio, è qui suggerita una pista ancora
poco o solo episodicamente esplorata:
quella della lotta ingaggiata da un
«artista dell’eccesso» contro chi faceva della vita e della scrittura «un mestiere», una forma, forse più garbata e
più livida, di «rappresentazione».
Il terzo giorno è anche un canto
beffardo alla malinconia, una «sensazione molto bella» (p. 14) sperimentata a contatto con le frasi di saluto
sempre uguali, i visi noti e i cimiteri di
una «grande città» come Vienna. La
malinconia di Berhnard non è però un
monologo, ma il «dialogo con una materia che non risponde»: «è sempre un
colloquio con mio fratello, colloquio
che non c’è, è il colloquio con mia madre, che non c’è. È il colloquio con
mio padre, che anche non c’è, e passato che non c’è più e che non ci sarà
mai» (p. 15). La ricaduta narrativa
di tale principio – che ha come prima
conseguenza l’utilizzo del monologo
Caffè Michelangiolo
indiretto o riportato – sarà analizzata
in profondità sia dal contributo di Reitani, sia da quello Kirchmayr (“Am
Ende des Lebens”. Amicizia e scrittura in “Il nipote di Wittgernstein”, pp.
110-136). Basti qui sottolineare, a
semplice completamento del quadro,
come la poetica del contrasto e la riflessione sulla malinconia nascano a
T
utto ciò che è stato detto presto
o tardi risulta assurdo, ma se
noi lo diciamo in modo convincente, con l’impeto più straordinario
di cui siamo capaci, smette di essere un crimine, disse Reger. Quello che pensiamo vogliamo anche
dirlo, disse Reger, e in fondo finché
non l’abbiamo detto non ci diamo
pace, e se non diciamo quello che
pensiamo il pensiero ci soffoca.
L’umanità sarebbe soffocata da
tempo se avesse taciuto le assurdità che ha pensato nel corso della
propria storia, chiunque soffoca se
tace troppo a lungo, anche l’umanità non può tacere troppo a lungo,
perché poi soffoca, anche se in definitiva quelle che pensa l’individuo, e quelle che pensa l’umanità e
quelle che hanno pensato l’individuo e l’umanità nel corso del tempo altro non sono che assurdità.
Thomas Bernhard,
Antichi Maestri
partire da opposizioni e silenzi della
nuda materia, a testimonianza di un
laicismo spesso irriverente e blasfemo
– si ricordino le tirate contro Madre
Teresa o i riferimenti poco ortodossi
alla sfera cristologica – ma di fatto
basato su una solida, quasi atomistica
e senza mezzi termini rude visione del
tempo, dell’assenza, del mondo e dei
suoi abitanti.
È una commedia? È una tragedia,
dà il titolo al numero monografico: un
imprecisato uomo, come al solito indeciso per inettitudine e angosciato
dalla scrittura di un libro (questa volta sul teatro, lo spettro più odiatoamato da Bernhard), si trova alle prese con
un avventore «alto e magro», a sua vol-
ta costretto dalla perdita del proprio
orologio a domandare l’ora e conversare, di tanto in tanto, con qualcuno.
Sul testo aleggia, teatralmente, il meccanismo del doppio, del desiderio di
solitudine, di quel nesso fra commedia, depurazione del tragico e verità,
indagato nella seconda parte del volume da Pier Aldo Rovatti (Con Thomas
Bernhard nella direzione opposta,
pp. 78-87). Il tutto viene complicato
dal riferimento ad un «non-luogo» simile al riformatorio, all’orfanotrofio,
al castello, alla casa spogliata di ornamenti e al sanatorio: la galera, qui interpretata quale metafora perfetta del
mondo («Il mondo è assolutamente, da
cima a fondo, giuridico, come Lei forse non sa. Il mondo è un’unica enorme
giurisprudenza. Il mondo è una galera![…] E se Lei crede che negli istituti di pena sia un piacere, si sbaglia!
[…] E questa sera, glielo dico io, nel
teatro laggiù, che Lei ci creda o no, si
recita una commedia. Veramente una
commedia», pp. 19-22).
A questo stesso mondo, la voce narrante di Gothe muore (pp. 22-31) consegnerà, insieme ai conniventi Riemer
e Kräuter, la «più grande falsificazione
che abbia mai avuto luogo in letteratura»: un Goethe morente che sussurra Mehr Licht (Più luce). Con il semplice mutamento di una consonante
(fatto minimo che aumenta la meschinità e, quindi, la gravità della falsificazione) si stravolge così il vero pronunciamento di Goethe, che suonava
Mehr Nicht (Più niente). Ma anche
questo tipo di menzogna non è nulla
rispetto a quella, paradossale, garantita dalle pieghe di un racconto, che
però, attraverso la finzione, smaschera
la più amara delle verità: il Goethe di
Bernhard attende, sul letto di morte, la
visita di Wittgenstein e la sua «penultima frase» – qui, in un aggettivo, in
un ghigno elegante, tutta la forza della demistificazione bernhardiana – sarebbe stata «ciò che dubita e ciò che
non dubita. Una frase wittgensteinia■
na, dunque» (p. 31).
NOTA
* Thomas Bernhard. Una commedia una tragedia, a cura di Raoul Kirchmayr, numero monografico di «aut aut», 325, gennaio-marzo 2005,
pp. 222, euro 19,00.
23
Biblioteca del viaggiatore
Dalle retrovie di un terzo mondo italiano (metafora di tutti i sud del globo)
la road-story dell’ultimo Raffaele Nigro punta a un futuro salvifico
che non è quello che ci sta preparando il già corrotto domani
LA CROCE DEL SUD
di Marco Gaetani
I
l lettore assiduo di Raffaele Nigro
non stenterà davvero a riconoscere
nell’ultimo suo romanzo 1 la voce
più autentica dell’autore lucano, voce
per la verità inconfondibile e che da
ormai quasi un ventennio è presenza
costante e importante nel panorama
della narrativa nazionale. In altre occasioni si è avuto modo di sottolineare,
su queste stesse pagine2, la fedeltà di
Nigro ai propri assunti formali, contenutistici, ideologici. Ma se negli ultimi
libri dell’autore di I fuochi del Basento (il fortunato romanzo d’esordio che
nel 1987 impose Nigro all’attenzione
di critica e pubblico, non solo italiani)
si era potuta percepire una certa stanchezza (trattandosi di prove intenzionalmente minori o laterali, come nel
caso di Desdemona e Cola Cola; oppure di romanzi in qualche modo costretti entro uno schema piuttosto rigido: si pensi al volume precedente quello ora pubblicato, Viaggio a Salamanca), è possibile retrospettivamente, e
cioè dopo la lettura di questo Malvarosa, considerare quelle prove come
un “tirare il fiato” da parte dell’autore: per riprendere il suo passo migliore. Ed è proprio il caso, ci sembra, di
ricorrere all’immagine del rifiatare.
Malvarosa, storia per moltissimi riguardi tipicamente nigriana, narra le
vicende del giovane Eustachio Petrocelli, dal protagonista medesimo raccontate. Particolare importante, quest’ultimo: si constata infatti la ripresa
nel nuovo romanzo di una formula a
Nigro congeniale, quella della narrazione incorniciata: Petrocelli viene misteriosamente rapito nei pressi dell’antica Tagaste e rinchiuso in un rudere di
castello, tra mare e deserto. È qui che
egli narra le sue molteplici disavventure al compagno di prigionia, il tunisino El Houssi. Tòpos tradizionale, il
racconto del prigioniero; ma più che
alla novellistica orientale, cui pure Ni-
24
pure con il dubbio emergente nel finale, in un modo anch’esso a ben vedere formulare: che si sia trattato soltanto di un lungo sogno o di un viaggio
interiore del protagonista – quête dell’anima e della memoria, allora, non
casualmente inauguratasi sulle rovine
di Tagaste).
L
Le copertina dell’ultimo romanzo di Raffaele
Nigro, Malvarosa, Rizzoli 2005, finalista al Premio
Campiello.
gro si dimostra sempre sensibile, occorre qui forse pensare al narrare di
Marco Polo: alla multiforme vastità
delle cose viste e vissute che si raccoglie nello spazio angusto della cattività, alla schiera numerosa delle persone incontrate che quasi si decanta
alla confidente presenza di una sola.
La ripetitività un po’ monotona di
Viaggio a Salamanca è comunque decisamente scongiurata, e l’espediente
strutturale si mostra qui in grado di
dare sostegno e verità a quella dimensione di oralità che fin dall’inizio la
critica ha opportunamente individuato
come caratterizzante la narrativa nigriana. Al lettore sembra davvero di
leggere, nel romanzo, la trascrizione
in presa diretta delle parole d’Eustachio, dal taccuino di El Houssi (e sia
a parola di Nigro è quanto di meno
lavorato possa oggi immaginarsi,
il modello della prosa d’arte – dei suoi
molteplici riaffioramenti successivi e
camuffamenti postmoderni – ne costituisce gli antipodi: per l’autore melfitano il romanziere è una specie di contemporaneo raccontatore di piazza, se
non proprio un cantastorie redivivo.
Non lo spaventano perciò le sbavature
di qualsiasi sorta, il ricorso ad immagini qualche volta corrive, una sintassi ed un lessico che ritengono sempre
del parlato e qualche volta di quella
triviale forma mentis al libero parlare
quotidiano e popolare spesso retrostante: per lui, per il raccontatore orale, conta di più l’insieme che il particolare, la veduta grandangolare ha infinitamente più valore di quella di dettaglio. Il particolare, anzi, si può quasi dire paradossalmente scomparire,
per un tal genere di narratore – che
dissoda il suo campo di zappone e la
cui mano non potrebbe reggere cesello:
sommerso come risulta, il dettaglio,
nell’infinita congerie dei moltissimi altri che gli si accostano simili, e che accampando pari diritti finiscono per superarlo e per essere a loro volta da
sempre nuovi dettagli superati. È granello dopo granello che Nigro allestisce, all’impronta e con paziente sveltezza, la sua spiaggia.
Il lettore di Nigro si trova sempre
avvinto in un vero e proprio turbine
narrativo, trascinato da un impetus
evenemenziale che non conosce soste e
che lo trasporta sempre innanzi, a legCaffè Michelangiolo
Biblioteca del viaggiatore
gere ancora. E come d’un soffio ci si ri- lenzio, girata l’ultima pagina. Lo sche- griani ci si erano presentati come setrova ad aver letto le quasi trecento- ma che l’autore sovrimpone al suo nar- gnati dal male e dall’imperfezione (un
settanta pagine di cui questo libro agil- rare, perché esso possa prima comin- male in qualche modo “sacro”: si penmente si compone, egualmente l’auto- ciare e finalmente avere requie (più si paradigmaticamente all’epilettico
re, il raccontatore, dimostra buona che propriamente conchiudersi), è an- protagonista di Dio di Levante); pertempra, ritrova per strada il suo fiato e che in Malvarosa (come già altre volte sonaggi malati specchio di una società
di continuo rinnova la sua lena. Per in Nigro) quello ambiguamente culto malata, ovviamente.
nulla scoraggiato dal suo stesso trasci- del Bildungsroman (“ambiguamente”:
Di questo Sud agonizzante, sospeso
nante – e mai però nevroticamente tra- non vi si scorge infatti la matrice favo- tra Modernità e Tradizione (o meglio:
felato, ed anzi
tra il peggio delpiano e disteso –
l’una e il pessimo
trascorrere da un
dell’altra) è miparticolare all’alcrocosmo esemtro, da una vicenplare, nel romanda all’altra, da un
zo, la famiglia Pepersonaggio altrocelli: a suo
l’altro, anch’egli
modo indimentirapito dal demone
cabile. Quella dei
della narrazione,
Petrocelli costituiil Narratore è in
sce il prototipo
questo senso il
della famiglia paprimo lettore di se
triarcale che si
stesso: sembra gosfascia sotto i coldere nel racconta- Giampaolo Talani, Spiaggia delle partenze, 2002, olio su tela, cm. 160 x 380, collezione privata.
pi di una Moderre almeno quanto
nità incarnata
il lettore nel leggere, l’ascoltatore nel- listica?); ma la struttura del racconto dall’industria siderurgica e da quella
l’ascoltare. Un libro così, come i mi- di formazione resta estrinseca, mero culturale. Restano nella memoria le
gliori di Nigro, sembra davvero stato espediente che chi narra impone prima figure del nonno, nostalgico fascista
scritto per essere cantilenato nelle piaz- a se stesso che alla propria materia: costretto alla carrozzella, cocciutaze o nei teatri di paese, senza prender per poterla ritagliare e definire e non mente fedele a un’utopia degenere;
fiato e per farlo trattenere. Chi ascolta farsene sommergere, per non dover quelle del padre – sindacalista comuquesta voce aperta ed uniforme, dal narrare all’infinito.
nista (che però sogna di farsi imprentimbro squillante e popolare, lo fa in
Il romanzo vuole perciò essere la ditore) impotente ed anche dai conuno stato di beata ipnosi diegetica, storia del difficile passaggio di Eusta- giunti ormai del tutto inascoltato – e
s’abbandona ad una immaginazione chio Petrocelli dall’adolescenza all’età della madre, che conserva assurde suschietta, senza sofisticherie. Un Mario adulta, nello scenario del sud d’Italia perstizioni e spietati moralismi (a diPerrotta potrebbe farne forse buona tra la fine degli anni sessanta e il prin- stanza di quasi un secolo, non semprova, monologando in vernacolo, de- cipio degli anni ottanta del Novecento bra ella reiterare, nei confronti della
clamando pensoso, elementare.
– e oltre. Quella del giovane è figura figlia ’Ndina, l’agghiacciante comporDi un turbine diegetico, si è scritto. centrale nella narrativa nigriana: fi- tamento di donna Antonia SommatiChe non conclude, coerentemente: per- gura latrice dello slancio utopico entro no, nella memorabile novella di De
ché se è vero che il lettore si ritrova ben una realtà decrepita, quella appunto Roberto?); dei cinque figli, tutti in
presto sommerso da un profluvio nar- meridionale corrotta dalla povertà e qualche maniera segnati nel corpo e
rativo che può procurargli un certo dall’arretratezza materiali e spirituali. nell’anima da manie, malattie, irrespaesato stordimento (qualora già Come molti personaggi di Nigro, Eu- quietudini, contraddizioni.
esperto della scrittura nigriana baste- stachio Petrocelli è inoltre dotato di
Nella resa dei personaggi, più in geranno ovviamente poche decine di pa- un suo stigma particolare, di un sin- nerale, Nigro risente di quella propengine per riacclimatarsi al rapinoso in- golare tratto distintivo che è bensì sione al fantastico che trasfigura il crucedere del narratore; ma il neofita non simbolico ma rappresentato dall’au- do dato realistico e lo trasporta in
si esclude possa effettivamente risenti- tore in termini estremamente realisti- un’atmosfera di fiabesca surrealtà.
re qualche disagio, e andare incontro ci – giusta la tecnica dei cantastorie, la Non ne consegue però una poeticità
ad alcune idiosincratiche difficoltà), loro inclinazione alla resa icastica fi- sentimentale ed astratta, vaporosa;
vero è altrettanto che un racconto di nanche del dato morale. Il giovane Pe- bensì una rappresentazione realisticoquesto tipo deve dispiegarsi tutto oriz- trocelli ha fiuto: il suo olfatto è parti- popolaresca non priva di tratti d’aczontale e senza gerarchie: se ha biso- colarmente sensibile agli odori, in centuata deformazione grottesca, in cui
gno di un punto di partenza, esso è ispecie quelli legati alla morte: muffa, la dimensione corporea e fisiologica (il
per definizione canonico, ancoraggio decomposizione. Si tratta di una vera nutrimento, la sessualità) guadagna
convenzionale; come pure formulare e e propria malattia, uno stigma si è sovente il primo piano (un registro impuramente indicativo è l’approdo al si- scritto: già altrove i personaggi ni- maginale a Nigro alquanto consueto, e
Caffè Michelangiolo
25
Biblioteca del viaggiatore
R
da qualche lettore per temiassumere la multiforme
po accostato a quello di cermateria del racconto, in
ti narratori sudamericani).
tutte le sue pieghe, è comunQuesto livello rappresentatique impresa ardua, come
vo, in cui i colori accesi e
quella di chi volesse condenfolclorici non si saprebbe
sare in poche righe lo straridire se da vecchia stampa
pante contenuto di un canpopolare o da foto a rototare: l’ipertrofia e l’inconticalco, restituisce in maniera
nenza sono da sempre tratti
inopinatamente fedele la
peculiari dell’approccio nirealtà in cui Eustachio si
griano alla narrazione; le
trova a dover vivere: una
storie che egli narra hanno
realtà concretamente caotica
l’iperbole diegetica di quelle
(in cui il pittoresco non bene
dei narratori di “cunti”: imsi distingue dal kitsch) e sinpossibile individuarvi un bagolarmente onirica, in cui
ricentro che organizzi e tenogni gesto, anche il più ecga ferma una materia tanto
cessivo e violento, acquista
proliferante, in cui tutto si
una sua peculiare levità, sodispiega, come già osservato,
speso come resta in una diorizzontale, liquido, superfimensione estranea alla cociale (e sarà appena il caso
scienza del bene e del male.
di osservare come gli stessi
Qualcosa, a voler indicatipersonaggi di Nigro siano
vamente introdurre un paio
sostanzialmente privi di
di riferimenti cinematogra- Donne al lavatoio sul fiume Imele in Abruzzo, in una immagine del 1958 di profondità, e non evolvano:
fici, tra lo Scola di Brutti, A. Cervellieri fornita da Patrizia Tocci.
altrettante figurine da racsporchi e cattivi e certe pelconto o teatro popolare, essi
licole di Emir Kusturica.
edonistico – cibo, sesso, denaro (ov- non conoscono mutamenti che non apIl sud dell’Italia rappresentato da viamente la “grande” borghesia – nel paiano al lettore incongrui e sforzati,
Nigro (alcuni anacronismi micro- e romanzo rappresentata dall’impren- imposti loro dall’autore).
macroscopici testimoniano nel testo di ditore Spera e dalla sua famiglia – non
Proprio come un poema cavalleretale proiezione attualizzante) è non si differenzia affatto per cultura, va- sco, o come un racconto orale, Malvasolo quello degli anni settanta e degli lori, stile di vita: sconcia ricchezza, il- rosa presenta una estrema variabilità
ottanta; è anche la società meridiona- legalità e ignoranza più assolute). Un di scenari: dallo sfondo già sensibille contemporanea, per chi voglia os- universo non tanto del passato prossi- mente slargato di un meridione che
servarla attraverso lo sguardo coin- mo, insomma, quello descritto da Ni- non si riduce mai a quinta fissa (Mevolto-e-distaccato dell’autore: un uni- gro in Malvarosa; ma del presente e taponto, paese natale del protagoniverso caotico e turbinante, in cui i gio- del vicino: un terzo mondo italiano di sta, non è affatto l’unico statico teatro,
vani crescono senza valori e con mol- plastica e di fango.
cittadino e provinciale, delle avventuti disvalori, soggiacre di Eustachio e
ciono alla droga, al
compagni: Nigro ha
consumismo, ai miti
una spiccata vocaartificiali; mondo
zione alla road-story
senza redenzione in
picaresca, e i suoi
cui mali vecchissimi
personaggi si muovoed autoctoni sopravno incessantemente
vivono accanto ai
lungo tutto l’arco ionuovi d’importazionico, tra Puglia Bane, in un reciproco
silicata e Calabria) il
corroborarsi. Una
diorama si dilata
società disgregata ed
fino a comprendere
estremamente indiaddirittura l’Africa e
vidualistica, in cui
il Nord America, diceti popolari e piccostendendosi così tra i
lo-borghesi sono
due poli della dialetpreda dei medesimi
tica nigriana – che
conati e delle stesse
prendono una volta
insoddisfazioni, di
di più, al di là del
un identico cinismo Percy Tarrant (1879-1930), Leaving for school (Fine Art Photographic Library).
valore simbolico,
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Caffè Michelangiolo
Biblioteca del viaggiatore
consistenza geografica. Si tratta delle
due opposte ed egualmente ambigue
utopie che si fronteggiano sempre nelle pagine dei racconti di Nigro, quella
incarnata dal mondo mediterraneo e
l’altra rappresentata dal mondo atlantico, il mito del passato e delle radici
(di cui parlano i morti ed i cocci delle
necropoli) contrapposto a quello “liberatorio” della Modernità e del futuro (fantasmagoricamente rivenduto da
cinema e musica); la stasi contemplativa di un Sud eterno, da una parte; e
l’egualmente eterna rincorsa del Nord
all’opulenza, dall’altra.
Si è avuto modo di soffermarsi analiticamente altrove3 su questo tormento
pendolare, come sul nucleo propulsivo
di ogni narrazione di Nigro: tra un’utopia regressiva, quella che facilmente
alligna nelle società di un benessere soltanto materiale (in Malvarosa sono la
torinese Mary Lodigiani e il nordamericano Jeffrey Braham ad incarnare il
disagio della Modernità: personaggi che
su diversa scala scorgono nel mondo
meridiano la perdurante memoria delle civiltà dell’anima, siano quella contadina o quella magnogreca), ed una
progressiva. Eustachio Petrocelli vagheggia decisamente quest’ultima: insoddisfatto del proprio passato (e del
presente che sembra da quel passato
ineluttabilmente discendere), che egli
perciò respinge e, letteralmente, svende; si fa convinto adepto della religione
della Modernità e dell’americanismo,
Eustachio: aspira ad un mondo sintetico e veloce, l’unico in cui veda riposta
la promessa di una integrale felicità
(sia pure, nichilisticamente, all’insegna
della folla solitaria).
Il protagonista di Malvarosa è insomma personaggio esemplare di una
generazione irrequieta e sbandata (la
prima, cui altre anche più confuse seguiranno), che respinge la lingua materna per i miti metropolitani, optando
decisamente per la nafta contro il sangue. È, questa del sangue (con la consueta resa fisica, e fisiologica, della metafora), una delle immagini portanti
della narrazione: perché proprio al sangue è particolarmente sensibile l’olfatto di Eustachio: ogni volta che ne avverte l’odore egli ne resta nauseato,
cade in preda ad un profondo fisico
malessere. L’intolleranza all’odore del
sangue è in effetti parte della sua diCaffè Michelangiolo
Raffaele Nigro
Raffaele Nigro è nato a Melfi nel
1947. Giornalista e autore di studi sulla cultura e la letteratura della Basilicata, con il romanzo d’esordio I fuochi
del Basento (edito da Camunia e poi
come il successivo ristampato nella bur)
vince nel 1987 il Supercampiello. Il libro costituisce un “caso letterario” e
suscita l’attenzione di importanti critici, che ne parlano come di un originale esempio di romanzo “antropologico”. Seguono La baronessa dell’Olivento (1989), Ombre sull’Ofanto
(1992, Premio Grinzane Cavour), Dio
di Levante (Mondadori 1994), Adriatico (Giunti 1998), Desdemona e Cola
Cola (Giunti 2000), Viaggio a Salamanca (Aragno 2002). Da segnalare
anche, oltre ai racconti di Il piantatore
di Lune (Rizzoli 1991), il reportage
Diario mediterraneo (Laterza 2000,
Premio Cesare Pavese). Con Malvarosa
è entrato nella cinquina dei finalisti nell’ultima edizione del Premio Campiello.
Le sue opere sono tradotte in numerose lingue.
versità e della sua ribellione alle origini (col sangue ha quotidianamente a
che fare il padre, di mestiere macellatore; come pure simbolicamente legata
al sangue è la malattia dell’amata sorella Cristina: la vittima sacrificale che
in qualche modo redime il giovane da
un’esistenza sbagliata). L’odore del
sangue per Eustachio si lega strettamente a quello della decomposizione,
della morte: di quella morte da cui il
giovane protagonista si sente assediato,
su cui gli pare riposare strato su strato
tutta la sua terra-cimitero.
Il sangue, tuttavia, è anche vita e
non soltanto morte. È questo, per Nigro, il punto fondamentale: il mondo
turbinante di odori stagnanti e di cieche passioni in cui Eustachio vive immerso sognando di potervi finalmente
evadere è anche (non può non venire in
mente Pasolini) un universo profondo,
ancora ricco di umanità, in cui perfino
l’evento estremo della morte può trovare un suo senso. Dentro una umanità pezzente, disperata ma vitale e
sensuale, l’essere umano può infatti essere e sentirsi ancora prossimo al vivente, essere parte dell’organico: senso
creaturale in virtù di cui si può allora
sfuggire a quella reificazione che nel
Nord del mondo riduce invece gli uomini e le donne a sintetici automi, a
disanimate immagini virtuali. Eustachio – questo l’approdo della sua “formazione”, il suo divenire finalmente
adulto da adolescente che era – trova
infine se stesso specchiandosi proprio
nell’immagine del migrante, riconoscendosi in Soukeyna: in quanti come
lei abbiano la Modernità ancora davanti, come intatta Utopia.
S
embra essere questa la morale ultima dei racconti di Raffaele Nigro,
autore che mostra di credere fermamente in un futuro, per quanto remoto,
in cui i valori della Tradizione (custoditi dai dannati della terra in tutti i
Sud del mondo, e veicolati intatti nelle
storie) troveranno il modo di resistere
ed opporsi al degrado alienante di una
Modernità di cui peraltro contribuiscono a salvare la genuina valenza umana,
l’originaria vocazione emancipatoria:
di questa alleanza e congruenza la piccola Adithiane è frutto e simbolo insieme – e coerente approdo diegetico.
Utopia difficile da credersi, prima ancora che da raggiungersi; che bisogna
per questo sempre di nuovo tornare a
rianimare, nel turbine vitale del rac■
conto.
NOTE
1 Raffaele Nigro, Malvarosa, Rizzoli, Milano
2005.
2 Cfr. “Caffè Michelangiolo”, a. V n. 2, Maggio-Agosto 2000, p. 75 e a. VII n. 1, GennaioAprile 2002, p. 69.
3 Cfr., di chi scrive, la monografia Il guardiano della Luna. Commento alla narrativa di
Raffaele Nigro, Milella, Lecce 1999.
27
Sfogliature
Il “self-made man” Vincenzo Batelli e le glorie della Toscana
nelle nicchie vasariane
IL PANTHEON DEGLI UFFIZI
di Anna Maria Piccinini
L
a trasformazione dello stato-città
rinascimentale, fondato sulle istituzioni borghesi, nel principato
territoriale – secondo la nota definizione
di Rudolf von Albertini – impose la “riqualificazione” monarchica del centro
cittadino. Cosimo I, secondo duca
(1540) e dal 1569 granduca di Firenze,
aveva in simile direzione ordinato al suo
architetto l’operazione che comporterà
l’esproprio e la demolizione di decine di
case fra il Palazzo Vecchio e l’Arno.
Il Vasari non esiterà anche a inglobare la
romanica chiesa di San Pier Scheraggio, consacrata nel 1068, da una parte,
e la Zecca, dall’altra, per aprire fino al
fiume la strada de’ Magistrati (oggi,
piazzale degli Uffizi), come ogni buona
guida sa illustrare al visitatore. Nei pilastri dei due loggiati paralleli e del trasversale con la vasta arcata, Cosimo intendeva collocare «le statue di tutti quei
La statua raffigurante Andrea Orcagna, eseguita
dal Bazzanti, al primo pilastro. Di lato, una delle
frequenti statue viventi che si esibiscono nel loggiato degli Uffizi.
28
Fiorentini che fussero stati chiari, e illustri nelle armi, nelle lettere, e nei governi civili»: un seguito cioè alle sculture
politiche di piazza della Signoria (del
tema degli “uomini famosi” caro a Firenze fino dal Trecento, gli Uffizi offrono più versioni). Nella foggia di imperatore romano («poi che noi rinnovelliamo Augusto», vi aveva già alluso Paolo iii Farnese con Antonio da Sangallo il
Giovane, almeno nella nota poesia carducciana del 1877) il granduca veniva
in tal modo idealizzato da Vincenzo
Danti, e collocato alla testa del loggiato
(attualmente il vestigio è al Bargello)
con al fianco Rigore e Equità: effigie sostituita nel 1585 da quella del Giambologna voluta dal successore Francesco i.
Il quale ritenne anche di non completare il disegno paterno. Le nicchie rimasero vuote, mostrando una muta solennità architettonica che a qualcuno ha
fatto pensare che quello fosse l’intento
dell’architetto e perciò del Principe.
Dovettero trascorrere più di due secoli e mezzo perché uno che oggi si definirebbe un self-made man riprendesse
l’antico progetto. Si tratta di Vincenzo
Batelli il quale da Firenze dov’era nato
nel 1786 in una famiglia del popolo, e
dopo aver tentato la carriera militare
(granatiere sotto Ferdinando iii, seguirà
poi l’esercito napoleonico), si stabilirà a
Milano nel ’15. A ventinove anni già si
era fatto un nome come miniatore di
stampe, e tre anni più tardi impianterà
con l’altro fiorentino Ranieri Fanfani una
tipografia e calcografia nella Corsia del
Giardino (oggi, via Manzoni). Da quei
torchi uscirà fra l’altro la Serie di vite e ritratti di famosi personaggi degli ultimi
tempi (1818). Per sottrarre il maggiore
dei suoi tre figli alla coscrizione sotto la
bandiera asburgica, nel ’25 fece ritorno a
Firenze (secondo alcuni, avrebbe “cambiato aria” in seguito ad accuse di pirateria editoriale). Insieme a Luigi Gargani
che possedeva alcuni fondi nei pressi del
teatro Goldoni, qui aprì una stamperia.
Quasi subito divenne anche editore (uno
dei primi in Italia in senso moderno, che
affrontano cioè il rischio d’impresa), e
prese a pubblicare per associazione una
gran quantità di opere. Se non l’introduttore in Italia di questo metodo di vendita, ne fu certamente fra i primi promulgatori. Gli affari prosperavano, tanto
da consentirgli una notevole espansione
dell’impresa e investimenti in macchinari e manodopera. I libri prodotti dal Batelli si distinsero per accuratezza e mole,
nell’intendimento che l’editoria debba
avere una missione educativa, formativa,
didattica. Fra queste pubblicazioni devono essere ricordati i trentaquattro volumi del Costume antico e moderno, il
Grande dizionario di storia naturale in
centonovantatré dispense, le opere di divulgazione geografica di Francesco Costantino Marmocchi, l’Iliade in sette lingue. L’esito forse più pregevole fu la ri-
La statua che rappresenta Nicola Pisano, scolpita
da Pio Fedi, nella seconda nicchia.
Caffè Michelangiolo
Sfogliature
produzione e illustrazione delle opere
d’arte presenti nelle gallerie pubbliche e
nelle collezioni private a Firenze. All’attività imprenditoriale collegò iniziative di
carattere sociale, quali l’apertura di un
istituto per l’insegnamento delle arti grafiche (un “servizio” che sarà ripreso da
Angelo Rizzoli con la scuola che porta il
La statua di Leon Battista Alberti del Lusini, collocata al quinto pilastro.
suo nome), di un gabinetto letterario e di
un centro di canto. Intraprese intorno al
trenta anche la costruzione di un imponente edificio, che oltre a propria dimora
(portale bronzeo, arcate, nicchie e statue
in facciata, colonne, scalinate) riunirà
stamperia, scuola e accademia: è il palazzo Batelli che tuttora si può vedere in
via Sant’Egidio, a meno di cento passi
dall’arcispedale di Santa Maria Novella.
L’impresa editoriale arrivò a impiegare
centocinquanta addetti fra tipografi, incisori, disegnatori, coloritori, rilegatori, e
a impiegare materiali e attrezzature di
produzione esclusivamente toscana, fra
cui i famosi torchi provenienti dalla Fonderia di ghisa di Follonica, impiantata
dal governo granducale e che Leopoldo ii
rimodernerà nel 1834.
Durante queste alacri e avventurose
operazioni editoriali e edificatorie ebbe
modo di avvicinare e conoscere molti giovani talenti: ne apprezzò il valore e ne apprese le difficoltà di trovare le strade giuCaffè Michelangiolo
ste per affermarsi, per fare dell’arte la
propria vita. E pensò di offrirgli la possibilità di mettere in luce le loro capacità
attraverso un’opera pubblica di forte richiamo e che fosse di abbellimento per la
città e per le sue memorie. Un gesto di filantropia (virtù la sola un tempo apprezzata dall’umanità, come sosteneva
Thoreau che intuì fra i primi l’insensatezza di un sistema economico e di una
mentalità che avrebbe caratterizzato la
rinascente borghesia), e anche un trasporto d’orgoglio per la patria toscana
che il moderato liberalismo lorenese induceva a una quieta sonnolenza. L’obiettivo (temerario) che si pose fu quello
di commissionare ai promettenti scultori
le statue dei grandi Toscani del passato,
da collocarsi nelle nicchie vasariane. Là
dove il Principe si era tirato indietro, ci
provava ora un privato cittadino sine nobilitate: appunto un self-made man il
quale aveva dato prova di intraprendenza e fortuna nel rischio. E che trovò incoraggiamenti e appoggi in una parte
della classe avanzata di Firenze. Il progetto andava nella direzione di quel programma di «progressivo incivilimento»
cui era stato favorevole il primo Leopoldo e che in Gino Capponi fra gli altri trovava un deciso propugnatore: incivilimento (dirà il Balbo che la nostra lingua
distingue tra civiltà e incivilimento: questo è l’atto, quella il risultato) da perse-
La statua all’undicesimo pilastro che raffigura
Niccolò Machiavelli, opera di Lorenzo Bartolini.
guire non solo attraverso l’industria, la
pubblica morale e la di meno ingiusta
retribuzione a chi fatica, tra bonifiche
del Fossombroni e ammaestramenti
agronomici di Cosimo Ridolfi, ma anche
attraverso la conoscenza della propria
storia, come ex cathedra il buon Foscolo
aveva esortato. Ed ecco allora l’ardi-
La statua di Michelangelo, opera del Santarelli,
installata al settimo pilastro.
mentoso proposito del Batelli incontrare
il consenso del sovrano, così da poter costituire il 16 giugno 1834 la Deputazione cui aderirono lo stesso marchese Capponi, il Niccolini e altri con lo scopo di
buttar giù una prima lista di titolari del
genio toscano da raffigurare. Filippo Moisé pubblicò un opuscolo per illustrare la
bontà del nuovo arredo urbano che si
prometteva e vennero aperte pubbliche
sottoscrizioni che impegnavano al versamento di un fiorino “per firma”, da versare ogni trenta giorni per trenta mesi. Se
è vero come dice Emerson che non si è
mai fatto nulla di grande senza entusiasmo, non è meno vero che gli entusiasmi
sono anche impazienti di placarsi. Non
tutte le “firme” si rivelarono solventi, si
ritenne allora di correre ai ripari nonostante le resistenze dell’ideatore con l’affidarsi ad artisti la cui notorietà del momento facesse da richiamo al progetto. Le
prime quattro statue (Dante, Leonardo,
Machiavelli, Michelangiolo) furono asse-
29
Sfogliature
Scorcio del loggiato degli Uffizi, da Piazza della
Signoria. In primo piano il monumento a Cosimo
I, opera del Giambologna (1585).
gnate a Emilio Demi, Luigi Pampaloni,
Aristodemo Costoli, Emilio Santarelli.
L’editore-filantropo non voleva tuttavia
rinunciare a ciò che si era prefisso: dare
cioè ai giovani artisti la chance di venire
alla ribalta attraverso una operazione di
grido. Promulgò un bando in tal senso, si
fecero avanti in nove ai quali per sorteggio vennero assegnati altrettanti personaggi da monumentare. Per ottenere definitivamente l’incarico, la procedura prevedeva fasi rigorose fra cui l’esame dei
bozzetti e l’indagine sulla modalità esecutiva dell’opera da parte di «professori
dell’arte». In otto superarono la prova
(Grazzini, Bazzanti, Cambi, Nencini,
Fantacchiotti, Leono, Insom, Guerrazzi), però non tutti gli aspiranti ebbero
poi la commissione per le sopraggiunte
difficoltà finanziarie. La borsa del Batelli cominciava a languire, un po’ a causa
degli esborsi eccessivi per la costruzione
del palazzo di via Sant’Egidio, un po’ in
seguito a investimenti non andati a buon
fine. Il termine del 1837 per la conclusione dell’opera ci si avvide subito essere
utopistico, e il secondo rendiconto del
’39 mostrerà una scarsità di fondi preoccupante, malgrado la realizzazione delle
sculture procedesse: le prime quattro erano quasi ultimate, altre quattro in una
avanzata fase di composizione (Boccaccio, Orcagna, Capponi, Farinata). L’an-
30
no successivo si riscontrò che le sottoscrizioni erano a un punto morto, mentre
gli affari dell’editore stavano andando a
rotoli. E la delusione per lo spento entusiasmo da parte dei suoi concittadini non
dovette certo essere un corroborante al
suo stato d’animo. Vi era già stato il rifiuto da parte del granduca di concedergli un sostegno dopo la crisi economica
seguita alla terribile epidemia di colera
del ’55: i centocinquanta dipendenti rischiavano il lavoro, un’attività importante per lo Stato sarebbe andata perduta. Ma si era sentito rispondere dal sovrano: avete voluto fare troppo, io ora
non posso fare nulla per voi.
Per quanto siano non chiari i motivi
del tracollo del Batelli (Achille Bertarelli, autore di una importante Storia della
tipografia, sostiene che siano state più di
una le cause che contribuirono alla sua
caduta: probabilmente decisiva, però,
quella di non aver voluto abbandonare il
sistema dell’associazione il quale non
corrispondeva ormai più ai nuovi indirizzi del mercato), pare che a tale risultato contribuissero gli stanziamenti profusi nel faraonico palazzo. Fu accusato
Uno dei battenti del portone in bronzo che Vincenzo Batelli aveva voluto per mostrare in fondo
l’ampio andito ornato di colonne e statue.
Scorcio di Palazzo Batelli in via Sant’Egidio a
Firenze. La sua costruzione contribuiì al dissesto
dell’editore.
questa volta di essersi montato la testa,
di aver perseguito un’ambizione sproporzionata; dai meno accaniti, di avere
una psicologia esuberante. In una parola, la classe elevata (così come la subalterna che fatica per la di meno ingiusta
retribuzione) si mostrava ancora una
volta poco commiserevole verso il povero diavolo che precipita dopo aver salito
troppi gradini della scala sociale (in una
lettera alla madre del 1809, il “plebeo”
Jean-Charles-Léonard Simonde che voleva convincersi di discendere da una
potente famiglia medievale pisana, i Sismondi, sconsolato scriveva: «i ricchi
hanno un modo strano di monopolizzare ogni cosa»). Insomma quando la fortuna gli voltò le spalle, il povero Battelli
si trovò abbandonato a se stesso, e isolato. Nel ’41 scioglierà la Deputazione,
passando la mano al prefetto dell’Accademia di Belle Arti Giovanni Benericetti
Talenti confidando che la posizione di
lui insieme alle risorse dei nuovi membri
(per buona parte cospicui borghesi) consentisse la conclusione dell’opera.
I criteri della rinnovata Deputazione
divergevano però un’altra volta dall’intendimento dell’ideatore: non a giovani
promettenti bensì ad artisti ben affermati ci si rivolgeva di nuovo, mirando
ad invogliare il pubblico e nello stesso
tempo mostrare al mondo l’eccellenza
della statuaria toscana. Le scelte furono
tuttavia accurate. Seguendo il consiglio
del Dupré nelle nicchie si esposero i
marmi a grandezza naturale per valuCaffè Michelangiolo
Sfogliature
tarne l’effetto; si tenne poi in conto il
giudizio del pubblico e quello degli addetti; infine, per San Giovanni, la grande festa del patrono il 24 giugno, anno
dopo anno si inaugurò una statua. I fondi via via si raccoglievano attraverso
tombole in piazza le quali fruttarono
buoni introiti, e si indusse anche qualche
benestante cittadino a sovvenzionare (oggi si direbbe “a sponsorizzare”)
l’esecuzione della statua di questo o quel
un personaggio a proprio capriccio, con
la scelta anche dello scultore.
Nel ’57 le ventotto statue dei toscani
illustri furono tutte al loro posto. Il Benericetti Talenti fece stampare un fascicoletto da distribuire ai sostenitori:
L’inaugurazione delle XXVIII statue di illustri toscani nel portico degli Uffizi. Le
opere vennero poi fotografate dall’inglese J. Brampton Philop e andarono a
formare un album tuttora custodito all’Archivio di Stato di Firenze. Rispettando il precetto le sculture del suo ideatore vennero offerte al comune di Firenze, legando la donazione alla clausola
di una precisa e dettagliata cura nella
conservazione. Nella persona del suo
gonfaloniere il Comune oppose un rifiuto (anticipando così quello che sarebbe
stato il suo postero indirizzo, ahimé, fino
ai correnti giorni). Furono allora pro-
La statua dedicata a Benvenuto Cellini collocata
nella nicchia del ventiseiesimo e ultimo pilastro
(lato destro), eseguita dal Cambi.
Caffè Michelangiolo
L’ORNAMENTO
ALLA FABBRICA DEL VASARI
Le ventotto statue degli uomini
più ragguardevoli per scienze
e arti della Toscana,
opera di artisti fiorentini
Sotto ai loggiati. 1. Cosimo Pater Patriae (M. Magi, 1846); 2. Lorenzo il Magnifico (G. Grazzini, 1842). All’esterno.
3. Andrea Orcagna (F. Bazzanti, 1843);
4. Niccola Pisano (Pio Fedi, 1849);
5. Giotto (G. Dupré, 1845); 6. Donatello (G. Torrini, 1848); 7. Leon Batt. Alberti (G. Lusini, 1850); 8. Leonardo da
Vinci (L. Pampaloni, 1842); 9. Michelang. Buonarroti (E. Santarelli, 1842);
10. Dante Allighieri (E. Demi, 1842);
11. Francesco Petrarca (A. Leoni,
1845); 12. Giovanni Boccaccio (O. Fantacchiotti, 1843); 13. Niccolò Macchiavelli (L. Bartolini, 1846); 14. F. Guicciardini (L. Cartei, 1847); 15. Amerigo
Vespucci (G. Grazzini, 1846). Lato di
facciata sull’Arno. 16. Farinata degli
Uberti (F. Pozzi, 1844); 17. Pier Capponi (F. Bacci, 1844); 18. Giovanni dalle Bande Nere (T. Guerrazzi, 1855);
19. Francesco Ferrucci (P. Romanelli,
1847). Continuando dal lato interno.
20. Galileo Galilei (A. Costoli, 1851);
21. Pier Antonio Micheli (V. Consani,
1856); 22. Francesco Redi (P. Costa,
1854); 23. Paolo Mascagni (L. Caselli,
1852); 24. A. Cesalpino (P. Fedi,
1854); 25. S. Antonino (G. Dupré, 1854);
26. Accorso (O. Fantacchiotti, 1852);
27. Guido Aretino (L. Nencini, 1847);
28. Benvenuto Cellini (U. Cambi, 1845).
poste allo Stato, e Leopoldo ii ben volentieri le ricevette. Intanto, negletto e
ormai estraneo a tutto questo com’è consuetudine nelle più celebrate favole romantiche, il padre storico di tanto progetto si andava spegnendo nella modesta
casa di borgo San Jacopo. Morirà di lì a
poco, nel marzo del ’58, assistito dal figlio che aveva chiamato Spirito. E verrà
sepolto da povero nel cimitero di Porta a
Pinti dai fratelli della Misericordia. Di
lui resta il ritratto che ne fece il Tommaseo. Dopo averne esaltato i meriti di
editore (proposta dallo scrittore di Sebenico, gli si deve anche la prima pubblicazione delle opere manzoniane precedenti i Promessi sposi), ne celebrava
«la rallegratura del viso […] e nella
grande persona un far liberale; e nelle
mosse sveltezza d’uomo che aveva as-
saggiate le armi, e poi messo a profitto il
convivere con gente colta senza però
smettere i pregi dell’indole popolare».
All’Amministrazione fiorentina, che
pare così solerte di intitolare strade in
punto di morte, sarebbe forse il caso di
segnalare questa benemerita figura di
trascurato mecenate e sventurato capitano d’industria che nessuna targa ricorda all’ingratitudine dei suoi contemporanei e dei posteri a duecentoventi
anni dalla nascita.
■
BIBLIOGRAFIA
Gli uomini illustri del loggiato degli Uffizi.
Storia e restauro, a cura di M. Scudieri,
Firenze 2001.
B. Davanzati, Orazione funebre per la morte
di Cosimo I, in Le operette originali di
Bernardo Davanzati, a cura di E. Zaccaria, Firenze 1896.
P. Barbera, Ricordi biografici di Vincenzo Batelli, Firenze 1872.
N. Tommaseo, Vincenzo Batelli, in Piero Barbera, Editori e autori. Studi e passatempi
di un libraio, Firene 1904, p. 141 e segg.
NOTA
Le immagini sono di Mario Graziano Parri.
La statua di Sant’Antonino eseguita da Giovanni
Dupré, collocata al ventitreesimo pilastro. A lui si
deve la prima biblioteca pubblica d’Europa.
31
Sfogliature
I soprusi di sempre dei galantuomini sui cafoni
nei documenti di Stato dell’Archivio dell’Aquila
SULLE TRACCE DI FONTAMARA
di Patrizia Tocci
«U
na sera che la nostalgia s’era
fatta più pungente, con mia
grande sorpresa ho trovato
sull’uscio della mia abitazione, seduti
contro la porta e quasi addormentati,
tre cafoni, due uomini e una donna che
senza esitazione ho riconosciuto subito
per fontamaresi […] quello che hanno
detto è in questo libro»1.
La vicenda di Fontamara ruota attorno a un misero ruscello che da sempre, a memoria d’uomo, aveva irrigato i
campi dei fontamaresi, il cui corso viene
deviato per irrigare i campi di un ricco
impresario appena arrivato in quella
zona: «Fontamara somiglia dunque ad
ogni villaggio meridionale che sia un po’
fuorimano […] un po’ più arretrato e
misero degli altri. Ho appurato che gli
stessi avvenimenti in questo libro con
fedeltà raccontati, sono accaduti in più
luoghi»2.
Uno di questi luoghi potrebbe chiamarsi Verrecchie, una piccola frazione
del comune di Cappadocia in provincia
dell’Aquila, sempre quindi nella Marsica siloniana; gli “stessi avvenimenti”
hanno lasciato traccia nell’archivio di
Stato dell’Aquila e anch’io li ho trovati
quasi sull’uscio di casa, mentre cercavo
tutt’altro.
Sono accaduti nel 1927 – v anno dell’era Fascista –; a quell’epoca Silone
aveva già fatto la scelta della clandestinità e dell’esilio.
L’intera documentazione riguarda le
sorgenti del fiume Imele, proprio a ridosso del paese che oggi conta circa cinquanta abitanti nel periodo invernale ed
ha purtroppo storia simile a tanti altri
piccoli centri della montagna interna,
quasi sempre votati allo spopolamento e
all’abbandono. Nel 1927 invece gli abitanti erano quattrocentocinquanta:
come a Fontamara, l’economia, si reggeva sulla coltivazione delle poche e scomode terre – siamo a millecinquanta
metri sul livello del mare –; abbastanza
praticata era l’emigrazione stagionale
soprattutto verso la campagna romana,
32
Fontamara di Ignazio Silone nella prima edizione
Oscar Classici moderni di Mondadori (in copertina: Renato Guttuso, Occupazione delle terre
incolte in Sicilia, part., Dresda, Staatliche Kunstsammlungen, Gemaeldegalerie Neue Meister).
Il romanzo uscì nel 1930. Da allora ha avuto
innumerevoli edizioni.
e la presenza di boschi e pascoli favoriva soprattutto l’allevamento ovino. Le
sorgenti del fiume erano centrali nell’economia del paese; alimentavano un
mulino ad acqua che macinava grano e
granturco ed alcuni fontanili. In seguito
al terremoto del 1915 – colpì anche questa zona – e del quale rimase traccia evidente nella vita e nell’opera di Ignazio
Silone – le sorgenti del vicino e fiorente
comune di Tagliacozzo si erano invece
prosciugate; la popolazione numerosa
aveva bisogno d’acqua, per motivi igienici ed alimentari. Il podestà di Tagliacozzo, Domenico Amicucci «ritenuta la
necessità e l’urgenza di riparare a tale
inconveniente […] delibera di contrarre
col comune di Cappadocia un mutuo
per la costruzione di un acquedotto, giu-
sta il progetto dell’ingegnere Vacca approvato dal ministero dei Lavori pubblici per trasportare con nuovo acquedotto litri 8 di acqua al secondo dalle
sorgenti di Verrecchie al capoluogo e di
provvedere alla differenza di spesa a carico del comune con il concorso dei cittadini con opera in natura»3.
Ma il municipio di Cappadocia non
ha fondi per contrarre il mutuo.
Il municipio di Tagliacozzo inizia comunque – anche senza tutte le necessarie autorizzazioni – con tempestività i
lavori e passa all’espropriazione dei terreni su cui dovrà essere edificato l’acquedotto. Il Commissario prefettizio del
comune di Cappadocia sostiene la sua
verità: «alcune firme sono state estorte
con gherminelle varie, facendo credere
che per riscuotere £ 150 di indennità,
avrebbero speso £ 200, che la conduttura sarebbe stata fornita di steccato,
quindi con divieto di lavorare il terreno
soprastante, ove non avessero firmato
bonariamente»4. Anche Fontamara comincia con una petizione “estorta”:
«i sottoscritti, in sostegno di quanto sopra, rilasciano le loro firme spontaneamente, volontariamente e con entusiasmo»5. A Fontamara, come a Verrecchie
le persone in grado di leggere e di scrivere non dovevano essere molte…
Nasce quindi attorno all’uso e alla
captazione di queste sorgenti una fitta
corrispondenza di cui gli attori principali
sono: il podestà di Tagliacozzo, il commissario prefettizio del comune di Cappadocia, l’ingegnere incaricato dei lavori, i tutori dell’ordine pubblico, il ministero dei Lavori pubblici, la legione
territoriale dei Reali Carabinieri di Perugina (divisione di Aquila), la federazione provinciale del Partito Nazionale
Fascista; ma non scrivono i diretti interessati se non per interposta persona e
ancora Silone ci dice perché: «la lingua
italiana è per noi una lingua morta, una
lingua il cui dizionario, la cui grammatica si sono formati senza alcun rapporto con noi, con il nostro modo di agire»6.
Caffè Michelangiolo
Sfogliature
Scomparsi i testimoni oculari, bisogna norme e regolamenti che qui sarebbe sopralluogo: «in seguito ai lavori per
necessariamente affidarsi all’italiano bu- troppo lungo riassumere; va però ricor- l’acquedotto è venuta a mancare tutta
rocratico dei documenti d’archivio, cer- dato che anche con il municipio di Cap- l’acqua in paese e anche l’unico mezzo
cando di leggere tra le righe.
padocia le pendenze e le irregolarità la- per la macinazione dei cereali. Intanto i
Il commissario prefettizio
capi famiglia della suddetta
si reca in visita alla frazione
frazione hanno già fatto una
sottoscrizione per protestare
di Verrecchie; con biglietto
postale urgente al ministero
in merito [di cui però non ho
dell’Interno invia la sua retrovato copia n.d.r.]. L’ordine
lazione: «con telegramma copubblico è normale ma ad
munico che stamane sono
ogni modo sono state prese le
stato a Verrecchie. Ho esornecessarie precauzioni per
tato quella folla ad avere fiprevenire qualunque inciducia provvedimenti Vossidente»12. Il commissario prefettizio di Cappadocia sfiora
gnoria. Lavori in corso hanno
stornato parte acqua sorgentoni davvero comprensivi:
te principale in modo che non
«i lavori hanno fatto scendeaffluisce più quella condutre il pelo dell’acqua della sorgente in modo che i poveri
tura. Fontanini quindi non
villici [sic] e sono veramente
buttano più. Acqua serve
poveri, sono costretti a recarquella popolazione pel molisi ad attingere al fiume»13.
no e rimanente dovrà essere
Tra i documenti troviamo
condottata questo capoluogo
[Cappadocia n.d.r.] onde ese- Verrecchie. Il fiume Imele; i lavori preparatori per la costruzione dell’acque- anche la relazione del segretario federale del Partito Naguire progetto fognatura»7. Il dotto (foto di Patrizia Tocci).
comune di Cappadocia aveva
zionale fascista dell’Aquila:
infatti cominciato tempo addietro alcu- mentate dalla frazione erano notevoli «oggi ho conferito con il Segretario poni lavori per una costruzione dell’ac- e numerose; ancora Silone ci conforta: litico di Verrecchie circa i motivi che
quedotto senza però ultimarli. Lo stesso «Bisogna sapere che a Fontamara non ci tengono in fermento quella popolazione
giorno il commissario prefettizio invia sono due famiglie che non siano parenti […] egli esclude in modo più assoluto
una nota alla Regia Prefettura del- […] Tutte le famiglie, anche le più pove- che i Naturali vogliano ostacolare il
l’Aquila che contiene particolari più in- re hanno interessi da spartire tra di loro e compimento dell’acquedotto»14.
teressanti: «ieri fui sul posto, accompa- in mancanza di beni hanno da spartirsi la
La corrispondenza coinvolge anche
gnato dal Comandante di questa stazio- miseria: a Fontamara perciò non c’è fa- il ministro dei Lavori pubblici che rine dei Carabinieri e dal Dottore: e ho miglia che non abbia qualche lite pen- chiede alcune informazioni e un altro
esortato quella folla delle donne che re- dente e sono le stesse che si tramandano personaggio importante legato per raclamava la proprietà del suolo e dell’ac- di generazione in generazione»11.
gioni anagrafiche a questa zona; ecco il
qua di aver fiducia nei provvedimenti
Entrano in scena quindi anche le testo del telegramma: «notizie comuniVostra Signoria Illustrissima; intanto mi Forze dell’ordine: una lunga memoria catemi ing. Vacca circa acquedotto Tasono raccomandato al segretario Politi- del comandante della Legione Territo- gliacozzo meravigliami. Stop. Pregola
riale dei Carabinieri racconta l’ultimo provvedere secondo miei desideri espresco, ai maggiorenti e al Parroco»8.
Le donne fontamaresi
si ieri telefonicamente. Stop.
usano lo stesso linguaggio e le
Saluti»15.
stesse espressioni:«non si può
Il telegramma è indirizzato
toglier l’acqua alla terra che
al vice prefetto Vegni e porta
la firma già importante di Erha sempre bagnato: è un peccato contro la creazione»9, e
manno Amicucci, fratello del
se non fosse stato sufficiente
podestà Domenico e futuro direttore della “Gazzetta del pol’intervento mediatore dei
vari Don Circostanza, Don
polo”, nonché segretario geAbbacchio e Innocenzo La
nerale del Sindacato nazionalegge «ogni giorno tre carabile fascista dei giornalisti.
nieri si recano in Verrecchie
Il podestà di Tagliacozzo,
per il mantenimento dell’orDomenico Amicucci, accenna
dine pubblico. Ho piena fiad importanti interessi turiducia che nulla accadrà»10.
stici che dovrebbero consentiIl commissario prefettizio
re di adottare procedure d’urdenuncia poi alcune omissioni
genza:«codesta prefettura
del comune di Tagliacozzo su Il mulino restaurato. Anni 1980. Verrecchie è nel comune di Cappadocia.
comprende come le esigenze
Caffè Michelangiolo
33
Sfogliature
di un paese quale Tagliacozzo, mèta ambita di numerosa villeggiatura, stazione
climatica di prim’ordine, deve pur mettersi all’altezza con altri paesi»16.
Il commissario di Cappadocia, rivendica al suo comune e con dati catastali
alla mano la proprietà delle sorgenti,
che risalirebbe addirittura al feudo Barberini-Colonna: «dette sorgenti sono
proprietà di Cappadocia […] scorrono
in un primo tratto nel terreno comunale, in un secondo tratto sui terreni dei
Naturali di Verrecchie e in un terzo tratto di nuovo sul terreno comunale»17.
I lettori di Silone ricorderanno la famosa equazione:«tre quarti dell’acqua
andranno nel nuovo letto tracciato dal
comune e i tre quarti dell’acqua che resta continueranno a scorrere nel vecchio
fosso»18. Il commissario avvisa: «per evitare possibili violenze contro dette opere prego codesta prefettura di voler riesaminare la concessione fatta a Tagliacozzo e di voler dare le opportune disposizioni in merito».
Immaginiamo, grazie a Silone, come
avrebbe potuto svolgersi l’incontro tra i
cantonieri del comune, l’ingegnere, le
forze dell’ordine e gli abitanti: «i cantonieri, senza altra spiegazione, avevano
messo mano alle pale e ai picconi per
scavare il nuovo letto dell’acqua. Allora
lo scherzo sembrò oltrepassare i limiti.
Un ragazzo, il figlio di Papasito, allarmò
ognuno che trovò per strada»19.
Il riassunto finale di questa contesa,
probabilmente inasprita anche da rivalità personali, ci viene offerta dal segretario federale dell’Aquila, Masciocchi: «i
naturali di Verrecchie chieggono che a
cura del proprio comune o di quello di
Tagliacozzo, che si beneficia delle acque,
venga trasformato il macchinario del
mulino, in modo che possa funzionare
anche con una quantità di acqua ridotta;
dalle passate amministrazioni fu decisa
per la frazione la costruzione di un acquedotto, furono messi in opera i tubi
mercé la prestazione d’opera dei Naturali, ma non fu portato a termine […]
ora il tubo trovasi scoperto nella sorgente e quindi non esiste nessuna garanzia
igienica per il rifornimento idrico con
presa dalla stessa sorgente di cui trae
l’acqua quello di Tagliacozzo; il paese
non ha il cimitero [sic] e attualmente i
morti vengono seppelliti in un angolo di
terra che per la sua posizione durante la
pioggia permette lo scoprimento dei tu-
34
muli, lasciando i resti umani in balìa degli animali. Premesso quanto sopra poiché all’evidenza appaiono giusti i desiderata di quella frazione, prego V.S. Illustrissima voler disporre che l’attuale
commissario prefettizio di Cappadocia
vada incontro a quella laboriosa popolazione e l’accontenti»20.
Le notizie fornite dal segretario federale sono di prima “voce” perché aveva
appena conferito con il segretario politico dei Naturali: le richieste e le proteste
vengono quindi esplicitate ma indirettamente.
L’acquedotto fu poi realizzato anche
grazie alla sostituzione di alcuni “attori”
e all’accordo tra i due comuni per contrarre un mutuo e alla partecipazione
del Ministero alla costruzione dell’acquedotto; le sorgenti del fiume sono state in gran parte incanalate, ma una parte – e forma nei mesi invernali una bella cascata – passa ancora sotto il vecchio
mulino che ormai non ne ha più bisogno. Ma l’acqua ha una memoria lunga,
com’è lungo il suo viaggio; dalla sorgente al piano, dove si inabissa sotto il
monte Aurunzo per poi riemergere qualche chilometro più in là, sopra Tagliacozzo con il nome di Fiume Salto; è sempre la stessa acqua che confluisce nel
Velino per poi unirsi nella splendida cascata delle Marmore.
La storia sembra essersi conclusa, in
questo caso, tutto sommato in modo pacifico e favorevole agli abitanti di Verrecchie; così non era accaduto per i fontamaresi e nemmeno accadrà per il taglio
di alcuni boschi contesi tra la stessa frazione e due comuni: minacce, violenze e
cafoni finiti in prigione. Ma questa è
un’altra storia, complicata dal fatto che
nel 1929 Verrecchie chiese ed ottenne di
essere aggregata al comune di Tagliacozzo – e la racconterò un’altra volta.
Che Silone utilizzasse per scrivere i
suoi romanzi anche fonti d’archivio ci
viene confessato direttamente dall’autore nella prefazione a L’avventura di
un povero cristiano ed anche in Severina, pubblicato postumo; interessante a
questo riguardo la lettura del racconto
Un viaggio a Parigi 21. Potrebbe aver conosciuto, avuto notizia di ciò che anch’io ho cercato di raccontare? È impossibile averne certezza. La certezza
appartiene invece ad un altro ordine:
«so bene che il nome di cafone, nel linguaggio corrente del mio paese, sia del-
la campagna che della città, è ora termine di offesa e di dileggio: ma io l’adopero in questo libro nella certezza che
quando nel mio paese il dolore non sarà
più vergogna, esso diventerà nome di
rispetto e forse anche di onore»22.
Penso che questo desiderio, grazie
anche all’opera letteraria dello stesso Silone23, si sia in parte realizzato e che lo
studio e l’interesse per la storia locale
possa restituire dignità e voce a chi sapeva mettere appena una croce accanto
al proprio nome che altri avevano scritto per lui.
■
NOTE
1 I. Silone Fontamara, Mondadori 1983,
p. 27.
2 Ibidem, p. 19.
3 Archivio di Stato dell’Aquila, Prefettura, Serie II, 9° versamento, Comune di Tagliacozzo
(anni 1923-27) delibera n. 76 del 29-11-1927;
d’ora in poi A.S.A.
4 A.S.A., Cappadocia (1923-27) lettera alla
Prefettura del 9-11-1927 n° 1681.
5 I. Silone, op. cit., p. 41.
6 Ibidem, pp. 29-30.
7 A.S.A., Cappadocia telegramma del 8-111927.
8 A.S.A., Cappadocia, cit., 9/11/1927.
9 I. Silone, op. cit., p. 71.
10 A.S.A., Cappadocia, cit., 9/11/1927.
11 I. Silone, op. cit., p. 23.
12 A.S.A., Cappadocia, legione territoriale Divisione dell’Aquila, nota del 22-10-1927.
13 A.S.A., Cappadocia, cit.
14 A.S.A., Partito nazionale fascista, Federaz.
Prov. dell’Aquila prot. 5950 8/11/1927.
15 Tagliacozzo, telegramma del 13/9/1927.
16 A.S.A., Tagliacozzo, 1/9/1927.
17 A.S.A., Cappadocia, cit.
18 Silone, op. cit., p. 189.
19 Silone, op. cit., p. 50.
20 A.S.A., vedi nota 14.
21 I. Silone, Un viaggio a Parigi (introduzione di V. Esposito) Collana “I Quaderni”, Fondazione Silone 1992; in esso Vittoriano Esposito definisce il racconto “una possibile preistoria di Fontamara”. Ci sono infatti alcuni personaggi che
torneranno anche con gli stesi nomi nel romanzo
ma nessun accenno che riguardi la disputa sull’acqua.
22 I. Silone, op. cit., p. 22.
23 Per quanto riguarda il complesso “caso Silone” e il suo ruolo, vero o presunto, di informatore della polizia fascista, rinvio al testo esaustivo di Dario Biocca, Silone: la doppia vita di un
italiano, Rizzoli 2005.
Biocca sostiene nella conclusione che «la ricerca condotta negli archivi, l’esame della corrispondenza, la rilettura di romanzi e saggi, il rinvenimento di documenti di polizia inediti hanno
consenstito di individuare nuovi e sorprendenti
elementi […] nella biografia di Ignazio Silone.
Alcuni nessi, interrogativi ed ipotesi potranno essere approfonditi solo con l’esame di carte non ancora aperte alla consultazione».
Caffè Michelangiolo
Sfogliature
Ieri nel grottino in vicus Sceleratus
il poeta del Poema paradisiaco seduceva le giovini amiche,
oggi la donna multitask non ha tempo per sedersi al tavolino di un Caffè
PREGO… UN CAFFÈ?
di Mario Graziano Parri
L’
anno è il 1909. Un curioso libro
a firma del Dottor Hans Barth
(«uno dei più noti giornalisti
germanici», precisa l’editore Enrico Voghera) si apre con una lunga letteraintroduzione di un tal Gabriele d’Annunzio (sembra che sia da annoverare
tra quei santi che in tempi recenti i revisori conciliari hanno depennato dal
calendario romano). «Quando la mia
vita non era ancora quello specchio di
probità e di continenza, ove oggi il mondo si rimira» scrive, «io usavo condurre qualche giovine amica nel grottino
borgiano per compirvi qualche dolce
avvelenamento» (si riferisce alla bettola degli Svizzeri, sottostante la dimora
dei Borgia in vicus Sceleratus a Roma,
dove al «terribile Alessandro e al più
terribile Cesare, Vannozza e Lucrezia
scoprivano il candore procace del
seno»). Ma codesti del dottor Barth e del
suo libro intitolato Osteria. Guida spirituale delle osterie italiane da Verona a
Capri, sono tempi assai meno cruenti, e
quel tal d’Annunzio dolce avvelenatore,
seppure “nato ebro” come millanta, non
può certo fregiarsi della reputazione di
santo bevitore che si attribuirà Joseph
Roth (Die Legende vom heiligen
Trinker, 1939). Ai bei tempi borgiani i
veleni avevano l’aspra dolcezza della
morte, i goliardi cantavano: Ave color
vini clari, ave sapor sine pari, tua nos
inebriari digneris potentia, e gli accoppiamenti non erano meno vigorosi:
scuotevano l’intero pianeta, mandandolo fuori asse. Per averne una approssimativa idea basta dare un’occhiata al
possente Giove di Giulio Romano che si
appresta a prendere una non meno poderosa Olimpia, in quel palazzo Tè a
Mantova, residenza di svago dei Gonzaga. Tutto, in scala grandiosa, assume
grandiosità. L’uomo veniva sollevato
alla potenza della divinità, la realtà si
manifestava come prodigio. «Corrono
ormai giorni tristi», si rammarica il
Caffè Michelangiolo
Imma Shara, direttore d’orchestra, è nata 34 anni
fa ad Amurrio, vicino a Bilbao, nella regione basca.
Il frontespizio di Osteria, di Hans Barth, pubblicato da Enrico Voghera editore in Roma, traduzione di Giovanni Bistolfi, prefazione di Gabriele
d’Annunzio datata Marina di Pisa, ottobre 1909.
buon Doktor Barth. È venuta su una
generazione di homunculi, di UnterMenschen fanatici di una salute senza
gioia. La quale non regge il vino, non si
accende e non manda certo fuori asse il
mondo quando fa l’amore. E l’ebbro
“diario” on the road trabocca di croci
desolate con cui il civilissimo germanico contrassegna le troppe Osterie sgombrate per far luogo ai “sedentari” Caffè
(«poiché nulla in Italia è così permanente come… il mutare delle osterie»):
siano pure “caffè di sussiego” quale a
Firenze il Bottegone (ahimè! anche questo ai nostri dì mutato) nella piazza del
Duomo, o “caffè storici” (a quella data,
il non distante Caffè Michelangiolo, in
quella Via Larga che Bargellini definisce
«di transito, dalla città al più vasto
mondo», aveva da qualche anno abbassato la storica serranda, tuttuno con
il declinare del macchiaiolismo che vi si
celebrava)… caffè storici, dunque, quale il «piccolo, affollato, notturno» Caffè
Rosa, «punto di ritrovo di poeti, letterati, artisti, nottambuli e vetturini, dove
Otto Erich Hartleben, il grande campione di Germania e uomo del rinascimento, spesso “vegliò le lunghe notti”
ma senza degradarsi fino al Moca».
Osterie, bettole, taverne, gargotte che
si chiamassero, in ogni modo si trattava
di luoghi di “socievolezza”, di “diversione” (quale fu l’Albergaccio per quel
Machiavelli che vi si ingaglioffiva con
l’oste, il beccaio e due fornaciai), di
“conforto” («questa è la seconda sera
ch’io siedo qui all’osteria tutto solo, e
quasi senza libri», dirà il Foscolo dell’Epistolario). Magari ci si poteva anche
rimediare qualche disinvolta coltellata,
ma questa veniva deliberatamente messa in conto. Fuori corso dunque gli umori forti, palati e fegato infiacchiti, le libertarie e malfamate osterie hanno ceduto il passo ai più decorosi e probi
caffè, dove tra poco figurerà Mademoiselle Rosa in pantaloni e sigaro come
35
Sfogliature
Giulio Romano, Giove possiede Olimpia sotto forma di drago, 1524-35, affresco, Mantova, Palazzo Tè.
non tralascia l’occasione di annotare un
degustatore di spirito qual è Arbasino
(“La Repubblica”, 10 settembre 1997).
Quei sentimenti eccessivi, che spontaneamente si accordavano con lo spirito
alcolico e che con le prevedibili risse si
combinavano, illanguidirono, dando così
adito a quella pavida facoltà tutta intellettuale che consiste nell’astenersi, come
dice Henri de Montherlant. Alla vernacolare carnalità della passione era subentrato il sofisticato lambiccarsi del cer-
“Indecent proposal” della manager Charlotte Rampling all’haitiano Ménothy César nel recente film
Verso il Sud di Laurent Cantet.
36
vello, cui più si addice la bevanda ottenuta dall’«arboscello originario dell’Asia» (Giacinto Carena, 1846).
«Il caffè rallegra l’animo, risveglia la
mente», avalla quel conte Pietro Verri
che come è noto in quanto a caffetteria
sapeva il fatto suo, «… ed è particolarmente utile alle persone che fanno poco
moto, e che coltivano le scienze» (Storia
naturale del caffè, in “Il Caffè”, n. 1,
giugno 1764).
Discendenti delle romane “cauponae”, le osterie hanno goduto di una
straordinaria fortuna: per secoli le loro
insegne hanno cigolato imperterrite nelle notti buie e tempestose, provvidenziale richiamo al disperso viandante, così
come si sono accampate in innumeri pagine di scrittori. Le rare superstiti di
questi giorni non sono più quelle dei
Tramaglino («Chi è di questi bravi signori che voglia insegnarmi un’osteria…?», Pr. Sp. xiv) o del Gatto e la
Volpe («… alla fine sul far della sera arrivarono stanchi morti all’osteria del
Gambero Rosso», Le avventure di Pinocchio, xiii): contraffatte e agghindate,
sono specchietti per turisti con biglietto
di andata e ritorno. Sopravvivono le mescite, la cui dislocazione è affidata al
passaparola per sfuggire ai birri, etilometro alla mano, che potrebbero appostarsi all’uscita per fulminarti non appena salissi in macchina. Poco più di un
bicchiere e zac!, via punti dalla patente.
Ma pure i caffè sono stati declassati a
plaghe di scorreria: avventori che si accalcano di fretta al banco, a me macchiato, io quel tramezzino con l’acciuga
e un cocacola, a me me lo fai lungo…
Succursali dell’illuminismo, ritrovo di
idee, quartier generale di avanguardie,
officine di scrittura, quei ritrovi si sono
trasferiti in blocco nelle antologie (il fin
troppo celebrato Café de Flore a parte,
con l’asimmetrico Sartre lettore prima
degli altri di Leibniz e Heidegger, come
non rammentare qui anche il baretto
nel seminterrato dell’Hôtel Pont-Royal
dove andavano a sbronzarsi i pezzi grossi della haute Bohème? Truman Capote
vi sorprese il mai sobrio Koestler e quella «specie di zitella della de Beauvoir»
autrice de Le Deuxième Sexe, libro che
«cambierà il mondo» ben più delle opere del suo cotanto amante). «Bottega di
caffè nel Settecento, Caffè nell’Ottocento dai placidi divani: Caffè Greco, caffè
Florian, caffè Pedrocchi, illustri nomi
Caffè Michelangiolo
Sfogliature
del passato»: già li
trascendeva). Il
annotava il Panzisuo contrassegno è
ni (Dizionario moil kitsch seriale,
derno, 7ma 1935)
prodotto e specin quel suo “viagchio dell’epoca ingio sentimentale”
dustriale. «Le café
fra l’antico lignagdoit être chaud
gio e il moderno
comme l’enfer,
barbarism del linnoir comme le diaguaggio (e del coble, pur comme un
stume).
ange et doux comE in quel “pasme l’amour»: quesato”, così come è
sto raccomandava
stato per il “deil principe di Talliquescente” Lileyrand, uno che
berty e per le buosapeva vivere, cone cose di pessimo
me manifestamengusto, è rifluito
te attesta la sua
anche il bon ton
carriera (da vescoper cui il «lasciare
vo di Autun a conuna donna aspetsigliere di Luigi
tare, sola, a un ta- Giovanni Boldini, Conversazione al Caffè, 1879 ca., olio su tavola, cm. 28 x 41, coll. privata.
xvi, da membro
volino di caffè, era
della Costituente a
un atto scortese e incivile» (Annie Vi- de italiane le donne tuttavia sono solo il ministro degli Esteri di Napoleone e
vanti, Circe, 1912). Come abbiamo ap- 2,6% dei consiglieri d’amministrazione poi di Luigi xviii, e successivamente
purato, i tempi “mutano”, e con essi contro il 26,2% della Norvegia). Come capo del Governo con Luigi Filippo).
anche i codici della galanteria e della paventava l’“apocalittico” Elémire Zol- Probabilmente il caffè è uno dei pochi
cavalleria. Del resto le donne hanno tra- la citando Bertrand de Jouvenel, la pre- generi che malgré tout mantiene un
lasciato il vezzo di lasciarsi attirare in sente è sempre di più una umanità “carattere”, una propria aristocrazia
complici grottini e tanto meno si attar- “spostabile”, e in quanto tale regredita di gusto, una propria privilegiata “unidano in sconvenienti attese nei caffè. al di qua delle passioni (che il mistico cità” a seconda della miscela, dell’acHanno ben altro per la
qua, della marca della
testa: scrivono (Il “New
macchina espresso, della
York Times Book Recittà e del modo in cui
view” ha da anni in clasviene preparato e della
sifica scrittrici come Jamano che lo “crea” (donet Dailey a pari merito
mandatelo a un napoledi milioni di copie ventano!) e, per concluderne
dute con i John Grisham
l’iter, del palato (e della
e i Michael Crichton), in“cultura”, va aggiunto)
seguono i maschi nella
di chi lo degusta.
politica (per la serie
Ecco, entrando in un
“Commander in chief” la
Caffè accertatevene subiquarantanovenne Geena
to: se non ci sono in vista
Davis interpreta la prima
incursioni di turisti e sul
presidente degli Stati Unibancone troneggia una
ti: si tratta di una svolta
lucente macchina espressignificativa nell’èra del
so con manopole e becmonopolio hollywoodiacucci al loro posto, beh vi
no) e perfino li battono
ci potete allora accomonei consumi alcolici e nel
dare. È l’oasi cui miravafumo, nei conti in banca
te per rallegrare l’animo e
e nelle acquisizioni imsvegliare la mente. Come
mobiliari. Articoli e interdice quella famosa pubviste celebrano il cervello
blicità?… Il caffè è un
femminile “multitask”,
piacere, e se non è buono
che bada cioè a più cose
che piacere è?
simultaneamente (nei
board delle grandi azien- La cantante Gianna Nannini in un’immagine del 1990.
Firenze, 3 maggio 2006 ■
Caffè Michelangiolo
37
Arti ed eventi
Un ferrarese alla conquista di Parigi - Tre amici nei locali dei piaceri perduti
Il dandismo estetico di Robert de Montesquiou - Il “gracieux” Helleu ispira Proust
Sem elabora il più divertente e graffiante “defilé” del Tout-Paris
BOLDINI E “SES AMIS”
di Piero Pacini
G
razie allo spirito avventuroso, ma
anche all’ambizione e all’avidità
di Giovanni Boldini – che, al dire
dei contemporanei, in fatto di escalation e di spirito mercantile non fu secondo ad alcuno – la Belle époque o,
meglio, una certa immagine di questa
stagione dorata è approdata a Castel
Pasquini; fautori di questa impresa
espositiva sono ancora una volta Francesca e Piero Dini, due tenaci sostenitori di quella pittura toscana del secondo
Ottocento che, per essere stata troppo a
lungo inquadrata con l’occhio miope
delle rivendicazioni campanilistiche, rischiava di essere confinata in una temperie culturale circoscritta e affidata ai
musei polverosi di vecchia memoria.
Il provvidenziale accesso nell’organico dei musei statali di storici dell’arte che non riposavano sugli allori – quali Sandra Pinto, Ettore Spalletti e Carlo Sisi – ha portato alla riqualificazioni
delle collezioni attraverso indagini e letture puntuali. Nell’ultimo decennio
un’aria decisamente nuova ha preso a
circolare in quel sacrario di memorie
ottocentesche rappresentato dalla Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti;
una felice convergenza di idee e di metodo ha poi reso possibile una fattiva
collaborazione tra le istituzioni statali, il
coraggio imprenditoriale di gallerie private e la passione culturale di alcuni
studiosi indipendenti.
Nelle mostre organizzate dal Centro
Martelli del Comune di Rosignano Marittimo tra il 2000 e il 2006, la pittura
macchiaiola e le sue legittime proiezioni hanno richiamato un sempre crescente numero di visitatori e di estimatori per il semplice fatto che, una volta
tanto, queste opere non erano viste con
la lente asfittica e deformante del provincialismo estetico, ma in una più ampia visuale d’osservazione che teneva
finalmente conto di testi inediti, a lungo sottratti al pubblico godimento, che
hanno avviato una revisione globale sia
38
Giovanni Boldini, Ritratto del conte Robert de
Montesquiou, 1897, olio su tela, cm. 160 x 83, Parigi, Musée d’Orsay.
delle testimonianze epistolari private
che degli interventi giornalistici confinati nel dimenticatoio.
Ecco, pertanto, che la pittura “della
macchia” ha mostrato connotazioni
molto più ampie di quelle propagandate da una miope autarchia culturale;
nel censimento delle opere esposte nei
musei o a lungo occultate in collezioni
private, si è avuto la riprova che le soluzioni figurative e la portata poetica
di queste opere potevano sostenere il
confronto con molta celebrata pittura
d’oltralpe. Una cert’aria di Parigi rinvigorisce o trasfigura in effetti molte opere maturate sul ceppo della pittura
macchiaiola; ma è necessario ribadire, a
questo proposito, che a volte questo avvicinamento è stato alquanto enfatizzato per la diffusa mania della scoperta fine a se stessa o, peggio, per puri
interessi commerciali. La verità è che
non sempre il contatto con Parigi ha
segnato una svolta nella pittura dei nostri pittori: alcuni hanno visitato questa
metropoli en turiste, mentre altri hanno
avuto modo di coglierne gli aspetti più
brillanti e le rughe più nascoste; ma era
anche inevitabile che la durata e la qualità di questi rapporti non sempre riuscissero a modificare punti di vista radicati ed il rapporto che ogni artista ha
con le cose e con il sentimento della
propria terra. In questi casi l’esperienza
parigina ha prodotto una pittura in apparenza parigina e nella sostanza ancora italiana: Telemaco Signorini, De Nittis e Zandomeneghi – tanto per citare i
casi più appariscenti – docent.
Nel caso specifico di Boldini siamo,
invece, di fronte ad un’esperienza diversa, che rifiuta questa o quella sfera
culturale; anche col più meditato esame
della sua produzione tanto feconda e
sorgiva, non si finisce mai di scoprire
l’entità dei prestiti e degli apporti formali: il ferrarese e il toscano di adozione riaffiorano a sorpresa, anche se abilmente trasfigurati, nonostante la totale
immersione dell’artista nelle mobili e
imprevedibili atmosfere della ville lumière. I carteggi pubblicati da Piero
Dini arrivano a dirci ancora una volta
che una lontana illusione giovanile – la
trepida e riservata Alaide Banti – continua ad occupare un posto importante
nella sfera privata dell’artista.
È comunque un dato di fatto che,
nonostante l’innegabile eclettismo sintattico, lo sfoggio di bravura tecnica e
la smodata propensione a sorprendere e
a compiacere gli esponenti del ToutParis, Boldini è un artista decisamente
originale – europeo o, se vogliamo, internazionale –, un pittore che non si
lascia irretire dai programmi figurativi
delle cosiddette “avanguardie” e che
valorizza un filone figurativo difficilmente ripetibile in quanto alquanto sofisticato e variegato. L’artista inaugura
in effetti un nuovo corso «della scena di
costume, che va a soddisfare il segno
Caffè Michelangiolo
Arti ed eventi
settecentesco di quella parte della società intellettuale e aristocratica parigina in cerca di un’elevazione morale
ed etica della realtà contemporanea,
ormai invasa da valori borghesi»; ma,
accanto a questo “genere”, l’artista ferrarese avvia, in sintonia con i più originali esiti impressionistici ed in anticipo sul “modernismo” dei futuristi, la
riscoperta degli ampi spazi parigini,
con l’animazione dei boulevards, il fervore della vita metropolitana e un sottile, ma radicato sentimento dell’evento transitorio.
Boldini è il protagonista della mostra di Castiglioncello con un numero di
opere inferiore a quelle esposte nella
più ampia ed esaustiva rassegna di Padova del 2004-2005, ma tutte di alta
qualità e felicemente rappresentative di
un benessere e di un’illusione perdute;
sfogliando il catalogo, si sente la mancanza di alcuni dipinti esposti nella mostra ricordata (vengono subito in mente le scattanti Ballerine spagnole al
Moulin Rouge e En soirée, tutto un sussulto di forme che si rivelano e si accavallano senza posa), ma probabilmente
queste opere non sono state concesse
alla mostra in quanto erano state prestate recentemente e per lungo tempo;
in ogni caso le opere qui esposte sono
sufficienti a documentare il magistero
pittorico dell’artista ferrarese.
Giovanni Boldini, Sulla panchina del Bois (Hyde
Park), 1882, olio su tavola, cm. 46 x 34, collezione privata.
Caffè Michelangiolo
La locandina della mostra dedicata a Boldini, Helleu, Sem, che riproduce La Dame de Biarritz (part.),
1912, olio su tela, cm. 130,2 x 97,2. Il catalogo,
pubblicato da Skira e curato da Francesca Dini,
contiene scritti di Alberto Beretta Anguissola, Cosimo Ceccuti, Francesca Dini, Piero Dini, Paulette
Howard-Johnston. Schede critiche di Silvestra Bietoletti e Rossella Campana.
Il provvidenziale incontro di Francesca Dini con gli eredi di Helleu ha fornito nuovi elementi di conoscenza per precisare la vertiginosa ascesa dell’artista
ferrarese nella scena della Belle époque,
in quella Parigi che si avvia fatalmente
alla mercificazione dell’arte e della genuina gioia di vivere della prima stagione del Moulin de la Galette e del Moulin
Rouge di Zidler, ma che, ancora per
qualche anno, vanta più di un tocco di
classe ed è animata da personaggi brillanti attorno ai quali ruota il Tout-Paris.
Nel catalogo Francesca Dini ripropone opportunamente un divertente rengaine in cui si dice di Boldini, di Sem e
di Helleu che “s’en vont à la queu leu
leu”; in effetti, le cronache del tempo
registrano spesso l’accesso, in fila indiana, di questi tre artisti nei locali frequentati dai personaggi più in vista, e
questo cameratismo è ulteriormente testimoniato da belle e rare fotografie che
prospettano tutto il sapore del tempo.
Il catalogo, strutturato in sei sezioni,
concede ampio spazio alla presenza carismatica dell’aristocratico Robert de
Montesquiou – promotore di «una sorta
di dandismo estetico» e coltivato arbiter
elegantiarum –, e all’opera di Helleu e di
Sem, anch’essi testimoni ed interpreti,
secondo personali visuali d’osservazione,
degli anni dorati della Belle époque.
Paul-César Helleu, proiettato sulla
scena mondana dai calorosi apprezzamenti di Robert de Montesquiou, rimane un artista troppo dedito agli affetti
domestici e alla restituzioni delle più
sottili impressioni atmosferiche per possedere un occhio capace di cogliere gli
aspetti più effervescenti e brillanti del
tempo; ma è comunque un prezioso testimone di quelle vita più quieta e di
quei modi più signorili che sopravvivono a Parigi a dispetto del clima spensierato, ma spesso chiassoso e inquinato da cadute di gusto, che oggi indichiamo come Belle époque.
Helleu viene a trovarsi – come suggeriscono le schede redatte da Silvestra
Bietoletti e da Rossella Campana – coinvolto in ambienti e in atmosfere ovviamente ingigantite dal desiderio di chi
non vuole rinunciare alla gioia di vivere
o di chi non è stato mai giovane; ma tiene le distanze dagli eccessi di un certo
modo di vivere, dai “miti” accarezzati
da coloro che possiedono troppo denaro,
dai deracinés e dagli intemperanti. Nonostante l’amicizia che lo lega a Boldini,
Paul-César Helleu, Jean de profil, en costum
marin, 1904 ca., matita nera, sanguigna su carta
bianca, cm. 40 x 24, collezione privata.
39
Arti ed eventi
Paul-César Helleu, Madame Helleu, lisant sur la
plage, 1896, olio su tela, cm. 81 x 65, collezione
privata.
bertà che i tempi nuovi sembravano
aver concesso all’uomo; repertorio di
personaggi frivoli, fatui, mondani- forse- ma che con il loro amore per la vita
spensierata, per il lusso, per la modernità, avevan contribuito a render fervida di idee e di cultura un’epoca, e alimentato i suoi sogni». In questa impresa Sem è di volta in volta spiritoso
o mordace, possiede la forma più atta
ad esprimere la sfrenata allegria o la
sguaiataggine delle nuove danze figurate che, sulla scia dell’esotismo orientale, dei balletti russi e del tango, approdano a Parigi intorno al 1910: un
gigolò di professione conduce una signora incartapecorita e impennacchiata; un Boldini visibilmente sfatto e sempre più “silfo malefico” si abbarbica
come un satiro ad una giovane donna
che mostra più le movenze di una epilettica che quelle della tanto declamata
femme-fleur; dei dandy, chiaramente
contagiati dal conte di Montesquiou, si
abbandonano a gesti sdilinquiti che dovrebbero imporli all’attenzione del pubblico; i pescicani dell’alta finanza fanno
il loro ingresso nei locali alla moda con
le loro vistose compagne occasionali o
con le mogli sovraccariche di gioielli e
tronfie per il loro stato sociale… Nelle
tavole di Sem c’è materia sufficiente per
orientare le nuove leve di caricaturisti
che approdano a riviste come “Sans
Gêne” e “Le Rire”, provvidenziale meta
dei pittori al verde. Nonostante la spiccata predisposizione allo sberleffo e alla
deformazione irriguardosa, nella inar-
Sem (Georges Gourçat), La noble faubourg. Boldini e la femme-fleur, da Tangoville sur Mer,
il gracieux Helleu coltiva un personale e
1913, litografia a colori, cm. 45 x 32,8.
delicato impressionismo che è quasi agli
antipodi della pittura che prediligono i
neo-ricchi o i collezionisti dal palato più
restabile galleria del Tout-Paris, Sem
esigente («Helleu è come un pianista che
non manca di sottolineare l’animazione
usa sempre la sordina – ha scritto Aldi alcuni locali, la sostenuta e frizzante
berto Beretta Anguissola –, Boldini ineleganza di alcune comparse, la consavece ama premere il pedale»). Ed ancopevolezza della parte che sono tenuti a
ra una testimonianza importante nel risostenere. L’attenzione al brusio e al
cordo della figlia del gracieux peintre, la
movimento incessante della folla, un
signora Paulette Howard-Johnston:
certo presentimento dell’unanimismo di
Proust, che non ama le compagnie chiasJules Romains e del dinamismo plastico
sose, frequenta spesso la famiglia di Heldei futuristi si avviano da queste annoleu, ammira la pittura serena di questo
tazioni umoristiche e da quelle di un
artista e a lui si ispira per tratteggiare,
altro interessante, quanto trascurato
nella Recherche, la figura di
cronista della Belle époque
Elstir.
che risponde al nome di
Decisamente più immerso
Pierre Gatier.
nella scena della joie de vivre
In altre parte del catalogo
parigina è il caricaturista
Cosimo Ceccuti avvia il diSem (al secolo Georges
scorso sul volto che la meGoursat), che è presente neltropoli ha assunto e va assula mostra con oltre trenta limendo in conseguenza alla
tografie che costituiscono un
pianificazione dell’architetto
vero «defilè hilarant du ToutHaussmann; la sua presenParis».
tazione non mostra una grinIl merito maggiore di Sem
za, ma a questo argomento
è quello di aver sottolineato
andava riservato ben altro
l’aspetto più fatuo e apparispazio, considerate le tante
scente di una società – scrive
ragioni che portano alla dicon proprietà Silvestra Biestruzione quasi totale delle
toletti – «frammista di aristratificazioni urbanistiche
stocrazia e di bohème, dove
che si succedono a Parigi tra
raffinatezze estreme e cattivo
il regno di Luigi xiii, la reggusto si compenetravano, il- Paul-César Helleu, Voiliers, 1902 ca., olio su tela, cm. 60,4 x 73, collezione genza di Maria de’ Medici e
lusa della potenza e della li- Howard-Johnston. Sul retro della tela è dipinto un altro soggetto analogo.
l’era napoleonica. E alquan-
40
Caffè Michelangiolo
Arti ed eventi
Giovanni Boldini, Ritratto del caricaturista Sem
(part.), 1901 ca., olio su tela, cm. 46,5 x 55,5,
collezione privata.
to utile sarebbe stata l’elaborazione di
una mappa dei locali frequentati entro
un certo arco di tempo da Boldini, Helléu e Sem, e questo per rendere più viva
la “scena” in cui questi vengono a trovarsi e per correggere alcune informazioni errate in cui sono incorsi i loro
biografi.
La mostra di Castel Pasquini s’impone nel complesso come una gradevole incursione nell’epoca solo presumibilmente nota, della Belle époque: l’abbinamento Boldini-Helleu-Sem costituisce già di per sé la riprova di una
buona scelta di gusto; ma è anche innegabile che quest’epoca tanto effervescente è stata oggetto di una progressiva mitizzazione e, pertanto, continua a
mostrare contraddizioni interne e zone
d’ombra che i più recenti studi hanno
solo parzialmente indagato.
Una sostenuta letteratura- che si diparte dalle fortunate pubblicazioni di
Roger Marx, di Pierre Veber e di Paul
Morand – ha alimentato le successive
indagini di J. Crespelle e di P. Courthion,
per arrivare al divertissement – ma non
troppo – di J. Pessis e J. Crépinau sul
Moulin Rouge e dintorni; in ambito italiano si ricordano le vecchie, ma sempre
valide, cronache d’arte di Agnoldomenico Pica su “Emporium” e, passando a
tempi più recenti, i numerosi interventi
di E. Godoli-G. Fanelli sulla grafica
Caffè Michelangiolo
francese fin de siècle, il Moulin-Rouge e
caf’ conc’ dello scrivente.
Gli autori sopra ricordati danno per
scontato che l’epoca della Belle époque
continua ad essere parzialmente esplorata e che, nonostante le più radicati
opinioni, mostra «un oeil qui rit et un
oeil qui pleure»: la letteratura «miserabiliste» – che si diparte da Zola e che alimenta i maestri del feuilleton e l’opera di
Richepin –, le stesse riviste parigine illustrate – dal “Gil Blas illustré” a “L’Assiette au Beurre”, da “Le Rire” a “Sans
Gêne” – stanno a ricordare che, dietro la
splendida facciata del Tout-Paris e la
sfrenata joie de vivre radicata nell’immaginario collettivo, ci sono i tanti malesseri dell’anima e la miseria denunciata da Sue; ci sono i movimenti operai
di Belleville, le affiliazioni anarchiche
che incoraggiano la denunzia sociale di
Rodolphe Salis e di Aristide Bruant, i
programmi libertari che Jean Grave
espone sui fogli politici “La Révolte”,
“Les Temps Nouveaux”, il dissenso sociale esposto nei fascicoli monografici
dedicati agli “Hommes du jour”.
Un teso filo rosso lega la Toscana fine
Ottocento e degli inizi del secolo con la
scintillante Parigi della Belle époque:
Telemaco Signorini e Diego Martelli
hanno sentore dei fermenti sociali fomentati da Proudhon; i giovani Umberto Brunelleschi, Ardengo Soffici, Amedeo
Modigliani e lo stesso Severini avvertono
sulla propria pelle la miseria di Montmartre. Ma particolarmente significativa
è l’esperienza parigina dell’anarco-socialista viareggino Lorenzo Viani che,
infiammato dalle prospettive della ‘Comune’, affronta con entusiasmo la “città
degli uomini liberi”; in questa caleidoscopica e vorace metropoli egli ha qualche contatto con gli esponenti del movimento anarchico internazionale (George
Brissimizakis, il citato Grave, Errico Malatesta, Galantara), ma s’imbatte soprattutto nell’estrema indigenza e nella
solitudine degli ospiti della Ruche, nei
deracinées e nei “maledetti da Dio” che
in questa città convergono da ogni parte del mondo.
Il mito della Belle èpoque degli anni
ruggenti – con i suoi effimeri splendori e
con la sua contagiosa giovinezza – continua a tenere in ombra queste condizioni sociali allarmanti volutamente taciute dai fautori della più accattivante
immagine della ville lumière; ma poiché
Francesca Dini, curatrice della mostra a Castiglioncello
Francesca Dini, storica dell’arte, si è
laureata con Mina Gregori a Firenze
dove vive. Responsabile scientifica del
Centro per l’Arte Diego Martelli di Castiglioncello, è curatrice di mostre dedicate alla pittura dell’Ottocento. In particolare si segnala il ciclo castiglioncellese dedicato ai Macchiaioli e culminato con l’esposizione del 2005 “Da Courbet a Fattori. I principi del Vero” (catalogo Skira). Studiosa di Giovanni Boldini (di cui ha pubblicato il catalogo
ragionato in quattro volumi, Allemandi
2002) ha ordinato con Carlo Sisi e Fernando Mazzocca la mostra a Palazzo
Zabarella di Padova del 2005, e nel
2006, al Castello Pasquini di Castiglioncello, “Boldini, Helleu, Sem. Protagonisti e miti della Belle Epoque” (catalogo Skira). Sta preparando una importante antologica sui Macchiaioli per
la Fondazione Palazzo Bricherasio a Torino (catalogo Electa). Fra le pubblicazioni si citano la monografia su Federico Zandomeneghi (Firenze 1989) e Diego Martelli. Storia di un uomo e di un’epoca (con P. Dini, Allemandi 1996).
Collabora dalla fondazione al quadrimestrale “Caffè Michelangiolo. Rivista di discussione”.
di questa “controfacciata” Francesca
Dini e il Comune di Rosignano Marittimo hanno già offerto una campionatura
nella rassegna dedicata a Fattori e a
Courbet, sarebbe auspicabile che gli
stessi si facessero promotori di un ulteriore risarcimento storico e culturale che,
dal punto di vista organizzativo, si mostra fattibile e di estrema attualità. ■
41
Arti ed eventi
A settant’anni dalla scomparsa,
al Gabinetto Vieusseux e al British Institute di Firenze un convegno su Vernon Lee
VIOLET DEL PALMERINO
di Valerio Viviani
È
da circa settant’anni ormai che
la scrittrice inglese Vernon Lee
(nome d’arte maschile di Violet
Paget, scelto polemicamente “per esser
presa sul serio” in un mondo che accoglieva con riluttanza le opinioni di
una donna sull’arte, l’estetica, la storia…) riposa nel cimitero anglicano
degli Allori a Firenze.
Nata in Francia nel 1856, sin dal
1873 si era stabilita con la famiglia
nel capoluogo toscano, prima in via
Solferino, poi in via Garibaldi e infine,
dal 1889, nella villa Il Palmerino, sot-
Vernon Lee nel ritratto di John Sargent del 1881.
to Settignano. Pur possedendo una natura cosmopolita che la portava a viaggiare per l’Europa, a Firenze tornava
sempre. La città era il luogo ideale di
residenza in cui si intratteneva spesso
con i più eminenti esponenti della cultura italiana e straniera, tanto che le
sue abitazioni divennero ben presto un
punto privilegiato d’incontro di quella
cerchia di scrittori e pensatori internazionali che più o meno a lungo vi
42
soggiornavano e che a Vernon Lee si
accostavano attratti dalla raffinatezza
di questa intellettuale colta ed eclettica che aveva appreso a pieno la lezione dell’estetismo fin de siècle grazie
alla conoscenza diretta di John Ruskin, Oscar Wilde, i Rossetti e, soprattutto, di Walter Pater, che esercitò sempre su di lei una notevole influenza sia
a livello di concezione estetica in senso lato sia a livello più prettamente
creativo.
La sua sensibilità artistica, la sua
versatilità, la sua curiosità, la sua competenza linguistica (conosceva quattro
lingue) la spinsero ad accostarsi a numerosi soggetti – letteratura, musica,
arte… –, spesso osservati e interpretati nelle loro interrelazioni. Compose
più di trenta libri, tra romanzi, racconti, drammi e saggi di vario argomento.
Già nel 1880 aveva esposto nell’articolo Faustus and Helena: Notes on
the Supernatural in Art, apparso sul
“Cornhill Magazine”, il proprio manifesto di poetica, mentre i suoi Studies
of the Eighteenth Century in Italy la
avevano rivelata all’attenzione della
comunità intellettuale, contribuendo,
insieme al altri successivi studi sull’arte del Rinascimento, non solo alla sua
personale notorietà, ma anche alla notorietà della cultura italiana in ambito
internazionale.
Pur essendo attratta dalle questioni
puramente estetiche, non tralasciò mai
di occuparsi di problemi etici: ne abbiamo dimostrazione nel dramma Satan the Waster (1920), dal cui forte
impianto allegorico emerge l’ardente
pacifismo della scrittrice che, solo
qualche anno prima, non aveva esitato a sfidare l’impopolarità schierandosi apertamente contro la Guerra Mondiale e i nazionalismi in un’Italia
profondamente interventista.
Il suo impegno civile la portò inoltre
a lottare strenuamente per l’emancipazione femminile assumendo posizio-
ni protofemministe, a combattere la
vivisezione, ad adoperarsi, insieme ad
altri eminenti esponenti della comunità straniera della città e in base quei
principi rinascimentali che aveva appreso studiandoli, affinché si evitasse il
deturpamento in atto di molti luoghi
fiorentini – celebre, a quest’ultimo proposito, è la sua lettera al “Times” in
cui lamenta lo scempio perpetrato in
città con le demolizioni nel centro.
E settant’anni dopo Firenze ha celebrato Vernon Lee con un bellissimo
Convegno svoltosi fra il 26 e il 28 mag-
La copertina del volume pubblicato dal Consiglio
Regionale della Toscana nel 2006, che raccoglie gli
Atti del Convegno internazionale di studi su Vernon
Lee tenutosi a Firenze dal 26 al 28 maggio 2005,
organizzato dal Gabinetto Vieusseux, dall’Università
di Trento e dal British Institute of Florence. Sia il
Convegno, sia gli Atti sono stati curati da Serena
Cenni e da Elisa Bizzotto.
Vernon Lee (nome d’arte di Violet Paget), inglese,
era nata Boulogne nel 1856, è morta a Firenze nel
1935. Autrice di racconti fantastici (Hauntings,
1892; For Maurice, 1927) e studiosa di estetica e di
cultura italiana letteraria e musicale, fece conoscere al pubblico inglese Metastasio e Goldoni
(The Eighteenth Century in Italy, 1880). Scrisse
saggi di impegno pacifista e sui diritti della donna.
Caffè Michelangiolo
Arti ed eventi
gio 2005 in vari luoghi deltiche, un pregevole quadro di
la città – alcuni, come le
insieme della variegata opera
sale del Gabinetto Vieusdella scrittrice.
seux e della biblioteca del
Il merito va ancora alle
British Institute (che, fra
due curatrici del convegno, e
l’altro, conserva circa tredunque del successivo volucentocinquanta libri a lei
me, che, per rendere il giusto
appartenuti ricchi di annotributo alla straordinaria
tazioni a margine), altaecletticità di Vernon Lee e
mente emblematici e sugalle complesse sfaccettature
gestivi per i forti echi delle
della sua personalità, hanno
relazioni culturali svoltesi
individuato quattro aree teproprio a cavallo fra Otto e
matiche portanti entro cui arNovecento. O meglio, setticolare il dibattito critico,
tant’anni dopo Firenze ha
alle quali sono corrisposte
ripreso il proprio dialogo
quattro sezioni di ampio recon Vernon Lee, grazie a
spiro multidisciplinare. Nella
un consesso che, contando
prima, Firenze e lo spirito del
sulla presenza dei maggioluogo, storici, storici dell’arte
ri studiosi di ambito intere giornalisti si sono dedicati
nazionale della scrittrice e
alla ricostruzione del contedel contesto storico-cultusto fiorentino, ossia di quello
rale in cui visse, ha prodotspirito del luogo che così tanto un proficuo confronto
ta importanza ebbe nel perUna veduta della Villa Il Palmerino. In questa sua dimora fiorentina tracritico a tutto campo sulla scorse quasi tutta la sua vita Vernon Lee, autrice di opere di filosofia e corso esistenziale della scritsua opera e sulla sua per- critica storica, di poesie, romanzi e drammi. Qui la Paget riceveva intel- trice; nella seconda sezione,
lettuali, politici, artisti, tra cui Mario Praz, Aldous Huxley, Carlo Placci, Winsonalità di artista.
La critica estetica e la scritIn un’epoca qual è la ston Churchill.
tura di viaggio, musicologi e
nostra, in cui proliferano i
critici letterari hanno affrontentativi di ripensamento, riorganizzatato la riflessione estetica che ha sempre
zione, revisione e quant’altro del cacaratterizzato ogni sua opera, ripercornone letterario (ripensamenti, riorgarendone la formazione e l’elaborazione
nizzazioni, revisioni… che spesso però
attraverso incontri, frequentazioni e
rimangono prigionieri in un’impasse
viaggi; nella terza, La saggistica militeorica), l’operazione di Serena Cenni
tante, ci si è invece concentrati sul suo
ed Elisa Bizzotto, alla cui passione e
forte impegno civile condotto sempre
impegno si devono la cura del convecon fermezza e fervore morale; infine,
gno e di questi Atti* prontamente
la quarta sezione, La scrittura creativa,
pubblicati, ha il grande merito pratico
ha visto tornare protagonisti i suoi
di avere riportato alla ribalta un’intelscritti di narrativa nei quali si estrinselettuale che ha indubbiamente subito
ca, filtrato dalla fantasia creatrice, il
durante questi settant’anni un oblio
percorso intellettuale di un’artista che
quasi totale che pareva aver cancellaha sempre riflettuto sulle questioni
to «per sempre la sua persona dal
mondane da una prospettiva diversa
panorama letterario italiano ed eurodal comune: la prospettiva distaccata, e
peo» (p. 10); una marginalità questa
perciò più lucida, di chi si pone ad
assolutamente immeritata, viste la sua
ascoltare e riflettere, come sembra sugrilevanza per il contesto culturale coegerire il bel titolo del convegno e del
vo e la modernità del suo pensiero,
presente omonimo volume, dalla stancom’è emerso chiaramente in numeroza accanto.
■
si interventi.
Non c’è modo qui – data la scarsa
disponibilità di spazio – di riferire sulNOTA
le singole relazioni, né del resto ci pare
* Dalla stanza accanto. Vernon Lee e Firengiusto parlare solo di alcune. Tutti gli
ze settant’anni dopo, Atti del Convegno Interinterventi sono di notevole interesse e
nazionale di Studi, Firenze 26-27-28 maggio
grande rigore sia intellettuale sia for2005, a cura di Serena Cenni ed Elisa Bizzotto,
male e, soprattutto, contribuiscono a
Firenze, Consiglio Regionale della Toscana,
2006, pp. 420.
offrire, pur da diverse prospettive cri- Oscar Wilde in una caricatura di Beerbohm.
Caffè Michelangiolo
43
Arti ed eventi
La revisione delle posizioni critiche - Un esordio decorativo denso di premesse
L’avventura della civiltà attraverso il “progresso” dell’Arte - La Giovinezza e la Gloria
Un felice incontro tra musica ed evento scenico - Un bilancio plenario
RISARCIMENTO PER GALILEO CHINI
di Piero Pacini
C
inquant’anni fa – il 23 agosto
1956 – si spegneva a Firenze,
nella casa di via del Ghirlandaio,
Galileo Chini, dopo una lunga esistenza
che lo aveva visto impegnato come raffinato ceramista, come decoratore festoso ed esuberante, come scenografo
memorabile, nonché come pittore legato ad una stagione culturale venata da
tutte le lusinghe e le zone d’ombra del
nostro tempo.
La dipartita di questo poliedrico artista veniva variamente commentata dagli addetti ai lavori: alcuni ne esaltavano la fantasia creativa ed il magistero
tecnico, mentre altri gli rimproveravano
modi decorativi sovrabbondanti e lo
sfoggio del virtuosismo tecnico. Queste
prese di posizione sono durate fino ai
giorni nostri; per fortuna, una serie di
approfondimenti critici e di esposizioni
sempre più selezionate hanno alquanto
modificato i giudizi più avventati e riscoperto che, alla base di quel linguaggio figurativo alquanto imprevedibile e
variegato, era un’ispirazione spontanea
e consequenziale. Si coglie pertanto l’occasione per offrire un sintetico panorama delle più recenti acquisizioni critiche.
A Pistoia nel 19041
T
alvolta accade che i dirigenti di alcuni Enti pubblici – insediati in edifici di rilevanza architettonica e decorativa – finiscano coll’assuefarsi alle
cose preziose che li circondano o, peggio, che decidano di conferire un’aria
nuova agli ambienti nei quali operano;
la conseguenza prima di queste attese è
che alcuni soprintendenti finiscono col
sottovalutare l’importanza storica di
edifici connotati dal gusto di un’epoca
ed autorizzano la cancellazione irreparabile di testimonianze figurative di un
passato non troppo lontano (è accaduto e continua ad accadere a Firenze e a
44
Galileo Chini, Autoritratto, 1933, olio su tela, Uffizi.
Borgo San Lorenzo, come a Bevagna, a
Roma e in tante altre privilegiate mete
turistiche).
Fortunatamente, altre istituzioni
pubbliche hanno chiara coscienza della
valenza “storica” delle loro sedi: è questo il caso della Cassa di Risparmio di
Pistoia e Pescia, che nel 2005 ha pubblicato un denso volume che ripercorre
la definizione architettonica e il potenziamento decorativo di un edificio entrato nell’immaginario affettivo della
città ed anche di molti non residenti.
La vasta esplorazione d’archivio e la
ricca documentazione fotografica riversati in questo libro documentano passo
per passo l’intervento edilizio dell’architetto Tito Azzolini e la parallela vicenda decorativa, portata avanti dall’elegante decoratore bolognese Achille
Casanova e da un Galileo Chini giovane, ma già sulla cresta dell’onda non
solo per la produzione ceramica premiata nei più vivaci centri culturali europei ed extra-europei, ma anche per il
magistero decorativo maturato durante
i restauri di insigni cicli pittorici tre-
centeschi e nella critica adesione al gusto eclettico del tempo. In effetti, nella
maggior parte delle invenzioni decorative della giovinezza di Chini, Medioevo
e Rinascimento finiscono col coniugarsi con un distintivo gusto floreale che,
lungi dall’approdare alla saturazione
del motivo – alla serialità insita nelle
stesse proposte delle “Arts and Craft” –,
rinvigorisce il già orientato gusto figurativo anche per effetto di una tempestiva e critica attenzione alle più innovative proposte dell’Art Nouveau.
I saggi in volume documentano felicemente le fasi di questa impresa architettonica e decorativa: Carlo Sisi individua nella produzione della “Aemilia
Ars” e nel “socialismo di bellezza” delle “Arts and Crafts” gli eventi figurativi che orientano, più degli altri, i decoratori che sono a chiamati a rallegrare
col colore – secondo la felice espressione del lungimirante Boito – «un Palazzo nuovo di Stile vecchio».
In effetti, la sede della Cassa di Risparmio di Pistoia costituisce, in scala
minore e secondo una visione aggiornata del decoro rinascimentale, una
scoperta parafrasi delle dimore degli
Strozzi e dei Rucellai, i palazzi rinascimentali per antonomasia. Gianluca
Chelucci, Gabriele Morolli e Claudio
Pizzorusso ripercorrono le fasi costruttive di questo edificio, deciso già nel
1895, ma avviato solo nel 1897, a seguito di un concorso al quale sono ammessi ben 34 architetti e che vede vincitore Tito Azzolini.
Gabriele Morelli, muovendo dai prediletti studi rinascimentali, analizza con
la consueta lucidità critica e con felicità
espositiva, il «lessico architettonico e
[il] simbolismo estetico» dell’edificio accentrando la sua attenzione sui concetti di “continuazione”, “sviluppo” e, soprattutto, riproponendo l’innesto del
linguaggio rinascimentale nel più generale movimento del Preraffaellitismo;
Caffè Michelangiolo
Arti ed eventi
ed ancora sottolinea la peculiare tendenza di Chini a voler catturare l’attenzione dell’osservatore con una instancabile profusione di «lambiccati girali vegetali», di «nastri inestricabili», di
«agitati amorini reggi-ghirlanda», di
«pii bovi» e di «pazienti cavalli» in una
abile «accolta di allegorie ad un tempo
dannunzianamente concettuose e pascolianamente virtuose».
Galileo Chini, Piatto con profilo femminile e frutti,
1896-98, Ø cm. 28. Lido di Camaiore, coll. privata.
Mauro Cozzi affronta infine il problema dei rapporti tra pittura murale e
architettura, sottolineando i limiti dei
fregi esterni del Casanova – cancellati
dal tempo e dagli uomini – e collocandoli in quell’ibrido clima figurativo tra
Quattrocento e Modern Styl che non ha
segnato alcun progresso nel campo della scienza costruttiva.
Da questi interventi balza con chiara evidenza la storia interna di un monumento legato sì al gusto decorativo
del tempo – virtuosamente eclettico nella profusione dei motivi di estrazione
preraffaellita, liberty o neo-rinascimentale – ma chiaramente rivolto a connotare con mobile cifra stilistica e con diversa funzione accentrante gli ambienti di transito, di sosta o di rappresentanza. Ne consegue una felice convergenza di finalità estetiche tra l’architetto e il decoratore, che, una volta tanto,
non si trova a sviluppare un programma
non congeniale, ma che, nella graduale
comprensione degli spazi e delle sorgenti di illuminazione, può escogitare
le soluzioni più atte a valorizzare questa
e quella forma e, soprattutto, rendere
più vivibili gli spazi architettonici (già
Caffè Michelangiolo
Benzi aveva opportunamente notato
come “nella grande e impegnativa commissione di decorazione” una trama
continua di colori puri e brillanti talora
“accompagnano e sottolineano le partiture architettoniche, talaltra invece le
determinano con strutture vibranti, inquadramenti studiati e armoniosi”).
Negli anni di questa impresa decorativa, Chini opera un’importante riflessione sugli interventi del restauratore e del decoratore (due sfere operative solo in apparenza antitetiche), e si
avvia a trovare una felice intesa tra le
forme della tradizione e quelle della
modernità in una sigla sempre più personale e consequenziale. Agli inizi del
1904 l’artista ha ormai voltato le spalle ai modi scopertamente retorici della
decorazione accademica; Pistoia gli offre l’occasione per maturare un’idea
sempre più organica della grande decorazione, attraverso scelte e sperimentazioni sempre più consequenziali.
A Venezia nel 19092
G
alileo Chini ha avuto un legame
speciale con Venezia e con la Biennale in particolare, dove ha più volte
esposto esempi della sua produzione ceramica e di quella pittorica (a cominciare da La quiete del 1901) e dove ha
dato ripetute prove delle possibilità decorative: nel 1903, nel fregio della Sala
Toscana; nel 1907 in quello della ‘Sala
del Sogno’ (che gli procura l’ammirazione del re del Siam); nel 1909 nella
fastosa cupola del Padiglione Italia; nel
1914 nei primaverili pannelli della Sala
Internazionale; nel 1920, a glorificazione delle forze combattenti, nel fregio
del Salone centrale.
In tutti questi interventi l’artista ha
riprovato la sua sensibilità artistica sui
modi figurativi ‘internazionali’ secondo una visione sempre più organica e
personale, che ha trovato ulteriori sviluppi in altri edifici pubblici e privati
(istituti bancari e complessi termali,
cappelle ed abitazioni private: un ‘percorso’ che sfocia, come è noto, nella
spettacolare integrazione policroma delle Terme di Salsomaggiore).
Uno dei punti di arrivo di Chini decoratore è indubbiamente rappresentato
dalle soluzioni figurative elaborate sugli
otto spicchi della cupola del Padiglione
Italia della Biennale, su temi indicati dal
segretario Antonio Fradeletto; a quest’opera mette mano nel gennaio e nell’aprile del 1909, portandola a termine
nel giro di sole tre settimane. L’opera,
accolta con pareri diametralmente opposti, attira l’attenzione dei visitatori
fino a che, nel 1927, il segretario della
Biennale Antonio Maranini decide che
quella decorazione “ha fatto il suo tem-
Galileo Chini, Autoritratto, 1901, olio su tela, cm.
100 x 100. Pistoia, Cassa di Risparmio di Pistoia
e Pescia.
po”. L’opera di Chini rimane occultata
da una sovrastruttura di Giò Ponti fino
al 1986, anno in cui è riportata alla luce
per interessamento di Maurizio Calvesi,
anche se a questa data il clima ambientale e l’incuria ne hanno gravemente
compromesso la pellicola cromatica.
L’interessamento della nipote dell’artista e dell’Amministrazione Comunale di Venezia ha portato al felice restauro e ad una lettura più appropriata
di questo importante ciclo decorativo.
Gli interventi – avviati nel 2004 – sono
oggi illustrati in un bel volume curato
da Claudio Spagnol; la pubblicazione
– nonostante le inevitabili lacune bibliografiche e qualche valutazione strettamente personale – merita la massima
attenzione in quanto ripropone, con la
progressiva revisione di Fabio Benzi,
dati informativi di prima mano o dimenticati, nonché una chiara rilettura
dell’accoglimento alquanto contraddittorio di questo spettacolare evento figurativo.
Claudio Spagnol, che ha seguito con
crescente soddisfazione il recupero decorativo della ‘cupola’ – dal consolida-
45
Arti ed eventi
mento del colore alle normali ‘ricucitu- ladini del gusto si colloca il più sereno viltà attraverso i punti d’arrivo dell’arre’ o ai prudenti risarcimenti in sottoto- giudizio di A. Stella che distingue tra il te di tutti i tempi, quanto le inarrestano – ha riassunto con mano felice l’ete- «fascino immediato della colorazione» bili metamorfosi delle forme prodotte
rogenea e diversamente attendibile let- e il «gestire confusionario» della zona dalla sensibilità figurativa che si rinteratura sugli esordi di Chini decorato- intermedia; ma è anche da sottolineare nova nelle mutate condizioni di vita:
re; ed ha ulteriormente precisato i rap- che, con il consueto buon senso, Vitto- era quindi inevitabile che, nello sforzo
porti intercorsi tra questo artista ed An- rio Pica giudica l’opera «leggiadra- di visualizzare l’epopea dell’umanità,
tonio Fradeletto, nel comune interesse mente decorativa».
l’artista risentisse di qualche sortita enper la luce ed il colore. Lo stesso SpaIn questo ultimo intervento si torna fatica o di più di una suggestione culgnol ha illustrato i metodi scientifici a parlare di integrazione decorativa e di turale. Chini – per sua natura sensibiadottati per ovviare
le all’ottimismo col
alla progressiva esfoquale i contemporaliazione ed alle efflonei hanno salutato
rescenze della pellicol’avvento del secolo
la pittorica (a tempenuovo – non era del
ra), ed esposto le mitutto immune dal disure adottate per il rilagante spirito dansarcimento estetico
nunziano; in più avedelle vistose ed estese
va negli occhi e nel
cadute di colore.
cuore gli splendore
A sua volta Amadei mosaici della balia Donatella Basso
silica marciana e il
ha ripercorso con dati
colore sempre risordi prima mano le vigente di Venezia;
cende costruttive delpertanto, nella celela Sala della Cupola
brazione del cammied offerto una buona
no dell’Umanità, tutlettura di questa dete queste sollecitaziocorazione “dal ritmo
ni avevano guidato il
narrativo incalzante
suo pensiero e il ma(e) dal cromatismo
gistero tecnico verso
acceso”, anche con riun sogno decorativo
mandi iconografici
che doveva suggerire
inediti; mentre Patriall’osservatore situazia Peron ha assolto Galileo Chini, Nudo femminile (di schiena), 1930, olio su compensato, cm. 50 x 80, Montecatini, zioni fuori del tempo.
il compito di intro- Accademia d’Arte D. Scalabrino.
durre il lettore nella
situazione delle arti decorative a Vene- architettura, in un momento in cui gli
A Venezia nel 19143
zia tra fine Ottocento e inizi del Nove- storici dell’arte fanno grande confusioell’impresa veneziana del 1909
cento.
ne tra pittura e decorazione, due diverChini offre una tangibile misura
Stefano Branzo ha infine riepilogato se sfere dell’espressione artistica di cui,
la storia della fortuna critica di questa da tempo, si è perduta la nozione delle degli effetti di una esplorazione cultudecorazione, lodata ed attaccata senza reciproche finalità e dei “mezzi” più rale a vasto raggio nonché della abilità
mezze misure nel clima alquanto con- propri. In genere, i paladini di Ojetti e tecnica acquisita nell’accoglimento di
traddittorio in cui riversava la critica di Soffici sembrano sottovalutare la fun- sollecitazioni formali e di un gusto del
del tempo, inguaribilmente attratta da zione illustrativa o “didattica” della de- colore appartenenti ad epoche e a culun passato remoto e da interessi di corazione della Cupola, ovvero la cele- ture diverse; tuttavia, nonostante il sicampanile, o calamitata dalle più au- brazione dei periodi che hanno segnato glato effetto unitario dell’insieme, si avdaci proposte figurative degli artisti il lungo cammino della civiltà. Questo verte che l’artista risolve a suo modo, in
d’oltralpe. La maggior parte degli ap- impegnativo percorso non poteva, ov- una brillante ma spericolata sintassi fiprezzamenti sull’opera di Chini si di- viamente, essere assolto con semplici gurativa, il dualismo che intercorre tra
parte dall’apprezzamento incondizio- citazioni in un contesto architettonico la decorazione pura – intesa a sottolinato di Ojetti – già orientato verso un stabilito, ma esigeva che le immagini neare le superfici e gli spazi architettorecupero dell’arte del passato – e dal emblematiche del passato fossero ri- nici – e le finalità della pittura. Un produro attacco di Soffici che, coerente- considerate nell’ottica culturale e nelle blema figurativo, questo, di non facile
soluzione visto che negli spicchi della
mente con la sua ansia di rinnovamen- attese dei tempi nuovi.
to, fa man bassa anche dell’opera di
Il programma celebrativo di Frade- cupola veneziana si alternano, frammiSartorio. Tra le tenaci prese di posizio- letto motivava già di per se stesso non ste ai simboli più eterogenei, le ieratiche
ne dei sostenitori di questi opposti pa- tanto l’idea del “progresso” della ci- processioni paleocristiane e bizantine,
N
46
Caffè Michelangiolo
Arti ed eventi
la serena e drammatica plasticità del similari a Montecatini e a Viareggio già Moderna di Roma (importanti le tratRinascimento, gli spazi aperti e vorticosi prima del soggiorno nel Siam, dimo- tative intercorse tra gli eredi dell’artista
del trionfo barocco, atmosfere decisa- strando una progressiva, ma cauta sim- e la Soprintendente Palma Bucarelli); la
mente viennesi e i segni della crescita patia per i modi della Secessione vien- curatrice verifica tutte queste informaindustriale.
nese (Klimt in primis); e, poiché il pro- zioni sulle reazioni della stampa del
Su questa impasse espressiva Chini getto inviato alla direzione della Bien- tempo, nonché sulle letture critiche più
si è dibattuto nella maggior parte delle nale risale al dicembre precedente, tut- recenti (da Vianello alla Nuzzi, da Creimprese decorative precedenti – si pen- to lascia supporre che egli abbia messo sti a Masciotta, da Benzi allo scrivente).
si alle decorazioni pistoiesi e aretine de- mano ai pannelli prima della commisDa queste testimonianze appare evigli inizi del secolo, nonché ai sovrab- sione ufficiale.
dente che, superate le iniziali perplesbondanti rivestimenti polisità, la decorazione del Sacromi dei padiglioni espositilone Centrale è bene accolta
vi della stessa epoca – e tordai curatori in quanto la denerà a dibattersi nello svollicatezza delle tonalità del
gimento della raffinata decobozzetto non sembra prevarazione di Villa Scalini o delricare sulle qualità delle opela più impegnativa impresa
re esposte. Quelle festose efdi Salsomaggiore degli anni
fusioni di colore e di atmoVenti; l’occasione per realizsfere trasognate risultano in
zare una decorazione allo
effetti presenti nelle attese di
stato puro – vale a dire una
un pubblico ancora calamidecorazione rispettosa deltato (sia pure per poco) dall’ambiente precostituito, inla bella vita e dal sapore di
centrata su forme che esprigiovinezza che si dipartivano
mano se stesse, senza ulteda città come Parigi e Vienriori significati – gli arriva
na. Chini è chiaramente atpoche settimane dopo il ritratto dalle proposte figuratitorno dal Siam.
ve della Secessione vienneChini è di casa alla Biense:: l’esuberanza decorativa
nale di Venezia per aver reae la Nuda Veritas di Kimt
lizzato più di un intervento
tornano ad affiorare in diGalileo Chini, Decorazioni per la Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia, 1904.
decorativo nei saloni destiverse decorazioni degli anni
nati alle grandi manifestaDieci e Venti, anche se in un
zioni (interventi che, di solito, sono deL’intera vicenda è ricostruita da Ma- contesto spaziale e in una misura ancostinati ad una vita breve perché, a chiu- riastella Margozzi, nel catalogo della ra toscana e nel solco di quell’inestinsura della mostra, vengono di solito ri- raffinata esposizione romana, attraver- guibile sogno di primavera che è coltimossi); sulla fine del 1913 propone alla so un puntuale spoglio della corrispon- vato da tutti coloro che guardano con fidirezione dell’Ente di rinnovare ancora denza conservata nell’Archivio Chini di ducia alla vita.
una volta il Salone centrale e, allo sco- Lido di Camaiore, in quello della BienSi aggiunga che un certo orgoglio
po, invia un dettagliato progetto. La ri- nale e nella Galleria Nazionale d’Arte nazionalistico – diffuso nell’Italia umsposta non si fa attendere: nel dicembre
bertina dalla lenta ricostruzione dell’udel 1913 il segretario della Biennale gli
nità nazionale, nonché dalle sintesi grascrive che il progetto gli è apparso come
fiche di De Carolis – trapela nelle figu«un colpo di bacchetta magica» e che lo
re paludate, di temperata classicità, che
giudica fattibile, ma per il momento
emergono dalla ‘pioggia’ imprevedibile
non gli invia la richiesta ufficiale; quee inarrestabile dei motivi decorativi.
sta gli perviene soltanto nell’aprile
Di questo assunto si ha la riprova nelle
1913, a soli 32 giorni dalla “vernice”
stesse dichiarazioni che Chini rivolge ai
della Biennale.
visitatori della Biennale veneziana: «Ho
Secondo la testimonianza del figlio
cercato – scrive – di suscitare e diffonEros, l’artista avrebbe realizzato i pandere in una Sala d’Esposizione un sennelli decorativi in sedici giorni: la rapiso di pacata letizia, mediante una pitdità d’esecuzione di Chini è ampiamentura decorativa che si fondesse in arte testimoniata, comunque il tempo inmonica semplicità e si equilibrasse con
dicato ci sembra troppo ristretto per la
una architettura altrettanto parca. Non
definizione pittorica omogenea della
soggetti ardui ed astrusi, non quadri!
“pioggia” di fiori, frutta e forme geoSoltanto gamme e forme di colore e
metriche che sta per inondare la Bien- Galileo Chini, particolare della Decorazione per la composte tonalità gradevoli […] al pinale. Chini si è cimentato in soluzioni Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia, 1904.
lastro materiale architettonico uno corCaffè Michelangiolo
47
Arti ed eventi
rispondente di fiori, di frutta, di colore
aureo ed argenteo»; ed aggiunge: «Mentre attendevo a questo lavoro, venivo
pensando a tante cose […] pensavo alle
logge fiorite delle Città italiane, ai giardini della nostra patria, immenso giardino del mondo, al sole che indora e vivifica, alla luna che inargenta e accarezza, alla primavera che allieta questa
dolce Venezia […] all’arte, primavera
spirituale che eternamente rispunta».
Chini, che prevede certe posizioni
critiche radicate, cerca di prendere le
distanze da Klimt e, consapevole del favore che riscuotono le immagini dannunziane, riporta il discorso sulla “primavera italica”. A distanza di tempo, lo
storico Vianello chiama in causa anche
le suggestioni ricevute in Oriente, e su
questa stessa scia si pongono anche
Benzi e la Bortolatto che riscontrano
nella decorazione del 1914 una chiara
adesione ai modi della Secessione, ma
vivificata dall’esperienza siamese e da
un ben dissimulato ripensamento sulle
teorie della Theosophical Society.
L’intervento della Margozzi – che ripercorre gli stadi del momento creativo
come quelli dell’accoglimento critico –
si pone, pertanto, come un buon bilancio di una letteratura critica variamente motivata e variamente nutrita dal
gusto del tempo.
A Venezia nel 1907 e nel 19204
Galileo Chini, Decorazione per il Padiglione Italia
della Biennale di Venezia, 1909.
sentavano vari rattoppi, stuccature e risarcimenti pittorici più o meno discreti,
cadute della pittura cromatica (maggiormente evidenti in una delle due tele,
a causa della presenza di più strati di
colore «che fanno pensare ad un diverso utilizzo della tela»). L’intervento conservativo ha ridonato stabilità ed equilibrio cromatico a questi pannelli eseguiti su tela di canapa non preparata,
con uno stile veloce e sommario e – al
solito – in tempi alquanto ristretti. Perduti (o dispersi) gli altri pannelli in grès
con decori fitomorfi e pavoni, le due
teorie di putti con trombe, nastri e ghirlande, documentano un preciso punto
d’arrivo dei modi decorativi dell’arti-
D
ecisamente meritorio è da considerare l’intervento dell’Associazione
“Venetian Heritage Inc.” a favore di
molte opere della collezione dell’Archivio Storico delle Arti Contemporanee,
per lungo tempo esposte – scrive il Direttore Giorgio Bussetto – «a insulti di
vario genere (acqua, polvere, umidità,
calce, topi ecc.)» ed oggi provvisoriamente sistemate in Palazzo Querini Dubois. Nei saggi riuniti in un catalogo
stampato in gara col tempo, Lia Durante, Giovanna Pasini e Carla Bertorello forniscono puntuali informazioni
sui due cicli decorativi elaborati da Chini per la Biennale di Venezia, rispettivamente nel 1907 e nel 1920.
Il primo ciclo – elaborato per la
“Sala del Sogno” – è quello che ha più
sofferto dopo la sua rimozione: i pannelli superstiti – donati alla Fondazione
La Biennale di Venezia nel 1980 – pre-
48
Galileo Chini, Pannello decorativo per il Salone
Centrale della Biennale di Venezia (part.), 1914,
tempera, olio, stucco e oro su tavola, cm. 390 x
330. Montecatini, Accademia Scalabrino.
sta: un ulteriore “scatto” rispetto alle
composizioni elaborate per la Cassa di
Risparmio di Arezzo e per l’Esposizione
di Milano; e costituiscono al contempo
una personale risposta ai modi più nervosi del fregio che Sartorio dipinge nel
Salone centrale della Biennale per illustrare i «miti dell’antichità classica» e
«il poema della vita umana».
Nella concezione di questi pannelli Chini tiene ovviamente conto di prototipi classici (romani e rinascimentali),
ma è alquanto probabile che egli abbia
sotto gli occhi modelli viventi e familiari: il “pupo” rosa, che torna con frequenza nei fregi decorativi del primo
quinquennio del secolo, richiama le fattezze del figlio Eros, nato nel 1901;
mentre la varietà di atteggiamenti
estemporanei dei fanciulli dipinti nei
pannelli del 1907 rimandano a modelli maggiori di qualche anno: come più
tardi l’amico Plinio Nomellini, Chini
spia ed assapora i comportamenti giocosi ed estrosi dei figli colti negli atteggiamenti più spontanei. Comunque, in
questa felice convergenza di prototipi
figurativi diversi, il decoratore immette
anche la luce e l’atmosfera festosa della città di Venezia, il senso di quella
mobilità atmosferica che sottolinea ed
esalta il colore.
Il fregio della “Glorificazione della
Guerra e della Vittoria” – pervenuto in
migliori condizioni conservative – riunisce ancora una volta, come nel 1907,
Chini e Plinio Nomellini: il nostro decoratore, per non prevaricare sulle opere
dell’amico, non decora, come nel ’14 tutte le pareti della sala espositiva, ma solo
la fascia alta. Il tema già di per se stesso
comporta non pochi rischi, compreso
quello dell’enfasi e della retorica, che
Chini riesce ad eludere grazie alla provata esperienza decorativa e alla rielaborazione interna dei motivi ispiratori.
Nelle quattordici tele del fregio persiste una certa eco delle monumentali figure e delle xilografie di De Carolis ed
anche di qualche rivisitazione neorinascimentale del primo Klimt; ma il magistero di Chini è evidente nella progressiva elaborazione di alcuni motivi: si
pensi ai cavalli al galoppo, che ricompaiono in vari momenti della sua attività, od alle figure simboliche dei giovanili corpi transvolanti che costituiscono quasi una sigla del suo repertorio
più prettamente simbolista.
Caffè Michelangiolo
Arti ed eventi
In effetti l’agile e flessuosa figura
dell’Icaro padrone dello spazio o in rovinosa caduta torna con frequenta ad
indicare gli alti e i bassi di una condizione esistenziale variamente correlata
agli eventi del tempo: è la personificazione più immediata dei grandi entusiasmi e dei grandi ideali della giovinezza come il simbolo più persuasivo
della fragilità umana.
Nella decorazione veneziana del
1920 il simbolo della giovinezza e della rinascita è ancora una volta intatto e
comunicante: i corpi flessuosi e dorati
sono sapientemente evidenziati dalle
nuvole di fuoco che si diradano per mostrare azzurri profondi e atmosfere più
respirabili; in queste immagini Chini
elude le tentazione del “michelangiolismo ad ogni costo” e riabilita l’idea della giovinezza o della perenne primavera della vita. Il debito nei confronti di
Klimt e di De Carolis è pertanto assolto
da una meditata e personale adesione al
motivo celebrativo: le figure femminili,
che volano leggere nei cieli che tornano
a schiarirsi, sono il simbolo stesso di
una ripresa della vita o della rinascita;
l’Aviatore, che si è impadronito del globo di fuoco, visualizza ancora una volta quell’Icaro che, a fasi alterne, sonnecchia e si ridesta in ogni essere umano. Di non secondaria importanza è il
rapporto che questi pannelli instaurano
con lo spazio in cui sono inseriti.
documentazione abbracciava tutta l’opera di Puccini, ed era vivacizzata dalla presenza di accentranti manifesti di
eventi teatrali memorabili, dalla ricostruzione di alcune sperimentali, ma
suggestive ricostruzioni virtuali di azioni sceniche, da una campionatura dei
siglati costumi di Caramba. Nella rassegna di Lucca i bozzetti teatrali di
Chini risaltavano accanto alle altret-
A Milano nel 19255
C
hini e Puccini: il tema potrebbe apparire risaputo, in quanto già nel
1998 e nel 2003 Moreno Bucci ha steso
puntuali contributi sull’argomento, in
occasione delle mostre sulla scenografia
di Chini allestite alla Galleria d’Arte
Moderna di Palazzo Pitti e alla “Fondazione Licia e Carlo L. Ragghianti”
di Lucca.
Nella prima rassegna era presente
una pressoché esaustiva campionatura
del materiale iconografico e documentario conservato nell’archivio del Teatro
Comunale di Firenze, al quale erano
stati aggiunti bozzetti e documenti
meno noti, detenuti da istituti culturali di non facile accessione o da privati
restii a pubblicizzare quanto in loro
possesso. Nella esposizione lucchese la
produzione scenografica e la relativa
Caffè Michelangiolo
Galileo Chini, Manifesto fotolitografico per “La
Cena delle Beffe” di Sem Benelli, 1909, cm. 200
x 100. Treviso, Museo Civico.
tante suggestive sezioni riservate a scenografi e a cartellonisti di classe come
Benois, Hoenstein, Stroppa e Metlicovitz; ma i settori della Turandot, del
Gianni Schicchi e del Tabarro risultavano comunque incompleti in quanto,
nonostante gli sforzi del curatore, non
furono concessi i bozzetti conservati in
una collezione privata viareggina e
quelli della Casa Ricordi di Milano in
quanto, a quella data, erano stati inscatolati in vista di un trasloco di tutto
l’archivio.
In questi anni, per fortuna, alcuni di
questi ostacoli sono stati rimossi: il Comune di Milano si è impegnato per la
conservazione e la valorizzazione del
prestigioso archivio di Casa Ricordi, e
alla mostra in oggetto – concertata dall’Assessorato alla Cultura del Comune di
Viareggio con il sostegno della Fondazione Festival Pucciniano – è stato offerto il generoso prestito della corrispondenza intercorsa tra Puccini, l’editore Ricordi e Chini. Di grande interesse documentario sono apparsi anche gli
schizzi preliminari e i bozzetti non concessi alla mostra lucchese: alcuni inediti grafici ed altri fogli poco conosciuti
sono da considerare delle vere pietre miliari del rinnovamento scenico ed il necessario antefatto alla redazione ottimale dell’evento teatrale in quanto documentano in modo palmare i tempi e i
modi della perfetta intesa tra il musicista, il coreografo, il costumista e lo scenografo.
Esemplari, a questo proposito, sono
le diverse prove per il fondale e per la
scena del Gianni Schicchi, in cui l’autore recupera progressivamente l’atmosfera di una Firenze sminuita dagli
sconsiderati sventramenti urbanistici
del tardo ’800, di cui è stato spettatore
agli inizi della sua carriera di restauratore ed uno dei più attenti rilevatori.
La felice evocazione della camera di
Buoso Donati risulta valorizzata da una
pianta in cui Chini studia attentamente
le prospettive ottimali del movimento
scenico, e dalle rare fotografie di scena
scattate in occasione della rappresentazione dell’opera al Metropolitan di
New York (dicembre 1918). In una lettera a Ricordi dell’agosto 1918, Puccini si dichiara soddisfatto dal bozzetto di
scena «bellissimo e vero 1200».
Lo stesso impegno interdisciplinare
caratterizza la scena per il Tabarro: in
una serie di schizzi consequenziali Chini coglie con fine sentimento poetico l’atmosfera struggente del lento fluire della
Senna, una Parigi nella quale i sogni
d’amore e i drammi degli scaricatori
portuali si consumano nel rapido volgere di splendori diurni e di inquietanti
silenzi notturni. Le piante, allegate agli
schizzi ed ai bozzetti della scena, documentano lo scrupolo col quale Chini si
sforza di realizzare l’idea di Puccini (il
barcone del dramma prima ancora che
la “turistica” evocazione della città), ma
49
Arti ed eventi
allo stesso tempo non intende rinuncia- saggi di Moreno Bucci, di Giuliano Er- vante materiale documentario esposto
re ad una sua “idea” di Parigi e a dar coli e di Roberto Devalle: Bucci, al già nelle bacheche: delle lettere dei protacorpo a quelle situazioni emotive poten- esauriente quadro degli interventi del gonisti che illuminano sui retroscena e
temente evocate dal libretto di Forzano 1998 e del 2003, aggiunge altre tessere sui problemi delle realizzazioni scenie dalla musica di Puccini. I costumi di di un sodalizio culturale esemplare, de- che; degli appunti musicali percorsi da
Caramba, oltremodo accessibili, contri- dotte dai documenti dell’Archivio Ri- scrupoli o da lampi di genio, nonché dei
buiranno a valorizzare ulteriormente cordi; Ercoli, forte della sua assidua in- libretti d’opera stampati dalla prestigioqueste scene di vita e di morte.
dagine intorno al trasognato e raffinato sa Casa Ricordi con sicuro gusto tipoIl momento clou dell’esposizione via- mondo di Umberto Brunelleschi, rico- grafico, non solo le edizioni di lusso ma
reggina è comunque rappresentato dal- struisce la vicenda della genesi e della anche quelle destinate ad un pubblico
la riproposta di due
meno selezionato.
versioni dei bozzetti
della Turandot, i
quattro della Casa
A Roma nel 20066
Ricordi e i cinque del
Teatro della Scala: i
e celebrazioni per
il cinquantenario
primi intesi ad evocare un’atmosfera irredella morte di Galileo
Chini si chiudono con
spirabile e un evento
una mostra esempladi sangue; gli altri dire, concertata tra la
stinti da un’esecuziodirezione della Gallene pittorica vigilatisria Nazionale d’Arte
sima e rivolta a sotModerna – che già in
tolineare le melodie e
passato si è assicurata
le note cristalline delalcune importanti
l’opera. Le impressioopere del suo percorso
ni ricevute da Chini
figurativo –, Marianel corso del soggiorstella Margozzi e Fano siamese sostanziabio Benzi, che di queno entrambe le visuasto artista è il più aslizzazioni della bella
favola cinese; e ripro- Galileo Chini, Scena per “Turandot” (atto I), 1925 ca., olio su tela, cm. 60 x 80. Milano, Museo siduo ed acuto interprete. Un variegato
vano anche che, una del Teatro della Scala.
staff di collaboratori
volta tanto, la pittura
può gareggiare con l’immediatezza del- fortuna dei costumi che hanno segnato si è impegnato in una lettura sempre più
le più avanzate soluzioni scenografiche. una tappa nella storia del figurino tea- puntuale di un’opera maturata in un efI testi in catalogo – introdotto da un trale; Devalle, infine, ripropone la figu- fervescente e quanto mai diversificato
felice fotomontaggio di Puccini e di Chi- ra di Caramba, un figurinista di talen- clima culturale, sul filone di un rinnovani davanti ad una scena della Turandot to ed anche “talentuoso”, e pone l’ac- to sentimento naturalistico, ma anche
– sono stati redatti da conoscitori del- cento sul suo amore per il teatro, argo- nella costante attenzione agli esiti più
l’evento teatrale e da cultori della storia mento sul quale ebbe ad esprimersi lo alti della pittura europea e a latere delle
proposte rivoluzionarie o alternative delviareggina, – tra i quali A. Belluomini stesso Ojetti.
Pucci – che hanno sottolineato con dati
Sorvolando sui contributi ‘aggiunti- le cosiddette “avanguardie storiche”.
La mostra romana ripropone al pubconcreti la rapida penetrazione del li- vi’ alla vicenda Chini-Puccini – chiaberty (o del “floreale”) nella terra per ramente dettati da uno spirito promo- blico dei punti di arrivo presentati in alantonomasia dei piaceri balneari, il le- zionale turistico – ci sembra che la mo- tre mostre (ad esempio nelle importangame profondo che univa Puccini e Chi- stra viareggina rappresenti un concreto ti rassegne antologiche tenute a Monteni a questa terra, i rapporti – più venti- apporto alla poliedrica vicenda figura- catini nel 1988 e nel 2002), ma anche
lati che conosciuti – tra il musicista e lo tiva di Chini, anche se la quantità del opere trattenute a lungo da gelosi collescenografo, e, con qualche eccessiva materiale esposto meritava spazi più zionisti o scoperte in collezioni insoamplificazione, anche la diffusione de- ampi di quelli di Villa Borbone; spiace, spettate. La grande decorazione pittogli “esotismi” e degli “orientalismi” tra viceversa, di rilevare come il curatore rica è ampiamente documentata con
Otto e Novecento (il saggio di S. Caccia della bibliografia sia stato generoso nei esempi significativi, che evocano la proevoca situazioni interessanti, ma le fon- confronti della letteratura locale e, vi- gressiva acquisizioni di modi sempre
ti d’ispirazione di Chini sono state da ceversa, abbia omesso “voci” di un cer- più siglati e spettacolari: vanno sottolineati, a questo proposito, i generosi pretempo individuate e non richiedevano to rilievo critico.
questa esplorazione a vasto raggio).
In ogni caso si dà per certo che i visi- stiti dei grandi pannelli decorativi eseI contributi di maggior rilievo alla tatori della mostra conserveranno un guiti per la Biennale di Venezia nel
presente mostra sono rappresentati dai grato ricordo anche del ricco ed accatti- 1907, nel 1914 e nel 1920, o dei gran-
L
50
Caffè Michelangiolo
Arti ed eventi
di cartoni relativi alla decorazione dello scalone delle Terme di Salsomaggiore; ma parimenti importante è la presentazione di alcune tele eseguite nel
Siam tra il 1911 e il 1913, in particolare quello della grande e rutilante Festa
dell’ultimo dell’anno a Bangkok (acquisita dalla Galleria d’Arte Moderna
di Palazzo Pitti nel 2000, ma dipinta
– si ribadisce – nel 1912, non nel 1913).
Ugualmente significativa è la selezione delle opere intese a documentare
il personale ‘divisionismo’ di Chini, la
sua personale adesioni a modi rappresentativi che coniugato il diffuso gusto
floreale del tempo con il più avanzato e
scattante liberty internazionale, il progressivo riavvicinamento alla riscoperta
dell’ambiente e al ‘vero’ quotidiano,
nonché la trepida e ricorrente considerazione delle forse oscure o dei malessere che attanagliano l’umanità.
In occasione di questo importante
appuntamento con l’arte, la vicenda
globale di Chini è raccontata con la consueta misura critica da Fabio Benzi che,
non sfiorato in alcun senso dalle sterili
querelles sulla continuità della figurazione e sulle proposte delle cosiddette
avanguardie storiche, ha tolto l’artista
da un vago limbo fin de siècle collocandolo nel suo effettivo contesto storico e
riconducendo le tante sollecitazioni culturali ad un personale sentimento dell’evento naturalistico e ad una metamorfica riscoperta delle cose negli eventi luministici. Non legato ad alcuna
scuola o ad alcun movimento, Chini
opera infatti le sue scelte in maniera
consequenziale sia sul versante italiano
che su quello internazionale (inglese e
belga, ma soprattutto germanico e francese) riproponendo alla sua sensibilità
di artista toscano le sollecitazioni dei
tempi nuovi. Importante il ribadito avvicinamento alla pittura di Bonnard, e
l’analisi della sua pluralità di intenti e di
espressioni tecniche che conducono l’artista a fondere la lezione del passato
con le proposte figurative europee, oltre
che con le congeniali sollecitazioni lineari e cromatiche dell’Oriente.
Su questa linea interpretativa si
muove anche Maristella Margiotti, la
quale, muovendo da testimonianze ed
analisi disparate, rapporta la cifra più
congeniale all’evoluzione figurativa di
Chini ad alcune occasioni culturali che
si sono affacciate alla sua instancabile
Caffè Michelangiolo
ricerca sperimentale e ad un metodo
operativo raramente allentato o corsivo.
Gilda Cefariello Grosso illustra con
la consueta e riprovata esperienza – in
un saggio stringato, ma denso di “fatti” – la vicenda della rapida e clamorosa affermazione delle ceramiche di Chini tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del
Novecento. All’inizio del percorso espositivo il pubblico ha potuto ammirare
una selezionata campionatura dei punti di arrivo di questa siglata produzione:
dagli esemplari improntati ad un gusto
floreale di matrice toscana ai più sostenuti esemplari vivificati dalla conoscenza dei modi preraffaelliti, da un misurato liberty italiano al più scattante liberty di matrice europea, dalle ceramiche maturate sulla conoscenza dell’arte
delle civiltà mediterranee a quelle – preziose e irripetibili – siglate dagli incontri con la decorazione orientale.
In felice assonanza con le indagini
effettuate durante il restauro della ‘cupola’ veneziana, Lia Durante offre una
buona ricapitolazione delle tante occasioni e relazioni culturali che precedono
le decorazioni e gli allestimenti per la
Biennale di Venezia tra il 1903 e il
1920. In questi interventi – suggerisce
l’autrice – Chini porta avanti una sua
idea dell’ornamento e della figurazione
allegorica mantenendo le giuste distanze dalle posizioni idealistiche e dai pericoli insiti nella retorica nazionalistica
postbellica. Le decorazioni esposte nella mostra romana giungono opportunamente a sottolineare la giusta distanza che mantengono con le esibite ed
esuberanti evocazioni di Sartorio e di
d’Annunzio, con le sensuali evocazioni
di Klimt e con le vuote apoteosi nazionalistiche di tanta pittura celebrativa
del tempo.
Paola Pallottino illustra da par suo
l’illustrazione e la grafica di Chini tra liberty e déco, alle cui spalle si affaccia il
fertile humus culturale della grafica europea degli inizi del secolo, inglese, belga, francese e tedesca. Chini coglie rapidamente il meglio di questo effervescente mondo figurativo con progressivo spirito critico, a volte strizzando l’occhio alla moda di «quell’area esornativa modernista che domina le riviste»,
ma altre riportando le sollecitazioni ad
un originale gusto della superficie decorata e a modi figurativi sempre più distintivi ed accentranti.
A conclusione di un percorso espositivo alquanto variegato e stimolante, lo
scrivente ripercorre un itinerario esposto
su “Critica d’Arte” sottolineando i moventi della pittura più cupa e malinconica, in relazione ai fatti contingentali
che motivano il progressivo sconfinamento dalla gioiosa e sensuale maniera
degli anni di maggior fervore operativo.
La progressiva ricomposizione della vicenda figurativa di Chini lascia ormai
intravedere, nel ricorrente sottofondo
simbolista, le ragioni che spingono l’artista a visualizzare i momenti più inquietanti dell’esistenza, a reagire ai conflitti ed ai momenti oscuri della storia.
Da rimarcare, infine, nella puntuale
ricomposizione biografica di Sibilla Panerai alcune precisazioni sulle occasioni
culturali o sugli avvenimenti che hanno
orientato l’opera di questo singolare artista, talora esuberante ed eclettico, ma
votato per natura a tutte le seduzioni
del colore, e protagonista cosciente e generoso di una sperimentazione in linea
con certe attese del tempo.
■
NOTE
1 Un Palazzo nuovo di Stile vecchio. La Sede
della Cassa di Risparmio di Pistoia (1897-1931),
a cura di G. Chelucci; presentazione di C. Sisi;
testi: G. Chelucci, M. Cozzi, B. Morolli, e C. Pizzorusso.
2 Galileo Chini, La cupola del Padiglione Italia alla Biennale di Venezia. Il restauro del ciclo
pittorico: a cura di C. Spagnol; testi: C. Spagnol,
A.D. Basso, S. Franzo, P. Peron, S. Caniglia,
A. Libralesso, G. Gabrieli; Marsilio, Venezia 2006.
3 Galileo Chini. La Primavera: cat. a cura di
M. Margozzi; presentazione di M.V. Marini Clarelli; testi: M. Margozzi, G. Grosso, L. Tozzi,
S. Nerger e M. Rossi Doria; Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, 15 dicembre 2004-13
febbraio 2005.
4 Restauri. Galileo Chini e altre opere della
collezione permanente, a cura di Lia Durante; testi: D. Croff, L. Lovett, G. Busetto, L. Durante,
G. Pasini, C. Bertorello, A. Laganà e M. Errera.
Venezia, Palazzo Querini Dubois, 8-15 settembre 2006.
5 Giacomo Puccini. Galileo Chini, Tra Musica
e scena dipinta, a cura di A. Belluomini Pucci; testi: S. Caccia, M. Bucci, M. Girardi, G. Ercoli,
R. Devalle, M. Bergamasco, M. Carrozzino, F. Tecchia, G. Borella, E. Lazzarini; Viareggio, Villa
Borbone, 15 luglio-30 settembre 2006.
6 Galileo Chini: dipinti, decorazioni, ceramica, teatro, illustrazione, a cura di F. Benzi e
M. Margozzi; presentazione: M.V. Marini Clarelli;
testi: F. Benzi, M. Margozzi, L. Durante, M. Fochessati, P. Pacini; G. Cefariello Grosso, P. Pallottino; regesti: S. Panerai, P. Martore e A. Marullo; Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna,
9 giugno-10 settembre 2006.
51
Taccuino
Una rivista di luce
e la volontà di grazia di un uomo di speranza
ALL’INSEGNA DELLA VITA
di Mario Graziano Parri
P
adre Rosito. Quasi il
già ventennale, e nel sorriso
nome di un personagcon cui mi accolse (il pacato
gio il cui carattere sia
sorriso che resta la sua
nel sorriso e magari esca da
espressione istintiva) colsi
qualche ciclo cavalleresco.
subito il segno del raro entuFrancesco d’Assisi paragosiasta che non perde mai la
nava i suoi primi compagni
calma. Quel tipo di entusiaa «Carolus imperator, Orsta cioè cui il mondo apparlandus et Oliverius, et omtiene, in quanto non ci si innes palatini et robusti viri
nalza alle grandi verità senqui potentes fuerunt in proeza l’entusiasmo, come dice
lio»; o ai cavalieri di Artù:
Vauvenargues, l’illuminista
«isti sunt mei fratres, milites
“religioso”. L’entusiasmo
tabulae rotundae, qui latiche è per la vita quello che è
tant in remotis et in desertis
la fame per il nutrimento.
locis ut diligentius vacent
Da quella data (proprio
orationi et meditationi»
trent’anni fa) presi a colla(Speculum Perfectioni, Paris
borare con “Città di Vita”; o
Domenico Ghirlandaio (1449-1494), Approvazione della Regola di San Fran1898; Intentio Regulae, in cesco
meglio dirò, con padre Rosi, affresco, Firenze, Chiesa di Santa Trinita, Cappella Sassetti.
“Documenta Antiqua Franto. Ma anche “collaborare”
ciscana”, Quaracchi 1901).
non dice a pieno quella che è
Tale miscidanza porterebbe lontano,
sempre stata soprattutto una frequensviando l’assunto di queste righe; vale
tazione di amicizia che è venuta natuperò la pena il ricordare che Francesco
rale e istantanea; quella corrispondendoveva avere ben presente la tradizioza che tiene nel tempo. Per cui possono
ne che identificava dalle parti italiane
trascorrere mesi di silenzio ma poi
“il luogo della meravigliosa sopravviquando entro di nuovo nel suo sancta
venza” del re di Camelot dopo la disanctorum è come se me ne fossi venusfatta: la “leggendaria” isola (la Sicilia)
to via il giorno precedente. Perché lui è
da cui finalmente sarebbe tornato («Et
sempre lì, uguale nel suo sorridente enprius Arturus veniet vetus ille Britantusiasmo. Con l’indulgente sguardo che
nis…»: Arrigo da Settimello, Elegia de
preventivamente ti assolve dalla tua
diversitate fortunae, v. 157).
inerzia. Dalla tua fatuità. Era l’82, mi
La prima volta l’ho visto sotto le
ricordo: il 4 di ottobre, giorno in cui si
arcate catacombali con gli affreschi di
celebra il “Patrono primario d’Italia” di
Pier Dandini nelle lunette: è lì il sanccui quell’anno correva anche l’ottocenta sanctorum di “Città di Vita”, rivista
tesimo anniversario della nascita. Padre
di religione arte e scienza. Il nome delRosito era intento agli adempimenti lila testata fu suggerito sessant’anni fa ai
turgici nella basilica, io l’aspettavo nel
Padri di Santa Croce da Eugenio Garin,
sancta sanctorum. Quando comparve,
tratto dal titolo del poema che Matteo
gli feci: «Che cosa ti ha detto il PovePalmieri terminò nel 1464 (le ultime
rello?». Con quell’allegria che il buon
due cifre invertite danno ’46, e il 1946
frate Elia rimproverava a Francesco
è l’anno di battesimo della rivista in
(Speculum Perfectionis, cap. cxxi; Acun primo tempo vallecchiana che si
tus, cap. xviii), mi rispose: «Lavorare di
inaugurò con l’editoriale di Giovanni
meno, pensare di più».
Papini). L’ho visto là sotto, padre RoLa “città di vita” del padre Rosito
sito. Dicevo. Ed era il 1976. Lui da
non ha niente a che fare con il labirindieci anni era alla guida della rivista Massimiliano Rosito, Direttore di “Città di Vita”.
to immaginato da Umberto Eco, rag-
52
Caffè Michelangiolo
Taccuino
giungibile per accessi seNel giorno dell’apogreti; il centro arcano delteosi in Palazzo Vecchio il
la comunità ricavato dalla
5 maggio 2006, per i sesgelosa memoria del benesant’anni della rivista frandettino Adso di Melk. E
cescana, tanti ed elevati
non è nemmeno il luogo
sono stati i riconoscimenti
dell’utopia. Bensì un
a padre Rosito che di essa
“dove” dell’avvicinamenda quaranta è l’appassioto a una verità che non è
nata anima e il timone siné lusinga né rimprovero
curo. Però io ho motivi più
ma una interrogazione
intimi di riconoscenza, nelpermanente, almeno per
l’approssimarsi anche del
chi non si accontenta delle
decennale di una scadenspiegazioni.
za di dolore e di perdita
A ogni primo dicem(28 gennaio 2007). Lui
bre il sancta sanctorum si
apparve nella cameretta
colma di una folla di amid’ospedale come sempre
ci, vengono da ogni parte La redazione di “Città di Vita” nell’Oratorio di San Bernardino, nella Basilica fio- sorridente, e «perché non
a festeggiare padre Rosito. rentina di Santa Croce. Nelle lunette e nella volta gli affreschi di Pietro Dandini. si perdesse nella traversata
È il suo giorno genetliaco.
del fiume sacro» pose «al
La luce è fioca, catacombale come di- luce e guida per l’uomo che non si ab- polso destro di Carla, come bracciale,
cevo. Tuttavia l’Oratorio di San Ber- bandona a se stesso; che sia amore e una corona di dieci grossi chicchi di lenardino (è questo il nome) si anima di verità in un mondo dove, come dice gno un po’ consunti dalla lunga perun concitato fulgore, la cariatide al- Peachum nell’Opera da tre soldi, «bi- manenza nelle mie tasche»: così poi
l’angolo che sostiene l’universo sem- sogna consumarsi le scarpe a forza di scrisse proprio su “Città di Vita” (anno
bra risollevarsi alla sua sconsolata fa- girare perché non te le rubino dai pie- lii, n. 1 - gennaio-febbraio 1997), protica; Giacomo e Giovanni apostoli sor- di». Editoriali di sostanziale caratura i ducendo anche una immagine di Carla
ridono dalle lunette. Le seicentesche quali sono anche voce di una provincia e una mia poesia a lei. Due giorni dopo,
figure di Pietro Dandini si riscuotono, francescana che ha il privilegio e il ri- nella Chiesa madre dell’Impruneta voli santi dipinti spesso hanno molta più schio di custodire il tempio arnolfiano, le darle «l’ultimo saluto» concelebrando
influenza nel mondo che i santi vivi. stigma mistico e mito della letteratura il rituale del congedo terreno. «NonoE fra tanti sodali festosi, in quella di- romantica da Foscolo a Stendhal. In stante l’inverno, era una giornata splenscreta e alacre città della vita tenuta a una società mai forse come oggi dissi- dida di sole quel 30 gennaio 1997, ore
battesimo da un grande laico umanista patrice di valori e tradizioni, le pagine quindici. Tutti piansero di dolore e di
che non poteva non sentirsi insidiato di “Città di Vita” perseverano nel ri- gioia; perché tutti capirono che il dolodalla visione dell’eterno, in quell’ora- marcare uno stile intellettuale che re, per una magia dei luoghi e dei mitorio di vita ogni volta sperimenti il mantenga integra e vitale nella lunga steri segreti della vita, si era mutato in
conforto di una quiete ritrovata, il se- storia dell’umano la vocazione delle gioia», aggiunse. Il suo gesto, la sua prereno riparo da un fuori di angoscia che origini.
senza, le sue parole rappresentarono
crediamo la vertigine delnell’estremo frangente la
la nostra “libertà”. «E gli
convocazione della speranuomini vanno a mirare le
za; costituirono, e credo
altezze de’ monti e i grosnon soltanto per me, la desi flutti del mare e le larterminazione eroica di una
ghe correnti de’ fiumi e la
disperazione che va vinta
distesa dell’oceano e i giri
in vista di «uno attender
delle stelle, e abbandonacerto | della gloria futura»
no se stessi» (Sant’Agosti(Par. xxv 67-68). E non
no, Confessioni). Padre
mi chiese allora un attestaRosito possiede quella sinto di matrimonio concorgolare grazia discreta che
datario, nè mai un brevetfa sì che tu possa toccare
to di fede. Penso basti a
con mano l’alta virtù del
padre Rosito che uno sia
mistero.
coerente con se stesso nelIn quel suo sancta
la parola e nella vita, per
sanctorum, padre Rosito
assidersi alla roonde table
ha stilato quarant’anni di
sotto il san Bernardino del
editoriali: solerti incipit a L’affresco di Pietro Dandini (1646-1712) raffigurante San Bernardino nella volta Dandini affrescato nella
una spiritualità che sia dell’Oratorio, nel complesso monumentale di Santa Croce a Firenze.
volta.
■
Caffè Michelangiolo
53
Taccuino
A PITIGLIANO
1° FESTIVAL DELLE LETTERATURE EUROPEE
I
naugurato con l’esecuzione di musiche
popolari scozzesi e italiane in Piazza
Fortezza Orsini e con la presentazione
del progetto “Book Festival”, il primo festival delle letterature europee, che a Pitigliano dal 22 al 25 giugno 2006 ha avuto
appunto come protagonista la Scozia, si è
articolato su tre nuclei specifici, tutti contrassegnati al loro interno da un intenso
dibattito critico. È tale infatti non solo il
caso della traduzione – che ormai da tempo non si presenta più soltanto come una
pratica affidata alla necessaria competenza
linguistica, all’indispensabile sensibilità letteraria e all’imprenscindibile cultura generale dei suoi operatori, ma ha acquistato lo
statuto di una vera e propria disciplina,
contrassegnata dall’individuazione precisa
delle dinamiche che accompagnano il passaggio (la “traduzione”, appunto) del testo
dalla lingua di partenza alla lingua di arrivo – ma anche quello del rapporto che intercorre tra letteratura e nazionalismo, uno
stretto legame entro il quale ben si inserisce, quasi in nome di una sorta di affinità
naturale, il discorso sul romanzo storico e
del canone della letteratura inglese, ancor
sulla fisionomia che esso è venuto ad assupiù ingiusta appare l’inclusione nel suo almere negli ultimi decenni dello scorso milveo della letteratura irlandese, a cui non
lennio, nell’epoca cioè del postmodernismo,
viene implicitamente riconosciuta l’autocon la sua negazione di ogni sistema totanomia di cui, in nome del rivoluzionario dilitario che intenda farsi latore di verità e
stacco politico dalle sorti della Gran Breidentità assolute e con la sua predilezione,
tagna e di una progressiva emancipazione
in un programmatico rifiuto di qualsiasi
culturale, gode invece quella statunitense.
rigidità filologica, per la rappresentazione
dei meccanismi interattivi innescati
allorché sulla stessa scena facciano
la loro comparsa personaggi storici e
personaggi fittizi.
In un articolo risalente al 1983,
Non esiste una “letteratura del Commonwealth”, Salman Rushdie, dando libero sfogo alla sua incoercibile
vena provocatoria, scriveva che «La
“letteratura del Commonwealth”
sembra essere un corpo di scrittura
creato, penso, in lingua inglese da
persone che non sono cittadini britannici di pelle bianca, o irlandesi o
cittadini degli Stati Uniti d’America. Non è chiaro se gli americani neri
facciano parte di questo bizzarro
Commonwealth». Rushdie avrebbe
forse dovuto aggiungere l’ulteriore
considerazione che, se lo statuto politico che lega assieme Inghilterra,
Scozia, Galles e Irlanda del Nord già
di per sé in qualche modo mortifica
la vitalità e l’autonomia di tante voci
letterarie accorpandole all’interno Veduta notturna di Pitigliano.
54
Parlare quindi di letteratura scozzese significa individuare una specifica area non
solo storica, geografica e linguistica ma anche culturale, un’area dai contorni ben definiti pur nell’inevitabile intreccio con quelli dell’egemone cultura inglese. Ed è ancora Rushdie che potremmo chiamare in causa per introdurre i nodi specifici che oggi
contraddistinguono il volto del romanzo
storico. Conscio del fatto che la rappresentazione “ufficiale” della storia è molto spesso frutto di caso, arbitrarietà, potere, invenzione, informazione parziale o manipolata, in Gli scrittori e la politica, Rushdie
ha parlato di «una sorta di progetto storico», una “costruzione”, un “artefatto” alla
cui demistificazione si sono rivolti numerosi
letterati e narratori contemporanei intenzionati a dar vita a una narrazione degli
eventi del passato da una prospettiva palesemente non ufficiale, parziale, fittizia,
per denunciare, così facendo, i rischi della
falsa nozione di assolutezza che ha condizionato per secoli sia la rappresentazione
che il corso stesso della Storia.
Appare dunque particolarmente stimolante e attuale un incontro su questi
temi a cui, dalle prospettive del romanziere e del critico letterario, talvolta coesistenti nella stessa figura, sono stati dedicati
gli spazi degli interventi e delle tavole rotonde, con la partecipazione da una parte
degli scozzesi James Meek, giornalista nella ex-Unione Sovietica negli anni Novanta
e ora collaboratore del “Guardian” e
autore di romanzi e racconti, Allan
Massie, a cui si devono numerosissimi romanzi sugli imperatori romani
e un volume sui rapporti anglo-scozzesi, il romanziere Allan Cameron
(The Golden Menagerie e The Berlusconi Bonus) e la giallista Denise
Mina, dall’altra dei nostri Margherita D’Amico, narratrice e autrice di
un reportage sulla tragica condizione del Sudan settentrionale, Alessandro Barbero, studioso di storia
medievale e militare e autore di romanzi storici, e Vincenzo Consolo,
da tempo attento indagatore della
realtà siciliana, personalità, tutte
queste, affiancate sul versante strettamente accademico da studiosi della letteratura scozzese ed esperti della pratica e della teoria della traduzione (Carla Sassi, Marco Fazzini,
Massimiliano Morini).
Sandro Melani e Valerio Viviani
Caffè Michelangiolo
Taccuino
MASSIMILIANO ROSITO
E I SESSANTA ANNI DI “CITTÀ DI VITA”
l 5 maggio 2006, nel Salone de’ Du- numero in questione compare anche un Graziano Parri, Geno Pampaloni, Franco
gento di Palazzo Vecchio, sono stati saggio su “Humanisme intégral” di Jac- Cardini, Gaetano Chiappini che disquisifesteggiati i sessanta anni della rivista ques Maritain. Il varo della rivista av- scono della poesia di casa nostra come di
quella di Ezra Pound, Walt Whitman,
“Città di Vita” e i quaranta della dire- viene decisamente con il vento in poppa,
zione di Massimiliano Rosito, Ordine considerato l’avanzata laicistica del tem- Bob Dylan ecc.; storici dell’arte come
Frati Minori Conventuali. A questa ma- po e l’insperata riscoperta del pensiero Alessandro Parronchi, Umberto Baldini,
nifestazione hanno aderito, tra gli altri, neoscolastico ad opera di Jacques Mari- Luciano Berti, Francesco Gurrieri, Antonio Paolucci, Maria Grazia Ciardi Dupré
Eugenio Giani, Assessore alle Tradizioni tain e di Raïssa Oumançoff.
Negli anni successivi – tra la direzione e Ludovica Sebregondi (tanto per citare i
Fiorentine, padre Arturo Innocenti e
Monsignor Dante Corolla in rappresen- di A. Levasti e quella di Raniero Scia- primi nomi che vengono in mente, ma
l’elenco è alquanto più vasto). Notevole
tanza dei Minori Conventuali e del Ve- mannini – la rivista accoglie tanti altri
anche la presenza di autori d’altri paesi: si
scovo Ausiliare, Carla Guiducci Bonan- collaboratori promuovendo la discussione
ni, presidente dell’Opera di Santa Croce, o il ripensamento su proposte letterarie, su ricordano, tra i tanti, Fritz Joakim von
Ruth Cardenas Vettori dell’Istituto Mir- temi economici e sui moventi ideologici Rintelen, George Uscatescu, Adolfo
Muñoz-Alonso, Bernadette Morand, Lise
cea Eliade e Marco Cioffi, vicedirettore che condizionano la vita dell’uomo di oggi
di “Città di Vita”; mentre Pier Francesco e rimettono in discussione le convinzioni Loewenthal, Catherine O’ Brien. Ospite
Listri, Carmelo Mezzasalma, Alessandro più radicate; ma nel contempo i nuovi alquanto gradito della rivista è, naturalGentili e l’estensore di questa nota (in collaboratori continuano a proseguire nel- mente, quel Pietro Parigi che per molti
rappresentanza di Mario Graziano Par- la difficile ricerca della Verità opponendo decenni inonderà le redazioni del “Fronri) hanno, da diverse angolazioni, rie- allo spirito di parte più dichiarato e al tespizio”, della “Badia” e di “Città di
progressivo disumanesimo dei tempi mo- Vita” di xilografie che si avviano a rinvocato il lungo cammino della rivista.
Cammino, in verità, degno di men- derni più di un messaggio di speranza. verdire una forma di illustrazione consizione non solo perché la maggior parte Ed ecco che l’utopica impresa di padre derata perduta. Padre Rosito incoraggerà
delle riviste fiorentine ha chiuso i batten- Sciamannini e di padre Rosito viene so- questo silenzioso artista al punto da esseti dopo non molti anni di vita, ma so- stenuta da uno stuolo di personaggi e di re letteralmente sommerso dalle sue xilopersonalità destinati a tracciare un nuovo grafie e incisioni; queste “carte” costituiprattutto per il programma culturale che
questo bimestrale di religione arte e scien- corso della storia della città di Firenze e di ranno il nucleo di un nuovo, originale
za, ha portato avanti nonostante le diffi- altri paese: a “Città di Vita” erano di casa museo all’interno dei chiostri di Santa
Giorgio La Pira, Piero Bargellini, France- Croce.
coltà economiche e gli scontri ideologici
Sempre alla fede e alla tenacia di painsorti nell’avvicendarsi di temperie poco sco Carnelutti, Domenico Giuliotti, Arrigo Levasti, Giovanni Papini, Nicola Lisi, dre Rosito si deve un’attività editoriale
favorevoli a questo genere editoriale.
La rivista, edita agli inizi da Vallec- George Uscatescu, Fritz von Rintelen e che non conosce sosta: il catalogo di
chi, fa la sua comparsa nel gennaio-feb- poi letterati come Carlo Bo, Margherita “Città di Vita” conta oggi ventun pubGuidacci, Mariella Bettarini, Adriana No- blicazioni a carattere religioso, quaranbraio del 1946: il primo anno è curata da
taquattro a carattere artistico (rimarun comitato direttivo di sei persone, feri, Mario Luzi, Carlo Betocchi, Mario
chevoli i resoconti delle giormentre l’anno successivo è
nate di studio dedicate ai
già diretta da Arrigo LeGrandi della civiltà fiorentina,
vasti. La testata, che Euda Giotto a Brunelleschi), dogenio Garin ha dedotto
dici a carattere scientifico;
dalle amate fonti umaniquarantacinque testi poetici,
stiche, è già di per se stessedici cartelle con xilografie
sa augurale; ma la lunga
(altre pubblicazioni sono in arvita della rivista è assicurivo). Tutto questo è maturato
rata da una collaborazione
nella “catacomba” di Padre
alquanto variata e, in cerRosito: catacomba in vero illuti periodi, di un certo liminata dagli affreschi di Pier
vello. Nel primo numero il
Dandini e dalla presenza dei
citato Garin scrive, contro
tanti collaboratori italiani e
la consuetudine accademistranieri di “Città di Vita” che
ca, di “Umanesimo Medie– nonostante i vistosi mutavale”; L. Veuthey opera
menti del gusto e i malesseri
alcuni importanti distindella società contemporanea –
guo tra il sapere scientifico
e quello teologico; A. Gra- Nel Salone de’ Dugento in Palazzo Vecchio a Firenze, il 5 maggio 2006, cercano di non perdere di vista
try si sofferma su “La Mo- Carla Guiducci Bonanni, già Sottosegretario di Stato per i Beni Culturali, con- (o di recuperare) il messaggio
rale et la loi de l’Histoire”, segna a Padre Massimiliano Rosito il riconoscimento per i quarant’anni di francescano della fratellanza e
F. De Regis tratta del Cat- direzione di “Città di Vita”, bimestrale di religione, arte e scienza. Al centro della salvezza.
Piero Pacini
tolicesimo in Russia; nel l’Assessore alle Tradizioni fiorentine, Eugenio Giani.
I
Caffè Michelangiolo
55
Taccuino
Accademia degli Oscuri in Torrita di Siena
Premio letterario nazionale degli Oscuri
per un romanzo o una raccolta di racconti
inediti
Presentazione
Accademia degli Oscuri
Piazza Nazioni Unite, 10
53049 Torrita di Siena (SI)
Il premio letterario degli Oscuri, indetto dall’Accademia degli Oscuri in
Torrita di Siena nell’ambito delle sue attività culturali, si prefigge, col patrocinio
dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Torrita di Siena e con la collaborazione della casa editrice Polistampa
di Mauro Pagliai, Firenze, che provvederà alla pubblicazione dell’eventuale
testo vincitore, di promuovere l’opera di
autori di narrativa.
Giuria
Presieduta dal professor Arnaldo
Pizzorusso, è composta da personalità
provenienti dal mondo accademico culturale e letterario: Mirella Billi, Silvia
Cassioli, Pietro Cataldi, Ennio Cavalli,
Patrizio Collini, Claudia Corti, Elena
Del Panta, Loriano Gonfiantini, Michela Landi, Mariangela Leotta, Michele Manzotti, Francesco Marroni, Gigliola Mazzoni, Neda Mechini, Sandro
Melani, Mauro Pagliai, Maria Carla Papini, Mario Graziano Parri, Ivanna
Rosi.
Regolamento ufficiale
per la partecipazione al concorso
– Il Premio letterario degli Oscuri è dedicato al romanzo e alla raccolta di
racconti tematicamente coerente, inediti.
– La partecipazione al concorso è gratuita.
– Possono partecipare autori maggiorenni di qualsiasi nazionalità.
– I testi presentati dovranno essere
esclusivamente in lingua italiana e
inediti in tutte le loro parti.
– La lunghezza delle opere non dovrà
superare le 200 cartelle dell’ampiezza di circa 2000 battute ciascuna.
56
– Ogni autore potrà partecipare con
una sola opera.
– L’opera deve includere sul frontespizio esclusivamente il titolo e il nome e
cognome o pseudonimo dell’autore.
– Gli interessati dovranno inviare per
posta, in unico plico, ma in documenti separati:
1. l’opera corrispondente ai requisiti
indicati nel presente regolamento
redatta in una copia cartacea e
suddivisa, insieme a una copia su
CD-Rom o floppy-disk (in formato RTF, DOC o PDF);
2. la domanda di partecipazione contenente l’accettazione delle norme
in materia di privacy;
3. una scheda biografica dell’autore
comprendente i suoi dati anagrafici e i recapiti;
4. la dichiarazione dell’autore che
confermi la paternità dell’opera e
che si tratta di inedito in tutte le
sue parti (i modelli ai punti 2, 3
e 4 sono scaricabili dal sito dell’Accademia degli Oscuri o con richiesta all’e-mail: [email protected])
– Tutto il materiale dovrà essere rigorosamente inviato entro il 28 febbraio 2007 (ne farà fede il timbro
postale) al seguente indirizzo:
– Il materiale raccolto ai fini concorsuali non verrà in alcun caso restituito.
– La Giuria selezionerà in base a criteri da essa stabiliti il vincitore del concorso (a meno che non venga ravvisata l’inadeguatezza di tutti i testi,
nel qual caso il premio non verrà assegnato). Le decisioni e le scelte della Giuria sono inappellabili.
– L’eventuale vincitore del concorso riceverà tempestiva comunicazione e
sarà inserito nell’albo del sito Internet
dell’Accademia degli Oscuri in Torrita di Siena (www.accademiadeglioscuri.it). Sarà poi premiato nell’ambito di una cerimonia che si terrà
a Torrita di Siena presso il Teatro degli Oscuri in data da stabilirsi, possibilmente entro il 2007.
– Il premio finale consisterà nella pubblicazione e distribuzione dell’opera
da parte della casa editrice Polistampa di Mauro Pagliai, in Firenze, secondo i seguenti termini contrattuali:
cessione del diritto per i tempi di legge; royalties del 6% sul prezzo di copertina oltre le prime 2000 copie.
– All’autore vincitore sarà riservato uno
sconto del 30% sul prezzo di copertina sia della pubblicazione sia di tutto il catalogo Polistampa
– Il sodalizio culturale Accademia degli
Oscuri non acquisisce alcun diritto
d’autore sulle opere pervenute.
– La partecipazione implica l’accettazione e l’ossequio delle norme del presente regolamento, pena l’esclusione.
– Per quanto non previsto nel presente
regolamento o per successive eventuali integrazioni, le decisioni spettano
autonomamente all’Ente promotore.
a cura della Redazione
Caffè Michelangiolo
Sbucciando la cipolla
A
gosto, un buon mese per certe confessioni d’autore. I sensi, le coscienze,
i freni inibitori si allentano. Come il giro
vita. Patrizia Cornwell, la più pagata
scrittrice americana di gialli (dodici milioni di dollari a libro) ha confessato a
“Vanity Fair” di aver amato Margo Bennet, una ex agente dell’Fbi (per restare in
carattere con il proprio personaggio).
Love-story fugace, ha tuttavia specificato
alla intervistatrice Judy Bachrach: ci siamo rotolate solo un paio di volte sul tappeto, come si usa dire dalle nostre parti.
Era soprattutto un rapporto basato sulla
consolazione reciproca, ha aggiunto.
Più dirompente l’outing di Günther
Grass (tedesco del 1927 e premio Nobel
del 1999). A Franz Schirrmacher, condirettore della “Frankfurter Allgemeine Zeitung” ha confessato la propria adolescenza di Hitlerjung. Perché ha aspettato
sessant’anni per scongelare la sua volontaria marcia sotto le insegne uncinate ormai avviate alla disfatta? È quello che si
è subito chiesta con toni tripudianti l’intelligencija internazionale. Alla quale stava sullo stomaco (lo ha implicitamente
confessato nell’attuale insperato frangente) questo grosso pesce letterario. Questa
statua di latta che dal proprio «passato
che non passa» aveva radiato un dettaglio
ingombrante. Questo poseur («une personne qui prend una attitude affectée
pour se faire valoir») che ha rimpiattato
nell’armadio l’uniforme delle SchutzStaffeln (ma avrebbe potuto benissimo
averci quella di Werwolf, Lupomannaro,
in voga negli ultimi giorni di guerra) e si
è esibito nelle vesti di praeceptor Germaniae, «si è messo in scena per decenni
come istanza morale del Paese» (così il
massimo storico del Terzo Reich Joachim
Fest su “Der Spiegel”). Che ha sparato a
zero sulla riunificazione, denunciandola
quale «pericolo di una rinascita dell’egemonia tedesca in Europa». Che ha puntato il dito su Adenauer e gli altri leader,
accusandoli di aprire le porte della Bundersrepublik agli ex nazisti.
Günther Grass (il “GG” che insieme al
“BB”, vale a dire Bertolt Brecht, reppresentava l’intellettuale-simbolo della post
Germania) forse non merita tanto clamore. Non è che uno di quei vecchi che non
sono stati consunti né dai ricordi né dai
rimorsi (cito da Ansichten eines Clowns,
Opinioni di un clown, 1963, di quell’Heinrich Böll in Germania mai del tutto amato, che in tale libro si è messo in
scena come personaggio di se stesso:
l’Hans Schnier sradicato e ribelle il qua-
Caffè Michelangiolo
BLOC-NOTES
di Bartleby
le paga per tutti i tedeschi ma fino all’ultima pagina non cessa di fustigarli). Che
sia andato fuori di testa l’inflessibile e ormai anzianotto percussionista che ci ha
rotto i timpani con quel suo implacabile
tamburo di latta (Die Blechtrommel,
1959)? Lui non è più tanto popolare
come un tempo, spiega Joachim Fest: probabilmente vuole attirare l’attenzione sul-
Nato nel 1927, lo scrittore e premio Nobel
Günther Grass ha rivelato di essersi arruolato
volontariamente nelle SS.
la sua più recente opera in questi giorni
nelle librerie, il libro venderà di sicuro
bene a scapito un po’ del suo rango e della sua reputazione (“La Repubblica”, 17
agosro 2006). Beim Häuten der Zwiebel
(Sbucciando la cipolla: un’autobiografia
di quattrocentottanta pagine e undici disegni in sanguigna di mano dell’autore)
ha già esaurito una prima tiratura di centocinquantamila esemplari, una seconda
di centomila risulta prenotata, e i diritti
sono stati già richiesti da una dozzina di
Paesi.
L’ex bello e possibile della nomenclatura mediatica parigina, quel BernardHenry Lévy pétit héritier di Sartre (e autore del gargantuesco romanzo-fiasco Le
diable en téte, 1984), non ha mancato
l’occasione per entrare anche lui in scena.
«Grosso pesce letterario» è espressione
sua. «Congelato da sessant’anni di pose e
menzogne che si decompone al calore di
una verità tardiva: la sua è una disfatta»
(“Corriere della Sera”, 13 agosto 2006,
traduzione di Jacqueline Malandra). Non
parlerei di disfatta. Le bucce alla cipolla
le ha intanto contate la “Bild”: sarebbero un paio di milioni (dichiarate in euro).
Sessant’anni di menzogne? Ma il burlone di Danzica non ha mentito. Semplicemente ha preferito tenere per sé quei momenti della vita che non si possono ripetere e neppure dividere con altri (cito ancora Böll). Ha tenuto nascosta la carta,
come un giocatore. Che aspetta la mano
finale per calarla. Oppure gli erano venuti meno la coscienza e il senso di quella che lui oggi chiama «una macchia
sporca su di me», tutto preso come è stato in questi sessant’anni a cercarla negli
altri. La trave e la pagliuzza. Ma prima o
dopo quella dissennata macchia sarebbe
pur venuta alla luce: meglio giocare d’anticipo, dev’essersi detto. Così l’ha mostrata. E con essa ha mostrato anche
quello che in realtà lui è. Basta nominare la parola “realtà” per generare disagio:
la realtà è piena di miserie, come dice
ancora Böll. È come una busta indirizzata a noi, che lasciamo chiusa perché il
contenuto potrebbe essere spiacevole e
magari mostrare un coriaceo e baffuto
opportunista che cammina al bagliore
accecante dei riflettori come un equilibrista sul filo teso da una sponda all’altra
di un mondo dalle troppe morali. Mentre
fin qui a tutti era parso di vederlo alto e
sprezzante trasvolare in un cielo intrepido, al di sopra di una quantità di panni
malamente lavati e stesi ad asciugare.
Quell’oscuro filo su cui camminava, era
arrivato il momento di tagliarselo alle
spalle. Non per recuperare una specie di
candore, per the remains of the day; bensì per accomiatarsi con un indecente
sberleffo dal suo affollato pubblico (milioni di persone, e non solo in Germania)
così come dai prodighi accademici di
Stoccolma, prima di passare anche lui al
nulla e all’altrove.
Chissà se in tutto questo non ci sia
una saggezza rimasta ignota ai Céline,
agli Aragon, ai Pound, ai Silone. Ai Brasillach…
P.S. Coetaneo di Günther Grass (1926),
il berlinese Jiachim Fest è improvvisamente mancato il 12 settembre 2006.
Storico e fra i maggiori studiosi del nazismo, la sua biografia di Hitler, tradotta in tutto il mondo (in Italia da
Garzanti), venne accolta così da Indro
Montanelli sul “Corriere della Sera”:
«Silenzio. Parla Fest».
■
57
Fondi di caffè
Sulla traccia degli editoriali usciti su “Città di Vita” fra il 1946 e il 1985
tuttora di accesa attualità
STATO DI VEGLIA
di Mario Graziano Parri
L
e civiltà dichinano e periscono
quando si è esaurito in loro lo stimolo della ricerca, sono venuti
meno l’intesa e il lavoro di tutti per la
scoperta ulteriore. Allora si levano incontro ad esse le ombre del tramonto, la
luce si ritrae in uno strazio purpureo
che è riverbero della rossa argilla con
cui venne modellato Adamo. Non sono
in cerca di Dio, le civiltà; o meglio, lo
sono all’inizio. Poi finiscono per compiacersi della propria autarchia e smarriscono il presentimento del futuro. A
che cosa doveva servire la Torre di Babele? Probabilmente all’inizio chi la edificò sapeva… Adamo fu l’uomo quasi
divino che decadde a troppo umano,
passando dalla illuminazione dell’alba
al crepuscolo e alla tenebra.
Veglia nella notte del mondo
N
procedere nella luce. Si tratta, comunque, per il vicario di Cristo di una veglia
terribile, che non può concedersi sosta.
Passano gli imperi e le dominazioni: lui
resta, il testimone di Dio. C’è molto da
meditare, dice Daniel-Rops, sulla necessità misteriosa che ha fatto sì che si levasse un Gregorio Magno quando il
mondo barbaro dové essere piegato; un
Gregorio vii quando quello feudale dové
essere ordinato; un Innocenzo iii quando
sui nazionalismi invadenti occorse la
mano temperatrice del superiore diritto.
«Si osa appena pensare a ciò che deve essere la sua meditazione quotidiana allorché in un dialogo con lo Spirito Santo
deve pesare umanamente il pro e il contro, il perché e il come» conclude lo scrittore. E alla fine non avrà importato se
non tutti siano stati candidi come la loro
veste e l’ostia. Tutti insieme saranno stati il corpo di Cristo e l’intelligenza di Dio.
È il bene che fa vivere il mondo e assicura la continuità della storia, osserva
Piero Bargellini in una serie di editoriali, e tuttavia si continua a vedere il male
come il protagonista del mondo. C’è una
ella notte la favola accende la lanterna, segno di una meta provvidenziale fra le orride ombre della foresta.
Sul mare il buio del periglio è forato dalla lama del faro.
Il profeta il santo il
poeta, tutto insieme
l’uomo che si prodiga
perché crede, sono il
riflesso diretto della
luce che proviene dal
suo stesso principio.
Henri Daniel-Rops
(nel primo editoriale
del 1948) addita sulle
notturne facciate dei
palazzi vaticani un segnale di finestra vegliante. Lì è il vicario
di Cristo. È con Cristo che il cammino all’inverso ha inizio,
consapevolmente; è
sulla sua traccia che
l’umanità può recuperare la luce, andare
incontro alla luce, Leopoldo Toniolo, Dante visita Giotto alla Cappella degli Scrovegni.
58
ragione e perfino uno scopo. La morte è
il salario del peccato, dal suo principio.
Questo immondo mercato può essere
stroncato solo dalla vita. Numericamente il rapporto morte-vita si risolve in
qualsiasi momento a vantaggio della seconda. Ma nell’essenza ultima, occorre
distinguere fra vita e sopravvivenza.
Questa è provvisoria distrazione dalla
morte; l’altra, volontà di grazia.
Resta sempre e comunque questo, il
dilemma. Domenico Giuliotti fu ai suoi
dì tacciato di misoneismo; lo è tuttora le
avventurate volte che il suo nome rispunta irritante e anacronistico (due aggettivi che a lui piacevano; e volentieri
applicava a uomini di stàmina: santi o
eretici), da chi confida, e sono i quasi
tutti, nel sentito dire. «L’Adamo dinamizzato dei nostri giorni può legittimamente vantarsi di avere ucciso il silenzio,
di avere bandito il riposo, di aver reso
impossibile la meditazione…» (editoriale del marzo 1950).
Lo scorso 4 ottobre [1985], giorno in
cui si celebra il “patrono primario d’Italia”, l’estensore di queste righe capita nella redazione di “Città
di Vita”. Il direttore,
Massimiliano Rosito, è
in Santa Croce, occupato negli adempimenti liturgici. Quando rientra, alla un po’
impertinente domanda: «Che cosa ti ha
detto il Poverello?»,
Padre Rosito risponde
con un sorriso di letizia: «Lavorare di meno, pensare di più».
Sono passati trentacinque anni fra queste due dichiarazioni
e che esse fossero profetiche ieri e siano sorprendenti oggi, questo
ha rilevanza solo
quando si consideri
chi siano (e quanti
Caffè Michelangiolo
Fondi di caffè
pochi siano) coloro che scelciata scandalosa che Giugono un’azione di pensiero.
liotti insiste nel propugnare
La quale viene considerata
con gli editoriali a sua firma.
sempre irritante e anacroniL’esistenzialismo è traboccastica, spesso subdola e sovto nei giornali, nei caffè, nel
vertitrice.
romanzo, nel teatro, nel ciOggi che si profila l’aponema. La rivista dedica alcalisse-catastrofe delle guerl’indirizzo filosofico (o mere stellari e l’umanità (o alglio, a ciò che con tale termimeno una cospicua sua parne si veniva caratterizzando,
te) è tornata a «mangiare
vale a dire il vuoto di certezcarni immolate agli idoli»,
ze, il tempo della “crisi”) un
dovrebbe essere riconsideraintero fascicolo, al quale Mita la “rivelazione” dell’apochele Federico Sciacca precalittico Giuliotti. Il quale
mette un editoriale che ristamalgrado assicurasse che «il
bilisce il rapporto dialettico
tempo è vicino» non di meno
fra fatum e assoluto, fra
con l’ottimismo del cristiano
l’«essere per la morte» e
incontaminato continuava a
l’«essere per l’Essere». L’esisceverare dalla massa il sinstenzialismo sembrava allora
golo e dalla bestia l’uomo.
trovarsi à la croisée des cheIn una realtà sovraeccitata
mins: s’imponeva dunque
come l’attuale, dominata daluna scelta.
la macchina, il singolo ingeA ben guardare il bivio è
Raffaello, La Teologia (part.), 1508-1511, affresco del soffitto della Stanza
nera sospetto in quanto non è della Segnatura. Città del Vaticano, Palazzo Apostolico.
il costante appuntamento faintegrato e in quanto è inditale. Sono due, e due sole, le
viduo. Su questo versante della cultura sità polemica), il concetto è fra quelli concezioni che dividono il mondo: queloccidentale si sta vivendo una sorta di li- che assicurano a “Città di Vita” la sua la del Trascendente e quella dell’Immabertà vigilata. Ogni e qualsivoglia pen- costante “novità”, la quale sta appunto nente. Per Piero Bargellini l’Immanensiero ha corso solo teorico; nella realtà nel percepire certi fenomeni e prepara- tismo ha provocato in questo epilogo di
che si va precisando, l’area dell’autono- re il terreno al dibattito. Uno di questi millennio (egli scriveva nel ’51) l’anmia individuale si restringe. Il pedone è fu l’Esistenzialismo; o meglio l’effetto nullamento della persona (nell’ambito
già un “nemico”, perché non si adegua; della sua “volgarizzazione”. Siamo an- sociale), lo schiacciamento della libertà
è un “ribelle”. Così non potrà essere tol- cora al ’50, gomito a gomito con la cro- (nell’ambito politico), la perdita dellerato oltre il demiurgo che fa
l’ispirazione (nell’ambito inagire le proprie creature setellettuale). L’uomo contemcondo il suo talento e le sue
poraneo è un prigioniero a
idee; non avrà più diritto d’aoltranza: della società, dello
silo l’errabondo poeta, perché
Stato, di se stesso. Al massila poesia ha una sua esistenmo può aspirare a una “liza e gli interessi del poeta
bertà clandestina”, se ha la
sono infiniti. Ogni manifestaforza di sottrarsi alla totalizzione intellettuale sarà manozante “libertà vigilata”, che
vrata da categorie e corpi sui
lo renderà sospetto e ribelle
quali si possa esercitare un
al sistema. L’altra strada,
istituzionale controllo: una
quella della Trascendenza,
cultura di regime per un regiessa sì conduce alla libertà,
me di controfigure. Chi si
bene ultimo «come sa chi per
terrà fuori sarà il ribelle, l’inlei vita rifiuta». È una condividuo irriducibile, la perpetraddizione solo apparente:
tua figura sulla riva del fiume.
il custode del secondo regno,
suicida a Ustica, può ben
porsi a difensore della libertà
Contro ogni filosofia
morale perché questa tradel finito
scende ogni e qualsiasi vigilia
umana.
e non proprio proiettato
Il conflitto mondiale è fifino a tali conseguenze (il Maria Spartali Stillman, Beatrice, 1895; acquerello su carta, cm. 56,6 x nito da dieci anni (ma il doparadosso ha una sua neces- 43,1. Wilmington, Delaware Art Museum.
poguerra durerà ancora a
S
Caffè Michelangiolo
59
Fondi di caffè
lungo), e Luigi Stefanini (editoriale del
settembre 1955) denuncia già lo scompiglio morale, causa del mettere il frui
al posto dell’uti (e viceversa). Eppure si
era ancora lontani dal sovvertimento
di quella gerarchia della dignità che
oggi strumentalizza i beni ideali per ottenere quelli materiali, il bene morale
(ma anche estetico) per il fine economico. È una inversione diventata teoria
filosofica, educazione di vita. Ogni nucleo personale di coscienza deve essere
estirpato, se già non lo è stato. Scocca
l’ora che il diritto, l’onesto, il puro, il
sacro, il disinteressato costituiranno
prove di accusa schiaccianti. Invece saranno valori e patenti di nobiltà l’intrigo, il disonesto, il contaminato, il profano, il personalistico. I ritmi del pensiero, l’orientamento della prassi, perfino l’evidenza della logica sono saltati:
l’insignificante e il luogo comune sono
le misure della nuova eternità che sta
sorgendo dal buio che chiude questo
millennio… Oh quanto difformi da
quelle che uno dei sette angeli stabilirà
a misura della sua canna d’oro…
Sembra che l’uomo abbia desistito
dal dare un senso alla sua vita, e così rinunciato a ogni gesto che intendesse
uno scopo. I tedi insonni dell’infinito
vengono elusi con gli ansiolitici. Nel
Vangelo gnostico di Tomaso vi è un detto di Gesù: «Misero è il corpo che dipende da un corpo, e misera è l’anima
che dipende da ambedue» (48.10).
L’uomo che ha puntato tutto al tavolo
della scienza non ha ottenuto risposta
alle domande, ma in compenso ha dilatato ancora di più il volume degli interrogativi. Ogni nuova scoperta scientifica apre ulteriori prospettive di ricerca.
Questa strada fa sì che l’anima sia risospinta ancora più al fondo del suo esilio,
l’allontana forse definitivamente da
quell’evento decisivo che sarà il riconoscimento della sua radice e realizzerà il
ciclo del ritorno: cioè quel medesimo
processo che si era compiuto in Maria di
Magdala, dopo l’incontro con Gesù.
Pittore padovano (sec. XVI), Ritratto del poeta
[Francesco Petrarca], affresco. Arquà, Casa del
Petrarca, Stanza delle Visioni.
clusioni, la intuizione del giurista friulano può essere colta nel concetto di disuguaglianza della donna, prodromo di
quella “insurrezione” che egli analizza,
e nel richiamo esplicito alla Maddalena
in cui si risolve la disuguaglianza e perciò diviene simbolo di grazia in questo
mondo originato da una trasgressione.
Altra intuizione di Carnelutti è nella
nomenclatura del delitto come insufficienza, o malattia dello spirito. Il sistema sociale è a un punto per cui la giustizia si è trasformata in una posta di
bilancio. L’impianto giudiziario si basa
su un organigramma smisurato di ad-
Padre Rosito
e gli editoriali del post-Concilio
V
Dei delitti e delle pene
D
alla predilezione divina per la donna muove Francesco Carnelutti, per
analizzare il complesso di teorie e di
azioni che sarà noto come femminismo
(l’editoriale è del ’62). Più che nelle con-
60
detti e utilizza un apparato il cui presupposto è la “permanenza” della pena,
così come la materia prima della faraonica macchina sanitaria è la malattia a
ogni costo. Se essa fosse definitivamente debellata che cosa ne sarebbe di medici, impianti ospedalieri, farmacopèe
e delle altre attività indotte? Ecco che la
giustizia sottintende allora una ingiustizia ricorrente e perdurante. In questo
mondo che è esterna apparenza la giustizia mondana non può che essere apparenza di giustizia.
L’ingiustizia è il risultato delle molte
giustizie sommarie. In qualsiasi momento nel mondo c’è qualcuno che si
oppone a qualcun altro, ed è ancora e
comunque il principio ordalico a decidere della partita. Due immani scontri di
popoli, nel Novecento, non hanno ancora stabilito niente. Continuano a mutare gli schieramenti e con essi le opportunità di ulteriori confronti. Permane
integra e ferma solo la fede di chi conserva la buona volontà della pace per
quella caritas che è l’insieme di tutti i
precetti. Il Concilio e gli atti di un pontificato che attivò la speranza anche in
animi catafratti di scetticismo, o anche
soltanto chiusi nella delusione, parvero
effusione dello «Spirito sopra ogni persona», secondo la predizione di Gioèle
(Atti, 2.26). Ma caratteristica del bene è
quella di essere intermittente; caratteristica del male, di essere costante. Il bene
ha bisogno di una forza attiva, il bene è
fare in prima persona; il male è inerzia e
passività, è lasciare agli altri l’iniziativa.
È il piacere lento di cedere.
Giovanni Francesco Barbieri, detto il Guercino,
La Sibilla Cumana, 1651, olio su tela, cm. 222 x
168,5. Londra, Collezione Denis Mahon.
exilla regis prodeunt Inferni: l’immagine da Venanzio Fortunato a
Dante passa ora in più di una riflessione di Massimiliano Rosito, dall’ottobre
1964 direttore della rivista, autore di
quasi tutti gli editoriali, e ispiratore di
interi fascicoli nella loro sotterranea
convergenza tematica. Con lui l’inchiesta diviene serrata fino a delineare un
vero e proprio progetto ideologico, una
sinòpia gigantesca (Sinòpe, città), dove
il dettato morale, il suggerimento estetico, il richiamo teologale, la riproposta
letteraria concorrono a una architettura
ideale e nello stesso tempo ben assicuCaffè Michelangiolo
Fondi di caffè
rata ai fondamenti della ragione e anche ture, dove si propone la testimonianza de al trinomio «immutabilità, stabilità,
della prassi secolare.
diretta di testi e spesso si anticipano gli impassibilità». (Il fine metafisico della
La recentissima diatriba intorno al esiti di poeti (per la maggior parte non Chiesa deve corrispondere alla unicità di
dramma – per la verità non fra i suoi italiani) che costituiranno vere e pro- questi valori, non altrettanto il suo animigliori – di Rainer Werner Fassbinder, prie scoperte letterarie, aggiunge la con- mus, il principio pensante che la fa agiDer Müll, die Stadt und der Tod (1976), ferma di materiali opportuni all’assunto re nel secolo). Negli inconciliabili schieritirato dalla scena ai Kammerspiele di di ogni fascicolo.
ramenti (inconciliabilità che provocò di
Francoforte in un crescendo di intolleAlla sorte di Praga fa riscontro subi- necessità le automatiche strumentalizranza persino sospetta, rende l’attualità to una scelta di testi di Marina Cvetaeva zazioni delle “falangi” più arrabbiate
a un tema che Rosito avanzò subito al- composti durante l’occupazione hitleria- del movimento studentesco), Padre Rol’indomani della guerra del
sito vide immediatamente il
giugno ’67 fra arabi e ebrei.
punto critico e con altrettanLa querela aveva per oggetto
ta prontezza colse l’acceleranon (o non soltanto) lo scanzione che si stava imprimendalo della violenza istituziodo al “mutamento” delle fornalizzata, bensì il “pregiudime sociali e civili del vivere.
zio” che non ostante tutto
Il mondo ebbe origine da una
continua a informare le cotrasgressione e ciò che è nascienze bempensanti. La
scosto viene alla luce, per efgrandezza tragica del fenofetto del movimento al quale
meno si dichiarava da se stesobbediscono tutte le cose. La
sa nel confronto con l’evento
città universale è circolare.
“imprevedibile” di quegli
Il segno del Padre in noi è il
anni: lo straordinario apostomovimento e il riposo.
lato di Giovanni xxiii che,
Al di sopra dell’uomo,
contemporaneamente al Conperò, tutto è immutabile procilio, avrebbe dovuto assolveprio perché non “appare”,
re e dissolvere, come ha fatto,
bensì “è”. Muta invece l’apdiffidenze e indifferenze, e
proccio dell’uomo verso ciò
perfino gli eccessi della fede.
che crede e non crede sia “al
Quelli per esempio che non
di sopra” di sé. Come parlare
consentirono al domenicano
di Dio nella tecnopoli moderPerrin di comporre liturgica- Antonio Canova, Pindaro (part.), tempera su carta a fondo nero. Possagno, na? La colloquiale fiducia che
Gipsoteca. I canti per gli atleti vincitori erano accompagnati dalla lira.
mente l’ansia umana e mistiricommetteva alla sapienza
ca di Simone Weil. «[…] Mi
divina e non all’umana quei
assilla l’idea che noi cattolici italiani di na della Cecoslovacchia. È l’agosto del problemi «che trascendono l’umana rauna certa cultura si stia asserragliati 1968; la produzione della poetessa russa, gione» (De Monarchia, 111.16) è stata
come in una rocca, poco coscienti e poco morta suicida (e anche questo è un dato sdegnosamente disconosciuta. Heidegger
curanti della nostra fede»: confessione- da sottolineare) nel 1941, è solo in par- ha una sua risposta, diversa da quella di
accusa (l’editoriale è dell’ottobre ’67) la te nota in Italia, e per lo più nei limitati Bultmann, e diverse anche tra loro sono
quale verrà ripresa continuamente, via circoli dei soliti addetti. E lo stesso fasci- le risposte di Winter, Lhemann, Maury,
via spostando il bersaglio dalla situazio- colo esibisce anche uno studio sulla cul- Cox (i nomi in questo contesto hanno vane dell’ebraismo (quella contingente e tura cecoslovacca di Raffaele Facciolà.
lore ipotetico).
quella permanente) alla politica della
Con le altre, dietro al carro di Fetoncontrapposizione dei blocchi (l’inutile
te incede l’ingegneria teologica. Anche il
primavera di Praga), al malessere della
Il Sessantotto
suo colpo d’occhio (il suo look, si potrebcomunione cristiana (i falsi profeti della
be coerentemente dire) affascina. Consimorte di Dio) e a altri argomenti.
n giorni recenti ci sono state a Roma e ste nello smontare canoni, concetti, tesi; e
Se fino al 1964, o poco oltre, gli ediin altre parti dell’Italia manifestazioni rimontarli astrattamente. La sua equitoriali davano più l’impressione del studentesche che si sono assicurate il valenza figurativa può rintracciarsi nella
commento agli accadimenti e tracciava- conforto e il plauso anche della più alta pittura picassiana del periodo cubista.
no le coordinate a inquadrare gli “abu- magistratura dello Stato. Non con al- L’assunto avventuroso di rimodellare
si” della storia e dei fatti dell’uomo, con trettante credenziali si affermò nel 1968 astrattamente l’universo, dopo averlo
l’avvento di Padre Rosito essi orientano quel movimento di studenti che venne frantumato e scomposto, confonde e madecisamente la rivista verso una omoge- storicizzato non a caso con il nome di schera l’impotenza della creazione ulteneità perfino filologica: numero dopo «contestazione giovanile». La posizione riore. È diffusa una sfiducia (o un sonumero vi circola un filo di pensiero che che allora assunse la rivista contraddis- spetto) dell’uomo sull’uomo, è stato perrisponde a una sua interna e autonoma se quella categoria entro cui si suole cir- duto il senso dell’inaspettato lungo il quaragione. Così la novità della rubrica Let- coscrivere la cattolicità e che corrispon- le prendeva corpo e ala l’immaginazione.
I
Caffè Michelangiolo
61
Fondi di caffè
I pochi che vegliano
L’
uomo contemporaneo non ha più
immaginazione, quindi non può
concepire che qualcuno conservi questa
facoltà. La morte dell’immaginazione
(e dell’immaginabile) corrisponde alla
morte di Dio. È la morte di Dio. L’immaginazione è la parte divina dell’uomo, la parte che l’uomo ha in comune
con Dio. Dio è stato abbassato a «l’Altro che sta accanto a me», ma in questa
situazione senza ritorno si spegne la
spinta in alto della trascendenza, si annulla nell’uomo la “riserva creativa”, lo
si mutila del suo strumento di “risuscitazione”. Al lavoro individuale, e
perciò misterioso, si è sostituito quello
di gruppo e di società nella pretesa che
la molteplicità abbia il potere di «esplorare più a fondo». Il demiurgo non è ulteriormente tollerato; Dio, da solo, non
può sopportare ulteriormente le responsabilità del creatore, del riconciliatore, del redentore.
Padre Rosito riesce a apparentarsi
con il suo lettore in una relazione di
amichevole collaborazione, non gli
sbarra la strada con il precetto del teologo. La sua scrittura è piana come
quella che vanta Virgilio a Dante (Purgatorio, VI.34), «foco d’amor» compirà poi i decreti immutabili. Pare quasi che debba essere il lettore a volte il
suggeritore di certi motivi. Nell’inverno
scorso, nell’antico Refettorio di Santa
Croce, dove campeggia il restaurato
Crocefisso del Cimabue, si è svolto in
più puntate un convegno sul tema della solitudine, seguito da una folla composita e attentissima. Da questo concorso è nata in Massimiliano Rosito l’idea, data la stretta parentela tra solitudine e morte, che «il 1986 potrebbe e
dovrebbe essere l’anno da dedicare al
dibattito sulla morte» poiché, com’egli
afferma nello stesso editoriale del luglio
1985, «a causa del non-sapere degli
uomini» è «indispensabile reinventare o
riproporre una cultura della morte in
senso cristiano». L’argomento era già
stato toccato in un editoriale del giugno
’73, là dove l’irreligiosità dell’uomo
contemporaneo proclama in se stessa
la morte dell’uomo. Il segno della morte è «l’orizzonte che il dì tien chiuso» di
cui dice Sordello. La vocazione della
vita è nell’oltrepassare tale segno, e per
oltrepassarlo la condizione è quella del-
62
la veglia: resistere nella luce del pensare. «In verità la massa degli uomini è
addormentata; pochi, veramente pochi, sono coloro che vegliano» (l’editoriale è dell’ottobre ’76).
«Coloro che vegliano hanno un unico cosmo in comune» (Martin Buber,
La via della comunità, V): è la rappresentazione di quella eternità che Qoèlet
rimprovera a Dio di aver messo nel
cuore dell’uomo; vegliare è la condizione per non cadere nell’oscuramento,
negazione di Dio. E nega Dio chi corre
dietro alle ricchezze e alla potenza; chi
concepisce sogni di sopraffazioni mondiali, violenze e violazione dei diritti
naturali; chi produce deserto, inquinamento, orrore; chi erige a modello la
disumanità e la barbarie (editoriale del
gennaio ’81). Al crepuscolo del secondo millennio, Padre Rosito puntualmente vuol ricordare la testimonianza
del monaco Glaber il Calvo, quando
poco prima che scadesse l’anno mille
«la carestia prese a desolare l’universo
e il genere umano fu minacciato da una
imminente distruzione».
I mostri della ragione malata
William Mulready (1786-1863), Il sonetto, olio su
tavola, cm. 36 x 31. Londra, Victoria and Albert
Museum.
Paura del compimento
P
alinuro, il più fido tra i fidi, è addormentato per effetto del ramoscello bagnato nel Lete e nello Stige, e
non perché ha ceduto alla seduzione del
dio Sonno. Il mito (prima del Palinuro
virgiliano c’era stato l’Elpenor dell’Odissea) si raccorda con la moderna
psicologia del profondo: la paura del
compimento, il panico che prende
quando si è prossimi al risultato – timore di non riuscire –.
Il montaliano pianto del bambino a
cui fugge il pallone fra le case è trascorso rapporto con la morte. L’innocenza
del fanciullo consiste nel “sapere” nell’inconscio. Le sue reazioni sono metaforiche. Il riso e il pianto del bambino segnalano i due punti estremi della vicenda, stabiliscono il limite del mistero il
quale non è avanti oppure dopo, bensì
proprio fra i due estremi. Il pianto della
nascita prefigura la ripetizione del dolore; il riso è preannuncio della morte. Beatrice (la grazia, la vita “oltre”, la promessa esaudita) «tu la vedrai […] ridere e felice» dichiara Virgilio volgendosi a
Dante (Purgatorio, VI.46 e seguenti).
Q
uesta volta la carestia è nel cuore
degli uomini, è mancanza di carità; le cosiddette guerre stellari e i
Rambo sguinzagliati dalle cupidigie
yankee e neotartare incombono sul genere umano, minacciosi. Eppure non di
loro sarà l’universo. Essi sono già nel
sonno e nel sogno (sogno è quanto vediamo dormendo – stabilisce Eraclito,
frammento A. 32 –; morte è quanto
vediamo da svegli: e morte è per Eraclito la nascita, interviene Clemente
Alessandrino, Stromata 3.21). «El
sueño […] produce monstruos» suona
la celebre epigrafe di Goya a una sua
acquaforte. Nel sonno della Ragione si
consuma il sogno euforico della devastazione totale. L’universo apparterrà
ai “pochi” che vegliano; converrà ai
miti che si contrappongono agli stolti,
agli iniqui, agli assassini; sarà dell’uomo illuminato dalla medesima innocenza del fanciullo, che avrà “compreso” «l’opera compiuta da Dio dal principio alla fine» (Qoèlet, 3.11). E sarà
anche di coloro che «cercano Dio in
punta di piedi, senza magari vederlo»,
conclude Padre Rosito; il Dio ricapitolatore della verità, quella visibile e
quella invisibile.
Editoriali puntuali all’appuntamento
con i fatti dell’uomo, repertorio dell’ultimo quarantennio della nostra sorte.
Caffè Michelangiolo
Fondi di caffè
Dovremmo sfogliarli qualche volta, così
come qualche volta dovremmo confessarci con il nostro passato: ritroveremmo
i profumi perduti della conoscenza (Seconda lettera ai Corinzi, 2.14-15) e forse saremmo ancora in tempo a comunicarci con l’innocenza della nostra fanciullezza, preservandoci dalla contaminazione del nostro tempo.
Contro l’ambiguità della parola
L’
uomo dei nostri giorni non è più se
stesso; si avvia, conscio o non, verso il comune inutile destino di dannazione (editoriale del dicembre 1979).
Intanto ferve la discussione perché tutto rientri nel disordine consueto, si agitano cambiamenti totali per rassicurare che tutto rimanga come dovrà continuare a essere. Così le parole più non
hanno la forza e il peso del vero.
E oggi più di sempre la parola è ambigua, oggi la parola ha assunto una valenza corporativa, oggi la parola insinua un senso di complicità e trasmette
avvertimenti ricattatori. Viviamo l’epoca della grande ipocrisia, del mea culpa
che ognuno è prontissimo a battere sul
petto altrui, dello scaricabarile generale
di responsabilità grandi e piccole. La
nave affonda, però tutti sono presi dalla frenesia del ballo sul ponte mentre
c’è chi continua a rubare in cambusa.
Il filo, di cui Arianna provvide l’eroe
per consentirgli di riuscire dal labirinto, era quello che univa i danzatori perché tenessero il ritmo. È, il ritmo, l’equilibrio supremo che gravita sullo
squilibrio e sul caos. Per la poetessa
Edith Louise Sitwell, è l’elemento di
passaggio fra sogno e realtà; per Léopold Sédar Senghor, è il corto circuito
poetico che trasforma la parola in verbo; per Johann Wolfgang von Goethe, è
il magico capace di farci sentire che il
sublime ci appartiene. È attenzione e
tensione verso qualcosa che si approssima con la progressione del nostro movimento e costantemente stiamo per
toccare, per avere.
Futuro trascendente
come speranza ineludibile
I
l filo di pensiero, che numero per numero circola in “Città di Vita” e ri-
Caffè Michelangiolo
Angelo Poliziano, Firenze, Biblioteca Medicea
Laurenziana.
sponde a una interna e autonoma ragione, conduce non verso l’esterno,
bensì verso l’interno in una visione al
fondo della quale il tempo del “non sapere” deve pur avere soluzione. Non
soltanto perché questo è il presupposto
dell’impianto occulto di pensiero che
regge la nostra civiltà, ma prima di tutto perché quel filo di pensiero è nello
stesso tempo filo continuo di fede.
«Certo, se la morte fosse l’ultima
parola per la vita dell’uomo, questo
evento significherebbe la più grave
sconfitta per la vita stessa di Dio, poiché Dio defrauderebbe l’uomo della sua
aspirazione naturale a non morire, ossia a vivere sempre» (editoriale dell’agosto ’85). La paura della morte è il
male che affanna più di sempre questa
umanità, contemporanea dei progetti
di distruzione planetaria allestiti da lei
stessa. L’immagine fisica della paura,
nella vita inferiore, è l’arresto del respiro (principio della vita, esso stabilisce la connessione con il tutto). La paura della morte metafisica, nella vita superiore, ha per immagine psichica l’angoscia (angoscia, angusto, angustiae,
angina derivano dalla medesima radice). Il segno distintivo del mondo contemporaneo è l’angoscia, spia del sentimento di una assenza di vita e della
paura della solitudine, rovescio della
volontà di totalità.
L’Adamo dinamizzato che ha smarrito il presentimento del proprio futuro
ricaccia l’argomento di Pascal, ispirato
al più tremendo dubbio, secondo il
quale si deve ammettere il modello assoluto anche se non si sappia se esso
esista o meno, perché soltanto in questo
modo si è certi di non commettere errori contro di esso, se esiste (Pensées
2.17,107).
Essere pronti alla controversia delle
esperienze, questo è “Città di Vita”, ma
badando bene di non contrapporre cultura a natura, bensì di farne un «culto
interiore» e un’offerta nella suprema
consapevolezza del suo assoluto trascendente che sorpassa il singolo. Se
Dio non è, allora non “esiste” neppure
la nostra vita; non avrebbe senso la cultura, somma delle proiezioni delle vite
dei popoli. Ma Dio deve esistere perché noi si esista. La fede in Dio è anche
la più alta fede in sé.
■
Bagno a Ripoli, l’Apparita
Novembre 1985
Livre des saints apostres et des saints martirs et
confessors et des saintes vierges et de la nativité
de nôtre dame sainte Marie , inizio sec. XIV.
Modena, Biblioteca Estense, Ms alfa. T.4.14,
c. 128r; particolare.
NOTA
Questo scritto fu pubblicato in “Città di Vita”
anno XL, n. 6, novembre-dicembre 1985, per i
quarant’anni della rivista.
63
LETTURE
di Danilo Breschi, Milva Maria Cappellini, Giovanna Fozzer,
Elena Frontaloni, Dante Maffia, Sandro Melani, Elena Peccia,
Leandro Piantini, Eda Siechi Cocchi, Monica Venturini
Casorati, Ragazza che legge.
Fragonars, Ragazza che legge.
Sherlock l’Americano
S
e la “sherlockite” è una malattia, si
tratta di una sindrome molto particolare, in quanto è del tutto benigna, se
non addirittura salutare, e si presenta
come una forma di pandemia il cui picco di contagiosità non accenna ad abbassarsi né col mutamento delle stagioni né col passare degli anni. Proprio
nello scorso mese di giugno Pesaro ha
dedicato una giornata di studi a “Sherlock Holmes nel paese dei media”, del
cui comitato scientifico, non a caso denominato “Il segno dei quattro”, ha
fatto parte Alessandra Calanchi, alla
cui lunga frequentazione di Holmes e
del dottor Watson si devono, oltre a numerosi interventi apparsi in volume e
su rivista, 221B Baker Street. Sei ritratti di Sherlock Holmes (Marsilio,
2001) e questo recentissimo Sherlock
Holmes in America. La raccolta di saggi curata da Alessandra Calanchi non
mira a definire i contorni del tipo di
maschilità tardo-vittoriana offerto da
Holmes e da lei ben messo in luce in altra sede, ovvero quello strano miscuglio
di attributi degni di un vero uomo
(gentlemanliness, rigorosa razionalità,
dinamismo vitale e glaciale imperturbabilità) e di improvvisi e sorprendenti scarti dalla normatività (femminei
languori, tentazioni estetizzanti, palesi
eccentricità) che, sostenuti dalla sua
persistente misoginia, sull’omosocialità
implicita nella sua seppur saltuaria
convivenza con Watson hanno gettato il
sospetto se non di pratiche almeno di
latenti impulsi omosessuali nei confronti di Watson o dei giovani “irregulars” di Baker Street che di tanto in
tanto fanno a vario titolo capolino durante lo svolgimento delle sue indagini.
Sherlock Holmes, dunque, questa
volta viene affrontato da una duplice e
più specifica angolazione, da una parte quella degli influssi che la cultura
americana ha esercitato sul suo artefice – tra i quali la curatrice riconosce,
con grande disappunto di Holmes,
l’Auguste Dupin di Edgar Allan Poe,
64
A MARIO DOMENICHELLI
il Premio Corrado Alvaro 2006
Dopo essere stato finalista l’anno
scorso al Viareggio Opera Prima, Mario
Domenichelli, con il romanzo Lugemalé, edito dalla Polistampa di Mauro
Pagliai, ha vinto quest’anno la Sesta
edizione del Premio Nazionale Corrado
Alvaro per l’Opera Prima.
Gli altri vincitori sono: per la narrativa, Giulio Angioni con Le fiamme di
Toledo (Sellerio); per la saggistica, Mario Geymonat con Il grande Archimede
(Teti), per il giornalismo, Giorgio Boatti con La terra trema (Mondadori).
Il Premio Internazionale Corrado
Alvaro 2006 è stato assegnato a Claudio Magris per l’insieme della sua opera di scrittore.
Per le tesi di laurea sull’Autore calabrese sono state premiate Sara Strati
(Università di Firenze) e Nicla Giliberti (Università di Bari).
La cerimonia di premiazione, a San
Luca (Reggio Calabria), patria di Corrado Alvaro, il 10 novembre 2006.
Jack London e, per la definizione dei
concetti di deduzione, induzione e abduzione che stanno alla base della sua
metodologia investigativa, Charles Sanders Peirce – dall’altra quella del segno
che la doppia creazione di Conan Doyle ha lasciato su di essa a partire dalla
pubblicazione di A Study in Scarlet sul
“Beeton’s Christmas Annual” del 1887.
Ben prima della fine del secolo gli Stati Uniti, al pari della Gran Bretagna,
avrebbero dato prova dell’intensità della loro infatuazione per il celebre detective e il 1933 avrebbe assistito alla
nascita della prima associazione americana di suoi ammiratori, “The Baker
Street Irregulars”, fondata da Christopher Morley. L’esito finale di un innamoramento destinato a non rimanere confinato al mondo anglosassone ma
ad allargarsi a macchia d’olio sull’intero globo terrestre non poteva essere che
“The Game”, «la finzione che Holmes
sia non una creatura letteraria, ma un
personaggio veramente esistito, che abbia lasciato numerosi manoscritti inediti, e che abbia affidato la pubblicazione di quelli resi pubblici a un certo
‘Conan Doyle’ che sarebbe al massimo
lo pseudonimo di Watson» (pp. 8-9).
È proprio “The Game”a spiegare perché tutti i testi che si vengono ad aggiungere ai cinquantasei racconti e ai
quattro romanzi del canone dagli “holmesiani” o “sherlockiani” che dir si voglia vengano considerati non pastiches
ma veri e propri apocrifi che vengono
oggi presi in esame «anche in riferimento alla caduta postmoderna dei
confini canonici fra letteratura alta e
letteratura di massa, all’apporto metodologico dei cultural studies, e all’intervento di quel grande movimento rivitalizzante che è […] la riscrittura»
(p. 19).
Tra i primi due interventi – Nasce
un mito: i Baker Street Irregulars di
Michael F. Whelan, che traccia la storia
della società di cui è oggi presidente, e
Fisiopatologia del Grande Gioco di Enrico Solito, che illustra le regole costitutive del “Game” – e gli ultimi due –
Caffè Michelangiolo
Letture
Sherlock Holmes al cinema di Sergio
Lama, che ripercorre le sue apparizioni sullo schermo dal periodo del muto
fino ai giorni nostri, e Omaggio a Billy
Wilder di Cinzia Bastiani, interamente
dedicato a uno dei suoi capolavori, The
Private Life of Sherlock Holmes, realizzato nel 1970 – si situano i contributi
di natura più specificamente letteraria.
Cosa ha mai a che fare Sherlock Holmes con i pulp? di Pasquale Pede propone l’interessante ipotesi che «il punto di vista americano ha avuto bisogno
di Sherlock Holmes per creare non solo
Philo Vance, ma anche Philip Marlowe» (p. 50) e, sulla base della distinzione psicanalitica tra l’ocnofilia di chi
ha orrore del vuoto e il filobatismo di
chi invece vi si sente a suo agio, individua due diverse correnti nel giallo statunitense, la prima epitomizzata dal
Nero Wolfe di Stout, l’altra dalla hardboiled school di Hammett e Chandler.
Il segno dei quattro. Sherlock Holmes e
gli umoristi americani, 1897-1907 di
Salvo Marano e Apocrifi canadesi di
Alessandro Gebbia esaminano poi con
grande puntualità il primo le parodie e
i burlesque di cui è stato vittima Holmes per opera di John Kendrick Bangs,
Bret Harte, Mark Twain e O. Henry e il
secondo il rapporto che il Canada ha
intrattenuto con i testi canonici di Doyle fino al momento del “Rinascimento
canadese” e dell’avvento del postmoderno, che ha infuso nuovo vigore nella pratica dell’apocrifo. Alla luce delle
aperture, stavolta critiche, offerte del
postmoderno in Che cosa è veramente
successo a Bly? Avventure intertestuali tra Henry James e Sherlock Holmes
sono improntate anche le acute riflessioni di Giovanna Mochi su un provocatorio saggio di Eric Solomon, risalente all’ormai lontano 1963, che si immetteva nell’annosa querelle sul Turn
of the Screw avanzando l’ipotesi decisamente holmesiana che alla radice della storia non stesse né un intervento
del soprannaturale né la nevrosi di matrice sessuale dell’istitutrice, ma semplicemente la mano assassina della governante. L’ipotesi di Solomon deve essere respinta da parte del Lettore Modello ipotizzato da Eco in Lector in fabula, o si deve invece supporre che
dopo che «la ventata decostruzionista e
post-strutturalista ha messo in discussione i confini tra letteratura alta e basCaffè Michelangiolo
sa, tra i generi e le tipologie, tra letture, scritture o riscritture legittime, legittimabili o aberranti» (p. 127) esso
sia diverso? Tra letteratura, cinema e
gioco, tra studi sul canone e riscritture
più o meno ironiche, Sherlock Holmes
si rifiuta di morire, esaudendo l’augurio
di lunga vita che in L’alchimia della
scrittura gli porge Ornella De Zordo,
che ce lo ripresenta nascosto dietro la
serie di divertenti omofonie iniziata
poco dopo la sua nascita (Sherlaw
Kombs, Picklock Holes, Oilock Combs,
Hemlock Jones, Shamrock Womlbs,
Schlock Homes e “Shire Luck” Alms),
oppure, da vero eroe postmoderno, alle
prese con personaggi storici (Hitler,
Marx, i passeggeri del Titanic, Churchill, Roosevelt, Wilde e Freud) o fittizi (Dracula, il dottor Jekyll), ogni volta a conferma della sua entrata nell’atemporalità del mito.
Sandro Melani
Alessandra Calanchi (a cura di)
Sherlock Holmes in America
Delos Books, Milano 2005
pp. 208. € 14,99
Tragedia: teoria e pratica
I
l più recente saggio di Paolo Zoboli,
Sbarbaro e i tragici greci (Vita e Pensiero, 2005), ha alle spalle un’accurata
indagine sulle tipologie e teorie della
traduzione apparse in Italia fra l’inizio
del XX secolo e il 1960. Con La rinascita della tragedia. Le versioni dei tragici greci da d’Annunzio a Pasolini
(2004), l’autore ha deciso di pubblicare in volume autonomo i risultati di
questa sua ricerca preliminare, fornendo al pubblico degli studiosi e dei cultori dell’argomento un ottimo esempio
di come si possa versare, in un testo
insieme avvincente e utile, il lavoro di
schedatura e ricerca bibliografica ad
ampio raggio finalizzato alla stesura di
una monografia. C’è di più: col suo saggio, Zoboli è riuscito a colmare molti
vuoti bibliografici, unendo una spigliata analisi critica ai dati forniti nel Regesto bibliografico delle versioni dei
tragici greci, che occupa la terza ed ultima sezione del libro e che sarà strumento d’ora innanzi prezioso per chi
s’accosterà al problema della traduzione dei classici nel Novecento. Ai primi
due capitoli è appunto affidato il compito di svolgere discorsivamente e contestualizzare i dati acquisiti, facendoli
interagire con una’agile padronanza
degli studi pregressi. Il tutto all’interno
di un percorso cronologico che si dirama in due direzioni fondamentali: Traduttori e traduzioni (dove sono appunto prese in esame le varie versioni effettuate tra d’Annunzio e Pasolini) e
Tra teoria e pratica (dove s’affronta,
sempre in prospettiva diacronica, l’asprissimo problema del rapporto tra
teoria della traduzione e azione concreta del tradurre). D’Annunzio e Pasolini non rappresentano solo i confini
cronologici del lavoro, ma segnano le
due principali svolte in seno al problema generale: se la reazione agli auspici del Vate sarà una rinascita della tragedia greca «non tanto dal teatro di
poesia, quanto piuttosto da numerosissime traduzioni di Eschilo, Sofocle e
Euripide» (p. 7), con la messa in scena
dell’Orestiade pasoliniana (1960) s’aprirà un periodo in cui «le traduzioni
degli accademici cederanno lentamente il passo […] a quelle dei poeti “nuovi” o “novissimi” e, infine, a quelle degli uomini di teatro» (p. 8).
Nella prima sezione del volume, Zoboli svolge con disinvoltura l’oltremodo
frequentato e nei fatti tortuoso rapporto di d’Annunzio con Nietzsche, con lo
spettro di Wagner e con lo Schopen-
65
Letture
hauer incontrato grazie ad Angelo Conti. Contrapponendo alle mitologie nordiche il ritorno ad un’attualizzata antichità mediterranea, d’Annunzio dirige
gli interessi e forma il gusto di un’epoca, che finisce per cercare soluzioni alternative agli endecasillabi con cui, nell’Ottocento, Felice Bellotti aveva tradotto integralmente i tragici. Propaggine del sogno dannunziano è la versione
di Sofocle approntata da Nicola Festa e
Hilda Montesi, che dichiarerà di aver
riletto l’Antigone proprio sotto la fascinazione de La città morta. In Italia,
del resto, è il Nietzsche filtrato da d’Annunzio a decidere la scarsa attenzione
nei riguardi di Euripide. Se, infatti,
«nell’Ottocento, all’Eschilo – parziale –
del Niccolini e al Sofocle di Angelelli si
aggiungevano ben due versioni di Euripide ad opera di Zucconi e De Spuches» (p. 36), nella prima metà del Novecento si può leggere il terzo tragico
solo nell’antologia in prosa di Amoroso
e nelle versioni di Faggella: «la condanna nietzschiana […] non era stata
pronunciata invano: sotto la Porta dei
Leoni d’Annunzio aveva riletto Eschilo
e Sofocle» (p. 36). L’interesse per i tragici è del resto fomentato dalla comparsa di edizioni economiche e di numerose collane, che testimoniano un
moltiplicarsi dei nomi dei traduttori e,
dunque, un visibile mutamento rispetto al panorama ottocentesco, occupato
quasi esclusivamente dal Bellotti. Accanto all’unica opera di traduzione integrale, quella curata da Romagnoli per
Zanichelli, vedranno la luce molte edizioni singole, fra cui ben ventisette versioni del Prometeo eschileo, che Zoboli elegge giustamente a «tragedia simbolo della prima metà del Novecento»
(p. 40).
È la polemica tra Croce e Gentile
sul tradurre ad inaugurare il secondo
capitolo, che ne segue gli svolgimenti,
rivelando la lunga persistenza delle due
opposte teorie nelle riflessioni novecentesche sul problema. Zoboli confronta
altresì le prospettive indicate in sede
teorica con i problemi denunciati dai
traduttori nelle prefazioni alle loro opere. Qui, la questione della fedeltà al testo originale si complica con il dilemma
fra traduzione in versi e traduzione in
prosa. La eco di tali questioni giungerà
fino agli anni Settanta, quando Filippo
Maria Pontani sente l’esigenza di moti-
66
vare l’utilizzo del verso e definisce il
suo lavoro nell’ambito di un’«approssimazione asintotica all’originale»
(p. 137). Esemplare e insieme eccezionale rispetto al panorama dei quegli
anni, la figura di Pontani, «che ripropone, dopo più di mezzo secolo, una
figura di filologo e di traduttore non
troppo dissimile, per alcuni aspetti, da
quella del vecchio “esegeta” Romagnoli, dopo che il poeta Pasolini – sull’altro
versante – aveva portato alle estreme
conseguenze le promesse “teatrali” del
filologo Valgimigli» (p. 137).
Fra i molti nomi attivi nella prima
metà del Novecento, spiccano appunto
quelli di Ettore Romagnoli e Manara
Valgimigli, che uniscono alle loro traduzioni una riflessione teorica dialogante – spesso in via polemica – con le
voci di Croce e Gentile. Zoboli discute
approfonditamente le rispettive posizioni, riconoscendo nella proposta di
Valgimigli il punto di fuga per le innovazioni dei poeti-traduttori. A differenza di Romagnoli, che affida al traduttore «il compito titanico e disperato
[…] di contrastare “a passo passo l’opera demolitrice degli anni”» (p. 120),
Valgimigli afferma: «non siamo noi che,
ritornando indietro, dobbiamo andare
da Eschilo, è Eschilo che viene fino a
noi» (p. 120). Dall’estremizzazione delle ultime idee valgimigliane nasce così
l’esperimento di Pasolini. La lezione
thomsoniana sottesa all’Orestiade, il
rapportasi dell’autore con un pubblico
concreto, con una precisa realtà storicosociale, e la sempre più accentuata propensione a misurare la validità di una
traduzione in base alla sua destinazione teatrale sigleranno definitivamente
l’uscita dallo schema primo novecentesco, dai veti di Nietzsche e dall’astrazione wagneriana e dannunziana del
pubblico-popolo o moltitudine: non a
caso, Euripide sarà d’ora in poi vistosamente riammesso sulle scene del teatro di Siracusa.
Elena Frontaloni
Paolo Zoboli
La rinascita della tragedia.
Le versioni dei tragici greci
da d’Annunzio a Pasolini
Pensa MultiMedia, Lecce 2005
pp. 216. € 15,00
Andature classiche
Q
uesto libro è un’antologia di passi di
Saffo tradotti con tocco lieve e magistrale, in una sorta di osmosi da poeta
a poeta. Preziosi i saggi e le note della
curatrice: non c’era finora in italiano un
commento così profondo e ricco d’una
cultura peculiare amplissima, condotto
in un esercizio vigoroso e libero del pensiero, dalle risultanze affascinanti; capace di portarci per vie – le più incantevoli e nobili – della riflessione anche sul
sacro e sul religioso.
Rosita Copioli non cessa di stupirci
con la mole del suo lavoro d’intellettuale appassionata, con le molteplici dimensioni nelle quali si muove l’irrequieta (o insaziabile?) potenza della sua
ricerca. È ancora recente il poderoso lavoro da lei ideato e curato su Gli Agolanti e il castello di Riccione (2003),
dello scorso anno è l’altro grosso lavoro
su Goethe, prima traduzione italiana integrale de Gli anni di viaggio di Wilhelm
Meister o i Rinuncianti (2005), ed ora
abbiamo davanti i mirabili risultati della sua traduzione e cura della poesia di
Saffo, che Platone chiamò “Decima
Musa”: in questo lavoro si condensano
anni di studio finissimo e di attenzione.
Il volumetto è bello a cominciare dai
colori della raffinata e nitida copertina
con la Kore dell’Acropoli di Atene. Lo è
ancor più per la calibrata ricchezza delle sezioni che lo compongono, a cominciare dalla prefazione di Giuseppe Conte per seguitare con la nota introduttiva
della stessa Rosita Copioli: in essa, con
delicatezza pari alla precisione, la curatrice soppesa il poco noto della storia
di Saffo e ne dipana i nodi, mentre percorre i millenni di considerazione che
l’umanità le ha riservato. Segue, con testo a fronte, la traduzione, trepida sicura audace, corredata da un vasto Commento che cura molteplici aspetti, da
quello storico-filologico e metrico ad
ogni altro (non conoscevamo finora un
apparato italiano a Saffo paragonabile
anche lontanamente a questo): ogni altro aspetto che coinvolga, affascini e
“provochi” la sensibilità di poeta, ma
anche di conoscitrice della poesia, delle
religioni e delle filosofie e di tanto altro,
insomma la straordinaria mobile sfaccettata cultura di Copioli.
Il Commento (pp. 81-129) ai cinquantatré testi, dai molti riferimenti di
Caffè Michelangiolo
Letture
raffinata dottrina, costituisce già in sé
una lettura speciale, consentendo di gustare le agili movenze dell’intuizione
dell’autrice, la mobilità – grazia e sprezzatura, ma anche vivida spiritualità (nel
suo alto sentire la coincidentia oppositorum o il divino) – del suo addentrarsi negli argomenti. Si veda come la studiosa ripercorre i passi dei testi socratico-platonici, cogliendovi e illuminando
i riferimenti a Saffo. Mirabile l’itinerario tra questi e molti altri autori nella ricerca sulla “vera” figura di Elena, del
suo rapporto con Afrodite e le altre divinità, nel commento (pp. 92-102) al
frammento 4 (16): dai Poemi omerici ai
Cypria, dai Tragici al Rgveda e a Lucrezio, per fare solo qualche cenno agli
autori antichi. Copioli è da sempre affascinata dalla figura di Elena, su cui ha
scritto con profondità a più riprese, ad
esempio ne I giardini dei popoli sotto le
onde (Guanda 1991) e nel dramma Elena (Guanda 1996).
Si veda poi la scheda critica (pp.
121-126) al frammento 46 (16 Fr.
Inc.): tre versi, che suggeriscono alla
poetessa riminese un prodigioso dispiegarsi d’interpretazioni delle danze cretesi, di raffronti: da Omero alla lamina
orfica II B 1 di Thurii e a molti altri, cui
la rende familiare la sua ricerca vibratile
e appassionata. Ne riportiamo una delle riflessioni conclusive: «Nei versi di
Saffo la danza ha questo senso originario: con tutto il corpo riproduce il sacro
e il divino della vita, come Omero ha
narrato per miti. Quando i Greci pensarono che Saffo osò il salto da Leucade, videro la figura estrema della danza
accompagnata dal canto: l’acrobazia
spirituale che rovescia il verso da morte a vita: la conversione che merita la
corona di Arianna, il suo filo per il ritorno».
Le acque gelide della Memoria è il
titolo del saggio che chiude il libro: la
sua voce non potrebbe essere più diretta, potremmo dire dell’autrice, parafrasando ciò che ella in apertura dice
di Saffo. E ancora: «Le sue parole abitano uno spazio fisico. Appartengono
alla fisiologia del corpo umano, all’esperienza delle forme della realtà e della natura, delle manifestazioni del cosmo, dei cicli delle stagioni». Sono, scrive ancora Copioli, «parole-simbolo, parole-cosmi che mettono insieme il visibile con l’invisibile: uniscono due metà
Caffè Michelangiolo
che sono forze opposte in movimento, e
generano senza fine figure, gesti e altre
immagini: immagini che riflettono un
ordine astrale, immagini del reale rispecchiate all’infinito. La fisiologia che
descrivono con tanta naturalezza è una
simbologia molto più ricca e complessa
di quanto avremmo immaginato: il linguaggio di un cosmo che non sappiamo
Saffo (?), sec. I d.C.; affresco: particolare. Napoli,
Museo Archeologico, da Pompei.
più decifrare». Fin dalla lettura della
prima pagina del saggio veniamo così
immersi nel limpido fascino che emana
dalla scrittura dell’autrice, nella ricchezza lineare e audace dei suoi percorsi interiori, che muovono sulle tracce della presenza di Saffo nella letteratura classica, partendo dal ricordo di lei
nel Fedro platonico. Insieme ad Anacreonte “il saggio”, Socrate, invasato
dalle Ninfe dell’Ilisso, nomina Saffo “la
bella” tra gli scrittori antichi che hanno parlato degli dei nel solo modo consentito, senza macchiarsi di colpa nei
Giovane con pergamena, 55-79 d.C., intonaco
dipinto, 42 x 41 cm. Napoli, Museo Archeologico
Nazionale.
loro confronti: per miti, per simboli.
Il discorso per miti di Saffo, “dimenticato” da Socrate in ciò che ha esposto
nel suo primo intervento, è – scrive Copioli – un discorso arcaico. Pensiero
tanto potente da vincere anche oggi,
imponendo la purificazione per non
averlo riconosciuto; impone la palinodia, costringe al riconoscimento delle
origini, perché è vero, è Alétheia. Platone non lascia alcun cenno al caso,
continua la scrittrice riminese: «Alludendo a Saffo nel luogo più elevato della sua teoria dell’Eros, la via mistica
più alta che i Greci hanno conosciuto
nel cercare e nel toccare Dio, Platone ci
suggerisce il giusto modo di leggere
quella lirica che ci pare così “soggettiva”». Dovremo quindi vedere il percorso di Saffo affine a quello che Socrate segue dal Simposio al Fedro: nel
Fedro Eros diventa il delirio filosofico
che porta l’anima a contemplare, sulla
terra, le forme assolute dell’Essere. L’analisi di Rosita Copioli prosegue precisa e appassionata nell’aprire visuali
nuove e profonde, inoltrandosi in terreni che forse il filologo “puro” troverebbe scivolosi, o a sé estranei. Madre
delle Muse, la Memoria (è scritto nelle
lamine orfiche calabresi) ha un’acqua
gelida. «Dal più profondo la alimenta
la corrente perenne di Oceano che nutre la vita. Quest’acqua gelida scorre
nella poesia, nella musica, nella danza.
La poesia è un’arte fredda. L’impulso
di Eros che la sospinge è caldo […]».
Saffo insegnando l’arte delle Muse, guidando a Mnemosyne, trasmette il sapere più vicino alla filosofia che è la più
alta delle arti delle Muse, che è discernimento, purificazione, come Socrate
dice nel Fedone, alle soglie della morte.
Continua Copioli: «Durante il processo
della perfezione dove il sacro arriva a
manifestarsi nella bellezza, Saffo conia
un concetto, un’espressione che indica
la bellezza perfetta di Chàris: essa si
manifesta in un essere umano, in chi
esiste al grado più alto, e in sé merita la
corona che un tempo cingeva la perfetta vittima del sacrificio: colma di perfezione, come un vaso fino all’orlo».
Nessun poeta ebbe una fama ininterrotta come Saffo, fino all’epoca romantica. E Saffo è l’unico poeta in cui
Leopardi si sia direttamente proiettato: nel 1822 le dedicò un canto dove si
identificava in lei attraverso il mito pi-
67
Letture
tagorico e la farsa dei poeti comici intorno al salto di Leucade. Il saggio di
Rosita Copioli si chiude sulle pagine
dello Zibaldone 3443-46 (dell’anno
successivo alla composizione dell’ Ultimo canto) in cui sono le riflessioni mirabili sullo spavento della bellezza, in
cui Leopardi rende centrale lo spavento del desiderio nella sua vita, e inoltre
3494-95 e 3544-45, cui si intrecciano le
conclusioni – anch’esse mirabili – dell’autrice di questo libro commovente,
nuovo e vivo: che vorremmo diventasse
di testo nei licei classici, se alla cultura
classica, alle nostre radici, la scuola italiana ritornasse infine, dopo tante tempeste e confusi vagabondaggi su piste
false.
riferimenti classici si combinano senza
che la realtà venga mai completamente sostituita dalla visione; assistiamo
piuttosto al verificarsi di un graduale
processo di interiorizzazione della
realtà, fin nei più quotidiani e minimi
dettagli.
Un certo realismo cristiano, un’attenzione particolare ai momenti epifanici della realtà più concreta (pensiamo
ai numerosi animali che compaiono in
queste poesie, dalle oche all’uccellino
accecato, al colombo e alla gatta) di
memoria pascoliano-crepuscolare e un
ripetuto esercizio all’ascolto caratterizzano il linguaggio attentamente calibrato di questa raccolta poetica. Colpisce, infatti, trovare nella sezione Soliloqui una poesia intitolata (pascoliana) e
nella poesia successiva, in stretto rapporto con quella, una definizione così
puntuale e illuminante della realtà:
Giovanna Fozzer
Saffo
Più oro dell’or
traduzione e cura di Rosita Copioli
prefazione di Giuseppe Conte
Edizioni Medusa, 2006
pp. 150. € 15,00
La resistenza delle parole
P
oeta e drammaturgo, Sauro Albisani affianca da tempo l’attività teatrale a quelle di docente di letteratura e
storia e di traduttore. Ha curato la pubblicazione delle raccolte poetiche Poesia del sabato e Confessioni minori di
Carlo Betocchi, del quale è stato amico
e discepolo, divenendo poi, recentemente, presidente del Centro di Studi e
Ricerche dedicato al poeta. In ambito
teatrale ha avuto lo stesso rapporto di
scambio e ammirazione con il regista
Orazio Costa Giovangigli, con il quale
ha lavorato nel ruolo di assistente alla
regia.
A partire dagli anni Ottanta ha partecipato a numerose manifestazioni poetiche e ha cominciato a pubblicare poesie su alcune riviste, tra le quali “Alfabeta”, “Paragone”, “Nuovi Argomenti”, “Braci”, “Prato pagano”, ecc. A
questi anni risalgono anche le sue prime
opere di traduzione, tra le quali ricordiamo Europa di Gyula Illyès1, Lucifero di Mihai Eminescu2 e la versione in
endecasillabi del Vangelo secondo Gio-
68
vanni3. Albisani ha scritto, inoltre, tra la
fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta molti drammi tra cui possiamo
citare Campo del sangue4, Perché il volo
cominci5 e il più recente Il roveto ardente6; tra le opere di poesia ricordiamo
All’uomo nuovo7 e Poeti nel tempo del
Giubileo8.
Terra e cenere, divisa in sei sezioni di
diversa ampiezza, facendo riferimento
fin dal titolo alle Confessioni di Sant’Agostino, si presenta al lettore come un’opera che coniuga in sé tensione religiosa, memoria classica e sentimento tragico. Come scrive Luigi Baldacci, «è con
Betocchi che Sauro ha imparato ad essere poeta cristiano da poeta perfettamente classico e classicista qual era all’origine. Cristiano vuol dire arrendersi,
aprirsi a una comprensione totale per
essere compresi, assorbiti; identificarsi
in qualcosa che non siamo: “terram et
cinerem”»9.
Emerge così da questi testi elaborati negli anni e disposti secondo un disegno basato sulla continuità la lezione
betocchiana, non come modello esterno
di riferimento, ma come interna corrispondenza, comunanza di intenti e linguaggio. La tensione religiosa diventa
tensione verso la realtà, tentativo di accettarne anche gli aspetti più tragici:
l’inesorabile trascorrere del tempo, il
silenzio distante dei giovani volti degli
studenti nell’aula, le “scene di caccia”
della vita e i “soliloqui” che ognuno
porta dentro di sé. Il tono diaristico e i
Viene l’inverno, e taci, nella corte.
Che cosa vedono le tue pupille,
gracola religiosa? La realtà
immobile nell’attimo aurorale,
in quel crepuscolo immemorabile
del nuovo oriente. Ora immacolata
del primo ingresso nella prima brezza
di primavera, quando ogni creatura
visse la meraviglia del principio,
senza saperlo conobbe l’esistere
madido ancora del parto, rapito
al nulla, intatto, come sotto il mallo
il gheriglio della luce.
Tu custodisci questa icona
nella pupilla che segue i miei passi10.
Il sentimento religioso diventa in
queste poesie motivo di una profonda
tensione verso la realtà e da sentimento
privato si trasforma in passione condivisa, attraverso il pathos e la misura,
che solo la maturità raggiunta può far
coesistere.
Monica Venturini
NOTE
G. Illyès, Europa, Marsilio, 1986.
M. Eminescu, Lucifero, Scheiwiller, 1989.
3 S. Albisani, Vangelo secondo Giovanni, Edizioni Polistampa, 1994.
4 S. Albisani, Campo del sangue, Vallecchi,
Firenze, 1987.
5 S. Albisani, Perché il volo cominci, Edizioni
Polistampa, 2001.
6 S. Albisani, Il roveto ardente, Edizioni Feria,
2004.
1
2
Caffè Michelangiolo
Letture
7 S. Albisani, All’uomo nuovo, Pananti, Firenze, 1993.
8 S. Albisani, Poeti nel tempo del Giubileo,
Paideia, Firenze, 2000.
9 L. Baldacci, Per Sauro Albisani in S. Albisani, Terra e cenere, Il Labirinto, Roma 2002,
p. 125.
10 S. Albisani, Terra e cenere, cit., p. 71.
Sauro Albisani
Terra e cenere
Il Labirinto, Roma 2002
pp. 132. € 12,40
I migliori anni del fare cultura
T
anto è stato detto sulla casa editrice Einaudi, le sue pubblicazioni, la
sua vicenda travagliata, i suoi collaboratori, eppure Ernesto Ferrero riesce
ancora a raccontare quel “qualcosa” in
più. Ci spalanca le porte dell’ufficio di
via Biancamano a Torino e con delicata
maestria ci svela i segreti di questo inimitabile gruppo di compagni di lavoro,
che bonariamente l’autore chiama “monastero”1 o più semplicemente “famiglia”2.
Nei lunghi anni passati a lavorare
per la casa editrice Ferrero sembra non
aver mai smesso di osservare, racchiudere nella memoria meravigliosi quadretti di vita da affidare alle pagine di
un libro. Ed è facile immaginarlo, come
lui stesso si descrive, spettatore “del teatrino del mercoledì”3, le famose riunioni editoriali. L’autore offre realistici ritratti di uomini e donne: pochi tratti ed
ecco emergere la severità disperata di
Pavese, l’irruenza giocosa di Davico Bonino, la meticolosa puntigliosità silenziosa di Calvino, l’inimitabile gusto autocaricaturale di Natalia Ginzburg.
E poi Bollati, Mila, Vittorini, Cerati,
Levi… Ma Ferrero non si ferma a loro:
Fenoglio, Sciascia, Moravia, Morante,
Maraini, tutti i grandi scrittori che credettero nell’Einaudi sono presenti in
queste pagine, sempre a partire dal loro
lato umano, più personale, forse, ma
più vivo e vero. E da quelle parole
emergono anche le emozioni delle più
belle pagine dei loro libri: «Nessuna madre ha mai amato un figlio come Elsa
[Morante] il bastardello Useppe della
finzione romanzesca di La Storia»4.
Ferrero guarda bonariamente ai suoi
compagni di lavoro, senza mai rinunCaffè Michelangiolo
Disegno di Emilio Tadini.
ciare ad una sottile ironia che ci permette di andare oltre l’immagine un po’
stereotipata che ciascuno di noi può
avere di loro per raggiungere invece
un’immagine vera di uomini e donne
contrariati, felici, sconsolati, arrabbiati,
intenti al loro lavoro, sfiduciati, appassionati, come i personaggi dei loro stessi libri. Ma Ferrero non irrompe mai
nella loro “intimità più nascosta”: di
fronte al grande dolore personale si ferma, non senza però averci fatto intuire
le profonde ragioni di certe scelte disperate.
Attraverso le pagine di questo libro si
rivive tutta la storia di quei meravigliosi anni della vita italiana, anni difficili,
ma animati dalla voglia di esserci, di
fare, di ricostruire: la dura realtà del
dopoguerra, il Sessantotto, gli anni di
piombo…
Anni in cui le rapide e-mail erano
sostituite da lunghi, lenti ma affascinanti carteggi fra intellettuali che senza accorgersene, solo scrivendosi, “facevano cultura”. Anni in cui aveva ancora valore la discussione: la scelta di
un libro da pubblicare era una questione importante, un fondamentale
problema culturale. Questa la filosofia
della casa editrice: «Ogni anno […] la
casa editrice deve pubblicare un numero, sia pur minimo, di libri su cui è
sicura di perdere: mettiamo cinque libri
su cento, ma di alto valore culturale e
scientifico, che gettano un alone di prestigio su tutta la produzione»5. Anni in
cui si era disposti a porre in secondo
piano l’interesse economico in nome di
un progetto culturale. Oggi, forse sarebbe detta una filosofia “folle”. Eppure l’Einaudi è stata una realtà unica,
ha rappresentato uno modo “altro” di
stare “nei” libri, di fare cultura, di
orientare il pensiero. E si guarda con
indulgente affetto all’orgoglio degli einaudiani e si freme all’idea della scomparsa della casa editrice, inghiottita dal
colosso Mondadori.
Ma il vero protagonista è lui, l’Editore. Una figura carismatica, un ritratto inedito di un uomo esigente, che lotta con i propri collaboratori, li spreme
per tirare fuori il meglio di loro. L’autore segue l’evolversi della figura «da
sovrano protervo che sa di potersi permettere tutto»6 al declino di un uomo
che soffre nel vedersi sbriciolare tra le
mani, proprio in nome di quell’interesse economico a cui non aveva mai badato, un grande progetto culturale.
Veramente un bel libro, che fa pensare, sorridere, fremere di invidia per
chi, come l’autore, ha potuto esserci.
Elena Peccia
NOTE
1 E. Ferrero, I migliori anni della nostra vita,
Milano, Feltrinelli, 2005, p. 161.
2 Ivi, p.172.
3 Ivi, p. 96.
4 Ivi, p.144.
5 Ivi, p.186.
6 Ivi, p. 180.
Ernesto Ferrero
I migliori anni della nostra vita
Milano, Feltrinelli 2005
pp. 215.
Allo zoo di Isabella
I
l nuovo romanzo di Isabella Santacroce mantiene le promesse. Al solito è
una storia dura, di disamore, amore negato e divenuto odio, odio implacabile,
che alla fine esplode in tragedia.
“Zoo” è la famiglia, il nucleo familiare formato dalla giovane io narrante,
dalla madre e dal padre. La famiglia,
69
Letture
nella visione monomaniacale della Santacroce, è uno zoo, ove nessuno è libero
e ciascuno lotta per sottomettere gli altri.
Tutto ruota, come spesso nella Santacroce, su sentimenti acri, forti, in cui la
delusione e il rancore, provocati da amori delusi e non ricambiati, s’incancreniscono e finiscono con l’esplodere in forme parossistiche. Ed è un fatto che sconcerta, ad essere sinceri, non trovare nelle pagine di questa dotatissima scrittrice nulla di positivo. Ma la sua bravura,
la sua intelligenza, la sua inarrivabile
capacità di raccontare la salvano. Ma
perché, verrebbe voglia di chiederle, tanto odio, tanto pessimismo e rancore? Se
raccontare odio e crudeltà estremi poteva avere un senso per gli scrittori “Cannibali”, quando era d’obbligo giocare al
negativo, nel libro della Santacroce non
si gioca più affatto. Ho l’impressione
che qui non si tratti più di violenza tenuta sotto controllo dalla poetica dei
“Cannibali”. Forse l’autrice ha voluto
superare se stessa, e ci ha messo del suo,
nel senso che con l’alibi della fiction letteraria ha detto la verità e ha manifestato, nelle vesti della giovane protagonista, un sentimento d’odio allo stato
puro, contro la famiglia ma che si può
estendere ad ogni altra situazione umana. Una scrittrice controllata e sapiente
come la Santacroce non credo che si sia
fatta prendere la mano dalla materia del
racconto. Per paura di non so cosa, forse di non dire tutta la verità, di non essere abbastanza dura e originale, ha voluto delineare situazioni tutte estreme,
esasperate, immedicabili. E forse non
volendo, ci dice che il perseguitato – la
figlia non amata dalla madre e resa paralitica, in un incidente provocato dalla
madre –, è peggiore del persecutore, della madre stessa, ha una capacità di odio
e di vendetta che la madre neppure si
sogna.
La madre non ama il marito e lo disprezza, la figlia e il padre invece si amano teneramente, sin quasi all’incesto, e la
madre bellissima, donna di successo e
altezzosa, ne è gelosa. Non sopporta che
nessuno la superi, in ogni campo. Ma il
punto sanguinante da cui muove tutto è
che la madre non ama la figlia, non le ha
mai fatto tenerezze, non l’ha mai fatta
dormire con sé. Un egoismo, cui si unisce la dipendenza del marito debole e
innamorato della moglie (e della figlia).
Egli scompare presto dalla scena, che
70
viene quindi tutta occupata dal duo madre-figlia, la quale figlia adolescente, non
bella come la madre, matura un odio
terrificante contro la madre. Poi c’è l’incidente, la madre spinge la figlia sulle
scale. Essa cade e diventa per sempre
paraplegica. Matura così in lei un piano
diabolico studiato in tutti i particolari
per far sentire la madre colpevole della
sua disgrazia e organizzare, scientificamente e senza fretta, la sua vendetta.
L’analisi dei sentimenti è, come sempre nella Santacroce, di prim’ordine,
esatta e profonda. E la personalità della
ragazza cresce nella sua paranoia con
una sequenza ammirevole di odio, bisogno d’amore, isteria e complessi vari,
fino ad esplodere nel lucido disegno di
punire la madre di non averla amata, di
averla resa un rottame umano, e quindi
di vendicarsi con una crudeltà che neppure il marchese de Sade avrebbe saputo immaginare. La figlia nei confronti
della madre alterna accuse e richieste di
tenerezza e d’affetto, la vuole completamente succube dei suoi bisogni, vuol farla sentire colpevole di una colpa che mai
le sarà perdonata. E vuole così dimostrarsi più forte. E ci riesce. La madre ne
diventa completamente dipendente, fino
al punto di accettare di avere rapporti lesbici che la figlia le impone come estrema prova di amore riparatore. Dopodiché alla figlia non resta che ucciderla.
Tutti i torti in passato subiti sono stati
vendicati, ed ora è arrivato il momento
di annientarla. «In quella notte che sarà
l’ultima della mia storia, io prendo il cuscino e le copro la testa. Con le mie braccia forti, con l’unica cosa che ho, con
loro io uccido mia madre… resisto al
suono che fa la sua disperazione, a quel
ruggito soffocato, a quel vagito strozzato… resisto perché ho lottato così tanto
che lei non può vincermi più».
Ora anche la madre ha abbandonato
lo Zoo. Ogni famiglia – tesi non nuova
nella Santacroce – è una prigione e i familiari sono dei nemici. Questa tesi e l’odio che ne è il corollario io non sono riuscito a sentirli come pura fiction ma
come l’idea dominante, l’interpretazione
totalizzante dei rapporti umani cui è arrivata la scrittrice romagnola.
Resterebbe da dire della scrittura.
Non tanti scrittori in Italia raggiungono
attualmente la perfezione stilistica della Santacroce («la Santacroce è una
prosatrice di altissima qualità, ipnotica,
incantatoria, e sotto tutti gli aspetti stupefacente», ha scritto Cesare Garboli).
E tutto il breve romanzo ne è la dimostrazione.
La Santacroce ha scritto una vera e
propria tragedia familiare, con l’essenzialità dei tragici veri. C’è in lei un bisogno di assoluto, di perfezione, di amore,
di verità, che mirabilmente riesce a calare anche nella normalità della vita
quotidiana. Così descrive, durante il funerale del padre, una musica assoluta,
non umana, che solo una visionaria
come la sua protagonista sa udire: «Era
lo strazio, riempiva il silenzio con un
suono duro e dolcissimo. Usciva da tutto quello che avevo attorno, era la vita
che si ribella alla morte, che canta perché non si arrende, io non volevo ascoltarla. Che ci fosse ancora vita non volevo saperlo, desideravo con tutta me stessa arrivasse una catastrofe, un terremoto potente che distruggesse ogni cosa,
un diluvio che ci annegasse. Avrei voluto il mondo terminasse di esserci, avrei
voluto un vento terribile che lo rompesse come una sfera di vetro colpita dal
ferro».
Leandro Piantini
Isabella Santacroce
Zoo
Fazi, Roma 2006
pp. 125. € 12,50
Caffè Michelangiolo
Letture
L’ascolto della memoria
R
enzo Ricchi è uno tra i pochi poeti
che hanno saputo sempre trovare la
maniera di farsi immediatamente riconoscere anche quando hanno mutato
pelle, anche quando si sono affidati ad
accordi nuovi, anche quando hanno
cercato di dare svolte clamorose al proprio dettato. Ciò è stato possibile perché egli non ha mai tradito le verità
interiori, non è mai entrato nel vortice
della ripetizione o della imitazione di se
stesso, ma anche perché il suo mondo è
ricco e variegato, ancorato ai valori
eterni dello spirito, a una religiosità
non inficiata da stereotipi e da consuetudini.
Perché fiorisce la rosa si impone
immediatamente per la freschezza con
cui le immagini vengono colte, per la
semplicità con cui viene affrontata una
tematica difficile e sempre sul punto di
tramutarsi in eccessi. Ricchi però ha la
mano leggera, tratta dell’infanzia con
quella delicatezza che sembra sfiorare
i sentimenti e farli diventare un soffio,
un sussurro, appena un guizzo di infiniti abbracci. Se dovessi dire con una
espressione in che consiste l’essenza
del libro mi appellerei alla tenerezza, a
quel fiato caldo e persuasivo che fascia
avvenimenti ed emozioni, desideri e
sogni.
Anna Panicali ha saputo delineare,
nella Prefazione, l’atteggiamento che
sta alla base del volume: «Io parlerei di
autobiografia nel senso di un viaggio
verso l’interno da raccontare poeticamente; di un cammino alla scoperta di
sé; di una parabola esistenziale; di un
interrogarsi per richiamare gli uomini
a se stessi; ritornare verso l’origine;
spogliarsi di quanto sembrava una
conquista e invece non lo era». Evidente che un simile giudizio richiama
di conseguenza la tempra etica di una
poesia che, nel mentre si offre come
gioco inconsueto tra l’adulto e il bambino, cerca l’approdo alla radura di
quella identità che assumeva in sé tradizione e amore, abnegazione e slanci,
rigore e trasporto. Giustamente è stato
evocato Proust, ma bisogna subito dire
che Ricchi non si immerge nelle acque
torbide dei ricordi per sguazzarci dentro, perché in lui i ricordi si trasformano in un presente da vivere in pienezza, da godere senza fare ricorso ai
Caffè Michelangiolo
rimpianti. In questo senso va letta anche la Nota che pone sul medesimo
piano i due figli nati dal secondo matrimonio di Renzo Ricchi, Alessandro e
Costanza, e i due figli nati dal primo
matrimonio, Daniela e Carlo: «Come
invera tutto | l’innocenza», che non è
soltanto sentimento riflesso, ma pienezza di un’armonia scatenatasi nel
momento in cui il poeta si sente bambino tra i bambini e bambino tra i figli
cresciuti e ritornati per un attimo anch’essi bambini.
Non era un facile argomentare,
come ho già accennato. Quando si affronta una poesia così densa di sentimento c’è sempre il rischio di crogiolarsi dentro il flusso dell’amore. Invece
Ricchi non si è fatto trascinare dalla
materia scottante, l’ha maneggiata con
una perizia davvero rara e ha saputo
trovare le note giuste per esprimersi totalmente senza nulla concedere agli eccessi. La voce è ferma, scandisce le parole necessarie e disegna la ricchezza
interiore come uno scultore che abbia
raggiunto la sintesi educando l’irruenza del sentire in una forma che si staglia vigorosa e coinvolgente.
Eppure il tema trattato non è nuovo. Corrado Alvaro e Cesare Pavese lo
hanno affrontato a più riprese sostenendo proprio che «La vita… è nella
pesistenza della nostra infanzia e nel-
l’ascolto della memoria». Pavese arriverà a dire addirittura che la vita di
ognuno altro non è che la sua infanzia
dilatata in quel viaggio che si compie
verso la morte. Da qui le note malinconiche, mai angosciate o angoscianti,
di un Ricchi che non si nega alla meditazione e non si nega alle dolcezze di
filastrocche e di nenie (anche queste
però tenute sul filo di una dinamica
musicale alta e corroborata da un piglio lievemente ironico) che ci portano
all’interno di un rapporto davvero
straordinario. Piace notare come il
bambino Renzo Ricchi s’immedesima,
diventa egli stesso creatura che sa origliare per percepire il lievito delle stelle, e piace ascoltare le vibrazioni di
un’anima che finalmente sa riconoscere l’essenza della vita: «Vecchi e bambini| si svegliano presto. || Desiderio
inquieto| di futuro».
Rispetto ai testi precedenti, questo
ha qualcosa di più delicato, qualcosa
che sembra una carezza di parole capace però di suscitare emozioni forti, di
riuscire a stabilire un’equazione importante per scoprire che cosa sta dietro gli atteggiamenti innocenti dei
bambini. Naturalmente è estremamente difficile stabilire dove comincia la
“lallazione” poetica di Renzo Ricchi e
dove comincia il vocio rutilante delle
sue creature. Non si può nemmeno stabilire dove cominci il senso di quella
eternità che scorre per tutte le pagine
irrorando i versi di un grande desiderio
di durata, su cui bisogna riflettere. Ricchi è stato capace di svestirsi dei panni dell’intellettuale, del giornalista e
dello scrittore per entrare in quelli di
un esserino che sa colloquiare, senza
snaturarsi, con oggetti, paesaggi e altre
creature. Direi che ha compiuto un’operazione simile a quella che in pittura hanno realizzato Chagall e Dufy.
In effetti il tono e l’andatura delle poesie hanno qualcosa di indicibilmente
ovattato eppure fortemente articolato,
decisamente chiaro. Si ha la sensazione, a un certo punto, di entrare nel clima di una fiaba, nell’atmosfera di una
favola che oscilla tra veglia e sonno.
Così i sogni diventano la vera realtà
da vivere, il vero momento per purificarsi dei peccati, dei sensi di colpa, degli accumuli di troppe scorie. Come se
Ricchi volesse cancellare le brutture
del mondo in cambio di una manciata
71
Letture
di coriandoli: «Ritroveremo il sogno
perduto| per non smarrirlo più? | Saremo sogni noi stessi| librati tra stelle
scintillanti? | Verrà un tempo oltre il
tempo | una storia innocente oltre la
storia?». Tre domande, ma le risposte
sono scontate. Sì, si realizzerà ogni
cosa, ma bisogna calarsi nel fuoco dell’innocenza, perdere le facoltà raziocinanti, riuscire a diventare occhi che
vedono per la prima volta il sole, la
luce, orecchie che ascoltano per la prima volta la parola. In questo senso il
poeta dichiara anche la sua poetica, il
suo pensiero poetante che rivendica la
verginità del mondo attraverso il rinverdimento delle sillabe ripulite del
loro peso di esperienza secolare.
Tutto il volume è pervaso da un’accorata speranza di futuro. Il poeta
“pretende” che attraverso il viaggio
dell’amore (compiuto con l’interezza
del proprio essere) tutto debba ritrovare quel primo fiato che scioglie il cuore degli angeli e dà alla terra un nuovo
volto. Ciò è possibile, a patto che si lasci alla voce argentina dei bimbi il primo passo verso la rivoluzione delle anime, il primo vero passo spirituale per
riemergere dal caos e dalle ambiguità:
«Nel profumo di gelsomino | che addolcisce l’altissimo silenzio | giocano a
rincorrersi| una bianca farfalla e una
bambina. || Così ancora una volta mi è
donata | la grazia luminosa di un mattino | nel fruscio dei papaveri di giugno». Si noti come lo sguardo del poeta abbia trovato il nucleo di un processo che deve rinnovarsi all’infinito
per avere un senso e una dimensione
universali.
Si tratta, dunque, di un libro compatto, che nasce da un “progetto” definito, anche se non a tesi. La compattezza tuttavia è data soprattutto dal rigore stilistico, una cifra che da sempre
appartiene a Renzo Ricchi, ma che qui
ha trovato una maggiore duttilità, una
maggiore necessità che gli permette di
scardinare i luoghi comuni e farne emblematiche misure di poesia.
Dante Maffìa
Renzo Ricchi
Perché fiorisce la rosa
Passigli Editori, Antella-Firenze 2005
pp. 112. € 12,00
72
Sulle tracce di Émile Zola
«J
e voudrais être un nouveau Lucrèce.» Con questa frase di Zola
si apre l’originale opera, né saggio critico né romanzo, di Enrica Salvaneschi: Giardini ospitali. Ambienti e momenti di Émile Zola poeta.
Enrica Salvaneschi vive a Genova,
dove insegna letterature comparate all’università e dirige per Book editore la
“collezione di letteratura critica, arte e
arti” Hermaion; ha già pubblicato diverse opere, tra cui ricordiamo La vergine donnola. Prima e dopo Lorenzo
Lotto: una sfida (Book editore, 2002),
Il libro dell’ora (Book editore 2002) e
In vano (Marsilio 2004).
Al centro dell’opera di Enrica Salvaneschi vi è il ciclo dei Rougon-Macquart
di Zola, che offre all’autrice la possibilità di un’indagine approfondita intorno
all’opera dello scrittore francese e, in
particolare, ad alcune scene emblematiche e al loro sostrato mitico.L’intento
è quello di un attraversamento critico
dell’opera di Zola che, mantenendo sulla pagina tutto il fascino delle contraddizioni non risolte presenti nei RougonMacquart, tenti allo stesso tempo di
svelarne l’interna natura.
Attraverso un processo d’indagine,
che si spinge fino ad interrogarsi sulla
genesi di alcuni passaggi o immagini
dell’opera dello scrittore francese, dal-
l’amore impossibile tra Gervaise e
Goujet alla fine tragica di Hélène o a
scene di vita quotidiana dell’Assommoir o di Nana, vengono portate alla
luce le connotazioni mitico-simboliche
e gli archetipi di riferimento presenti in
una serie di brani dell’opera zoliana e
in molti casi riportati per intero e tradotti dalla stessa autrice. L’opera di
Zola è per Enrica Salvaneschi, secondo la definizione di Guido Ceronetti,
un «inesauribile otre dei Suoni»1, un
laboratorio nel quale sperimentare
combinazioni sempre diverse e la fonte di infinite «occasioni di realismo
fantastico»2.
Come un filo rosso, la metafora del
giardino attraversa tutta l’opera, a
partire dalla citazione leopardiana
tratta dallo Zibaldone («ogni giardino
è quasi un vasto ospitale») fino a quella biblica dell’Eden e a quella omerica
del giardino di Alcinoo:
Il peculiare tentativo di rispondenza qui presentato opera sulla base
di un argomento preciso – la souffrance del giardino, ovvero del bosco
umano o umanizzato, dell’albero offeso, del fiore in fiore… – e si muove
in un ritmo di spola: retrogrado, si
volge alle vastità nutritive di Omero e
della Bibbia; prospettico, aspira a ridare dignità alla parola, opponendosi allo spaccio della volgarità e dell’accademismo3.
La souffrance del giardino offre,
dunque, una chiave di lettura inedita,
lontana da ogni accademismo o impressionismo critico, ma capace di dar
vita ad un disegno rigoroso, sulla base
di studi letterari e linguistici approfonditi e di una salda conoscenza dell’Ottocento francese.
La ricerca del duplice livello del reale e del figurale, l’individuazione di una
serie di nuclei simbolici dell’opera zoliana, una disposizione critica di apertura alle suggestioni nate dalla lettura e
dalla traduzione rendono quest’opera
un affascinante esperimento di dialogo
con un poeta del passato, che non esclude, però, la volontà d’analisi e d’interpretazione.
Sulla base di un affresco puntuale e
documentato del milieu zoliano, Enrica
Salvaneschi opera una serie di variazioni ed elaborazioni, intrecciando mito
Caffè Michelangiolo
Letture
e letteratura, che dimostrano la creatività, la cultura e il controllo formale
della sua scrittura, al confine tra generi e lingue diverse.
Così come l’opera inizia si conclude,
con una citazione illuminante e tagliente, tratta dallo Zibaldone di Leopardi,
che suggella un percorso ricco di suggestioni e spunti di riflessione:
Tutto si è perfezionato da Omero
in poi, ma non la poesia.
Monica Venturini
NOTE
1 E. Salvaneschi, Giardini ospitali. Ambienti e
momenti di Émile Zola poeta, Bologna, Book Editore, 2006, p. 14.
2 Retro di copertina, E. Salvaneschi, Giardini
ospitali, cit.
3 Ibid.
Enrica Salvaneschi
Giardini ospitali. Ambienti e momenti
di Émile Zola poeta
Book Editore, Bologna 2006
pp. 325. € 20,00
Dieci racconti
U
ltima fatica di Giuseppe O. Longo
(si ricorderà senz’altro L’Acrobata,
uscito per Einaudi nel 1994, né dovrebbe sfuggire ai più l’inesausta attività di
narratore degli ultimi anni), La camera
d’ascolto raccoglie dieci racconti, otto
dei quali finora inediti e stesi tra il 1990
e il 2004. Già esperto indagatore delle
zone più allarmate della psiche umana,
rapito dalla scostante fisicità di Trieste (è
del 2004 la raccolta Trieste, ritratto con
figure), Longo affronta con quest’ultimo
lavoro la terrestre e terribile deità della
figura materna, attorno cui s’interroga,
con movenze stilistiche diversificate (dal
tentativo di registrazione in presa diretta del pensiero alla prosa epistolare) la
prima persona chiamata a recitare gran
parte dei racconti – fanno eccezione
Paesaggio con rovine e Vera Lipanje,
scritti in terza.
Già edito in rivista, apre il volume
Una semplificazione del dolore: controllato e insieme vertiginoso collage di ricordi e sensazioni sul filo della libera asCaffè Michelangiolo
sociazione, dove sempre l’inquietudine
del frantumato io narrante si srotola al
contatto con la corporeità e estraneità
dell’Altro, di chi s’incontra e si ricorda
nel percorso della vita: «Cerco di ricostruire la vita intorno a qualcuno dei
frammenti più grossi, mi lego ai rottami
come un naufrago. Continuo a non trovare risposte. C’è solo una lunga catena
di persone fatte di carne e sguardi, che
continuano a chiedere». Crudelmente
svagato Rumpelzimmer (che Longo
struttura anche come metaracconto:
«volete un inizio solido, ben impostato,
no? Chissà se ne sono ancora capace»);
mentre un vero e proprio studio sul meccanismo della ripetizione – nella doppia accezione di dispositivo psichico e di
tecnica narrativa – è La legge di Ohm
(non a caso il racconto è dedicato al
campione della prosa ritornante, all’autore di Cemento, Thomas Bernhard).
Col quarto racconto, Amuleto, si entra nella zona più complessa e più recente (quanto a stesura) del volume,
dove si fa oltremodo invasivo il tema
dell’ingorgo di sentimenti causato dalla
presenza – tanto invadente e sensuale
quanto spettrale e onirizzata – della
madre: merito pure del ritmo narrativo
sempre più concitato e inquieto, ugualmente versato nelle due dimensioni del-
la fluvialità del balbettìo; il che va anche guardato come direzione stilistica
perseguita negli ultimi tempi dall’autore (questo il tentativo di trascrizione
delle censure del pensiero nel racconto
che dà il titolo al volume, una lunga invocazione alla madre morta pronunciata dal figlio: «Il tuo viaggio terreno. La
resistenza. L’attaccamento. Gli occhi
chiusi, il rantolo che straziava la quiete
della notte incipiente. Il bacio che ti
diedi sulle labbra. Dovetti aspettare la
tua morte. Quella tua bocca grande,
bella sensuale, che tante volte avrei baciato se tu.»). Un “io” fermato sempre
nell’atto di confessare e censurarsi, quasi costantemente spiato come sul lettino
dello psicanalista, quello di Longo?
Senza dubbio: ma si confermano ancora una volta da leggere queste pagine,
col loro vivo rigore allucinato, dove tra
accensioni verbali e reticenze al limite
della morbosità l’autore riesce costantemente a riformulare soluzioni grafiche, lessicali e sintattiche per rendere i
movimenti del sogno, della parola pronunciata e del pensiero. Una ricerca
condotta già da tempo con estrema dedizione e serietà; e che ha tutto il sapore di una sfida etica in nome della scrittura e del sentire umano, se chi stende i
racconti de La camera d’ascolto sembra
sapere benissimo che «parlare tanto in
fondo non serve, conta invece che i giorni passino, uno dopo l’altro, ciascuno
portando via un po’ di pena, fino a
quando non resterà più niente».
Elena Frontaloni
Giuseppe O. Longo
La camera d’ascolto
Mobydick, Faenza 2006
pp. 187. € 13,00
Poeti di combattimento
letterati d’avanguardia
L’
avanguardia, si potrebbe dire, o è
permanente o non è. L’avanguardia non è uno stato di cose che debba
essere instaurato, bensì un movimento
reale che abolisce lo stato di cose presente. Si è tentati di ricorrere a formule generose, che forse qualcuno ancora
ricorda, leggendo il saggio La scrittura
73
Letture
tra realismo e allegoria (2005: da qui le
citazioni, se non diversamente indicato)
che conclude il volume Superrealisticallegoricamente di Nadia Cavalera: né
sembri noncuranza del testo di poesia
avviare questa riflessione citando il testo
di poetica, dato il legame qui strettissimo tra esperienza di vita, speculazione
metapoetica e pratica di poesia. Dunque, «Impegno pieno per un’Avanguardia da riattualizzare, al di là di stereotipate concezioni, portatrice di un progetto culturale diverso, opposto, antagonista, aliena da ogni compromesso
con logiche di potere». Un pensiero,
come si vede, forte, fortissimo, irriconciliato; un’idea della verità perentoria
per quanto non dogmatica – «(: nessuna verità rivelata: solo una credenza
soggettiva conclamata»: Io sono Io – e,
soprattutto, una «scrittura solitaria
scritta schietta contro chi pote pagante
pagato…» (: da Scrittura). La creatività
è di per sé rivoluzionaria, il suo linguaggio provoca e destabilizza: «W lo
smantellamento dei debiti perversi proterzi W la vanificazione del brandingaggio selvaggio la riappropriazione di
ogni creativo lignaggio linguaggio zonaline pipeline per un mondo equo sano
rondò villaggio» (W l’economia bonificata). Ogni pacificazione va rifiutata,
tanto che a proposito del precedente
Amsirutuf: enimma Nadia Cavalera scrive: «era il mio no ad una parola fascinosa ma non aderente alla realtà, che la
copriva anzi e mistificava. Ne immobilizzava la crescita». Il linguaggio possiede un preciso potere performativo
(«essere prescrittiva | ma anche formativa | e stoica comparata»: da Sospensioni, 1980) e una qualità immediatamente politica; la poesia è – dev’essere –
il contravveleno alla mistificazione universale e alla chimera regressiva: «La
mia voce un tempo flautata fatata fata
di sogni heidi picchiettata con questo
morso in bocca d’un mondo allocco è
baccalà fisso che stocca ogni corso ricorso torsolo senza rimborso ed io muta
m’abbiocco come rotto balocco» (La
mia voce). L’impegno poetico nasce dallo stesso luogo che genera l’impegno
etico e civile: «Il nostro non è il migliore dei mondi possibili ed è questa consapevolezza la causa dell’infelicità (: potevamo essere più fortunati!)» (Superrealisticallegoricaforismando). Nella
voce di Nadia Cavalera risuona la nota
74
ferma di un neoilluminismo che ha attraversato Marcuse: il mondo migliore,
sognato, «non solo non c’era da nessuna parte, nemmeno in qualche dimensione parallela […], ma senza un’Avanguardia ferrata, convinta e compatta, sempre più numerosa, non c’era
neppure la possibilità di realizzarlo.
E rimaneva orribile nella sua ingiustizia, nella illogicità imperante, nell’assurdità stomachevole» (La scrittura tra
realismo e allegoria). La conservazione
dei valori minacciati appare un altissimo compito consegnato anche alla parola poetica: «e basta co’ sta boiata botta nata referendata della Costituzione
antiquata quando è vergine d’usura
conclamata: da longtemps in innumeri
fleurs decretizio violentata (: urge il lifting non lo scempio in trapping: il rinnovo novello empio zapping)» (Supplemento solidale, in parte). La scrittura
non può che essere, in questa prospettiva, profondamente storica, tesa tra
commento critico e cura programmatica: già Amsirutuf: enimma era, scrive
l’autrice, «il mio sì per una parola da
reinventare, pescando nel passato […]
per trovare le energie necessarie a fondare il futuro». Tutela del passato e progetto per il futuro sono coordinate naturali dell’umano, in quanto corrispondono perfettamente alle due «facoltà
principali del cervello: registrare e progettare» (Superrealisticallegoricaforismando). Neanche l’estetica, questo è
certo, può eludere il contesto: «La bellezza è produzione di scarti – La vera
arte è esaltazione degli scarti, del difforme alla ricerca di una forma, da superare: il resto è, più o meno capace, imitazione» (Superrealisticallegoricaforismando); il che rimanda all’ostranenie
dei formalisti, ma anche alla contestazione intransigente dell’utilitarismo capitalistico. È conclamato il «Rifiuto del
neotradizionalismo e del postmodernismo in quanto, seppure con motivazioni diverse (l’uno con la sua fede cieca
nel passato, da rilanciare tout court,
l’altro con la piena accettazione del presente) rinunciano alla militanza culturale fortemente critica ed oppositiva,
l’unica possibile oggi per chi non voglia essere compreso nel progetto economico politico del neocapitalismo globalizzante».
L’orizzonte ideologico ed estetico di
questa esperienza poetica è, anche espli-
citamente, benjaminiano: bisogna ricordare – la stessa Cavalera ci esorta –
il trionfo dell’allegoria che espone la lacerazione insanabile, la perdita di senso, il decadimento dell’umano e della
storia, ma bisogna anche ripensare l’allegoria come dialettica eccentrica tra
quanto è raffigurato nell’espressione, le
intenzioni soggettive che l’hanno prodotta e i suoi significati autonomi. E si
pensa ancora a Benjamin incontrando
la malinconia che l’ottimismo della volontà non vince: «ma il mondo per me
permane triste» (La scrittura tra realismo e allegoria).
Simile densità concettuale sa trovare espressione concentrata nelle forme
brevi dell’aforisma («Non ci sono ragioni del cuore che il cervello non conosca. […] La scrittura, quando è autentica, costituisce il superbo scalpello
del pensiero»: Superrealisticallegoricaforismando) e dell’haiku: «Il cambiamento | È il fuoco che spinge | Il mio
tempo» (2 Haiku – per Franca Battista). Talvolta il ritmo esatto dell’haiku
slitta in uno straniamento da filastrocca,
mai disimpegnata («grullo cocuzzolo |
corridoio sfruscio | malanimo gruzzolo»: 6 Haiku) ma incline semmai a certe forme di non-sense (in Salentudine,
del 2004, la veste privilegiata era il
limerick). In tutti i casi, però, il nonsense finisce per essere in realtà un ipersense che stravolge il contesto, abbatte
le sicurezze convenzionali e consolidate,
addita altri sensi e altre possibilità: è
questo, in fondo, il compito «di uno
sperimentalismo ad ampio raggio, non
gratuito, ma di tendenza. Uno sperimentalismo che sia momento di rottura
e che, col fine precipuo di rinnovare il
rapporto con le cose, coinvolga e stravolga i generi negli elementi espressivi e
contenutistici, usi tutte le tecniche e i
procedimenti possibili». È poi mansione della migliore avanguardia forzare i
residui confini tra generi, codici, linguaggi (si veda I prestanomi: uomini
senza; si consideri lo struggente acrostico Adriana, del 1972; e si tenga presente la definizione di Amsirutuf: enimma come «libro totale, alla Roland
Barthes»), come lo è tentare e ritentare
nuove relazioni tra significante e significato: il conio lessicale per ibridazione, germinazione e composizione; la riduzione paratattica della sintassi; la
parsimonia interpuntiva; le catene di
Caffè Michelangiolo
Letture
allitterazioni e paronomasie; le rime infittite in sequela e così via. In particolare, l’estrema prossimità reciproca delle
figure di suono crea qui un tessuto sovrabbondante e straniante, e segnala
l’accanita manipolazione del linguaggio, volta a indebolire gli automatismi
del pensiero, a svelarli e contestarli (già
in Imprespressioni, del 1970-71:«rincasa la bocca | barca carca | nell’immagine isolata»). Talvola, come in certi
Pensées in libertà vigilata, l’ostentata
cadenza ritmica sconvolge in chiusa
l’andamento prosastico e ragionativo:
«Ci potrà essere mai speranza di pace se
anche su un tema così grave e impellente come la guerra trionfano invidie,
gelosie, ripicche e i penosi dispettucci di
piccoli uomini mucci?». Notevole anche il nesso di parentesi e due punti,
vero stigma stilistico dell’avanguardia
(basti pensare a Edoardo Sanguineti,
insieme al quale Nadia Cavalera anima
la rivista “Bollettari”) che manifesta
tensione dimostrativa e insieme polifonia interna, per feconda abbondanza
di argomentazione e dimostrazione.
All’altro capo quantitativo rispetto dell’haiku sta il catalogo (Uno per tre,
Golphe de Genes), specchio stilistico di
una tendenza – anche questa tutta politica – alla repertoriazione del reale.
Ovunque, in questo volume che raccoglie testi dai primi anni Settanta al
2005, dilaga il senso di una indignazione che non trova quiete, tanto meno
nella pena: «Siamo nella brace dipinta
di cielo ed è tutto telo nero Lo squalo
piazza i complici sulla scacchiera bacata d’un posto unico plurimo Popolo
mio cambia solo la pancia di chi t’ingoierà softamente senza vederlo a sapere» (Siamo).
Milva Maria Cappellini
Nadia Cavalera
Superrealisticallegoricamente
Fermenti, Roma 2005
Ricucire l’ombra dall’infanzia
I
rrompe la sciagura e si abbatte, d’improvviso, e quel che resta sono brandelli da ricucire con gli aghi della nostalgia. I brandelli sono di carne ormai
Caffè Michelangiolo
ammutolita, depositi malridotti di storie
convissute, ovvero di tempo spartito insieme come si faceva col pane quando la
mensa era povera ma i commensali erano uniti e si volevano uniti. Parlare così
di un libro di poesie può far inorridire
chi della poesia sa fare critica analitica
e dotta, com’è giusto per ogni cosa degna di attenzione, e il lavoro poetico
merita commentatori di professione.
Eppure la poesia ha lettori, dovrebbe
avere lettori, che poeti e critici letterari
non sono, forse vorrebbero ma non possono essere (o è meglio che non siano),
ma certo amano sentir risuonare qualcosa da dentro, che si tratti anche del
loro io, una volta che la voce della poesia abbia fugato il frastuono di ogni altra che al cospetto non suona che stonata e stridente. E allora come parlare
di poesia, e per la poesia, facendole il
favore di chiamare al suo ascolto sempre più orecchie? Come recensire musica se non restituendo almeno un’eco,
come recensire poesia senza tentare almeno di replicare nel gesto della scrittura quel dono di senso e di sensi che
ogni verso autentico rappresenta?
Si provi a dosare nella lingua i suoi
vari registri, dal colloquiale all’immaginativo, perché le immagini, le figure,
i loro colori, la dinamica delle loro possibili combinazioni, riescono sempre a
dire qualcosa, a suggerire qualcosa.
E soprattutto ti catturano come una mitologica sirena e questo è ciò che conta,
ché il lettore di poesia può star certo
che il poeta non sarà mai il pifferaio
magico tanto magico quanto fiero e vendicativo. La poesia, se poesia, il poeta,
se poeta, sono semmai umili e privi di
rancore, puoi tradirli, persino in traduzione, a patto che ne conservi l’intento
(e magari ometti il nome del poeta tradotto…). Roberto Carifi in tutto questo
c’entra, eccome.
Carifi si è trovato sin da piccolo,
troppo piccolo, a raccogliere i brandelli della sciagura rovinatigli addosso,
d’improvviso. All’inizio fu un’ombra.
E di questa ha cominciato una lenta
opera di ricucitura sotto il segno della
necessità, quasi della costrizione. Quasi si trattasse di un dettato che una torva e tetra maestra ti impone a sera,
quando il rientro a casa lascia rimbombare le pareti di silenzio e amarezza,
quando più sei esposto e sospeso, come
quel «terrazzo» con cui il poeta avverte
somiglianza, come con tutte quelle cose
che sedimentano i nostri passaggi, fino
a farsi le cose stesse carne e respiro
d’uomo e donna (Le cose non dimenticano).
La poesia di Carifi ci rammenta
quanto il dolore sia puntuto, quanto il
chiodo sia la forma privilegiata che
prende, e quanto ad esso ci appende
come un eterno bambino ancora e sempre in castigo. Ha pertanto ragione Roberto Bartoli quando sottolinea il peculiare lirismo espresso dalla poesia di
Carifi. C’è una straordinaria oggettività
nel soggettivo canto del poeta, perché
più che un canto è uno sguardo che
freddo seziona il dolore, lo vede nelle
persone, dentro alle loro mani, ai loro
occhi, nel ritmo dei passi, nel suono della voce. E lo vede dentro alle cose, incapsulato in esse da chi se n’è andato,
un attimo prima che se n’andasse. Ma il
dolore lo si seziona solo dopo che lo si è
steso al suolo e deposto sul tavolo operatorio. Per stenderlo occorre prima affrontarlo, e non si ingaggia una lotta
con il dolore per una qualche perversa
forma di piacere; se lo si fa, un infelice
esito poetico svela presto l’inganno tramato. Non si ingaggia una lotta col dolore senza uscirne minati per sempre,
menomati nello sguardo, nell’angolo
dell’occhio e della bocca.
Il tratto dolente è un marchio indelebile, fastidioso al punto che occorre
renderlo indossabile, altrimenti al dan-
75
Letture
no segue l’oltraggio di vestire la maschera del poeta. Per questo il poeta ha
qualcosa di Pierrot, e non c’è niente di
più ingombrante e imbarazzante, e il
poeta non sa se far passare per maschera quel che è stigma o se stigmatizzare tutti gli altri che a mascherarsi si
divertono. Beati loro che non sanno
quanto lo stigma ti renda visibile ma
impalpabile.
Sono poeta, vedi, sollevo in aria il mio
[berretto,
dentro c’è un cuore che saluta,
un lampo che tramonta presto,
mentre ti sfioro penso
che l’autunno è un’anima dolente
e mi allontano verso quell’invisibile
[che amo
e che mi bagna il petto,
e mi allontano e penso che ti farei felice
se non avessi un angelo che mi cammina
[accanto.
Fabrizio Zollo, raffinato editore pistoiese (artefice delle preziose Edizioni
di Via del Vento), ha raccolto una selezione di poesie scritte e pubblicate da
Carifi tra il 1980 e il 2003. Non si tratta solo dell’omaggio di un amico e di un
concittadino. La sua scelta antologica
consente di comprendere con definitiva
chiarezza quanto la poesia di Carifi sia
un maturante esercizio al dolore e alla
perdita, ché altro non è la morte se non
perdita irrevocabile, senza rimedio. Di
qui la cifra autenticamente tragica della scrittura del poeta pistoiese, una cifra
che le conferisce misura e nettezza, sobrietà e precisione espressiva; di qui
l’andamento del suo verso, freddo e secco come rintocco di campana. E una
campana la si può suonare a lutto come
a festa. Certo che la festa sovente prende le sembianze di «tavole imbandite a
festeggiare il nulla» (Dove il tuo cuore
è muto), per chi sconta un destino di assenze.
Sarà un anno, o due, che hanno portato
[la notizia.
Uno afferrò il tuo braccio, un altro
[la mia mano,
insieme afferrammo il legno della morte,
insieme facemmo un fuoco nel giardino
illuminammo tutto, fino al buio.
Sarà un anno, o due, che una voce
[ci disse è stato,
che un’altra ci disse è primavera,
76
che una mano ci mostrò la sera
dove respirano le ombre.
Non so da quanto una lacrima entrò
[nelle parole
e imparammo a scrivere a singhiozzi.
Danilo Breschi
Roberto Carifi
D’improvviso e altre poesie scelte
note al testo di Massimo Baldi
e Roberto Bartoli
cenni biografici e scelta delle poesie
di Fabrizio Zollo
Edizioni Via del Vento, Pistoia 2006
pp. 32. € 4,00
Poesia d’amore e luce
A
lchimie d’amore è il titolo dell’ultima opera poetica di Maria Grazia
Maramotti, già autrice di importanti sillogi negli anni passati: Sul filo dell’inquietudine1 nel 2001 e Sul filo del bene
e del male2 nel 2003.
Laureata in lingue e letterature straniere, insegnante, premiata per la sua
produzione letteraria più volte nel corso degli ultimi anni (ai concorsi “Mario
Conti”, “Antonio Sebastiani” di Minturno, “Triade” di Crotone e al “Maestrale San Marco” di Sestri Levante)
Maria Grazia Maramotti è presente in
antologie poetiche, come Poeti dell’arca
e Parole di Pace. Le sue poesie, inoltre,
sono state recentemente trasmesse per
radio nell’ambito della trasmissione di
Radio Uno, Zapping, a cura di Aldo
Forbice.
Alchimie d’amore non è un semplice
diario d’amore in versi, ma come sottolinea la stessa autrice nella Nota introduttiva, è un’opera di «esaltazione della vita nella sua interezza comprensiva
di terreno e ultraterreno nella sola ottica possibile, quella dell’amore»3. L’amore è il filtro attraverso il quale la
realtà viene vissuta e osservata e la sua
fenomenologia viene percorsa nel libro
in tutte le sue espressioni, dall’amore
tra uomo e donna, a quello per il creato, a quello per Dio e la vita, a quello
impalpabile ma nascosto in ogni respiro, che tiene uniti e non trascorre con il
tempo. L’esperienza personale diventa il
tramite per affrontare i grandi temi della vita umana: l’Amore, la Continuità
tra Vita e Morte, il motivo della Soglia e
quello del Tempo. Ogni parola diventa
la prima e l’ultima, ogni ricordo eterno,
ogni gesto fissato per sempre fuori dal
tempo e dallo spazio.
La poesia di Maria Grazia Maramotti, lontana dalla maggior parte delle tendenze della poesia dei nostri giorni, vive laddove regna l’Assoluto, il senso del divino, il sublime. Come scrive
Emerico Giachery nell’Introduzione, il
richiamo all’opera di Mario Luzi non si
rivela affatto casuale, ma segno di una
sotterranea corrispondenza, dovuta più
che ad affinità stilistico-tematiche all’appartenenza ad una «civiltà spirituale comune»4. Così, sostiene Giachery, il
titolo di un’opera di Luzi del 1997, La
porta del Cielo, che raccoglie le conversazioni del poeta sul Cristianesimo,
potrebbe essere il “titolo segreto” di
quest’opera o una possibile chiave di
lettura per la sua interpretazione.
Se la vita è mistero, il poeta è insieme viandante e indovino, pronto a interrogare il Cielo e ciò che vi è aldilà,
pur di dare un senso profondo alla «matassa dell’esistere»5, guidato dai dettami
di Amore, verso la soglia minima che,
solo apparentemente, ci separa dalla
méta celeste, dalla “porta del Cielo”:
[…]
perché…
d’improvviso
Caffè Michelangiolo
Letture
ecco squarciarsi
splendente
un ingresso di luce!6
È possibile dire che in quest’opera
amore terreno e ultraterreno coincidono, così come la morte non è in nessun
modo fine, ma ianua vitae e il tempo,
spogliato del suo fluire d’anni, ore e minuti, si trasforma in dimensione assoluta dell’esistere che, ciclicamente e senza
sosta, si rinnova e ripete.
Alchimie d’Amore non si arresta sulla soglia ma la oltrepassa, vivendo fino
in fondo il «pathos della trasformazione»7, e si offre al presente come opera
che, citando Dante, “solo amore e luce
ha per confine”.
Monica Venturini
Maria Grazia Maramotti
Alchimie d’Amore
Introduzione di Emerico Giachery
English translation by Alberto Sighele
Campanotto Editore, Udine 2005
pp. 124. € 10,00
NOTE
1 M.G. Maramotti, Sul filo dell’inquietudine
con prefazione di Mario Luzi, Pampaloni, Nistri,
Udine, Campanotto Editore, 2001.
2 M.G. Maramotti, Sul filo del bene e del male,
prefazione di Mario Luzi e postfazione di Giuliano Landolfi, Udine, Campanotto Editore, 2003.
3 M.G. Maramotti, Nota dell’autrice in Alchimie d’amore, introduzione di Emerico Giachery,
Udine, Campanotto Editore, 2005.
4 E. Giachery, Introduzione a M.G. Maramotti, Alchimie d’amore, cit., p. 13.
5 M.G. Maramotti, Alchimie d’amore, cit.,
p. 25.
6 Ibid., vv. 8-12, p. 35.
7 Ibid., vv. 3-4, p. 49.
Omaggio a Gherardini
L
a poesia di Renzo Gherardini è musica. Prendendo a prestito la terminologia musicale, direi che la sua tonalità non è mai quella ottimistica del do
maggiore, ma del sol minore, quella della penultima sinfonia di Mozart, tutta
percorsa da un’intima mestizia. I temi
della riflessione sul mistero della vita e
della morte, l’amore per la natura e per
«le creature» (creature sono gli animaCaffè Michelangiolo
li innocenti, non l’uomo, spesso nemico
di queste e di quella) predominano
come nelle precedenti poesie perché
sono costitutivi del mondo interiore del
poeta.
Infatti il libro si apre con un bellissimo compianto per una lepre uccisa;
un’altra poesia, poco più avanti «Torna,
cara ombra, torna a salutarmi», è dedicata all’amatissimo Bobi, scomparso; un’altra, «Che cos’è mai questa malinconia» è dedicata invece a Flora,
«ben viva», con la quale riesce a intrattenere un silenzioso dialogo; nella bellissima «Sono le prime ore del giorno e
il sole», il poeta preferisce non chiedersi cosa porteranno le ore future, ma
ascoltare «suoni congiunti all’anima del
mondo».
Ma in questa raccolta compare per
la prima volta una “musica d’amore”
(«oh, parola difficile»). Anche questo
nuovo tema è elegiaco, non ha tono diverso dagli altri temi, ma vi sono parole nuove che rimandano – molto indietro nel tempo – a un’autobiografia che
riguarda sentimenti e fatti realmente
accaduti: «Nel tuo ritratto io leggo il
tuo destino | di quegli anni, ed insieme
una mia colpa». – «Senza volerlo fui la
cruda molla | che ti aiutò a tentare
nuove strade». – «Tre soli mesi distrussero il sogno | di una vita». In un’altra
ritorna il pensiero di due volti, «l’uno di
amico, l’altro inver di donna, | ma l’uno all’altro tuttavia congiunti». Memorie dolorose. L’ultima delle sette poesie
dedicate ad un’amica termina con l’esortazione a se stesso: «Dimentica, dimentica», ma dimenticare non è possibile perché la ferita è nel cuore da cinquant’anni.
C’è però la poesia «Or che la notte
è scesa sopra il sonno», originata dal
ritrovamento di un frammento di lettera appartenente a un gruppo di lettere
«soffertamente distrutte» molti anni prima, che sembrerebbe aver portato luce
di speranza e d’amore su una vicenda
antica. Il frammento miracoloso ha avuto il potere di togliere il dolore dal ricordo? Il lettore lo pensa ma non lo saprà mai. Del resto al lettore non è necessaria l’autobiografia.
Il Carducci, che di versi s’intendeva, chiude l’intera raccolta delle Rime
nuove con un Congedo polemico, ironico, esplicativo, arrabbiato, com’era nel
carattere dell’«orso maremmano»; tut-
to quindi fuorché poesia pura. Ma è di
versi, cioè di mestiere, che vuol parlare.
«Il poeta, o vulgo sciocco», non è un
perdigiorno che apre la bocca e canta
«angeli e rondoni», il poeta è «un grande artiero», un fabbro che nelle fiamme
della sua fucina lavora con elementi
vari: l’amore, la morte, il dolore, la passione politica, che sono però materia
grezza finché non li afferra, e poi, «del
maglio col travaglio», li doma sull’incudine. «Che sia ciò, non lo so io; | lo sa
Dio | che sorride al grande artiero».
Mi sono richiamata all’autorità del
Carducci per sostenere quanto si debba
dare importanza, oltre che agli argomenti trattati, anche alla forma con la
quale sono trattati.
La forma scelta dal Gherardini è
l’antico e nobilissimo endecasillabo, il
verso italiano per eccellenza e il più vario perché i suoi accenti non sono fissi.
Egli ne è conoscitore profondo e ne adopera tutte le possibilità: talvolta usa
l’endecasillabo tronco, talvolta lo sdrucciolo, sempre con grande sapienza, senza che ne scapiti la musicalità. Traggo
un esempio, fra i tanti che si potrebbero fare, dagli ultimi tre versi della poesia a pag. 24, «Che rinasca il silenzio
dentro l’anima»: «… il sogno | in te si
accenda e sposi i tuoi pensieri | all’incanto del luogo alla, sua ultima, | più
intima, stremata sofferenza | del suo respiro, al perdersi del giorno», Dove all’endecasillabo sdrucciolo del terzultimo
verso fanno eco le due parole sdrucciole degli ultimi due versi «intima» e
«perdersi» che, così ravvicinate, rendono ancor più legato e musicale tutto il
periodo finale.
Cito ancora la poesia di pag. 62,
«Con prepotenza nel pensier mi torna»,
in cui più volte ritornano dolci echi della Vita nuova dantesca.
Il fiume della vita è la diciottesima
raccolta del poeta fiorentino (l’esordio
del 1952), apprezzato da critici illustri
come Luigi Baldacci o Bàrberi Squarotti. Traduttore egregio, altresì, tra l’altro delle Georgiche di Virgilio (Vallecchi, 1989).
Eda Siechi Cocchi
Renzo Gherardini
Il fiume della vita
Firenze, Il Bisonte 2006
pp. 88. s.i.p.
■
77
NORME DI EDITING
per i collaboratori di “Caffè Michelangiolo”
Citazione di testo = G.W.F. Hegel, Scienza
della logica, tr. di A. Moni, Laterza, Roma-Bari, 1972, vol. II, p. 115.
Citazione di saggio = R. Bloch, La religione etrusca, in H-C. Puech (a c. di), Storia delle religioni, Laterza, Roma-Bari,
1976, vol. I, tomo II, pp. 499-531.
Citazione di articolo apparso in una rivista = P. Ruminelli, Alberto Caracciolo:
un pensatore moderno del religioso, in
“il cannocchiale”, vol. 3/1991, pp. 15-37.
Citazione di capitolo o paragrafo di una
monografia = cfr. il cap. VI La nevrosi
dei bambini, in M. Klein, La psicoanalisi
dei bambini, tr. it. di G. Todeschini e
C. Carminati, a c. di L. Zaccaria Gairinger, Martinelli, Firenze, 1970.
Rimando a testo citato = G.W.F. Hegel,
Scienza …, cit., pp. 118-120.
Rimando a testo o luogo appena citato =
Ivi, p. 12.
Citazione di versi nel testo = … come ad
es. nei versi «Sovente in queste rive / (spazio) che, desolate, a bruno / veste il flutto
indurato, e par che ondeggi, / seggo la
notte;…» in cui il poeta ritrae…
Citazione col rientro = … come nell’es.
Sovente in queste rive
che, desolate, a bruno
veste il flutto indurato, e par…
Citazione nel testo con virgolette a caporale = … dunque, come ricorda Bianco,
«lo stesso Habermas aveva fatto valere contro Gadamer la scoperta psicoanalitica di
un livello paleo-simbolico» e se ne forniscono prove incontrovertibili nel saggio…
Discorso diretto introdotto = Lui si impose: «Tutto deve svolgersi così!». (segno
di interpunzione all’esterno)
Discorso diretto non introdotto = «Tutto
questo doveva pure accadere.» (segno di
interpunzione all’interno)
Discorso diretto nella citazione = Così
prosegue l’evangelista (versetto 39):
«Alcuni farisei tra la folla gli dissero:
“Maestro, rimprovera i tuoi discepoli”.
Ma egli rispose: “Vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre”».
Citazione nella citazione = Klossowski
ricorda che prima di Nietzsche «Kierkegaard, per il quale la musica non esprime
che l’immediato nella sua immediatezza,
osserva che il linguaggio ha inglobato in
se stesso la riflessione: “perché esso non
può esprimere l’immediato”».
Evidenziazione di termini e frasi mediante inglesi doppie = … gli uomini
“speciali” vivono sempre altre dimensioni …
Titoli di opere nel testo = Fra le composizioni della maturità, La ginestra è quella
che …
Le parentesi indicanti soppressione di
testo nel corso di una citazione o intervento del traduttore, sono quadre =
… come sembra […] così avviene per …
Indicazioni degli anni nel testo =
1956-’57; ’56-’57; anni ’50; il ’900.
Altezza dell’esponente delle nota = ad
apice come nell’es. … fino alla luna13.
Esponente della nota = precede il segno di
interpunzione.
L’inizio del capoverso è rientrato.
Congiunzioni causali, modali, temporali,
etc., hanno sempre l’accento acuto =
poiché, allorché, perché, …
I termini stranieri nel testo ed in citazioni vanno scritti in corsivo.
I titoli di capitoli e paragrafi hanno il
rientro di cm 0,5. Lo stesso vale per
capitoli e paragrafi indicati con il solo numero e senza titolo.
Le note vanno numerate e inserite alla
fine del testo.
L’apostrofo è segnato con un inglese
semplice = ’
Il carattere utilizzato per i testi:
Bauer Bodoni nel corpo 10
a cura di = a c. di
aforisma/i = af./aff.
Autori vari = AA.VV.
capitolo/i = cap./capp.
confronta = cfr.
eccetera = etc.
E maiuscola con accento = È.
frammento/i = fr./frr.
introduzione di = intr. di
nota/e = n./nn.
pagina/e = p./pp.
pagina 10 e seguenti = p. 10 e sgg.
postfazione di = postf. di
prefazione di = pref. di
traduzione italiana di = tr. it. di
verso/i = v./vv.
volume/i = vol./voll.
AVVISO AI COLLABORATORI
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ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI
DI ARTI LETTERE SCIENZE
FONDATA NEL
1660
MODIGLIANA
ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI
DI MODIGLIANA
NOTIZIE STORICHE
L’Accademia degli Incamminati venne fondata nel 1660 dal letterato Bartolomeo Campi
col nome di Accademia dei Pastori del Marzeno e con sede in Modigliana, città della Romagna appenninica allora compresa nel Granducato di Toscana. Entrata in crisi dopo il 1720,
fu ricostituita il 27 ottobre 1755 ad iniziativa dello storico Gabriele Sacchini, che le impose
la denominazione attuale e le diede nuove norme statutarie.
Con rescritto 24 aprile 1795 del Granduca di Toscana Ferdinando I, confermato poi da Leopoldo II il 17 agosto 1825, l’istituzione ottenne la «sovrana protezione» assumendo il titolo di
Imperiale e Reale Accademia degli Incamminati. Successivamente, per la ribellione patriottico-risorgimentale degli Incamminati, con risoluzione granducale 19 agosto 1857, resa esecutiva in data 24 agosto, venne imposta la sospensione dell’attività accademica.
Ritiratosi da Firenze Leopoldo II, il subentrato Governo Provvisorio della Toscana, per
«debito di giustizia», il 13 dicembre 1859 riabilitò l’antica Accademia «al libero esercizio dei
suoi diritti e delle sue funzioni» e, dopo l’avvento del Regno d’Italia, come da nota 18 luglio
1861 della Delegazione del Governo di Modigliana, essa assunse la denominazione di Regia
Accademia degli Incamminati.
Nel 1925, precluso il libero esercizio alle associazioni culturali non appartenenti al partito fascista, l’Accademia dovette cessare l’attività. Questa riprese nel 1946 ad avvenuta proclamazione della Repubblica Italiana.
Nel 1961 fu eletto Presidente il dott. Gilberto Bernabei, alto dirigente ministeriale, poi Consigliere di Stato e Sindaco di Modigliana. Questi assunse importanti iniziative fra cui quella
di chiamare nell’Accademia eminenti personalità della letteratura, delle scienze, delle arti, delle istituzioni, dell’imprenditoria e del lavoro. L’attività degli Incamminati ricevette così un notevole impulso, accentuatosi ulteriormente con l’On. Pier Ferdinando Casini, Presidente effettivo dal 1990 al 1997, e oggi Presidente d’Onore, e con l’Avv. Natale Graziani, Presidente in carica dal 1997.
Organo ufficiale dell’Accademia è “Caffè Michelangiolo”, rivista di discussione edita in
Firenze con periodicità quadrimestrale, fondata e diretta da Mario Graziano Parri.
FINI E COMPITI ISTITUZIONALI
L’Accademia degli Incamminati, di Arti Lettere Scienze, sorta nel 1660 e munita di personalità giuridica (D.P.R. 27 luglio 1970 n. 753), ha lo scopo di promuovere e diffondere le
conoscenze umanistiche e scientifiche nel quadro dell’universalità e unità della cultura; di
studiare e dibattere i temi nazionali, dell’Europa, dei doveri e dei diritti dei cittadini; di svolgere nei territori della Romagna e della Toscana fiorentina – fascia appenninica in particolare – attività di studio, ricerca e valorizzazione della storia e della civiltà dei luoghi.
IL
VINCASTRO
Informazioni e notizie
dell’Accademia degli Incamminati
a cura del dottor Giancarlo Aulizio
Vicepresidente dell’Accademia e Responsabile della Comunicazione
Tornata Accademica di Primavera
Modigliana, sabato 6 maggio 2006,
dedicata a Gilberto Bernabei, servitore dello Stato,
nel 50° anniversario dell’elezione a Sindaco di Modigliana
rali più importanti della nazione) hanno ascoltato le parole pronunciate dal primo cittadino attuale, Claudio Samorì. Egli ha brevemente tratteggiato la figura morale di
quello che resta, nell’immaginario collettivo, il “Sindaco”;
ricordando anche i propri trascorsi come assessore a fianco
a Tornata dell’Accademia degli Incamminati svolta a di Bernabei che era prodigo di consigli verso i giovani colModigliana sabato 6 maggio, in una bella e assolata laboratori, Samorì ha concluso leggendo due poesie scritte
giornata primavedallo stesso Bernarile, nel borgo nabei. L’ultima s’intio di Gilberto Bertitola Da Milano
nabei, ha avuto
a Roma e fu scritta
come protagonista
in aereo, il 16 diinsolito la commocembre 1980. Si
zione. Preceduta
conclude con versi
dalle note a volte
che appaiono come
struggenti della
un testamento
banda cittadina,
ideale «… ma coalle 9,30 nel palazmincia la discesa
zo del Comune,
su Roma. Roma, la
alla presenza delle
città del mio apfiglie Paola e Barpassionato lavoro!
bara, spesso sorRoma, che ho serprese ad asciugarsi
vito con tutte le
le lacrime, la tormie forze! Roma,
nata è iniziata con
da cui attendo un
lo scoprimento del
segno di conforto;
busto in bronzo in
la conferma che
memoria di Gilsono stato sempre,
berto Bernabei nel
in ogni tempo, in
50° anniversario
ogni circostanza,
dell’elezione a sinun uomo d’onore,
daco del suo paeun fedele servitore
se. Stipati nelle
dello Stato». Ecco
scale del municiproprio qui è il
pio numerosi connocciolo della stocittadini, autorità
ria di un uomo
civili, militari e reche, nato nel 1905
ligiose e soci delin un piccolo paese
l’Accademia (che il
dell’entroterra colpresidente rifondalinare forlivese, fu
tore contribuì a ri- Nella caricatura di Giorgio Gabellini (1976), Gilberto Bernabei cerca di trattenere l’On. Giulio Andreotti, per trentacinque
lanciare come uno Presidente del Consiglio nel luglio ’76, dall’attuare il “compromesso storico”. Il terzo governo Andreotti anni segretario
dei sodalizi cultu- durerà fino al marzo ’79.
particolare di Giu-
L
Caffè Michelangiolo
81
Il Vincastro
lio Andreotti, del quale seguì le fortune politiche fino alla fine degli
anni ’70. Profondo conoscitore della macchina amministrativa, gran
lavoratore, discreto e fedelissimo
quest’altissimo funzionario ricoprì
un ruolo strategico per il Paese e
fu, certamente, fra le personalità
più potenti in quegli anni. Bernabei ebbe con Modigliana un legame
strettissimo: ne fu Sindaco ininterrottamente dal 1956 al 1990 e, per
decenni, fu anche presidente dell’Accademia degli Incamminati
tanto da meritare il titolo di “Presidente rifondatore”, scomparve nel
settembre del 1991. Il busto bronzeo commemorativo, opera dello
scultore modiglianese Tito Liverani, è stato realizzato presso la bottega Gatti di Faenza, ed è stato opportunamente collocato lungo le
scale che egli ha calcato più volte
durante la pluridecennale attività
amministrativa.
Gli accademici si sono poi trasferiti nel tempio-auditorio di San
Bernando per svolgere la loro tornata e per distribuire gratuitamente, a chiunque ne facesse richiesta, il libro: Gilberto Bernabei. Servitore dello Stato. Il volume a cura dell’Accademia, del Comune e del Comitato per le onoranze al Sindaco Gilberto Bernabei, in centoventisei pagine con
molte fotografie, stampato dalla
Tipolitografia Fabbri di Modigliana, raccoglie vari contributi che
consentono di approfondire a tutto tondo le caratteristiche umane e
professionali del personaggio.
L’introduzione di Natale Graziani
che gli fu amico fraterno ci lascia
una testimonianza insolita, riferita ad un periodo che per Bernabei
fu anche di profonda tristezza per
vicende politiche che lo interessarono e che avrebbero potuto avere
conseguenze negative anche per la
sua famiglia. Seguono articoli del
sindaco Claudio Samorì che indugia sulla loro corrispondenza epistolare anche per piccole cose, del
presidente Pier Ferdinando Casini,
delle figlie Paola e Barbara. Vi
sono poi contributi di chi lo ha a
lungo frequentato come Michele
Framonti, Francesco Aulizio,
82
Giancallisto Mazzolini, Vicepresidente dell’Accademia degli
Incamminati, durante la sua appassionata e commossa
evocazione della figura di Gilberto Bernabei.
Gilberto Bernabei (in primo piano) a Modigliana con un Accademico degli Incamminati.
Giancallisto Mazzolini, Cesare
Maccolini e Francesco Fabbri; e
c’è ancora un racconto personale
di Don Bruno Maglioni che ricorda
come Bernabei, inizialmente perplesso, fosse poi convinto a candidarsi a sindaco di Modigliana. In
sede di tornata, invece, è toccato al
vicepresidente dell’Accademia,
Giancallisto Mazzolini, tratteggiarne l’opera, e lo ha ricordato
con tenerezza nelle sue abitudini
anche modeste, nel piacere di giocare e, soprattutto, di vincere, nei
momenti di amarezza che lo hanno però portato ad un atteggiamento “meno fazioso” nei rapporti umani. Molti lo stimavano anche
perché da quelle cariche così importanti è facile cadere nell’altezzosità, mentre egli era rimasto un
uomo semplice e cordiale, con l’insolita abitudine di cercare di risolvere i problemi che ognuno ha e
di cui si occupava personalmente,
a prescindere dal colore politico
dell’interlocutore. Anzi, secondo
alcuni, appariva persino più diligente se il problema sollevato veniva da persone dell’opposta fazione. Modigliana conobbe sotto
la sua guida un periodo di grande
fervore culturale e produttivo tanto che secondo Mazzolini: «Il grande merito di Bernabei fu quello di
aver puntato all’industrializzazione del paese sia aiutando e favorendo le piccole entità artigiane a
crescere sia, successivamente, ad
attrarre investitori da altre zone
d’Italia».
Dopo tale appassionato ricordo
che ha strappato numerosi applausi si è proceduto con la proiezione del filmato Uomini e momenti dell’Accademia degli Incamminati, curato dall’accademico Antonio Graziani, sulla storia e le attività del sodalizio tratte dagli Archivi dell’Istituto Luce e della Rai,
e disponibile per i soci in DVD.
Il Vincastro d’Argento Premio a
una Vita, la più prestigiosa fra le
onorificenze dell’Accademia, è stata consegnata da Antonio Patuelli,
in questa occasione alla sua prima
tornata da Presidente del sodalizio, a S.E. il Cardinale Achille Silvestrini che, nativo di Brisighella e
Caffè Michelangiolo
Il Vincastro
Prefetto della congregazione per le Chiese Orientali, si è
dichiarato «commosso e onorato».
L’ing. Alessandro Ortis, presidente dell’Autorità per
l’Energia ed il Gas, e il prof. Antonio Marzano, presidente del CNEL e già ministro per le attività produttive, hanno poi relazionato con competenza sul tema quanto mai
attuale della tornata Crisi e Potenzialità Energetiche. Alle
ore 12,30, nel pieno rispetto dei tempi previsti, si è proceduto agli adempimenti assembleari dell’Accademia, con
l’esame e l’approvazione all’unanimità del bilancio consuntivo al 31.12.2005. Ma la giornata era dedicata a lui,
Gilberto Bernabei, il sindaco che generazioni di modiglianesi hanno conosciuto. La figlia Paola ha commentato la
doppia manifestazione di gratitudine che l’intera città,
tramite il comune e l’Accademia, ha dedicato a suo padre
con queste parole: «Gli sarebbe piaciuta perché sobria e
partecipata, un affetto per il suo paese che sentiva essere
ricambiato».
Caffè Michelangiolo
Gilberto Bernabei
Presidente rifondatore dell’Accademia degli Incamminati
ricordato da Giancallisto Mazzolini
R
icordare Gilberto Bernabei è – per me – rivivere tanti
momenti della giovinezza trascorsa a Modigliana e ripensare a tante giornate felici vissute fra queste colline,
con la famiglia, gli amici e
la mia gente di Romagna.
Bernabei diventa sindaco
nel 1956 (io, a un anno, ancora gattonavo) ma ho ancora ben vivi in me bambino gli anni immediatamente successivi, il loggiato del
Comune e la palestra della
scuole elementari gremite di
ragazzi per ricevere ogni
anno un pacco regalo, la
Befana del Sindaco. Rivivo
la carezza di Bernabei, il
sorriso del vescovo, Mons.
Ravagli, l’agitazione dell’infaticabile Gino Liverani,
l’emozione per l’estrazione
dei tanti premi, ultimo fra
tutti una utilitaria Fiat, una
seicento, il nostro sogno di
allora.
Ricordo la gioia di noi
bambini nell’aprire quel
pacco fatto di povere cose
se viste con gli occhi di oggi,
alcuni generi alimentari,
zucchero, marmellata, biscotti e qualche pallina dallo strano rimbalzo, qualche
strana macchinina di forgia
americana o robot ma allora, agli inizi degli anni sessanta, era per tutti noi e per
le nostre famiglie un evento
attesissimo e un dono graS.Em. il Cardinale Achille Silvestrini riceve dall’On. Antonio Patuelli, neodito. Ho vissuto e visto,
presidente dell’Accademia, il Vincastro d’Argento.
Vincastro d’Argento Premio a una Vita
Speciale distinzione dell’Accademia degli Incamminati di
Modigliana che, dal 1996, viene conferita agli Incamminati che nel corso degli anni
hanno imspresso particolare
nobiltà e valore alla loro vita
con l’eccellenza degli studi,
delle ricerche e delle opere,
oppure con esemplari virtù
civili o religiose. Il premio
ha valore simbolico e rievoca (modernamente ridisegnato e con artistica impugnatura d’argento) il vincastro che, nel 1960, fu adottato quale simbolo della
neonata “Accademia dei Pastori del Marzeno”, detta poi
“Accademia degli Incamminati di Modigliana”.
Motivazione del Premio
Laureato in Lettere nell’Università di Bologna e,
successivamente, in utroque
iure alla facoltà di Diritto
nella Pontificia Università
Lateranense, Don Achille
Silvestrini, nativo di Brisighella e Accademico degli
Incamminati, nel 1953 entrava a far parte del servizio
diplomatico della Santa
Sede e, nell’ambito della Sezione per gli Affari Ecclesiastici Straordinari della Segreteria di Stato, si dedicava
ai problemi del Sud-Est
Asiatico. Presente nel Consiglio per gli Affari Pubblici
della Chiesa (di cui per nove anni sarà Segretario) coi Papi
Pio xii, Giovanni xxiii, Paolo vi e Giovanni Paolo ii, si dimostrava diplomatico di profonda dottrina, particolarmente sensibile ed impegnato nella difesa dei diritti dell’uomo,
del disarmo e della pace nel mondo.
Ha guidato la delegazione della santa Sede per la revisione del Concordato Lateranense del 1929 e ha condotto le
trattative con la rappresentanza del nostro Paese fino alla
firma del nuovo Concordato il 18 febbraio 1984.
Il Santo Padre gli ha conferito l’ordinazione episcopale il
27 maggio 1979, e il 28 giugno 1988 lo ha elevato alla dignità di Cardinale di Santa Romana Chiesa, nominandolo
poi Prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali.
83
Il Vincastro
giorno dopo giorno, la ricostruzione e lo sviluppo del pae- de in maniera inimmaginabile, all’arrivo di nuove industrie
se, l’asfaltatura delle strade, la costruzione della rete fo- che producono trattori per l’esercito, componentistica per
gnaria, l’illuminazione pubblica, la sistemazione dell’ac- le grandi case automobilistiche, si insedia anche un magliquedotto, l’ampliamento dell’ospedale.
ficio e poi apre e si sviluppa una azienda elettronica. Con
Ricordo in particolare la realizzazione della nuova scuo- l’industria cresce il tessuto artigiano, cresce il terziario, si
la media che la mia classe inaugurò, la realizzazione del sviluppano i servizi, si creano nuovi insediamenti abitatinuovo ponte per eliminare il traffico pesante dal centro del vi. La stessa agricoltura si specializza.
paese, la realizzaÈ il grande mizione degli im racolo economico
pianti sportivi, il
di Modigliana che
palazzetto dello
supera di gran
sport, la piscina, i
lunga il miracolo
campi da tennis,
italiano: negli
impianti che per
anni settanta ed
tanti anni ci hanottanta abbiamo
no invidiato i viqui, a Modigliana,
cini comuni.
il più alto tasso di
Potrei contioccupazione a linuare ad elencare
vello nazionale, i
tutte le opere readepositi bancari
lizzate dall’ammiaumentano come
nistrazione Bernail reddito pro cabei in trenta anni
pite con paramedi attività e che
tri che distaccano
hanno fatto di
di gran lunga la
Modigliana quella
media regionale e
cittadina così granazionale. Si cerdevole come oggi
ca anche di mici appare.
gliorare la qualità
Certo, con temdella vita e vengola premiazione, il Cardinale Silvestrini rivolge un ringraziamento alla Presidenza e un saluto agli
pi e modalità di- Dopo
no realizzate iniAccademici. Al tavolo della Presidenza, da sinistra: Natale Graziani, Alessandro Ortis, Antonio Patuelli,
verse tali opere le Antonio Marzano. La tornata si è svolta nel tempio-auditorio di San Bernardo a Modigliana.
ziative ed eventi
avrebbero poi reaunici per quei molizzate la quasi totalità delle nostre amministrazioni di Ro- menti, in tutta la regione: penso alle iniziative per il ferramagna, in quanto ormai conquista di tutte le cittadine del gosto modiglianese. La gente ancora non andava in ferie ed
nostro appennino.
anzi in paese venivano ogni anno i parenti lontani e alcuni
Non è tanto per l’ordinaria amministrazione, seppur villeggianti a trascorrere i mesi estivi.
esemplare, che va dato merito a Bernabei. Vivendo a Roma,
Sempre grazie a Bernabei ecco venire cantanti famosi,
aveva trovato molti validi e fidati collaboratori a Modiglia- Mina, Celentano, Morandi, Rita Pavone per citarne alcuni,
na (per tutti,vorrei ricordare Domenico Monti, il vicesinda- con un pubblico che arriva da tutta la Romagna ed auto
co storico). Il dato peculiare e caratterizzante l’ammini- parcheggiate per chilometri lungo la provinciale verso
strazione Bernabei è la trasformazione del tessuto economico Faenza. E poi squadre di calcio, il Milan di Nereo Rocco,
del paese da agricolo ad altamente industriale.
l’Inter di Herrera, la Fiorentina e il Bologna, per disputaBernabei nel 1956 trova una situazione di forte disoc- re ogni anno partite amichevoli con la squadra locale. Nacupazione non solo giovanile, una precarizzazione reale scono anche sagre popolari come la festa del sangiovese che
del lavoro legata alle stagionalità in campagna, dai mez- si volle a marzo, per san Giuseppe; prendono avvio mostre
zaioli ai braccianti per i quali vengono creati cantieri di la- culturali e fra tutte basta citare il premio Lega che ha rivoro per rimboschimenti e rifacimento di strade di cam- lievo nazionale.
pagna o legati ad emergenze come la spalatura della neve
Grazie a Bernabei rinasce anche l’Accademia degli Inin inverno e alle mietiture in estate. C’è una povertà reale. camminati che prende vita e struttura dopo una trentennaÈ forte l’emigrazione ed ho vivo il ricordo di vari compa- le inattività grazie anche all’aiuto prezioso di Michele Fragni di gioco all’asilo partiti per il Belgio così come è forte monti. E anche qui permettetemi i ricordi, le Tornate, i
lo spopolamento delle nostre campagne verso le terre più lunghi convegni, tanti personaggi importanti, politici, mifertili del ravennate.
nistri, giornalisti. Ripenso ai temi di forte attualità allora e
Il grande merito di Bernabei come sindaco è quello di ancor più oggi, la giustizia, l’energia, l’ambiente, l’inforaver puntato alla industrializzazione del paese sia aiutan- mazione, l’Europa e il voto agli italiani all’estero, lunga
do e favorendo le piccole entità artigiane a crescere sia, suc- battaglia e cruccio già allora per Bernabei: e tutti temi tratcessivamente, ad attrarre, come oggi si usa dire, investito- tati in maniera approfondita, sviscerati nei vari aspetti seri da altre zone d’Italia. Penso alla ditta Alpi che si espan- zionati nei particolari.
84
Caffè Michelangiolo
Il Vincastro
Erano tornate lunghe, due giornate di dibattiti e discus- cuore. Non erano più gli anni del potere. Erano gli anni delsioni intensissime a volte: confesso, per noi giovani anche l’amarezza che spesso traspariva anche nelle lettere che
noiose, ma con il passare degli anni ho pensato che siano sta- scriveva. Con l’onestà ed il senso dell’amicizia e del dovete di grande aiuto nella elaborazione di leggi e provvedimen- re tipici di una vecchia classe, direi razza romagnola, aveti per l’Italia. I relatori che si confrontavano erano tanti ed va pagato un alto prezzo morale per colpe e responsabilità
erano politici, dirigenti dello stato, docenti universitari, quel- non sue. Era consapevole però che la sua terra, la sua genli stessi che poi rientrati nel loro operare quotidiano manda- te di Romagna l’avrebbe sempre amato e rispettato e qui a
vano avanti l’attiModigliana trovavità legislativa ed
va rifugio dalle
amministrativa
amarezze e tornadello stato e che
va sempre con la
traevano da questi
massima gioia.
incontri idee, spunA volte passati, indicazioni. Ma
vamo dei pomerigl’Accademia servigi a casa del ragiova anche per avvinier Cappelli a
cinare Modigliana
giocare a scopone
e la sua gente ale briscola (amava
l’ambiente imporgiocare a carte ed
tante di Roma.
era particolarmenBernabei era
te bravo) ma guai
uomo di grande
a sbagliare! Racumanità, uomo di
contava episodi
azione e con grandella sua giovinezde senso pratico,
za, di quando aiudi poche parole, a
tava il padre che
volte spicciativo
gestiva un’osteria
ma abituato ad afed il venerdì in bifrontare e risolvere
cicletta a volte anil problemi. A Modava fino a Lutidigliana ha aiutato
rano a consegnare
tanta gente, tante Il riforndatore dell’Accademia, Gilberto Bernabei con il soprano forlivese Wilma Vernocchi, a Modigliana. il pesce; o quando
persone ad inserirper raggiungere
si nel mondo del lavoro, tanti anziani a districarsi nelle vi- Firenze dove studiava dai Padri Scolopi si fermava a dorcende pensionistiche, tanti giovani “a fare” – e voglio sot- mire a Marradi a casa di Don Annunzio Tagliaferri e sentitolineare a fare perché lo riteneva un dovere civico – un ser- va per tutta la notte lo scrosciare di un rio vicino.
vizio militare più dignitoso.
Lo ricordo a Roma ormai invalido, nella casa piena di liBernabei aveva bisogno di Roma, di quella macchina am- bri e ricordi, con la moglie che gli preparava la crema con
ministrativa di cui era perfetto conoscitore, di quei tanti fun- l’alchermes e ricordo quel giorno dell’ottobre 1990 quando
zionari suoi amici che lo stimavano ed amavano e l’Accade- ricevette la cittadinanza onoraria dal Comune e la Accademia era anche un mezzo per avvicinare Modigliana a questo mia lo nominò Principe a vita.
ambiente, per portare ed ospitare personaggi in Romagna,
Bernabei ha fatto tanto per Modigliana, per la sua genquegli stessi personaggi che poi avrebbero ricambiato aiu- te, per l’amministrazione e per l’Accademia. Modigliana
tandolo nelle legittime richieste per le opere pubbliche e per non lo ha mai dimenticato e gli è sempre stata grata. Lo abla gente del paese. Bernabei aiutava tutti, indistintamente e biamo voluto Sindaco e Presidente dell’Accademia fino alla
non ha mai chiesto a nessuno l’appartenenza politica.
morte, anche quando le condizioni fisiche avrebbero consiLe esperienze passate di cui non ha mai parlato, le di- gliato soluzioni diverse.
savventure nel primo dopoguerra, le amarezze per le ingiuSpesso a Roma quando in vari ambienti, Ministeri o
stizie subite lo avevavo allontanato dalla faziosità e dalle di- Enti, mi capita di dire che sono di Modigliana tanti ricorvisioni della vita politica anche locale ed è sempre stato il dano ancora Gilberto Bernabei ed ancora ne conservano
sindaco di tutti benché anche a Modigliana non abbia tro- una stima profonda come persona seria, onesta e grande lavato, spesso, vita facile. Ho conosciuto bene Bernabei e gli voratore. Quello che in Romagna si riassume con il termine
sono stato vicino dalla fine degli anni settanta, coincidenti “galantuomo”.
con il mio impegno politico a Modigliana nella Democrazia
Giudizi meno lusinghieri sono espressi nei confronti di alCristiana fino a quel triste giorno di ottobre del 1990 quan- tre personalità con cui Bernabei ha collaborato. Ma Roma
do vedemmo allontanarsi l’auto ambulanza dall’Hotel del- – lo sappiamo – è abituata a osannare e poi subito obliare
la città verso Forlì.
anche re, papi, imperatori.
Lo ricordo nelle sedute comunali, nelle manifestazioni e
Modigliana e l’Accademia invece ricorderanno sempre, e
nei vari incontri per affrontare i problemi che gli stavano a anche oggi siamo qui per questo, Gilberto Bernabei.
■
Caffè Michelangiolo
85
NOVITÀ
Pagliai Polistampa
Premio
Finalista
Nazionale
PREMIO
VIAREGGIO
2005
CORRADO
ALVARO
Opera Prima
Opera Prima
2006
Finalista
PREMIO VIAREGGIO 2005
Opera Prima
Mario Domenichelli, anglista e comparatista, docente all’Università di Firenze,
esordisce come romanziere inaugurando la nuovissima collana
di narrativa italiana e straniera “I coloniali” per i tipi di Pagliai Polistampa.
Ambientata nella Somalia del 1989, poco prima che la caduta di Siad Barre
trascinasse il paese nel caos del tribalismo e alla mercé dei signori della guerra,
è la storia densa e avvincente di Tomas, un bizzarro e elusivo professore che nell’ambito
della Cooperazione italiana insegna nell’Università di Magadiscio.
E con lui, di una generazione e di un mondo crudelmente ingannati.
11,5 x 21 cm., 272 pagine, € 14,00
Edizioni Polistampa
Via Livorno 8/31 - 50142 Firenze - Tel. 055.7326272 - Fax 055.7377428
e-mail: [email protected] - http://www.polistampa.com
86
Caffè Michelangiolo
I fascicoli pubblicati
ANNO I - N. 1 - GENNAIO-APRILE 1996
ANNO I - N. 2 - MAGGIO-AGOSTO 1996
ANNO I - N. 3 - SETTEMBRE-DICEMBRE 1996
ANNO II - N. 1 - GENNAIO-APRILE 1997
ANNO II - N. 2 - MAGGIO-AGOSTO 1997
ANNO II - N. 3 - SETTEMBRE-DICEMBRE 1997
CAFFÈ MICHELANGIOLO
CAFFÈ MICHELANGIOLO
CAFFÈ MICHELANGIOLO
CAFFÈ MICHELANGIOLO
CAFFÈ MICHELANGIOLO
CAFFÈ MICHELANGIOLO
QUADRIMESTRALE
SPEDIZIONE
ABBONAMENTO POSTALE 50%
LIRE 15.000
RIVISTA DI DISCUSSIONE
ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI
ANNO I - N. 1
GENNAIO-APRILE 1996
QUADRIMESTRALE
SPEDIZIONE ABBONAMENTO POSTALE
COMMA 26 ART. 2 LEGGE 549/95 FIRENZE
LIRE 15.000
RIVISTA DI DISCUSSIONE
ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI
ANNO I - N. 2
MAGGIO-AGOSTO 1996
QUADRIMESTRALE
SPEDIZIONE ABBONAMENTO POSTALE
COMMA 26 ART. 2 LEGGE 549/95 FIRENZE
LIRE 15.000
RIVISTA DI DISCUSSIONE
ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI
ANNO I - N. 3
SETTEMBRE-DICEMBRE 1996
QUADRIMESTRALE
SPED. ABB. POST. 45% ART. 2 COMMA 20/B
LEGGE 662/96 - FILIALE DI FIRENZE
LIRE 15.000
RIVISTA DI DISCUSSIONE
ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI
ANNO II - N. 1
GENNAIO-APRILE 1997
QUADRIMESTRALE
SPED. ABB. POST. 45% ART. 2 COMMA 20/B
LEGGE 662/96 - FILIALE DI FIRENZE
LIRE 15.000
RIVISTA DI DISCUSSIONE
ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI
ANNO II - N. 2
MAGGIO-AGOSTO 1997
QUADRIMESTRALE
SPED. ABB. POST. 45% ART. 2 COMMA 20/B
LEGGE 662/96 - FILIALE DI FIRENZE
LIRE 15.000
RIVISTA DI DISCUSSIONE
ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI
ANNO II - N. 3
SETTEMBRE-DICEMBRE 1997
EDIZIONI POLISTAMPA FIRENZE
EDIZIONI POLISTAMPA FIRENZE
EDIZIONI POLISTAMPA FIRENZE
EDIZIONI POLISTAMPA FIRENZE
EDIZIONI POLISTAMPA FIRENZE
EDIZIONI POLISTAMPA FIRENZE
In copertina: Gianna Manzini
In copertina: Diego Martelli
In copertina: Giuseppe Tomasi di Lampedusa
In copertina: Marino Moretti
In copertina: Curzio Malaparte
In copertina: Renzo Grazzini
ANNO III - N. 1 - GENNAIO-APRILE 1998
ANNO III - N. 2 - MAGGIO-AGOSTO 1998
ANNO III - N. 3 - SETTEMBRE-DICEMBRE 1998
ANNO IV - N. 1 - GENNAIO-APRILE 1999
ANNO IV - N. 2 - MAGGIO-AGOSTO 1999
ANNO IV - N. 3 - SETTEMBRE-DICEMBRE 1999
CAFFÈ MICHELANGIOLO
CAFFÈ MICHELANGIOLO
CAFFÈ MICHELANGIOLO
CAFFÈ MICHELANGIOLO
CAFFÈ MICHELANGIOLO
CAFFÈ MICHELANGIOLO
RIVISTA DI DISCUSSIONE
ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI
ANNO III - N. 1
GENNAIO-APRILE 1998
RIVISTA DI DISCUSSIONE
ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI
ANNO III - N. 2
MAGGIO-AGOSTO 1998
RIVISTA DI DISCUSSIONE
ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI
ANNO III - N. 3
SETTEMBRE-DICEMBRE 1998
RIVISTA DI DISCUSSIONE
ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI
ANNO IV - N. 1
GENNAIO-APRILE 1999
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SPED. ABB. POST. 45% ART. 2 COMMA 20/B
LEGGE 662/96 - FILIALE DI FIRENZE
LIRE 15.000
QUADRIMESTRALE
SPED. ABB. POST. 45% ART. 2 COMMA 20/B
LEGGE 662/96 - FILIALE DI FIRENZE
LIRE 15.000
QUADRIMESTRALE
SPED. ABB. POST. 45% ART. 2 COMMA 20/B
LEGGE 662/96 - FILIALE DI FIRENZE
LIRE 15.000
QUADRIMESTRALE
SPED. ABB. POST. 45% ART. 2 COMMA
20/B LEGGE 662/96 - FILIALE DI FIRENZE
LIRE 15.000
QUADRIMESTRALE
SPED. ABB. POST. 45% ART. 2 COMMA
20/B LEGGE 662/96 - FILIALE DI FIRENZE
LIRE 15.000
RIVISTA DI DISCUSSIONE
ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI
ANNO IV - N. 2
MAGGIO-AGOSTO 1999
QUADRIMESTRALE
SPED. ABB. POST. 45% ART. 2 COMMA
20/B LEGGE 662/96 - FIRENZE
LIRE 15.000
RIVISTA DI DISCUSSIONE
ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI
ANNO IV - N. 3
SETTEMBRE-DICEMBRE 1999
EDIZIONI POLISTAMPA FIRENZE
EDIZIONI POLISTAMPA FIRENZE
EDIZIONI POLISTAMPA FIRENZE
EDIZIONI POLISTAMPA FIRENZE
EDIZIONI POLISTAMPA FIRENZE
EDIZIONI POLISTAMPA FIRENZE
In copertina: Carlos Drummond de Andrade
In copertina: Piero Camporesi
In copertina: Mario Benedetti
In copertina: Vittorio Alfieri
In copertina: Ángel González
In copertina: Luigi Gioli
ANNO V - N. 1 - GENNAIO-APRILE 2000
ANNO V - N. 2 - MAGGIO-AGOSTO 2000
ANNO V - N. 3 - SETTEMBRE-DICEMBRE 2000
ANNO VI - N. 1 - GENNAIO-APRILE 2001
ANNO VI - N. 2 - MAGGIO-AGOSTO 2001
ANNO VI - N. 3 - SETTEMBRE-DICEMBRE 2001
CAFFÈ MICHELANGIOLO
CAFFÈ MICHELANGIOLO
CAFFÈ MICHELANGIOLO
CAFFÈ MICHELANGIOLO
CAFFÈ MICHELANGIOLO
CAFFÈ MICHELANGIOLO
RIVISTA DI DISCUSSIONE
ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI
ANNO V - N. 3
SETTEMBRE-DICEMBRE 2000
RIVISTA DI DISCUSSIONE
ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI
ANNO VI - N. 1
GENNAIO-APRILE 2001
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SPED. ABB. POST. 45% ART. 2 COMMA
20/B LEGGE 662/96 - FILIALE DI FIRENZE
LIRE 15.000
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ANNO V - N. 1
GENNAIO-APRILE 2000
QUADRIMESTRALE
SPED. ABB. POST. 45% ART. 2 COMMA
20/B LEGGE 662/96 - FILIALE DI FIRENZE
LIRE 15.000
RIVISTA DI DISCUSSIONE
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ANNO V - N. 2
MAGGIO-AGOSTO 2000
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SPED. ABB. POST. 45% ART. 2 COMMA
20/B LEGGE 662/96 - FIRENZE
LIRE 15.000
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SPED. ABB. POST. 45% ART. 2 COMMA 20/B
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€ 7,75 (LIRE 15.000)
QUADRIMESTRALE
SPED. ABB. POST. 45% ART. 2 COMMA 20/B
LEGGE 662/96 - FIRENZE
€ 7,75 (LIRE 15.000)
RIVISTA DI DISCUSSIONE
ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI
ANNO VI - N. 2
MAGGIO-AGOSTO 2001
QUADRIMESTRALE
SPED. ABB. POST. 45% ART. 2 COMMA 20/B
LEGGE 662/96 - FIRENZE
€ 7,75 (LIRE 15.000)
RIVISTA DI DISCUSSIONE
ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI
ANNO VI - N. 3
SETTEMBRE-DICEMBRE 2001
EDIZIONI POLISTAMPA
EDIZIONI POLISTAMPA
EDIZIONI POLISTAMPA
PAGLIAI POLISTAMPA
PAGLIAI POLISTAMPA
PAGLIAI POLISTAMPA
In copertina: Simone Ciani
In copertina: Vittorio e Andrea Gassman
In copertina: Enrico Vallecchi
In copertina: Mauro Bolognini
In copertina: Marcel Duchamp
In copertina: Sean Connery (James Bond)
ANNO VII - N. 1 - GENNAIO-APRILE 2002
ANNO VII - N. 2 - MAGGIO-AGOSTO 2002
ANNO VII - N. 3 - SETTEMBRE-DICEMBRE 2002
ANNO VIII - N. 1 - GENNAIO-APRILE 2003
ANNO VIII - N. 2 - MAGGIO-AGOSTO 2003
ANNO VIII - N. 3 - SETTEMBRE-DICEMBRE 2003
CAFFÈ MICHELANGIOLO
CAFFÈ MICHELANGIOLO
CAFFÈ MICHELANGIOLO
CAFFÈ MICHELANGIOLO
CAFFÈ MICHELANGIOLO
CAFFÈ MICHELANGIOLO
QUADRIMESTRALE
SPED. ABB. POST. 45% ART. 2 COMMA 20/B
LEGGE 662/96 - FIRENZE
€ 8,00
RIVISTA DI DISCUSSIONE
ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI
ANNO VII - N. 1
GENNAIO-APRILE 2002
QUADRIMESTRALE
SPED. ABB. POST. 45% ART. 2 COMMA 20/B
LEGGE 662/96 - FIRENZE
€ 8,00
RIVISTA DI DISCUSSIONE
ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI
ANNO VII - N. 2
MAGGIO-AGOSTO 2002
QUADRIMESTRALE
SPED. ABB. POST. 45% ART. 2 COMMA 20/B
LEGGE 662/96 - FIRENZE
€ 8,00
RIVISTA DI DISCUSSIONE
ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI
ANNO VII - N. 3
SETTEMBRE-DICEMBRE 2002
QUADRIMESTRALE
SPED. ABB. POST. 45% ART. 2 COMMA 20/B
LEGGE 662/96 - FIRENZE
€ 8,00
RIVISTA DI DISCUSSIONE
ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI
ANNO VIII - N. 1
GENNAIO-APRILE 2003
QUADRIMESTRALE
SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE
70% - DCB - FIRENZE
€ 8,00
RIVISTA DI DISCUSSIONE
ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI
ANNO VIII - N. 2
MAGGIO-AGOSTO 2003
QUADRIMESTRALE
SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE
70% - DCB - FIRENZE
€ 8,00
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ACCADEMIA DEGLI INCAMMINATI
ANNO VIII - N. 3
SETTEMBRE-DICEMBRE 2003
PAGLIAI POLISTAMPA
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PAGLIAI POLISTAMPA
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PAGLIAI POLISTAMPA
In copertina: Dino Campana
In copertina: Carlo Levi
In copertina: Anton Čechov
In copertina: Leo Ferrero
In copertina: Lalla Romano
In copertina: Elémire Zolla
ANNO IX - N. 1 - GENNAIO-APRILE 2004
ANNO IX - N. 2 - MAGGIO-AGOSTO 2004
ANNO IX - N. 3 - SETTEMBRE-DICEMBRE 2004
ANNO X - N. 1 - GENNAIO-APRILE 2005
ANNO X - N. 2 - MAGGIO-AGOSTO 2005
ANNO X - N. 3 - SETTEMBRE-DICEMBRE 2005
ISSN 1826-2546
CAFFÈ MICHELANGIOLO
QUADRIMESTRALE
SPED. ABB. POST. 45% ART. 2 COMMA 20/B
LEGGE 662/96 - FIRENZE
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GENNAIO-APRILE 2004
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In copertina: Federico Fellini
Caffè Michelangiolo
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In copertina: Luigi Dallapiccola
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SETTEMBRE-DICEMBRE 2004
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In copertina: Giovanni Boldini
In copertina: Giacomo Puccini
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In copertina: Luigi Bertelli (Vamba)
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In copertina: Ezra Pound
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BARI
Libreria Feltrinelli
Via Melo da Bari, 117 - Tel. 080 5207511
BOLOGNA
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Alta Marea La Libreria Delle Donne
Via S. Felice, 16/A - Tel. 051 271754
CAGLIARI
Libreria Cocco Le Nuove
Via Dante, 50 - Tel. 070 663887
CATANIA
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Viale Ionio, 32 - Tel. 095 310414
CESENA
Libreria Bettini
Via Vescovado, 5 - Tel. 0547 21634
FERRARA
Libreria Sognalibro
Via Saraceno, 43 - Tel. 0532 204644
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P.za Repubblica, 27 r - Tel. 055 213110
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Via Martelli, 22 r - Tel. 055 2657635
Libreria Le Monnier
Via San Gallo, 49 r - Tel. 055 483215
FOGGIA
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Via Oberdan, 1/9/11 - Tel. 0881 725133
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MACERATA
Libreria Bottega Del Libro
Corso Repubblica Italiana, 9 - Tel. 0733 230046
MILANO
Libreria Pecorini
Foro Buonaparte, 48 - Tel. 02 86460660
MODENA
Libreria Nuova Tarantola
Via dei Tintori, 22 - Tel. 059 224292
PARMA
Libreria Bottega Del Libro
Via Nazario Sauro, 5 - Tel. 0521 232469
PERUGIA
Libreria «La Libreria»
Via Oberdan, 52 - Tel. 075 5735057
RIMINI
Libreria Riminese
Piazzetta Gregorio da Rimini, 13 - Tel. 0541 26417
ROMA
Libreria Feltrinelli
Via Vittorio Emanuele Orlando, 78 - Tel. 06 4870171
UDINE
Libreria Tarantola
Via Vittorio Veneto, 208 - Tel. 0432 502459
URBINO
Montefeltro Libri
Via Veneto, 35 - Tel. 0722 329523
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ANNO XI - N. 3 - SETTEMBRE-DICEMBRE 2006
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SETTEMBRE-DICEMBRE 2005
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In copertina: Harold Pinter
In copertina: Oriana Fallaci
In copertina: Giosue Carducci
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