George Crumb La musica ha un futuro?

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George Crumb La musica ha un futuro?
George Crumb
La musica ha un futuro?
Spesso la domanda "quale sia il futuro della musica" provoca discussioni tra compositori ed ascoltatori. Nutro il sospetto che, di solito,
venga attribuito a questa discussione anche un altro implicito significato: sia il dubbio se la musica possa mai tornare ad essere tanto
forte e rilevante quanto lo è stata in passato in alcune "epoche d'oro", sia, viceversa, la speranza che la innegabile frenetica attività attuale
presagisca una futura "epoca d'oro" tanto gloriosa e ricca di conquiste quanto quelle del passato! Ma anche il più timido tentativo di
profetizzare deve basarsi su una attenta valutazione dei primi sviluppi e delle tendenze attuali. Il futuro sarà figlio del passato e del
presente, anche se un figlio ribelle.
Per noi è relativamente facile dare un'occhiata retrospettiva. Se osserviamo attentamente la storia della musica, non è difficile isolare
alcuni elementi dal potenziale assai elevato che per decadi, se non addirittura per secoli, hanno nutrito l'arte della musica. Il concetto
dinamico della forma sonata è un esempio lampante di un'idea che ha stregato i compositori di due secoli, almeno fino a Béla Bart!k.
Naturalmente, la forma sonata era fortemente legata all'evoluzione della tonalità funzionale e la tonalità stessa, da sola, rappresenta un
altro concetto embrionale dal potenziale elevato.
Quali sono, allora, le tendenze e gli impulsi significativi e caratteristici che nella musica contemporanea potrebbero proiettarsi nel futuro?
Sono certo che oggi la maggior parte dei compositori considererebbe ricca, per non dire sconcertante, la musica attuale con le sue
enormi diversità di stile, di procedure tecniche e di sistemi estetici. Forse un tentativo di isolare gli aspetti peculiari della nostra musica ci
permetterà di ottenere una prospettiva del panorama futuro.
Un aspetto molto importante della nostra cultura musicale contemporanea - aspetto da alcuni considerato addirittura di importanza
estrema - riguarda la sua estensione storica e geografica, che oggi raggiunge livelli che nel passato erano sconosciuti. Per quanto
concerne l'estensione storica, nel senso reale del termine, attualmente tutta la storia e la letteratura musicale sono virtualmente a nostra
disposizione sia attraverso le esecuzioni dal vivo, sia per mezzo di eccellenti incisioni discografiche. Laddove i compositori del passato,
invece, conoscevano al massimo la musica di una o due generazioni antecedenti. Le conseguenze di questa maggiore consapevolezza
della nostra eredità personale sono assai evidenti in molti compositori recenti. Per esempio, mi viene in mente l'influenza esercitata dalla
musica medioevale sul compositore inglese Peter Maxwell Davies. Per molti compositori come lui, il suono di questo tipo di musica talvolta aspro e duro, talvolta sottile e misteriosamente dolce - si avvicina assai più all'ideale sonoro contemporaneo di quello di un
Brahms o di un Richard Strauss. Inoltre, ho notato che le persone dei molti paesi da me visitati manifestano un interesse sempre
maggiore nei confronti della musica classica e tradizionale del loro paese. Forse siamo arrivati a considerarci filosoficamente
contemporanei di tutte le precedenti culture. Ed è probabile che al giorno d'oggi sia maggiore il numero di coloro che ritengono che le
culture si evolvono secondo uno schema spiraliforme piuttosto che lineare e che, all'interno dei cerchi concentrici della spirale, sia più
facile individuare i punti di contatto e di separazione della musica.
Per estensione geografica s'intende, naturalmente, che la totalità della cultura musicale del pianeta Terra si sta unificando. Per esempio,
al giorno d'oggi un compositore americano o europeo ha accesso alla musica di diverse culture asiatiche, africane o sudamericane.
Facilmente sono disponibili numerose incisioni di musica non occidentale, così come è possibile ascoltare esecuzioni dal vivo di gruppi in
tournées persino nelle piccole città. Ovviamente, queste influenze verranno percepite a diversi livelli: solo pochi compositori occidentali
conosceranno la sofisticata tecnica di un raga indiano, anche se, in linea generale, il suono, la struttura e i gesti di questa musica saranno
ben noti. Questa consapevolezza della musica nel senso più ampio del termine - in quanto fenomeno di entità mondiale - avrà
inevitabilmente conseguenze enormi sulla musica del futuro.
Indubbiamente in virtù delle estensioni geografiche e storiche della cultura alle quali mi riferisco, il nostro mondo musicale
contemporaneo è assai più ricco di quello dei precedenti periodi. Come termine di paragone è indicativo scegliere un compositore
rappresentativo europeo del diciannovesimo secolo e definirne gli orizzonti culturali. Un esempio calzante potrebbe essere il
compositore francese Hector Berlioz, perché la sua musica fu ritenuta d'avanguardia dai suoi contemporanei. Consideriamo dapprima la
dimensione storica. Penso che concorderemo tutti sul fatto che i contatti di Berlioz con la musica scritta prima del periodo classico
viennese siano stati minimi, nonostante la dichiarata enorme influenza esercitata da Beethoven sulla sua evoluzione. Visto lo stile
rudimentale del fugato in molte sue opere, dubito, inoltre, che egli avesse una reale conoscenza della tecnica compositiva e dello stile
del periodo barocco. Egli parlava di Palestrina in termini dispregiativi e, a proposito del suo contatto con la musica non occidentale,
sappiamo che nel 1851 visitò Londra in occasione di una importante mostra dove presenzi" ad alcune esecuzioni dal vivo di musica
cinese ed indiana: questo compositore progressista e moderno non fu in grado di ricavare un senso da ciò che ascoltava. Così egli
descrive la musica cinese:
non farò il tentativo di spiegare questi miagolii da gatto selvatico, questi rantoli della morte, né questo chiocciare di tacchino nel mezzo
dei quali sono riuscito, nonostante la mia più grande attenzione, ad individuare solamente quattro note. (in H. Berlioz, Evenings with the
Orchestra, New York, A. Knopf, 1956, pp. 249-250)
E la sua descrizione della musica indiana è ancora meno allettante!
Probabilmente il processo incrociato di fertilizzazione tra le culture musicali non ha avuto inizio prima della seconda guerra mondiale,
sebbene sia possibile individuarne i primi albori verso la fine del diciannovesimo secolo in Musorgskis e, ancora più chiaramente, in
Debussy. In confronto a Mozart e Beethoven, per i quali la musica esotica era rappresentata dai piatti e dal tamburo basso presi in
prestito dalla musica dei giannizzeri turchi, questo costituisce un livello relativamente elevato di sofisticazione!
Lasciando da parte queste ampie influenze culturali che contribuiranno alla formazione della nostra contemporanea psiche musicale,
dobbiamo considerare anche l'eredità, alquanto sconcertante, ricevuta dai primi compositori del ventesimo secolo in materia di tecnica
e procedura compositiva. Sebbene dobbiamo essere impressionati dall'enorme crescita di elementi nuovi del vocabolario nell'ambito di
intonazione, ritmo, timbro e così via, in molta musica recente percepisco anche la perdita di un superiore principio unificante. Non solo
è irrisolta la questione della tonalità, ma non abbiamo ancora sviluppato niente di paragonabile al sicuro istinto della forma che
abitualmente ricorre nella musica tradizionale. Anzi, ciascun nuovo brano sembra richiedere una soluzione particolare, che è valida solo
per se stesso. Nonostante si possa dare molto poco per scontato, nell'articolare queste nostre concezioni c'è sicuramente un senso di
avventura e di sfida: e forse, nei compositori del passato tendiamo a sottovalutare l'elemento di conflitto formale spesso presente nelle
loro opere. Tuttavia, ho la sensazione che sarà un compito futuro sintetizzare, in qualche modo, le marcate diversità delle nostre risorse
attuali in procedure più organiche e ordinate.
Forse potremmo vedere ora alcuni degli aspetti specificamente tecnici della nostra musica e riflettere sulle loro potenzialità di sviluppo
futuro. Certamente, l'avvento del suono sintetizzato elettronicamente dopo la seconda guerra mondiale ha avuto un'influenza enorme
sulla musica in generale. Sebbene io non mi sia mai lasciato coinvolgere direttamente dalla musica elettronica, sono del tutto
consapevole del fatto che sia stata radicalmente rivista la nostra percettività delle caratteristiche sonore, dell'articolazione, della struttura
e della dinamica e che tutto ci" influenzi moltissimo la scrittura strumentale. E poiché mi sono sempre interessato alle possibilità del
linguaggio strumentale, posso solo considerare benefica l'influenza dell'elettronica. Recentemente ho avuto una discussione con Mario
Davidovskij, secondo me il più elegante compositore elettronico, di cui io conosca la musica. L'opinione di Davidovskij è che i primi
compositori di musica elettronica avevano, nei confronti di questo nuovo mezzo, una vera e propria percezione messianica. Durante gli
euforici giorni di intensa sperimentazione, alcuni compositori sentirono che, per le sue possibilità apparentemente illimitate, la musica
elettronica avrebbe un giorno preso il posto della musica convenzionale. Oggi, Davidovskij considera il mezzo elettronico
euforici giorni di intensa sperimentazione, alcuni compositori sentirono che, per le sue possibilità apparentemente illimitate, la musica
elettronica avrebbe un giorno preso il posto della musica convenzionale. Oggi, Davidovskij considera il mezzo elettronico
semplicemente come un importante linguaggio a disposizione di qualsiasi compositore che voglia farne uso, oltre che un prezioso
strumento per raffinare l'orecchio. In ogni caso, è ovvio che il mezzo elettronico di per sé non risolve nessuno dei principali problemi
del compositore correlati alla creazione di uno stile vitale mediante l'invenzione di materiale tematico differenziato e l'articolazione della
forma. Lo sviluppo di nuovi linguaggi strumentali e vocali ha rappresentato uno dei fenomeni più rilevanti della musica recente.
Indubbiamente, a ciò hanno contribuito diversi fattori: l'influenza delle tecniche strumentali della musica folk, l'influenza del jazz nonché,
più tardi, le tecniche rock, la liberazione degli strumenti a percussione (uno sviluppo per il quale Bart!k ha svolto un ruolo di particolare
importanza) ed, infine, l'avvento di un numero sempre maggiore di giovani strumentisti e cantanti che si specializzano nell'esecuzione di
musica contemporanea e che, a loro volta sono interessati a sperimentare le risorse dei loro strumenti. Naturalmente lo sviluppo del
linguaggio è dovuto ad un processo estesosi per l'arco di diversi secoli: compito di ogni secolo, infatti, è la reinvenzione degli strumenti in
concomitanza con i mutamenti stilistici e le modalità di espressione.
Un esempio di questo processo è visibile nello sviluppo del linguaggio pianistico: nelle mani di Beethoven l'ambito espressivo del
pianoforte è stato progressivamente ampliato. L'espansione graduale di questo strumento come ambito, capacità di mantenere il suono
e la sua brillantezza, e le possibilità date dall'effetto del pedale che lascia vibrare una sola corda sono ampiamente utilizzati in tutta la
vasta letteratura pianistica che Beethoven concepì per lo strumento. Probabilmente i contemporanei avranno avuto l'impressione che
non rimaneva più nulla da fare. Tuttavia, poco dopo la morte di Beethoven nel 1827, Chopin pubblic" i suoi Etudes dell'op.10: il nuovo
stupefacente stile, basato essenzialmente sul semplice espediente di permettere ad ampie figurazioni di continuare a vibrare premendo il
pedale di risonanza, permisero un nuovo approccio allo strumento. Altre nuove importanti conquiste nel linguaggio pianistico sono state
effettuate da Debussy al passaggio del secolo e da Bartòk alcuni anni dopo. Ai giorni nostri, il concetto di linguaggio pianistico è stato di
nuovo fortemente ampliato per mezzo delle tecniche di produzione sonora realizzate tramite il contatto diretto con le corde. Ritengo
che si possa sicuramente affermare che le potenziali risorse degli strumenti non potranno essere mai esaurite: le prossime generazioni
troveranno sempre nuove possibilità!
Il trattamento rivoluzionario del linguaggio vocale nella nuova musica ha subito uno sviluppo interessante. L'ideale tradizionale del bel
canto è stato fortemente ampliato dall'influsso esercitato dagli stili vocali popolari, così come dal timbro vocale non occidentale.
Collegato a questo sviluppo, il tradizionale do voce-pianoforte sembra avere dato inizio ad un nuovo genere, trasformandosi in voce e di
ensemble strumentale da camera, nelle sue diverse formazioni. Il fatto curioso è che la voce del soprano sembra essere dominante: gli
altri tipi di voce sono stati più o meno trascurati dai compositori più recenti, tanto che ritengo che, senza contare i soprani, siano molto
pochi i cantanti specializzati nell'esecuzione della nuova musica. Altre tendenze significative nell'ambito della composizione musicale
sono costituite da una certa trascuratezza nell'uso del mezzo corale e dal fallimento - fino ad ora - nel creare un nuovo tipo di teatro
musicale su larga scala. Per quanto concerne l'opera, mi colpisce il fatto che, nei suoi Wozzeck e Lulu, Alban Berg abbia effettivamente
unito tutti gli elementi della tradizione e ritengo che ancora oggi non sia stato fatto niente di paragonabile. In ogni caso, il compito di
trovare nuovi approcci all'opera ed alla musica corale sarà un'eredità che spetterà al futuro.
Forse, tra tutti gli elementi più fondamentali della musica, il ritmo è quello che più di tutti colpisce il nostro sistema nervoso centrale.
Sebbene nell'analisi musicale abbiamo ereditato una precisa polarizzazione verso la tonalità anziché verso il ritmo, attribuendo alla prima
un ruolo primario, sospetto che siamo semplicemente incapaci di avere a che fare con fenomeni ritmici in termini verbali. Si può arguire
che l'aspetto più ampio del ritmo consiste nel tactus ed è interessante osservare che, laddove il!
XIX secolo tendeva a classificare i compositori in base alla qualità dei loro movimenti lenti - poiché si partiva dal presupposto che la
musica lenta fosse più difficile da comporre - la situazione al momento si è completamente rovesciata. Al giorno d'oggi il problema
sembra consistere nella composizione di musica veloce o, più esattamente, nel dare alla nostra musica un senso propulsivo senza,
tuttavia, rimanere troppo servilmente attaccati alle procedure del passato quali, ad esempio, il tipo cinetico di ritmo bartokiano. E' ovvio,
che la complessità di per sé non fornirà alcuna spinta ritmica ed è vero che, per poter fornire il senso propulsivo, il ritmo armonico deve
operare insieme al ritmo vero e proprio.
Ci sono tre compositori - due meno recenti ed uno contemporaneo - che mi interessano in modo particolare sia per il loro modo
immaginativo di trattare il ritmo, sia perché possono contribuire al nostro approccio attuale alla struttura ritmica. Il primo compositore è
Beethoven, il cui senso di controllo del ritmo era del tutto affascinante. Tra tutti i compositori, egli era il maestro della più grande
dilatazione dei tempi, dal prestissimo al molto adagio. Gli adagio di Beethoven, in particolare quelli del terzo stile, offrono un modello
che dovrebbe essere oggi esplorato ulteriormente: mediante un minuzioso frazionamento della suddivisione della battuta all'interno del
contesto di un tempo metronomico estremamente lento, egli ottiene la sensazione di un andamento molto più veloce. Questo sistema
genera un contrasto, pur mantenendo il senso di unità organica. Un altro compositore la cui la sensibilità ritmica mi impressiona è
Chopin: mi riferisco principalmente ad alcuni notturni, nei quali egli raggiunge un senso di sospensione del tempo (come in molta musica
contemporanea), pur fornendo, attraverso il tempo, la sensazione di evoluzione e di progressione. Vorrei, infine, menzionare Messiaen
per il suo uso del "principio ritmico additivo" che egli, nel suo Technique de mon language musical, associa alla musica Indù. Sono
dell'idea che questo principio possa diventare sempre più importante per l'ulteriore sviluppo del nostro linguaggio musicale.
Quando ci troviamo a dissertare sul ruolo delle altezze nella musica contemporanea, entriamo in un'arena popolata di opinioni
conflittualmente diverse. In generale ritengo che gli approcci più razionalistici all'organizzazione dei suoni, incluse le tecniche
specificamente seriali, abbiano dato inizio ad un approccio più intuitivo. Sembra che sorga sempre di più la sensazione che dobbiamo, in
qualche modo, sviluppare un nuovo tipo di tonalità. Probabilmente, la soluzione ideale - a mio avviso già anticipata da Bartòk - consiste
nel combinare le possibilità del nostro linguaggio cromatico, così ricco ed espressivo, con il senso di forte centratura tonale.
Fin dal periodo atonale dei compositori viennesi, un'interessante pratica musicale consiste nell'ampio uso di minuscole cellule tonali. Una
di queste cellule - che pervade la musica di Anton Webern e di Bart!k - è la combinazione di terza maggiore e minore do-mi-mi bemolle;
un'altra di queste cellule universalmente usata è costituita dalla quarta perfetta affiancata dai tritoni do-fa diesis-si fa; un'altra è costituita
dal cluster cromatico do-do diesis-re. Queste tre cellule, in diverse permutazioni e insieme a pochi altri alcuni tipi base, predominano in
modo stupefacente nella musica contemporanea di qualsiasi stile. Negli ultimi anni la sperimentazione nel campo dei microtoni è stata
considerevole, ma, almeno per un orecchio occidentale, l'uso strutturale dei microtoni è tanto difficile da essere frustrante. Sembra che
l'uso più frequente dei microtoni sia piuttosto di carattere coloristico quale, per esempio, nell'oscillazione delle altezze. Sarebbe assai
difficile predire quale sarà il possibile ruolo di un qualsiasi sistema microtonale all'interno di un'opera composta nel ventesimo secolo;
tuttavia, poiché la musica deve in qualche modo fare riferimento al nostro sistema nervoso centrale la cui evoluzione ha richiesto
innumerevoli eoni, un suo ampio uso sembrerebbe problematico.
Ho già menzionato il problema della forma nella nuova musica, dovuto essenzialmente all'erosione di tante forme tradizionali diverse
che dipendevano dalla tonalità funzionale. E' ovvio che a noi rimangono le forme più primitive e che il principio di variazione è sempre
disponibile. Due tipi basilari di forme, entrambe conosciute nella musica antica, sembrano esercitare una particolare attrattiva sui
compositori di oggi. Si tratta di due tipi diametricalmente opposti: il primo tipo è basato sul principio di non-ripetitività, che implica una
progressione lungo una linea retta che non ritorna mai su sé stessa. L'altro tipo potrebbe essere definito di "tipo minimale" e consiste in
genere nella ripetizione all'infinito di un'idea, sia essa costituita da un motivo ritmico o un accordo, sia da una successione melodica di
altezze. Curioso è il fatto che ambedue i tipi siano rappresentati nella musica di Arnold Sch#nberg: quello non-ripetitivo in molte opere e
quello minimale in Sommermorgen an einem See (nei Cinque Pezzi per Orchestra). Naturalmente tutti e due i principi, potrebbero venire
altezze. Curioso è il fatto che ambedue i tipi siano rappresentati nella musica di Arnold Sch#nberg: quello non-ripetitivo in molte opere e
quello minimale in Sommermorgen an einem See (nei Cinque Pezzi per Orchestra). Naturalmente tutti e due i principi, potrebbero venire
più correttamente definiti procedure formali, anziché strutture convenzionalmente articolate come la forma sonata o il rondò. In ogni
caso, queste due tipologie non si prestano facilmente ad essere applicate a strutture di ampie proporzioni; infatti la loro sovraestensione
potrebbe facilmente indurre stanchezza e monotonia. Così, dovremmo forse rivalutare il più tradizionale principio di ripetizione-concontrasto, che ha tanto ben servito i precedenti compositori.
Se solo reintroducessimo l'antica idea secondo la quale la musica riflette la natura, molte forse questioni ancora irrisolte della nuova
musica potrebbero essere considerate da nuovi punti di vista. Sebbene le disquisizioni di carattere tecnico suscitino l'interesse dei
compositori, nutro il sospetto che i poteri magici e spirituali della musica provengano dai livelli più profondi della nostra psiche. Sono
certo del fatto che, durante gli anni dell'infanzia, ciascun compositore abbia acquisito un'acustica naturale che rimane in lui per tutta la
vita. Il fatto che io sia nato e cresciuto nella valle del Fiume Appalachi comporta il fatto che il mio orecchio si è abituato ad una
particolare acustica di eco: sento che essa si è, per così dire, strutturata all'interno del mio orecchio, diventando l'acustica fondamentale
della mia musica. Posso immaginare che la riva dell'oceano o le infinite pianure producano una "eredità" acustica assolutamente diversa.
In senso più lato, i ritmi della natura, grandi e piccoli, il rumore del vento e dell'acqua, il canto degli uccelli ed il rumore degli insetti
devono inevitabilmente trovare un'analogia in musica. Dopo tutto, il canto di una balena megattera è già un prodotto "artistico"
altamente evoluto: vi riconosciamo la struttura della frase, il climax e l'anticlimax, e persino un senso di forma musicale su ampia scala.
Per quanto concerne il futuro della musica, sono ottimista. Frequentemente sento descrivere il periodo attuale come incerto, confuso,
caotico. Le due decadi dal 1950 al 1970 sono state descritte come "l'ascesa e la caduta dell'avanguardia musicale" e l'implicazione
sottesa a questa descrizione è che niente di valore è stato raggiunto durante questi anni. Ho persino sentito alcuni compositori
esprimere l'idea estremamente pessimistica che Comoedia finita est - tutte le possibili combinazioni sono state oramai esaurite e la
musica ha finalmente raggiunto il capolinea. La mia sensazione è che la musica non finirà mai di evolversi: continuerà ad inventare il
mondo secondo i propri termini. Forse, due milioni di anni fa le creature di un pianeta di una galassia remota hanno affrontato una crisi
musicale simile a quella davanti alla quale si trovano oggi i compositori della Terra. E' possibile che queste creature siano esistite per due
milioni di anni senza nuova musica? Ne dubito.
(traduzione di Lucia Cristina Bartolucci)
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(Articolo originale in The Kenyon Review, estate 1980)