anno XV, n° 2 Aprile, Maggio, Giugno 2011

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anno XV, n° 2 Aprile, Maggio, Giugno 2011
Rivista di educazione, formazione e cultura
anno XV, n° 2
Aprile, Maggio, Giugno 2011
Pedagogika.it
Rivista di educazione, formazione e cultura
esperienze - sperimentazioni - informazione - provocazioni
Anno XV, n° 2 – Aprile/Maggio/Giugno 2011
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Melandri, Angelo Villa
Hanno collaborato
Franco Riva, Duccio Demetrio, Duccio Canestrini,
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Gramigna, Maria Teresa Moscato, Silvia Vegetti
Finzi, Marco Taddei, Massimo Michele Greco,
Emilia Canato, Cristiana La Capria, Serena
Bignamini, Emanuele Tramacere, Sara Gandini
Laura Colombo, Michela Brugali.
Fotografie: Denise Puglia - La via della seta 2010
Mario Senili - In giro per il mondo
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s o m m a r i o
5 Editoriale
Alla stazione
Maria Piacente
../dossier/il viaggio
8 Introduzione
10 Viaggiare
Franco Riva
20 Dentro ogni viaggio
Duccio Demetrio
../temi ed esperienze
72 I bambini sono cambiati. Due generazioni a confronto
Silvia Vegetti Finzi
86 Quando la comunità è
comunità educante?
Marco Taddei
93 Genitori inconcepibili
Massimo Michele Greco
../cultura
30 Terapie di fuga
Duccio Canestrini
33 On the road. Vagabondi,
turisti, migranti...
Frank Michel
40 Dove va il vento
quando non soffia
Nives Meroi
43 Tra due mari
Carmine Abate
48 Between two seas
Carmine Abate
55 Viaggio e metafora
nel discorso educativo
Anita Gramigna
62 Le figure del viaggio
e il processo educativo
Maria Teresa Moscato
103 A due voci
Angelo Villa, Ambrogio Cozzi
107 Scelti per voi
Libri - Ambrogio Cozzi (a cura di)
Musica - Angelo Villa (a cura di)
Cinema - Cristiana La Capria (a cura di)
116 Arrivati in redazione
../In_vista
119Il CRIC al Salone
Internazionale Del Libro
di Torino.
../In_breve
120Maratona: la staffetta 24x1 ora.
Pluricampione Migidio
Bourifa
Corso di perfezionamento
“Studi di genere e professioni
socioeducative”
3
Piano editoriale 2011
(Il)legalità?
Il viaggio. Realtà e metafora
Fratelli d'Italia?
Educare alla creatività
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Pedagogika.it/2011/XV_2/Il_viaggio
Alla stazione
Maria Piacente
In una mattinata di inoltrata primavera, con ancora qualche goccia di rugiada sulle
foglie, lungo la strada accompagnata dagli ulivi ormai secolari procedevo a piedi
verso la stazione di “San Vito Stazione”. Ero con mia madre, mia sorella, zie e
comari del paese. Avevo quattro anni e, abituata a correre su e giù in libertà, come
solo i bambini e le bambine piccole sanno fare, non mi ero accorta che camminavamo già da quasi un’ora sulla strada battuta e che le scarpe, da bianche che erano
- mia sorella mi aveva accuratamente passato il bianchetto, come usava allora negli
anni Cinquanta – erano diventate color terra. Era stata zia Maria ad accorgersene,
la zia più sapiente, più bella, più elegante ed aggraziata delle altre che pure erano
nel “corteo” che ci accompagnava per prendere il treno del lungo viaggio. Così, in
una sosta, giù tutte le valigie, cercava di ripulirmi le le scarpe, ma la terra, si sa,
non va via così facilmente... Le altre zie e “cummara” Peppina, dirimpettaia e sostenitrice delle mie acerbe esibizioni canore, a quel punto erano già un po’ sudate e
affaticate per la strada che avevamo fatto e per i pacchi e le valige che si portavano
appresso per noi.
Si sa che la primavera inoltrata al Sud è già una mezza estate, la giornata si prevedeva calda, il mare, poco distante, da quel punto non si vedeva ma se ne intuiva la
presenza ed io aspettavo di scorgerne, tra le ginestre, gli ampi scorci, nella bellezza
mozzafiato che ancora oggi lo domina.
Arrivati alla Stazione non “c’erano tutti..” come nella canzone di De André. C’era
un solo binario, il marciapiede del primo ed unico binario: destinazione Nord.
L’attesa della cosiddetta Littorina Calabro Lucana si faceva lunga: col solito anticipo ansioso di mia madre ci toccava aspettare ancora almeno un paio d’ore... a
quel punto le scarpe, le mie scarpe, non erano più un problema...
Tirate su tutte le valigie sul marciapiede del binario, restavamo tutte in attesa del
“tuuuuu” della Littorina in arrivo. Eccolo finalmente, arriva il treno, ma è così
corto? Mi faccio spazio tra le gonnelle delle zie e delle commari e, ora che ricordo bene, anche tra quella di nonna Rosa “Occhi da Normanna”, una gonnella,
lunga, nera, con innumerevoli piegoline, plissettata..che mi piaceva un mondo
quando ci giocavo per miei travestimenti. E che, ora che ricordo bene, si chiamava
“a gunneda”, e quella la mettevano solo le nonne.
Stropicciata di baci, mani mi sollevano e, oplà, eccomi sul treno – un dilatato gesto
di Ettore? - che mi porterà da papà, al Nord. Si fa finta di niente ma, alla separazione, l’emozione è tanta e, per me, anche l’eccitazione. Inizia il Grande Viaggio.
Dal finestrino i binari segnano la strada percorsa, io vedo sempre la stessa strada
ferrata che luccica, col sole che si fa sempre più alto. Sempre la stessa strada ferrata,
per non perdermi, sempre io, sempre quel luccichio....
Quel viaggio sta continuando, per me, ancora oggi, in ogni nuovo luogo che incontro, in ogni Altrove, in ogni Ritorno, insieme agli ulivi secolari, al mare mozzafiato della Punta di Stalettì, agli Occhi-di-Normanna di Nonna Rosa.
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Quanti viaggi! Quante Stazioni ! Alla ricerca di Itaca, come nei versi di Kevafis
Quando ti metterai in viaggio per Itaca
devi augurarti che la strada sia lunga
fertile in avventure e in esperienze.
I Lestrigoni e i Ciclopi
o la furia di Nettuno non temere,
non sarà questo il genere d’incontri
se il pensiero resta alto e il sentimento
fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.
In Ciclopi e Lestrigoni, no certo
né nell’irato Nettuno incapperai
se non li porti dentro
se l’anima non te li mette contro.
Devi augurarti che la strada sia lunga
che i mattini d’estate siano tanti
quando nei porti - finalmente e con che gioia toccherai terra tu per la prima volta:
negli empori fenici indugia e acquista
madreperle coralli ebano e ambre
tutta merce fina, anche aromi
penetranti d’ogni sorta, più aromi
inebrianti che puoi,
va in molte città egizie
impara una quantità di cose dai dotti.
Sempre devi avere in mente Itaca
- raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo,per anni, e che da vecchio
metta piede sull’isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
in viaggio: che cos’altro ti aspetti?
E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
Già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.
Itaca (Costantino Kavafis)
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Pedagogika.it/2011/XV_2/Il_viaggio
Pedagogika.it/2011/XV_2/Il_viaggio/Denise_Puglia//forse_1-23-5
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Pedagogika.it/2011/XV_2/Il_viaggio
Il viaggio tra realtà e metafora
Che cosa significa viaggiare? Viaggia l’Ulisse di Omero ne L’Odissea: “L’uomo
dal multiforme ingegno raccontami, o Musa, che a lungo/errò dopo ch’ebbe distrutto la
rocca sacra di Troia;/di molti uomini le città vide e conobbe la mente,/molti dolori patì
in cuore sul mare,/lottando per la sua vita e pel ritorno dei suoi[...]”; viaggia Dante
ne La Commedia: “Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva
oscura / che la dritta via era smarrita”; viaggia Xavier De Maistre in Viaggio intorno
alla mia camera, scritto durante un periodo di prigionia: “come se essi avessero il
potere di rubarmela (la libertà) per un momento solo ed impedirmi di percorrere a mio
piacimento il vasto spazio che sta sempre aperto davanti a me. Essi mi hanno vietato
di percorrere una città, un punto; ma mi hanno lasciato il mondo intero: l’ immensità
e l’eternità sono ai miei ordini”; viaggia anche Sal Paradise ne La strada di Jack Kerouac: “- Sal, dobbiamo andare e non fermarci mai finché non arriviamo. - Per andar
dove, amico? - Non lo so, ma dobbiamo andare”.
Nel tema del viaggio si riassumono una serie di significati che dall’immediatezza e concretezza dello spostamento nello spazio e nel tempo aprono – come
abbiamo visto nei brevi brani classici sopra citati - alla dimensione simbolica
dell’esistenza soggettiva e sociale dell’individuo. Desiderio e inquietudine, fragilità e determinazione, omologazione e differenziazione, ricerca e fuga, lacerazione
e ritrovamento, accoglienza e rifiuto sono tutti elementi possibili, anche in forma
paradossale, dell’esperienza del viaggio. Nell’affrontare il viaggio, che si percorra
lo spazio di un sogno, quello di una stanza o quello del mondo, si tratta sempre di
affrontare cambiamento, trasformazione.
Ci siamo chiesti chi sono oggi i viaggiatori e quale valore o ruolo hanno nel
viaggio la direzione, la fine, la meta; che connessione esiste tra viaggio e conoscenza (ovvero “ fatti non foste a vivere come bruti”) e come l’esperienza del viaggio può
essere concepita come rito di passaggio e come lungo percorso educativo.
Ci siamo concentrati, da un lato, sulla dimensione drammatica e tragica del
viaggio (la scommessa dell’emigrare?) e dall’altro sulla sua dimensione narrativa e
di racconto.
Abbiamo pensato alla differenza tra il viaggio reale e quello immaginario (ovvero del malinteso rapporto tra il “mal d’Africa” ed il villaggio Alpitour). Il sentimento dell’esotico, perciò, è “quel desiderio sognato che amplifica e abbellisce ciò che
ci incuriosisce e ci attrae di una civiltà distante e sfuggente”, ci dice Dacia Maraini
nel suo La seduzione dell’altrove.
Abbiamo riflettuto anche sull’erranza come condizione dell’esistenza (ritorno/
sradicamento) e sulla solitudine del pendolare, ovvero del rapporto tra il viaggio
ripetitivo ed “obbligato” ed il tempo del pensare. E infine le nostre ultime riflessioni hanno riguardato il mondo in classe, ovvero le esperienze interculturali
nell’ambito della scuola.
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Journey between reality and
metaphor
What does travel mean? Homer’s Ulysses travels in the Odyssey: “Tell me, O
Muse, of that ingenious hero who travelled far and wide / after he had sacked the famous town of Troy. / Many cities did he visit, and many were the nations with whose
manners and customs he was acquainted; / moreover he suffered much by sea / while
trying to save his own life and bring his men safely home”. Dante travels in the Divine
Comedy: “Midway upon the journey of our life / I found myself within a forest dark,
/ for the straightforward pathway had been lost”. Xavier De Maistre travels in his
Voyage around my room: “As if it were in their power to steal it (my freedom) from me
and prevent me from traveling, as I please, the vast, ever open space before me! They
may have forbidden me to travel through a city, one place, but they left me the entire
universe: infinity and eternity are at my command ”. Also Sal Paradise travels in Jack
Kerouac’s On the road: “- Sal, we gotta go and never stop going till we get there. Where are we going, man? - I don’t know but we gotta go”.
The issue of journey summarizes a series of meanings that from the immediacy
and concreteness of
travel in space and time opens to the symbolic dimension of social and subjective existence of the individual – as we saw in the short passages of classics quoted
above. Desire and restlessness, frailty and determination, standardization and differentiation, research and escape, laceration and retrieval, acceptance and rejection
are all possible elements which may be a paradoxical experience of the journey.
Dealing with the journey, traveling in the space of a dream, of a room or in that of
the world, it is always about facing change and transformation.
We wondered who voyagers are today and what role and value do direction,
aim and destination have in the journey; what connection exists between journey
and knowledge (“Ye were not made to live like unto brutes,/ but for pursuit of
virtue and of knowledge”) and how journey can be conceived as a rite of passage
and as a long pedagogical path.
On one hand we focused on the dramatic and tragic dimension of the journey
(the bet of emigrating?) and, on the other hand, on its dimension of fiction and
tale. We thought about the difference between the real journey and the imaginary
one (that is to say the misconceived relationship between the “Mal d’Afrique” and
a holiday village). Therefore the feeling of exotic is “that dreamt desire that amplifies and embellishes what intrigues and attracts us in a distant and shifty culture”;
this is what Dacia Maraini writes in La seduzione dell’altrove. We also reflected on
how wandering can be experienced as a life condition (homecoming /eradication);
we wondered about the loneliness of commuters and their relation between routine and “imposed” travel and the time for thinking. Our final reflections were on
the intercultural experiences in schools.
Dossier 9
Pedagogika.it/2011/XV_2/Il_viaggio
Viaggiare
Non c’è viaggio, parola, racconto, senza distacco da sé. Il segreto del viaggio è il
suo momento di crisi, di uscita: è l’esperienza di qualcosa che non finisce perché
non è più tutto nelle proprie mani. Se non succede qualcosa, se non si rischia,
non si esce da casa, se niente disturba, non cominciano sul serio né racconti,
né viaggi.
Franco Riva*
“Cominciare da se stessi, ma non finire con se stessi;
prendersi come punto di partenza, ma non come meta;
conoscersi, ma non preoccuparsi di sé.”
(Martin Buber, Il cammino dell’uomo)
Viaggiare è lasciarsi scuotere
Vedere è «lasciarsi scuotere», viaggiare è incontrarsi: passeggiare significa «permettere al mondo di entrare dentro noi stessi»1. Del viaggio non si comprende nulla
senza il rapporto con l’altro da sé. Non per una prevedibile curiosità nei suoi confronti, ma per lo stordimento che si riceve di contraccolpo quando si prende sul
serio il pensiero che il mondo non è fatto a propria immagine e somiglianza.
Per Maurice Blanchot il viaggio, «l’esodo, l’esilio, indicano un rapporto positivo
con l’esteriorità, e l’esigenza di questo rapporto è un invito a non accontentarsi di ciò
che è nostro (ossia del nostro potere di assimilare ogni cosa, identificando e riferendo
tutto al nostro Io)»2. Troppo comodo perciò accontentarsi di ciò che è nostro, troppo facile, violento, prendere sempre per sé. Si viaggia solo aldilà di se stessi.
Essere nati, abitare il mondo, vivere, esistere, è invece un’avventura: un’uscita,
un esodo, un esilio, un lasciare – un «naufragio»3. La vita è un esporsi, un «cammino», come scrive Dante all’inizio della Commedia, un errare, una «via» dove
bisogna guardarsi bene «dal prendere se stesso per fine»4. Viaggiare è metafora della
vita, vivere è metafora del viaggio.
Metafora della vita, il viaggio lo è anche della democrazia. Finché gli uomini continuano a ingurgitare il mondo e a divorarsi a vicenda l’un l’altro nella lotta quotidiana per la sopravvivenza, nella città non ci sarà mai giustizia
(Esiodo)5.L’assimilazione dell’altro ha nomi diversi, ora più morbidi, ora più cruenti, che si rigirano tutti però, come una trottola, sullo stesso punto del prendere
1 R. Walser, La passeggiata, Adelphi, Milano 2006.
2 M. Blanchot, L’ infinito intrattenimento. Scritti sull’ insensato gioco di scrivere, Einaudi, Torino
1981, p. 168.
3 Cfr. H. Blumenberg, L’ansia si specchia sul fondo, Il Mulino, Bologna 2005, pp. 37 ss.
4 M. Buber, Il cammino dell’uomo, Edizioni Qiqajon, Bose 1990, p. 55.
5 Esiodo, Opere e giorni, 274-280.
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per sé: le logiche tenacemente individualistiche del fare esperienze, del crescere,
del conoscere saranno poi così diverse dai colonialismi, dagli imperialismi, dalla
cultura unica, dalle globalizzazioni del denaro, dai villaggi turistici, dai viaggi di
piacere?
Per quanto pubblicizzato come l’avventura più straordinaria che si possa immaginare, non è mai un vero viaggio quello che assimila e che prende per sé,
che riduce gli altri a strumento, a occasione per la propria crescita: motivo spesso
sfruttato, in apparenza innocuo e benevolo, perfino educativo, si alimenta su uno
sfondo opportunistico e perverso.
Prima regola: viaggiare è lasciarsi incontrare dall’altro.
Sentire l’altro, la meraviglia
Violeta di Marcela Serrano si sente «sempre più affascinata» nel suo andare6.
Nei racconti e nei film di viaggio la fanno sempre da protagonisti lo stupore e la
meraviglia. In diversi casi a ragione, per via delle nuove esperienze che si stanno facendo; in altri casi a torto: la loro enfasi, la ricerca d’effetto a tutti i costi, nasconde
spesso un vuoto. In nome del meraviglioso ci si lascia abbindolare con viaggi dal
sapore esotico che tradiscono le attese. Eppure, in bene o in male che sia, senza
meraviglia e senza stupore non può esserci viaggio.
Stupore e meraviglia: restituiscono il senso dell’altro in quanto altro, come
diverso da me, come irriducibile a ciò che sono io, come qualcuno che mi costringe a pensare. Con la meraviglia s’inizia a pensare, a viaggiare, a parlare, di modo
che ogni viaggio è un pensiero, ogni pensiero un viaggio: perché anche il viaggio
costringe a pensare, o perché si può viaggiare senza neppure uscire di casa7, ma
soprattutto perché quando si pensa, e quando si viaggia, niente rimane più come
prima.
Il viaggio corre lungo i fili della meraviglia per quello che si vede, per gli incontri che si fanno, per il proprio meravigliarsi. Marco Polo in Oriente vede cose
«meravigliose» e «quasi infinite»: sono i paesi e le città che visita, sono ancor più
le persone con cui si ferma molto a parlare8.Persone e meraviglia s’intrecciano nel
viaggio.
Non c’è viaggio, parola, racconto, senza distacco da sé. Il segreto del viaggio è
il suo momento di crisi, di uscita: è l’esperienza di qualcosa che non finisce perché
non è più tutto nelle proprie mani. La crisi non segna il viaggio in negativo, quasi
fosse un improvviso squilibrio, qualcosa che non doveva succedere, un incidente;
come se il mondo prima fosse stato in ordine. Tutto il contrario. Se non succede
qualcosa, se non si rischia, non si esce da casa, se niente disturba, non cominciano
sul serio né racconti, né viaggi. Tzevan Todorov ha evidenziato l’affinità tra la
6 M. Serrano, Antigua, vita mia, Feltrinelli, Milano 2008, p. 215.
7 Cfr. J. De Maistre, Viaggio intorno alla mia camera, Feltrinelli, Milano 1999.
8 M. Polo, Delle cose de’ Tartari e dell’Indie Orientali, Comune di Venezia, Venezia 1954, pp. 3-4.
Dossier 11
Pedagogika.it/2011/XV_2/Il_viaggio/Viaggiare
struttura narrativa (con R. Barthes, con V. Propp) e i racconti di viaggio9: senza il
momento di crisi, non può esserci nessun viaggio.
Seconda regola: di fronte all’altro – nella meraviglia, nell’ infinito, nella crisi – sta la
vera partenza di un viaggio.
Stare in viaggio
Nella meraviglia, l’infinito si presenta come un distrarsi da sé, un viaggio. Non
è il movimento circolare di andata e ritorno, un uscire e un rientrare da casa per
sbrigare le faccende di ogni giorno, e nemmeno i nostri esodi forzati del tempo
libero, da weekend, da vacanze estive, che ricalcano l’identico schema.
On the road, per strada. L’incontro con l’altro non ha termine, e ci lascia sempre con un sentimento struggente che spiazza luoghi e tempi, e il senso stesso di
ciò che è proprio. Crescono allora desideri e pensieri strani, che il nostalgico Ulisse
forse non conosce: di non tornare più al punto di partenza, che viaggiare sia lo
stesso stare in viaggio. Al «mito di Ulisse che ritorna a Itaca», Lévinas contrappone
perciò «la storia di Abramo, che lascia per sempre la sua patria per una terra ancora
sconosciuta»10. Come Abramo appunto, che parte sapendo di non tornare, come la
liberazione dall’Egitto, come l’impegno per una causa giusta o una cosa bella, che
rapisce. Per quanto, di fronte alle difficoltà, è facile lasciarsi andare al rimpianto
per non essere rimasti tranquilli in qualche Egitto, in qualche «casa di schiavitù»,
ma almeno con la «pancia piena» – vale a dire con l’illusione di qualche sicurezza,
naturalmente garantita dal tiranno di turno11. Si vive così, tra Ulisse (Joyce) e
Abramo (Lévinas, Derrida)12.
Per il viaggio tutto allora si complica. Quando inizia il viaggio, con la mia
iniziativa o con il fatto di trovarmi di fronte all’altro? Dove arriva il mio andare,
dove invece il rispondere a una chiamata che proviene dall’altro e che trasforma
impercettibilmente il proprio muoversi in un lasciarsi portare? Qual è la prima
parola, l’io o il tu, come suggeriscono Nietzsche e Buber?
Terza regola: viaggiare è stare in viaggio.
Senza pentimenti. I viaggi dell’Occidente
Ci sono dei viaggi che, pur essendolo materialmente, non lo sono per davvero
perché si viaggia senza staccarsi da sé, senza incontrare l’altro. Il viaggio della conferma di sé trasforma tutto in una colonia: della propria patria, dei propri interessi,
dei propri piaceri, delle proprie sensazioni; e sono scene riviste sempre di nuovo
sulla scena apparentemente mutata del mondo. Il viaggio non-viaggio è sempre, in
qualche modo, di conquista o di guerra.
9 Cfr. T. Todorov, Le morali della storia, Einaudi, Torino 1995, cap. VI: Il viaggio e il suo racconto.
10 E. Lévinas, La traccia dell’altro, Tullio Pironti Editore, Napoli 1979, p. 30.
11 Cfr. M. Walzer, Esodo e Rivoluzione, Feltrinelli, Milano 2004, p. 35 ss.
12 J. Joyce, Ulisse, Mondadori, Milano 2008; J. Derrida, Abramo, l’altro, Cronopio, Napoli 2005
e L’ écriture et la différence, Seuil, Paris 1967, p. 228.
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Dopo che l’Occidente ha circumnavigato – e forse occupato – il globo terrestre
non è difficile accorgersi, come tornando al punto di partenza, di cosa stanno
diventando i viaggi nella stagione in cui niente più del viaggiare sembra caratterizzarlo. I viaggi dell’Occidente sono sempre più dei viaggi senza l’altro: standardizzati, militarizzati, resi virtuali.
Sulla scena mondiale della globalizzazione il viaggio si trova al tempo stesso, e per le identiche ragioni, potenziato e avvilito: enormemente facilitato dai
meccanismi globali di unificazione politica, economica, tecnologica, culturale e
linguistica, è ostacolato proprio dall’uniformità eccessiva di luoghi e culture, che
lo declassano a un semplice spostamento tra il centro e la periferia dell’unica metropoli mondiale13. Il ritorno allo spostamento giornaliero, da pendolari del globo,
fa perdere al viaggio l’incontro con l’altro. Così diffuso, così mercificato, si riduce
a un oggetto di consumo, a un prodotto industriale, fino al punto che il consumo
stesso diventa, come nel caso dello shopping dislocato altrove o dei turismi sessuali, l’unico motivo del viaggio. Il consumo divora anche il viaggio.
I viaggi dell’occidente sono sempre più militarizzati. Nell’era del viaggio generalizzato risorgono frontiere e dogane: magari meno percepibili di quelle di
un tempo, contenute nell’esibizione dell’intimo ai controlli degli aeroporti, ma
pur sempre frontiere e dogane, posti di blocco. Solo in nome della sicurezza? Le
procedure d’identificazione del viaggiatore hanno perso il loro carattere rituale
e d’incontro14, per farsi indagine poliziesca e interrogatorio, radiografie oscene.
Dall’altra parte ci sono i viaggi degli immigrati, che militarizzati rimangono nella
vecchia maniera delle sentinelle armate e dei fili spinati. Ci sono pure i viaggi degli
eserciti.
Viaggi, in generale, dove forse non c’è più nessuno da incontrare. Fine stessa
di ogni viaggiare.
Quarta regola: non si viaggia nella pura conferma di sé.
Diversità addomesticate. Viaggi e nuove tecnologie
Attirati nel meccanismo del consumo, i viaggi dell’Occidente sono già ampiamente virtualizzati: nel senso che sono consumati in anticipo, preconfezionati;
oppure consegnati agli stupefacenti15. L’Occidente sta virtualizzando i viaggi in
un senso più preciso e tecnologico, quello della navigazione in rete, dell’oceano
on line, dei contatti telematici, delle visite virtuali. Se da un lato i viaggi virtuali
non sembrano partire davvero, non incontrare, non avere realmente l’altro davanti
a sé, dall’altro lato si deve poi riconoscere che esaltano anch’essi, a loro modo, il
13 F. Riva, Filosofia del viaggio, Città Aperta, Troina 2006, cap. 2: Viaggio, denaro e globalizzazione (e F. Riva, Viaggio e Logos, in AA.VV., Filosofia e civiltà della complessità, Il Poligrafo, Padova
2009, pp. 17-60).
14 Cfr. J. Leed, La mente del viaggiatore. Dall’Odissea al turismo globale, il Mulino, Bologna 2007;
D. Canestrini, Non sparate sul turista, Bollati Boringhieri, Torino 2004.
15 Cfr. J. Kerouac, Sulla strada, Mondadori, Milano 2006.
Dossier 13
Pedagogika.it/2011/XV_2/Il_viaggio/Viaggiare
dinamismo stesso dell’esistenza, la tensione sempre inappagata di prossimità con
l’altro. In breve, ci sono pure dei viaggi e dei turismi virtuali16.
Nietzsche ha osservato che nel «mostruoso acceleramento» della vita contemporanea rischiamo di fare come quei «viaggiatori che fanno la conoscenza di paesi e di
popoli dal treno»17. Il viaggio, il treno, la fretta. La storia della tecnologia si è sempre
accompagnata con quella dei viaggi. Non è proprio la stessa cosa viaggiare a piedi
o su un cavallo, su una nave o su un treno, su un’auto o un aereo. La tecnologia si
è evoluta, i tempi sono mutati, e il rapporto con il viaggio si è fatto molto più pervasivo. Cresce, in particolare, l’utilizzo di strumenti che mirano a semplificare, a
ridurre, a eliminare, la fatica del viaggio come incontro con l’altro da sé, come crisi
positiva, come dialettica essenziale tra l’orientarsi e il disorientarsi, lo smarrirsi e il
ritrovarsi. Sembra in atto uno sforzo per eliminare in anticipo la fatica gratificante
del viaggio come ricerca autonoma di orientamento e di localizzazione.
Tra i viaggi virtuali di Internet, i navigatori satellitari per i mezzi di trasporto, i GPS (Global Positioning System) ci sono continuità e coerenza. Il navigatore
satellitare personale è diventato un oggetto cult, qualcosa di cui non si può fare
a meno: per sapere sempre dove si è, per andare a colpo sicuro, per essere sempre
rintracciabili, per non essere più stranieri, per non perdersi mai più, per non uscire
dalla rete. In discussione non sono tanto l’utilità e le potenzialità, difficili da negare. Basti pensare all’aiuto che possono dare i GPS in caso di pericolo e necessità,
per localizzare ad esempio un aereo o un alpinista; e per portare soccorsi rapidi.
Che senso può avere, però, percorrere perfino un semplice sentiero di montagna,
del tutto privo di rischi, tra prati e fiori dove pascola tranquilla qualche mucca,
con l’aiuto di uno strumento che vede per noi, ci orienta, ci colloca spazialmente,
che indica di svoltare a destra e a sinistra, e ci dice perfino, ogni tanto, dove posare
lo sguardo per osservare questa o quella cosa notevole? O visitare una città d’arte
guardando in definitiva di più lo schermo del nostro navigatore personale piuttosto che respirarne l’atmosfera, impossibile da mediare?
Nell’abitudine dell’utilizzo, il rischio sarà una vera e propria sostituzione di
personalità e di pensiero, che deprime le esperienze fondamentali del corpo e del
viaggio come un aprirsi, un orientarsi, un esplorare il mondo; e senza cui non c’è
vita umana: l’essere al mondo come un abitare aperto, il corpo come esperienza
di centro e decentramento perpetui, il dimorare sulla terra come un rischiare (star
fuori, esistere, ex-sistere). Il viaggio può diventare tecnologicamente già viaggiato,
il pensiero già pensato, la parola già parlata. La meraviglia diventa retorica. La vita
già programmata.
Quinta regola: si nasce a se stessi nell’uscita da sé, nella fatica di un viaggio.
16 Cfr. F. Riva, Il Volto e l’Interfaccia. Prossimità virtuali, responsabilità reali, Servitium, Milano
2011; M. Gerosa, Second Life, Meltemi, Roma 2007, pp. 225 ss.
17 F. Nietzsche, Umano troppo umano, I, Frammenti postumi, 1876-1879, Adelphi, Milano 1965,
fr. n. 282.
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Pedagogika.it/2011/XV_2/Il_viaggio/Viaggiare
La fine dell’altrove
Il viaggio, come la vita, implica l’esperienza dell’altrove. Nei meccanismi
collettivi è invece in atto un vero e proprio addomesticamento quotidiano della
diversità, un monopolio dell’identico: si riflette, tra l’altro, nel rifiuto silenzioso
dell’idea stessa del viaggio se non come un diversivo a sua volta guidato e programmato, telecomandato appunto, che non smuove nulla, che non si meraviglia
più, e che si riduce come il tempo libero a una pausa necessaria, a un po’ d’igiene
sociale nel ritmo asfissiante del lavoro: come i cagnolini portati, per forza di cose,
a passeggiare ogni tanto in un parco.
Senza un altrove non c’è viaggio. L’altrove è il luogo, la cultura, la parola, il
sapore, il costume. L’altrove è l’altro. Per comprendere cosa sta succedendo serve
a molto limitarsi a recriminare che, all’epoca del melting pot del villaggio globale,
l’altrove sta sfuggendo, è in ritirata, e gli sono concessi soltanto degli spazi sempre
più residuali, se mai ce ne sono ancora?
Nell’epoca della globalizzazione, piuttosto, l’altrove è investito da un doppio
fenomeno, contrapposto e insieme complementare. La ritirata dell’altrove, infatti,
è subito compensata dalla sua promozione pubblicitaria; e si genera così una situazione complessa e contraddittoria. Non c’è dubbio che l’altrove si ritira davanti
all’avanzata inesorabile del villaggio globale, al punto da doverne quasi dichiarare
la fine: non più luoghi, culture, lingue diverse rispetto a un mondo fin troppo
omogeneo. Non più progetti sociali e politici, non più utopia, quando le parole
dell’altrove appartengono al viaggio come alla democrazia: cittadino e straniero,
accoglienza e giustizia, condivisione, vita e morte.
Per contrappeso, dell’altrove esiste anche un’industria fiorente, con cui si cerca
di variare (in genere verso l’alto) il business troppo standardizzato, e massificato,
del viaggio e del turismo. La ritirata dell’altrove è dunque compensata dalla sua
manipolazione, ma sarebbe da capo un po’ ingenuo accontentarsi di denunciarla,
e di spacciarla sommariamente, come consumistica. Anche la manipolazione ci restituisce, sia pure in modo capovolto, la stessa verità: che senza un altrove non può
esserci viaggio. Quando l’altrove si ritira, quando sembra soffocato sulla scena di
un mondo occluso, per giustificare ancora i viaggi bisogna inventarselo: un altrove
addomesticato, ridotto a fiore all’occhiello di un viaggio talmente standardizzato
che, per essere ancora credibile, ancora proponibile, deve far sopravvivere un po’
di quell’appeal che solo la «seduzione dell’altrove» può dargli18.
Sesta regola: si viaggia solo quando si crede in un altrove.
18 Cfr. D. Maraini, La seduzione dell’altrove, Rizzoli, Milano 2010.
Dossier 15
Pedagogika.it/2011/XV_2/Il_viaggio/Viaggiare
Voglie di esotismo
La «voglia del diverso seduce, spesso inganna»19. Il movimento sincronizzato di ritirata e di manipolazione dell’altrove porta a riflettere sull’equivoco dell’esotismo,
con cui il viaggio si presenta tanto più affascinante e mirabolante quanto più i
luoghi si ricoprono di un immaginario fiabesco, e si sovraccaricano di una apparente diversità che non di rado rasenta l’eccitazione morbosa. L’equivoco è vecchio:
che il viaggio al sole dei Caraibi, nei luoghi dello spirito, sulle vette dell’Himalaya,
nei quartieri a luci rosse di qualche città orientale, nella notte metropolitana degli
sballi, abbia maggior valore, sia ancora più viaggio, rispetto a un itinerario naturalistico a pochi chilometri da casa o a un paesino che, senza particolari emergenze
artistiche, ha però conservato intatto tutto il suo sapore. Equivoco di pensare che
il viaggio riguardi l’altro lontano, e non l’altro vicino; che la diversità sia faccenda
di folklore o di una finta alternativa; che l’altro sia fuori di me.
Tra il fascino dell’Oriente e le voglie di esotismo passa quindi una bella differenza. Le voglie di esotismo sono ripiegate su se stesse, tengono al centro un io alla
ricerca di sensazioni, che prende per sé; il fascino dell’Oriente decentra, sente l’attrazione dell’altro, rapisce. Il Pellegrinaggio in Oriente di Hermann Hesse annuncia un viaggio senza ritorno e denuncia «tutto il fastidio di una vita delusa»20. Le
voglie di esotismo esibiscono invece una vita soddisfatta di sé, che si deprime soltanto quando rallenta un poco la ricerca narcisistica di piacere, o quando si rischia
di essere declassati: da turisti ben voluti (a pagamento), a vagabondi rifiutati21.
L’esperienza del viaggio non è mai faccenda di distanza, di grandezza, di esotismo. La meta lontana e solitaria non rende per sé più autentico il viaggiare. La
confusione tra viaggio e distanza è spesso alimentata ad arte, e nasconde un controsenso pericoloso: a maggior ragione nell’epoca del viaggio globale, dove nessun
luogo è per davvero così distante, così diverso. La meraviglia stessa del viaggio non
è un effetto dell’esotismo e della distanza. La novità e la diversità della meta possono certo aiutare e predisporre all’esperienza del viaggio, ma si torna pure delusi
da viaggi molto lunghi in paesi lontani, così come si può tornare entusiasti da una
semplice gita fuori porta alla scoperta di un tesoro d’arte finora trascurato; o dal
tempo che ci si è finalmente presi per un colloquio. Il «totalmente Altro» non è mai
in contrasto con la «familiarità del vivere di ogni giorno»22.
L’esperienza del viaggio coincide piuttosto con quella di un altrove che in qualche modo è sempre a portata di mano, indipendentemente da dove ci si trova.
Settima regola: senza responsabilità (per l’altro), nessun viaggio.
19 E. Bloch, Il principio speranza, Garzanti, Milano 1994, p. 50.
20 H. Hesse, Il pellegrinaggio in Oriente, Adelphi, Milano 2003, p. 57.
21 Cfr. Z. Bauman, Il disagio della postmodernità, B. Mondadori, Milano 2002, cap. 5; F. Riva,
Filosofia del viaggio, cit., cap. 3, pp. 91 ss.
22 V. Jankélévitch, Il non so che e il quasi niente, Marietti, Genova 1987, p. 60.
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Pedagogika.it/2011/XV_2/Il_viaggio/Viaggiare
Narrare viaggi, raccontare crisi
Con il viaggio anche la parola cambia, si mette in movimento, racconta d’altro,
e viene restituita alla sua dignità di dialogo: il viaggio, come il dialogo, spezza i
monologhi, frantuma le fissità. Anche la parola viaggia, anche il viaggio parla.
La fine dell’altrove si specchia nelle sofferenze della letteratura di viaggio, di
cui si parla come di una persona malata. Bisogna stupirsi? Se si accontenta di
ricalcare, con qualche inevitabile aggiornamento, i modelli narrativi dell’avventura, della conquista, dell’esplorazione, dell’esotico, della curiosità, della semplice
dislocazione di storie, difficile poi che non morda il freno, non cali d’interesse.
La sua tenuta, d’altronde, si misura solo con parametri quantitativi, con evidenze
di mercato (consistenza della produzione, successo editoriale, e così via), peraltro
importanti? Pur all’apice di qualche improvviso exploit, la letteratura di viaggio
arranca quando non rende il senso dell’incontro con l’altro; e soffre ogni volta che
scambia l’altrove con una variazione dell’identico: in storie intriganti e complesse,
costruite con abilità, gradevoli, rimane sullo sfondo la convinzione – subito percepita dal lettore – che, al di sotto, un altrove vero e proprio non ci sia. Non ci siano
motivi né per fare, né per raccontare un viaggio.
Ultima (ottava) regola: il fuori, l’altrove; per viaggiare, va discusso l’eccesso di regole.
*Docente di Etica sociale e Filosofia del linguaggio presso la Facoltà di Lettere e
Filosofia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
Dossier 17
Pedagogika.it/2011/XV_2/Il_viaggio/Denise_Puglia/la_via_della_seta_2010/forse_1-1-1
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Pedagogika.it/2011/XV_2/Il_viaggio
Dentro ogni viaggio
Dentro ogni viaggio, sia il più sognante e leggero o il più arduo ecomplicato,
ci accade di poter vivere diversamente una ovvietà chepoi tale non è. Mi riferisco alla possibilità di camminare, sì proprio a questo, diversamente dal solito.
Ciascuno di noi si muovepedestremente in modo diverso a seconda del tipo di
viaggio che haintrapreso. Ed è evidente che in tal modo, anche la nostra vita
quotidiana, in base all’andatura assunta, può assomigliare ad un viaggio.
Duccio Demetrio*
“Il viaggio è il viaggiatore”
(Fernando Pessoa)
Prologo: i richiami remoti
Come non condividere l’aforisma di Pessoa? Ciascuno vive e interpreta il viaggio a suo modo, in base alla sua storia e non solo di viaggiatore. Infatti ogni
viaggio, sia esso breve o impegnativo, verso il lontano o nei dintorni, evidenzia
il nostro essere individui, mette alla prova la nostra le nostre qualità personali
più intime. Prima fra tutte, la consapevolezza o meno del perché lo intraprendiamo e con quali intenzioni. L’invito dello scrittore portoghese ci spinge pertanto
a reagire a chiunque ci imponga il “suo” modo di viaggiare. Il suo è un esplicito
appello alla libertà di scegliere il viaggio che fa per noi: è una risposta a chi cerca
ancora il senso profondo del viaggiare, il quale non può che essere educativo, se
educare vuol dire soprattutto insegnare a divenire ed educarsi imparare a chiedersi
le ragioni dei cambiamenti in atto o attraversati. Dopo l’esperienza di un viaggio
o si torna un poco diversi, con la sensazione di aver imparato qualcosa (di sé oltre
al resto), oppure, avremo soltanto creduto di aver viaggiato. Ciascuno è chiamato
ad interpretarne il senso in base all’estro del momento, alle necessità, alla voglia o
meno di intraprenderlo come un progetto di vita o come una pausa distensiva. Se
il viaggio è una nostra creazione, se nessuno può privarci del diritto di sceglierlo e
viverlo come più ci piace, qualunque esso sia, impossibile non assomigliare a come
abbiamo viaggiato e ai viaggi che stiamo già prefigurando. Ma c’è viaggio e viaggio. Ci sono viaggi di lavoro, viaggi di nozze, viaggi di piacere, viaggi di vacanza,
viaggi solitari o in compagnia, viaggi alla ricerca di Dio, ultimi viaggi. Viaggi di
cui nella memoria nulla più resta e viaggi che non possiamo assolutamente dimenticare. Perché, se ciò accadesse, saremmo diversi da quello che siamo in seguito ad
essi siamo diventati. Un viaggio è autentico, insomma, se contiene gli elementi
pedagogici citati, ma non è pedagogico di per sé. Ciò dipende, in misura maggiore
o minore per ognuno, non a seconda di quanto il viverlo ha saputo darci, ma in
relazione all’uso educativo che abbiamo saputo farne in prima persona. Possiamo
viaggiare anche molto, moltissimo, con frenesia o pacatezza, per poi scoprire che
20
Pedagogika.it/2011/XV_2/Il_viaggio/Dentro_ogni_viaggio
uno solo, in fondo, è il viaggio che ha contato davvero, che li ha riassunti tutti,
che fa parte di noi ormai. Perché abbiamo saputo appropriarci delle cose essenziali
di cui un viaggio è provvisto, facendole nostre. Che cosa c’è dentro un viaggio
che possa renderlo unico e simile a tanti altri? Che dà luogo alla possibilità di
riconoscerlo come tale in base ad una sorta di vocazione istintiva che possiamo
rinvenire dentro di noi, in primo luogo? E in base ad alcuni ingredienti topici che
già possediamo e che man mano andiamo scoprendo nel corso del viaggio o a posteriori? Ingredienti senza i quali, in verità, non stiamo viaggiando, pur credendo
che salire su una nave, su un aereo, su un auto o l’essersi incamminati verso una
meta qualsiasi, siano motivi sufficienti a fare il viaggio. Credo che occorra chiedersi piuttosto quali desideri non superficiali, quali richiami remoti, ci spingano ad
iniziarne uno. Ovvero, qualora si tratti di una partenza necessaria per scopi non da
noi scelti, quali eventi - chiediamoci - potranno assomigliare a quelli vagheggiati,
che si presentano quando è la libertà, il suo privilegio, a condurci altrove, lontani
dai luoghi consueti. Possiamo così scoprire, anche in queste circostanze, che:
si viaggia per un amore, per dimenticarlo o per inventarne uno nuovo;
si viaggia per perdonare od odiare di più;
si viaggia per ammazzare il tempo o per resuscitarlo;
si viaggia per tornare dove non si è mai stati o per non dormire più in un letto
noto;
si viaggia per inseguire il nulla o fuggire dalla propria ombra;
si viaggia per non morire male o per rinascere.
O che:
non si viaggia mai con l’immaginazione e la fantasia;
non si viaggia dentro se stessi, né in sogno, né in una provetta;
non si viaggia ascoltando musica, credendo di essere altrove.
Sei in viaggio, invece:
se sposti il tuo corpo, o quel che ne resta, da un luogo all’altro;
se scopri di riuscire ad alzarti in piedi per la prima volta. O per l’ ultima;
se raccogli un fiore intravisto in un prato, scoprendo che non era di plastica;
se lasci un’orma vera alle tue spalle o guardi una costa che si allontana annusando
un vento vero, non l’aria di un ventilatore.
Se proviamo ad applicare ai nostri viaggi, importanti o quotidiani, questi semplici descrittori potremo scoprire da soli se quella mezz’ora consueta di metropolitana vale di più di un mese girovagando nella Terra del fuoco. Se il viaggio è il
viaggiatore saranno perciò lo scopo, l’intento, la smania a contare, ad illuminarne
il senso, a rendere eccezionale l’ordinario e normale lo straordinario.
La finitezza e non l’ infinito è matrice del viaggiare
Il prologo ha insomma voluto avvertire i lettori che non tutto è viaggio, che
non si trasmigra da un luogo all’altro in forme incorporee. Perché si viaggia soltanto nello spaesamento: quando non ricordi più perché sei partito, né sai più
perché vorresti tornare. Non c’è viaggio che non inizi, né che non finisca. Per
Dossier 21
Pedagogika.it/2011/XV_2/Il_viaggio/Dentro_ogni_viaggio
questo tale stato dinamico dell’esistenza ci vede protagonisti di quanto appartiene
all’immanenza della nostra vita, circoscrive la nostra finitezza nella nostalgia di
una trascendenza di cui il viaggio, un grande “fingitore”- ancora con Pessoa - alimenta l’illusione. Non ci sono viaggi astrali, mentali, spirituali, favolosi se non
ritroviamo queste antiche suggestioni nella (apparente) banalità dei nostri viaggi
anche ripetitivi e quotidiani. Da quanto accennato il viaggio, il viaggiare, il muovere verso, posseggono, ma forse non più per chiunque, una potenza evocativa di
carattere archetipico (il lontano, l’insolito, l’imprevisto, l’eccezionale, il rischio…).
Al contempo, oltre ogni facile metafora, il viaggiare è soltanto esperienza, concreta, viva, destinata a finire per sempre. Irreversibile. Al solo nominare tali parole
si risvegliano tentazioni e desideri, ai quali è (forse era) difficile sottrarsi. Torna a
dischiudersi l’animo del sedentario, stanco del solito tran tran; la voglia di vivere
del pigro e dell’accidioso si riaccende; l’intenzione di fare nuove esperienze, di
imparare, lasciandosi alle spalle persone, consuetudini e spazi noti, si ravviva. Il
viaggiare, letteralmente scendere in strada per partire (con una meta precisa, senza
sapere dove si andrà), è un richiamo ancestrale e genetico, appartiene ad un inconscio collettivo che trova poi in ciascuno di noi declinazioni del tutto individuali.
Se, infatti, per alcuni il viaggiare significa e ha sempre voluto dire far “respirare”
la mente, esplorare, arricchirsi non solo metaforicamente, inseguire una promessa
di felicità esponendosi a fatiche e disagi, per altri, invece, esso è motivo sufficiente
a ridestare paure antiche, ansie, se non sentimenti d’angoscia.
Non tutti sono disponibili ad andare incontro all’ignoto che ogni viaggio, separandoci da ciò che ci rassicura, sembra promettere non solo per diletto o paventare. Il partire, e non per un’esigua minoranza, è veder allontanarsi e scomparire
il consueto, qualche certezza consolidata che già si sente franare sotto i piedi, già
tentati dal pensiero di restare. D’istinto, il viaggiatore restio a viverne i rituali sa
bene che tale evento, ineluttabile o con timore intrapreso, ci costringe giocoforza
ad attraversare, seppur in forme del tutto modeste e usuali, qualche prova del tutto
transitoria che di iniziatico può avere assai poco, che tuttavia tale appare a chi sia
abitato dagli archetipi del viaggio meno tranquillizzanti. Scegliere, o trovarsi come
per caso in simili circostanze, di entrarvi e di percorrere le sue diverse scansioni
topiche (preparazione, adattamento all’imponderabile, inconvenienti, incidenti di
percorso, pericoli, fra cui quelli che ostacolano il ritorno, ecc ) ci obbliga a mostrarci, ad esempio, diversi dal solito agli occhi di chi ci accompagna: siamo costretti a svelare di noi quanto si era stati capaci di nascondere fino a quel momento.
La solitudine del viaggiatore
Il viaggiare, in base a come sappiamo o vogliamo viaggiare, è un rivelatore esistenziale e quindi relazionale a più livelli: ci espone allo sguardo del nostro prossimo; ci mostra che troviamo insopportabili taluni inevitabili, seri o irrilevanti, contrattempi; ci consente di scoprire che non era il viaggio quello che volevamo e che
ogni curiosità vera per il diverso o l’inusuale si è spenta in noi. Nella disponibilità
tutt’al più ad accettare “il suggestivo”, “l’incantevole”, “l’eccitante”, “il magico”…
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Pedagogika.it/2011/XV_2/Il_viaggio/Dentro_ogni_viaggio
Tutte parole, ed altre ancora, che possiamo trovare in qualsiasi dépliant turistico o
nelle conversazioni al ritorno pronunciate da chi ha vissuto quel non-viaggio, come
se non si fosse mai mosso dal proprio televisore. Scopriamo, ma probabilmente già
lo sapevamo prima, che se siamo privati di talune abitudini, se ci separiamo dal
consueto, ci sentiamo in estremo disagio provocandone altrettanto in chi, peggio
per lui o lei, ci ha seguito. Tali atteggiamenti si riscontrano, e come diremo sono
sempre più frequenti, in coloro che concepiscono il viaggio solamente in modalità
di gruppo e comitiva. Dalla scampagnata al safari. Certamente anche per esigenze
legate alle difficoltà, ai costi così riducibili, che comportato mete prestabilite con
grande cura e non aliene dal desiderio di conoscere altre e altri più che i luoghi
di destinazione o di transito. Ma viaggiare così è venir meno alla mitologia, all’epopea, alle tradizioni del viaggiare. Nelle quali scopriamo che, al di là di quei
viaggi che meglio sarebbe definire esodi, migrazioni, diaspore, fughe in massa alla
ricerca della salvezza (drammaticamente ancora sotto i nostri occhi), il viaggiare si
qualifica come esperienza solitaria, fino a poco tempo fa rigorosamente maschile1,
riservata a chi fosse indotto a partire per libera scelta, per chiamata divina o missione terrena, o contro la propria volontà, e tornerà, ammesso che torni, comunque
differente da prima. Perché avrà dovuto imparare a sopravvivere a proprie spese,
avrà incontrato pericoli e anche dolcezze sublimi, avrà scoperto che le ragioni per
le quali si era messo in cammino non valevano tanta fatica e che il tragitto, la
peregrinazione, l’errare o ci aiutano a capire qualcosa di noi che non sapevamo o
proprio “non valevano il viaggio”. La solitudine con la quale il viaggiatore solitario
si cimenta, non solo viene messa in conto, ma è proprio quanto gli consente di accedere alla sua mitologia. Ha la possibilità perseguita di saper sopportare e persino
cercare dentro di sé quelle inquietudini che costituiscono lo spirito del viaggiare,
come esperienza culturale e formativa che, puntualmente, si rivive ogniqualvolta
- e quali che siano le età e gli intenti del viaggiatore - quando entrino in campo
scopi di mera ricerca interiore. I quali ci consentono di muovere verso le traversie
più destabilizzanti e spaesanti nella consapevolezza che la vera posta è un aumento
di consapevolezza e maturità, la cui comprensione è riservata a chi abbia vissuto il
viaggiare con simili intendimenti.
Credere di viaggiare per soggiornare nella vacuità
Poiché ormai, in tempi di turismo di massa e massificato, sono rimasti in pochi - e non necessariamente giovani (anzi!) - a concepire e a tollerare il viaggio
nei termini anzidetti, è bene soffermarci sui comportamenti odierni. Vanno per
la maggiore quelli che fanno di tutto per trasformare più che altro il viaggio in
un soggiorno “delizioso”, provvisto di ogni comodità, affidato a tours operators
servizievoli. Lo si cerca il più possibile privo di inconvenienti, scevro da qualsiasi
velleità iniziatica che non sia un prima notte di nozze o invece clandestina e, tanto
meno, frequentata da incontri per i quali oltre a pronunciare più volte l’aggettivo
1 D. Demetrio, L’ interiorità maschile. Le solitudini degli uomini. Raffaello Cortina, Milano, 2010.
Dossier 23
Pedagogika.it/2011/XV_2/Il_viaggio/Dentro_ogni_viaggio
“esotico”, altro non resta da dire che non sia già stato detto e ascoltato in qualche
film o soap opera. Tutto ciò, in un “tutto compreso”, le odierne culture del viaggiare ci promettono e fanno vagheggiare. Se è proprio questo che desideriamo, l’essere depositati delicatamente ora in un paradiso in terra, direttamente su un’amaca, ora in un deserto con tanto di driver vestito da finto predone che parla la lingua
di casa nostra, allora il senso della nostra parola, è bene lo si ammetta una volte
per tutte, avrà subito una mutazione irreversibile. Non il viaggio, ma la vacanza
(letteralmente la vacuità più assoluta), dovrà essere spogliata di ogni caratteristica
che abbia a che fare con quanto, per millenni, abbiamo assegnato a quell’andare
verso che vogliamo invece coincida con l’immobilità. Col prefigurare una meta
rassicurante da raggiungere il più velocemente possibile, dalla quale ripartire per
tornare rapidamente alle consuetudini lasciate. Minuziosamente informati sugli
itinerari, le tappe, le visite guidate, gli intrattenimenti.
Rievocare il vicino e il lontano: le domande del viaggiatore a se stesso
Se ci discostiamo dai sedicenti viaggi evocati, ad uso e consumo dei mercati
turistici, ancora può accaderci di trovarne lo spirito senza andare troppo lontano.
Per capire la differenza è sufficiente chiedersi quando ci capitò di spostarci a piedi
(e sarà stato il massimo!), oppure, in bicicletta, in moto, in auto, in lungo e in
largo in un territorio anche consueto, di percorrerlo e attraversarlo, e ci accadde
di scoprirlo, vederlo, annusarlo con tutti i sensi come se fosse stata la prima volta.
Possiamo inoltre, per amor di lontano, fare un’altra prova circa l’autenticità del
nostro modo di viaggiare: ricordando invece un viaggio importante del passato.
Ebbene, se ne ripassiamo mentalmente le scene salienti e potrà accaderci di scoprire che grazie ad esse siamo tornati diversi da come eravamo partiti, allora vorrà
dire che sì abbiamo veramente viaggiato. Anche se l’aspirazione iniziale al quieto
vivere era simile quelle descritte. Purché tale rievocazione, rapportandola al presente, ci permetta di dire che siamo migliorati in qualcosa, che abbiamo imparato,
che abbiamo capito e non in funzione di un altro viaggio possibile, per diventare
viaggiatori esperti, ma per la vita di tutti i giorni. Così come riappaiono sogni
d’avventura all’orizzonte, seppur modesti, connessi ai ricordi dei rischi incontrati
e superati, tali da conferire un senso “pedagogico” a quell’esperienza dell’altrove, al
contempo, riaffiorano altre emozioni, legate ai luoghi, alle diverse scansioni della
giornata, agli imprevisti, agli esercizi cui i sensi e il corpo si sono volontariamente
o casualmente esposti. Al ritorno, ci si accorge poi che si è viaggiato soprattutto per raccontare ad altri quanto vissuto, come tutta la sterminata letteratura di
merito (celebre o rimasta chiusa nelle pagine di un taccuino senza pretese) sta a
dimostrarci. La dimensione narrativa accompagna ogni partenza e ogni rientro a
casa. Ne è l’anima. Possiede la proprietà di rendere il viaggio, anche il più insignificante, un’occasione memorabile che non si accontenta di restare in silenzio. Se
da un viaggio anche breve e nelle vicinanze, peggio ancora se lungo e verso terre
lontane, si torna senza non aver nulla da raccontare, è come se non si fosse mai
partiti. Non si avesse visto nulla, nonostante le centinaia di foto scattate che sono
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oggi la protesi più nociva del viaggiatore. Incapace di trattenere nei propri sensi,
nella propria memoria, quanto incontrato senza che ci si debba compulsivamente
avvalere di qualche medium tecnologico. Ormai incapaci di stabilire un contatto
diretto, materiale, fisico con quanto il viaggiare può ancora proporci, soprattutto
se diverso da quanto già anticipato da dépliant, libri, riviste patinate. Quando la
delusione nel trovarsi in posti soltanto leggermente diversi da quelli pre-visitati on
line, è capace di guastare una festa e di deprezzare quanto ci si aspettava assomigliasse, in toto e senza alcuna smagliatura, al modello sognato. Il quale se non sarà
conforme a quanto si prevedeva incominciasse a delinearsi dai finestrini dell’aereo
o del traghetto; se un po’ distante dall’immagine del palmizio o dell’oasi vagheggiati; se più scomodi del previsto, ecc, ecc ancora una volta saranno disappunti
che avranno ormai decretato il tramonto dell’epopea, anche la più casalinga e
domestica, del viaggiare.
Camminare: variabili andature con i piedi per terra
Abbiamo tentato di osservare che cosa c’è dentro un viaggiare non banale. Ma
se è importante porci alcune domande, in una autoanalisi del tutto personale,
sul senso che assegniamo al nostro bisogno di viaggiare o viceversa di restare.
Non possiamo certo tacere di ciò che riesce a rendere viaggio anche l’esperienza
di viaggio più massificata, il vuoto soggiorno, la vacanza low cost o last minute.
Dentro ogni viaggio, sia il più sognante e leggero o il più arduo e complicato, ci
accade di poter vivere diversamente una ovvietà che poi tale non è, come tenterò
di sottolineare. Mi riferisco alla possibilità di camminare, sì proprio a questo, diversamente dal solito. A seconda delle circostanze “odeporiche”(dal greco, incamminarsi verso) con l’aiuto delle gambe e dei piedi decliniamo le molteplici varietà
che abbiamo a disposizione. Noi camminiamo per raggiungere, fuggire, tornare,
lasciarci alle spalle, girovagare, inseguire, salire, scendere, inoltrarsi… Ciascuno di
noi si muove pedestremente in modo diverso a seconda del tipo di viaggio che ha
intrapreso. Ed è evidente che in tal modo, anche la nostra vita quotidiana, in base
all’andatura assunta, può assomigliare ad un viaggio. I piedi di cui ci avvaliamo
per andare incontro al divenire e non solo per assecondarlo ci riconducono sempre
alla terrestrità del nostro esistere, ci ricordano che un conto sono le metafore del
viaggiare (ed anche del camminare: troviamo del resto analogie come cammino
spirituale, di fede, interiore, intellettuale, morale…) ed un altro l’agire il cammino
nella sua assoluta concretezza. Camminare è una manifestazione “umile” e dei più
umili, i quali non hanno il privilegio di avvalersi di altri mezzi di trasporto. Ci
ricorda il teologo Matthew Fox che “la parola umiltà viene dalla parola humus, che
significa terra… essere umili significa essere a contatto con la terra, a contatto con la
propria terrestrità, e gioire del fatto che la nostra terrestrità, la nostra sensualità e le
nostre passioni sono una benedizione”2, non del cielo ma della stessa terra. Il tornare
a camminare, non solo approfittando dell’occasione eccezionale di un viaggio,
2 M.Fox, In principio era la gioia. Original Blessing, Tr.it. Fazi Editore, Roma, 2011, p. 63.
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ma ogni giornata, nella consapevolezza di esperire qualcosa di naturale e perciò
di intrinsecamente sacro (leggi: ancestrale, umanamente millenario, archetipico e
universale…), può assumere il tono persino di una immanente, laica, non credente
“religiosità della terra”3. Ci collochiamo in tal modo nelle epopee collettive e individuali di un’umanità che ha cercato, a piedi, di arrivare a qualche terra promessa,
di scappare ai genocidi, di tornare alla propria Itaca, di vagabondare senza meta,
di scalare qualche monte magico, di cercare il santo Graal, di scendere nell’Ade, di
vagare nella cecità di Edipo o nella disperazione dell’ebreo errante, dei pellegrini
alla ricerca della reliquia o del santuario dove poter espiare i propri peccati. Impossibile è citare la incredibile storia dei camminanti che ispirarono la letteratura e il
pensiero filosofico e religioso di tutti i tempi. Basti soltanto ricordarsi che l’esercizio del camminare va pensato con il dovuto rispetto, specie quando evochi anche,
non privo nuovamente di immagini metaforiche, quel nostro poter rialzarci, incedere, proseguire, cadere, strisciare, arrancare e risollevarci, arrivare e finalmente
riposare nell’incertezza, finché si viva, che il ciclo può riprendere o arrestarsi per
sempre. Seguendo scansioni ineluttabili di un inaudito valore simbolico e degno
di attente meditazioni.
Passeggiare: per iniziarsi al viaggio in ogni viaggio
Tra le varietà citate ne manca una, che rappresenta un vertice per le nostre
riflessioni al quale affido un compito particolarmente pedagogico e che enfatizza quanto detto. Mi riferisco alla capacità di saper passeggiare non nella versione
cialtronesca di un “dolce far niente” perseguita in molti viaggi, del resto frequente
nella consuetudine dello shopping o del farsi ammirare lungo le vie del centro,
bensì in quella che ci ponga più a contatto con la natura, la terra, i sensi, lo spazio
nel quale ci muoviamo. La passeggiata è un modo di camminare che ci insegna a
rallentare, a guardarci intorno, a centellinare quanto man mano sfila attorno a noi
risvegliandoci ai sensi: il saper toccare, vedere, ascoltare, annusare, gustare pensare
con pacatezza e giusta pensosità. Ci insegna nondimeno il piacere della solitudine,
del silenzio, della meditazione rivolta alle cose, agli oggetti, ai volti; ci riporta al
senso di possedere un corpo che potrà far fatica ma scoprirà che si può rinunciare
alla corsa per la corsa, alla scalata per la scalata, ad ogni gara che non sia con la
messa alla prova, senza spettatori e plausi di sorta, della propria più spessa sensazione di vivere e di appartenere ad un cosmo interiore ed esteriore irraggiungibile.
Perché il passeggiatore sa che non è importante la meta, ma ancora una volta la
sperimentazione per sé di altri modi di esistere. Ha scritto Alain Montandon: “La
passeggiata non è diretta verso un fine, ma percorre un luogo; non conduce lontano,
verso l’ incognito, ma resta in uno spazio e conosciuto, quello della propria cultura… E’ limitata nel tempo, breve, conduce verso ciò che è prossimo, ha un’andatura
3 Ne parlo anche nei miei: Ascetismo mediterraneo. L’ inquieta religiosità dei non credenti, Milano,
Ponte alle grazie, 2009, e ne: La religiosità degli increduli. Per incontrare i Gentili, ed EMP, Padova, 2011.
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misurata…La passeggiata, passeggiata in solitudine o compagnia, non è un viaggio…
non è un mezzo per raggiungere un fine, ma è il suo stesso fine”.4
Imparare per se stessi e fare di tutto affinché si riesca a spiegare ad altri che si
può vivere ogni genere di viaggio all’insegna della lentezza connaturata al passeggiare, dello smarrimento come filosofia di vita, della curiosità non avida e veloce.
Il passeggiare assorto e vigile rappresenta un modo alternativo alle modalità odierne di cui si avvalgono infinite schiere di viaggiatori della domenica, di vacanzieri
pigri, di zombi distratti e accidiosi. Ogni viaggio può rivelarci incontri con la vita
e le sue innumerevoli forme, se ci disponiamo a passeggiare con arte. A entrare diversamente nel tempo e nello spazio: osservando meglio, curiosando in ogni dove,
affinando l’attenzione e l’ammirazione dovuta per i microcosmi umani o ambientali, urbani o naturali cui andiamo incontro. Passeggiare è educare e educarsi alla
sosta necessaria ad ogni camminare lento, di cui sia i sensi e le emozioni, sia il
pensiero hanno bisogno per rendere il viaggio un’ opportunità creativa. Contro le
frenesie e le eccitazioni di chi attraversa ogni parte del mondo asserendo che ormai
è tutto uguale, che non c’è più nulla da scoprire. Si tratta di chi non può coglierne
i mutamenti perché non sa tollerare per primo alcun cambiamento, spostandosi in
una agitazione nevrotica come in una capsula protettiva e asettica.
Spunti per educare a viaggiare iniziandosi a passeggiare
Molte sono di conseguenza le implicazioni pedagogiche che possiamo trarre da
un’educazione al camminare con lentezza. Propedeutiche ad ogni tipologia di
viaggio. Una “didattica dell’uscita” scolastica, e non solo, preceduta da esercizi
utili ad un imparare a passeggiare non come acefale mandrie, in un parco protetto,
tra le rovine di una necropoli, in un museo, in una chiesa, in un centro storico,
ecc, può rivelarsi più interessante e utile più di mille spiegazioni. Ammesso ma
non concesso che tale consuetudine preparatoria al dove si andrà, costituisca
ancora una preoccupazione educativa. Di contro alla malsana consuetudine di
concepire la gita un viaggio inutile che profeticamente già potrà dirci qualcosa su
come quei futuri adulti non sapranno viaggiare afflitti dall’ansia di combattere
lo stress, costernati al ritorno di esserne affetti più di rima. Poche regole, possono
bastare. Come queste - ed altre da inventare -:
1. Educare a donarsi tempo
2. Educare a stare in silenzio
3. Educare a scrivere e a leggere strada facendo
4. Educare a conversare sottovoce
5. Educare a ricordare le analogie con quanto già incontrato altrove
6. Educare ad accogliere l’ imprevisto e le piccole cose nascenti
7. Educare a sentire il proprio corpo rilassato più che vigile
8. Educare a scoprire il piacere della solitudine stando insieme
9. Educare ad acuire i sensi e a stimolarli
4 A. Montandon, La passeggiata. Tr.it. Salerno editore, Salerno editrice, Roma, pp.16 -17.
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Educare ad andare a zonzo, ad incontrare ogni forma di ignoto
5
Al lettore resta il compito di inventarsi, sulle orme di simili suggerimenti, un
diverso modo di iniziare al viaggio allievi e figli, o nipoti, nella disposizione d’animo di incominciare da se stesso. Non è mai troppo tardi, prima che sia troppo
tardi, per imparare quanto, nelle stagioni più frettolose, convulse, sbrigative e superficiali della vita, non ci riusciva di poter coltivare o solamente concepire. Del
resto, la tradizione del viaggiare, imparando a camminare lentamente nei luoghi
dell’arrivo se a piedi è impossibile o troppo ascetico raggiungerli, ci viene proprio
dal fondatore della pedagogia moderna. A quel Jean Jacques Rousseau che nelle
Confessioni, il suo testamento autobiografico ispirato da una laicità civile profonda
e da una profetica visione dei mali delle civiltà a venire ebbe a scrivere: “Mi piace
camminare a mio agio e fermarmi quando mi pare. La vita ambulante è quella che
più mi conviene. Procedere a piedi col bel tempo in un bel paese senza fretta, e aver
come meta del viaggio un oggetto piacevole: questo fra tutti i modi di vivere, è quello
che più mi diletta”.6
*Docente di Pedagogia presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca,
Fondatore e Presidente della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari.
5 Chi volesse approfondire proposte simili può leggere oltre al mio Filosofia del camminare. Esercizi di meditazione mediterranea, Raffaello Cortina, Milano, 2005, ad esempio, un classico come
H.D. Thoreau, Camminare, tr. it. Mondadori, Milano, 2009; T. Espedal, Camminare. Dappertutto (anche in città), tr. it., Ponte alle Grazie, 2009; G. De Pascale, Slow Travel, Ponte alle Grazie,
Milano, 2008.
6 In A. Montandon, op. cit., p. 21.
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Dossier 29
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Terapie di fuga
Esotismo e folklorismo sono entrambe forme di terapia di fuga. Se vogliamo,
sono caratteristici della ricerca affettiva e identitaria dell’uomo moderno, malato di complessità. Guardare a un altrove o a un passato migliore, pieno di valori,
ci aiuta a vivere la banalità della routine quotidiana. Ne abbiamo bisogno.
Duccio Canestrini*
“Se trovo una giovane francesina e questa è per mala sorte una ragazza per bene,
rivedo di colpo la casa paterna e l’educazione delle mie sorelle: prevedo tutti i suoi gesti
e le più fuggevoli e le sfumature dei suoi pensieri. E’ perciò che amo le cattive compagnie: c’ è più imprevisto. Per quel che mi conosco, è questa la corda che gli uomini e
la vita italiana hanno fatto vibrare”. Così scriveva Stendhal, “turista” in Italia, nel
1817. Vicino o lontano, il turismo è sempre stato legato alla ricerca della diversità:
si lasciano la casa, le usate compagnie e i ritmi quotidiani per cercare avventurosamente altro. L’inconsueto, l’imprevisto.
Definire che cosa sia esotico e che cosa non lo sia è problematico, perché come
si suol dire - e a maggior ragione lo ribadirà un antropologo - tutto è relativo. Non
c’è dubbio, per esempio, che per lo scrittore Stendhal le ragazze italiane fossero
esotiche. Quando si è in viaggio, la sensibilità per ciò che appare come tipico/
topico aumenta: lo sanno bene i baristi della cittadina messicana di Tequila, dove
l’omonimo liquore viene servito, ormai esclusivamente ai turisti, con il vermetto
dell’agave affogato nel bicchiere. Fa tanto esotico, fa tanto etnico.
L’esotismo è probabilmente una tendenza innata dello spirito umano. In ogni
epoca e luogo le letterature hanno espresso il fascino di terre e costumi sconosciuti,
cui è fin troppo facile attribuire straordinarie doti di felicità, di bellezza, di fortuna. Nel suo Essai sur l’exotisme, concepito nel primo decennio del Novecento,
Victor Segalen - medico francese, scrittore, marinaio e musicista - definì esoti i
viaggiatori “che esultano per il diverso puro e semplice”. Per la sua ricchezza, per
l’energia che libera. Segalen li contrappose ai turisti pseudo-esoti, che al contrario
non sarebbero in grado di elaborare una vera estetica del diverso, ma che si accontenterebbero di sensazioni superficiali, convinti di avere capito tutto.
Nella storia dell’umanità non si è mai viaggiato tanto come negli ultimi anni:
per curiosità, per moda o necessità. La mobilità turistica, questa diserzione ludica
dal mondo del lavoro, è divenuta il fenomeno antropologico più rilevante della
contemporaneità. Ma ha ancora un senso riflettere sui riti del turismo - e sul viaggio in generale - in tempo di crisi dovuta alla paura degli attentati, delle epidemie e
delle guerre? Certo che sì. Proprio perché non sempre appare chiaro, nella coscienza comune, quanto i nuovi flussi abbiano, per così dire, un diritto e un rovescio.
La planetarizzazione ha messo in campo sirene affascinanti ma anche pericolose. Non si può avvicinarle senza rimanerne in qualche modo contagiati. Merci,
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idee, malattie, informazioni, denaro e persone viaggiano per le strade del mercatomondo. Quello dove s’incrociano flussi di turisti e di immigrati. Quello che ci permette di avere le banane dal Centro-America e i giocattoli per i nostri bambini da
Taiwan, e che consente di spostarci dai Navigli a un villaggio turistico del Kenya,
in meno di ventiquattr’ore.
La lontananza di usi e costumi, però, non è necessariamente distanza in senso geografico. E infatti esiste un turismo esotico di prossimità, particolarmente
attento ai dislivelli interni, cioè alle manifestazioni della nostra cultura popolare.
A ben vedere, neppure questo è un fenomeno nuovo. Fin dal XVII secolo l’aristocrazia bavarese, incuriosita dalla musica popolare, se la spassava in villeggiatura
ballando nell’aia e giocando alle “nozze contadine”. Si trattava di vere e proprie
carnevalate indigeniste, dove quegli agiati “godimondo”, un po’ alla don Giovanni, reinterpretavano scherzosamente la ruralità. Le feste folkloristiche sono del
resto il Leitmotiv di molti diari di viaggiatori del Grand Tour, per i quali la miseria
dei nativi appariva assai pittoresca.
Il turismo come gioco dello spaesamento praticato altrove, diventa allora un
gioco dell’appaesamento. Cioè di un nuovo radicamento, non tanto in base a criteri di appartenenza, quanto di esplorazione delle pieghe della realtà. Come farlo
in maniera touristically correct questo gioco, dopo tanti dibattiti sulla sostenibilità?
In Africa era paradossalmente più semplice: tali sono i contrasti tra il nostro stile
di vita e quello nei Paesi in via di sviluppo che è diventato quasi impossibile non
accorgersi dell’impatto ambientale di certe strutture turistiche. O delle messe in
scena (tipo danza tribale nella hall dell’albergo) ideate per compiacere il nostro
esotismo di visitatori superficiali.
Esotismo e folklorismo sono entrambe forme di terapia di fuga. Se vogliamo,
sono caratteristici della ricerca affettiva e identitaria dell’uomo moderno, malato
di complessità. Guardare a un altrove o a un passato migliore, pieno di valori, ci
aiuta a vivere la banalità della routine quotidiana. Ne abbiamo bisogno. Tanto
bisogno che quei valori tradizionali siamo disposti anche a (re)inventarli, in una
pletora di revival all’insegna, per esempio, di ricette gastronomiche medievali.
Placata la smania dell’atollo maldiviano, si fa dunque turismo domestico. Un
turismo attento alla nostra storia e aperto alle influenze planetarie. Così come ormai s’è aperta a nuovi modi e a nuove mode la vita dei giovani, che mescolano tatuaggi polinesiani, henné marocchino, berretti peruviani e piercing indiani. Sulle
nostre strade provinciali allignano prostitute nigeriane, in discoteca impazzano hit
di fortunati cantanti meticci, e non c’è fiera che non proponga bancarelle etniche,
con spericolate contaminazioni di sapori. Del tipo sushi (da Fukushima in poi
nostrano) e fagiolata brasiliana. E stranamente nessuno che si azzardi esercitare un
pensiero critico su cotali guazzabugli. Di più, il binomio saperi e sapori è diventato
un luogo comune. Le mescolanze nel cavo orale sono diventate una regola. Le masticazioni solidali, un must. Così va e così cambia il mondo, anche quello piccolo
e antico. Nessun problema, siamo fatti per mutare, auspicabilmente in allegria, e
con vigile senso critico.
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Pedagogika.it/2011/XV_2/Il_viaggio/terapie_di_fuga
A proposito. Non sarà venuto il momento di proporre un turismo gastronomico più morigerato, più sobrio, più attento? Lo dico perché ho il forte sospetto che le
scorpacciate di prodotti regionali (assodato che l’onnipresente fiera della salamella
funge da alibi per un non meglio identificato turismo culturale) tendano più ad
ottundere i sensi che ad espandere la coscienza.
Se un tempo l’esotismo alimentare dei regnanti medievali, che ostentavano
sulla tavola raffinati menù stranieri, rispecchiava la volontà di superare la dimensione locale della cucina, oggi i sapori “altri” sono divenuti oggetto di un vero e
proprio esotismo popolare. Come ha osservato lo storico dell’alimentazione Massimo Montanari “l’esotismo di massa che qualsiasi supermercato consente a chiunque
di realizzare, non è che la democratizzazione, discutibile sul piano del gusto, ma perfettamente logica sul piano culturale e simbolico, di un sogno lungamente perseguito a
livello elitario”. Ma attenzione al monito di Italo Calvino: i ristoranti esotici delle
nostre metropoli, stanno ai paesi d’origine come ricostruzioni ambientali filmate
in studio, rispetto alla realtà. Pessimista? Ma no, purché vi sia occasione di stupore. Purtroppo, dato che lo slow diventa sempre più chic, di imprevisto c’è soltanto
il conto.
*Docente di Antropologia e cinema nel Corso del laurea in Scienze del Turismo
al Campus di Lucca, membro dell’Associazione Italiana per le Scienze EtnoAntropologiche di Roma e dell’International Scientific Council for Island
Development di Parigi.
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On the road.
Vagabondi, turisti, migranti...
In margine ai viaggi e sullo sfondo della crisi sociale si sviluppa un certo turismo
della miseria. Le nostre società disprezzano i miserabili, ma esaltano a iosa
i viaggiatori. Il rifiuto dell’altro venuto da fuori riecheggia tristemente il rifiuto
dell’altro di casa nostra. Mentre dovunque nel mondo la mobilità aumenta, in
forme sempre più varie, le mentalità si chiudono e i nomadi si trovano a parlare
con un muro1.
Franck Michel*
Nati alla fine del XIX secolo sulle macerie della crisi economica, in un’America
che già allora gettava sul lastrico le sue migliaia di disoccupati, gli hobos attraversavano gli States alla ricerca di cantieri in cui lavorare, di treni per spostarsi, di posti
di lavoro per poter esistere sul piano sociale e sopravvivere su quello economico.
Fin dal 1923, nel suo libro L’Hobo, sociologia dei senzatetto (1993), Nels Anderson
notava che a questo tipo di bohème è sottesa una cultura libertaria. L’hobo non è
solo un disoccupato o un lavoratore nomade; è anche uno che si gode la vita, un
superstite del romanticismo.
Si è quasi indotti a dimenticare che il tempo del girovagare è anche un tempo
di devianza, di rifiuto e spesso di sofferenza. Un tempo che può farci credere che
tutto è possibile... Per Anderson, l’hobo «buono» non è il lavoratore, ma uno che
sceglie di stare in ozio, ponendo il suo tempo al servizio della vita, e non di un’attività produttiva. Nutrito di un immaginario potente, segnato in particolare da
autori quali Jack London, impersona soprattutto la figura del pioniere, dell’esploratore, potenziale scopritore di un ipotetico Far West.
L’immagine dell’hobo si collega al mito: è il viaggio estremo, dal punto in cui
si esaurisce il «turismo medio». Non c’è da sorprendersi se l’eredità dell’hobo è
rivendicata da tutti gli avventurieri originali alla ricerca di antenati, oltre che da
svariati etnologi, militanti o turisti desiderosi di differenziarsi. Gli viene attribuito
l’invidiabile status di viaggiatore «vero», secondo un modello ideale che per lo più
non si riesce ad imitare, per mancanza di coraggio, o del necessario distacco dai
nostri alienanti legami, materiali o affettivi.
Dai «vagabondi della ferrovia» (London) ai «nomadi del vuoto» (Chobeaux), passando per il «clochard elegante» (Kerouac), l’universo della vita errante, di cui Bruce
Chatwin ha rivelato l’«anatomia» sul frequentatissimo registro del travel writing, più che
cambiare di natura ha cambiato grado. E l’America resta l’America.
1 L’articolo qui pubblicato è in precedenza apparso su “Le Monde Diplomatique”, settembre 2000,
n. 9/00.
Dossier 33
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Mi è capitato di condividere per qualche giorno, «on the road», la sbobba e il
genere di vita di un hobo «moderno», percorrendo da un capo all’altro gli Stati
uniti. Charles ha una quarantina d’anni, e da dieci anni circa vive per strada. Da
dove viene? Dove è cresciuto?
«Da qualche parte tra New York e Boston, ma ormai non lo so più di preciso;
ora sono legato solo alla strada, al vento, alla pioggia e al sole». Ogni volta che
un veicolo si ferma sul bordo della strada, il mio compagno di disavventura non
pone la domanda dell’autostoppista «classico», che ha una meta precisa, ma esordisce dicendo: «Buongiorno. Lei dov’è diretto?» E non tarda a fare altre domande:
«Pensa che là potrei trovare un lavoro? Magari potrebbe aiutarmi a trovare un
posto temporaneo, anche mal pagato?» Abbozzi di mendicità, concessioni anticipate sintomatiche di un sistema che pone l’individuo all’ultimo posto della catena
del progresso. Domande che hanno lasciato quanto meno interdetti alcuni degli
automobilisti.
Nomadi del vuoto, il vagabondaggio assume forme molteplici. Ci sono i girovaghi e i mendicanti, gli svampiti e i disperati, i rinunciatari e gli espulsi; e c’è chi
accumula le sfortune e assomma in sé un po’ di tutto questo.
Ma la «buona società» ha sempre fatto distinzione tra i vagabondi «veri» e quelli
«falsi». I veri, travolti dalla crudeltà del mondo ma disposti a rendersi utili, restano
nonostante tutto integrati alla comunità; mentre i «falsi» fuggono il lavoro e la
comunità.
Ovviamente, la società preferisce il vagabondo immiserito, magari decaduto da
ogni umanità, ma ancora «accettabile» e presente ai suoi margini: è uno a cui di
tanto in tanto si cede volentieri una stanza, mentre il vagabondo ribelle e fuggitivo, tentato dall’ozio e dall’ignoto, assente (e dunque in qualche modo inesistente),
è «inaccettabile» (e pertanto «carcerabile»!).
I comportamenti nei riguardi dei senzatetto «veri» - versione moderna del vagabondo - oscillano tra la carità benevola e la compassione religiosa; mentre nei
confronti di quelli «falsi», usurpatori della miseria ufficialmente accettata, l’atteggiamento è improntato nel migliore dei casi alla diffidenza, e nel peggiore all’odio.
Dopo essere stati privati delle loro prerogative di cittadini, alcuni sono espulsi dalla società; altri muoiono, bruciati o vittime di pestaggi... La storia rigurgita di iniziative caritatevoli per i primi - dalle opere di S. Vincenzo de’ Paoli all’Abbé Pierre
- così come di processi e di condanne per gli altri. Il vagabondo «vero» viene aiutato e compianto, l’altro è stigmatizzato e respinto. Il primo aspira alla sedentarietà,
il secondo non riesce a star fermo. Il senzatetto girovago è sempre considerato un
cattivo soggetto, refrattario all’adattamento e all’inserimento. Questi itineranti,
pure più involontari di quanto si creda, oltre a vivere male sono anche mal visti...
La società difende innanzitutto un’idea del viaggio mutuata dal concetto di
ferie pagate; le altre forme sono sospette o sconvenienti, soprattutto quando si
praticano fuori dai sentieri battuti. Perciò i viaggiatori vagabondi sono considerati
quasi alla stregua degli zingari ... In un’economia mondiale interamente votata al
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mercato, il consumatore di viaggi è più apprezzato del nomade. Ma quali sono i
veri viaggiatori?
Come nota giustamente Zygmunt Bauman, «un mondo senza vagabondi è l’utopia di una società di turisti». Il senzatetto, l’Sfd (senza fissa dimora, ndr) ha sostituito il «clochard». L’esclusione ha preso il posto della povertà. Ma i problemi
restano; e non basta cambiare le parole per toglierli di mezzo. I giovani lasciano
le campagne isolate, o le città invivibili, per ricreare qualche legame sociale, o per
sopravvivere all’assenza di rapporti umani. «Nomadi del vuoto», pensano sempre
alla partenza, ma raramente all’arrivo: il loro periplo è innanzitutto - e rischia di
rimanere - un viaggio di sola andata.
In qualche caso, questi girovaghi, i cosiddetti «zonards», hanno qualcosa in
comune con gli esiliati. Anche l’esilio - una partenza imposta - è un viaggio di
sola andata.
La storia dei «nomadi del vuoto», secondo la bella espressione di Chabeaux, è
quella della fuga da una realtà quotidiana insopportabile, verso altra gente che vive
nel disagio. Se gli attuali «zonards» ci ricordano gli hippies di ieri, il bagaglio che
portano con sé non è più lo stesso. Il loro morale è meno esaltato, e il percorso è
generalmente più breve. Mancano di carburante, di energie, di soldi...
Sono ben lontani dalle avventure beatniks, dagli interminabili peripli «on the
road», dalle esperienze letterarie. Non c’è più, ai giorni nostri, la poesia che in passato molti trovavano nel nomadismo. La vita errabonda non ha nulla di «esotico»
né di «folcloristico». È più che altro una vita rovinata, logorante e senza tregua, a
volte suicida …
«Siamo tutti in movimento», scrive Bauman2. La moda del turismo dilaga ovunque, viaggiare diviene «tendenza». Come la «crisi», la disoccupazione, la povertà.
Anche se la condizione del turista rimane ovviamente preferibile a quella del disoccupato. Ma l’uno raggiunge l’altro, o piuttosto i due termini tendono a confondersi. Se l’industria turistica offre posti di lavoro e proventi che altri settori non
riescono più a creare, la ricerca di un’occupazione può rivelarsi un’impresa massacrante. Per molti dei nostri contemporanei, il viaggio intrapreso per cercare lavoro
è doloroso e senza sbocchi. Un po’ come la ricerca dell’isola deserta, inaccessibile,
in capo al mondo, che dall’intrepido viaggiatore esige pazienza, organizzazione,
coraggio e accorgimenti particolari. E può apparentarsi a un’avventura ben più
esotica delle periodiche tribolazioni vacanziere, il cui obiettivo si riassume nella
conquista delle spiagge mediterranee …
Sono già tanti gli avventurieri del lavoro perduto che si orientano verso continenti da riscoprire, spesso lontanissimi... Ma non tutti possono sperare di decollare, neppure con un qualsiasi volo charter.
Mentre la strada è aperta a tutti, almeno in apparenza, la maggior difficoltà
consiste nel non restare a terra. Se infatti è vero che tutte le strade conducono a
2 Zygmunt Bauman, Le Coût humain de la mondialisation, Hachette, Coll. Pluriel, Parigi, 1999.
Trad. it., Dentro la globalizzazione.Le conseguenze sulle persone, Editori Laterza, 1999.
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Roma, o da qualche altra parte, a rimanere ai margini di una strada non sono solo
gli autostoppisti sfortunati, ma anche molti migranti (o immigrati). Dal mendicante al girovago, passando per il profugo e l’esiliato, dal senzatetto affamato al figlio di manager in cerca di emozioni forti, la strada richiama una folla composita.
È un’alternativa che in linea di principio si offre a tutti. Ma in generale, le modalità
e la finalità dei viaggi degli uni e degli altri differiscono considerevolmente3.
Nell’offerta turistica si trova di tutto: persino i reality tours, che hanno portato
al successo un turismo «politicamente corretto»: in voga soprattutto negli Stati
Uniti, fanno della miseria un oggetto commerciale. Ad esempio Global Exchange,
un’associazione di San Francisco, si è specializzata in viaggi verso i luoghi di sfruttamento e di conflitto del pianeta. Il suo catalogo propone tra l’altro visite ai centri
di detenzione minorili della California, o escursioni nelle pianure del centro, dove
si possono incontrare i lavoratori «addetti alla raccolta delle fragole, che sono i più
esposti alla tossicità dei pesticidi. Un’altra esplorazione è dedicata alle sequoie della
California del Nord, per constatare gli effetti della deforestazione che minaccia
l’ecosistema.» C’è poi il programma «Beyond the Borders», che propone «tre giorni
al confine messicano, dove per 500 dollari si possono avere contatti diretti con la popolazione locale, gli immigrati clandestini, le pattuglie di confine e le organizzazioni
per i diritti umani. Senza dimenticare una visita alle maquiladoras, le fabbriche
frontaliere, e una serie di ragguagli sui problemi dell’ inquinamento»4.
Un turismo malsano nel quale forse quelli che si credono i più miserabili non
lo sono... Viene da pensare alle parole di un americano incontrato in Messico nel
1987. Mi trovavo a Chihuahua quando giunse la notizia che alcuni clandestini
messicani erano morti asfissiati nel vagone di un treno transfrontaliero. Ed ecco
il commento del turista Usa, seduto al tavolo di un bar: «Non si viaggia gratis!
Io, per venire fin qui, il mio biglietto d’aereo l’ho pagato!» Il turista ha il torto di
rendere amari i sapori esotici, per il semplice fatto della sua imbarazzante presenza.
Chi circola e si fa trasportare qua e là è accusato di banalizzare i luoghi che visita,
tanto da togliere persino la voglia di girare il mondo. Secondo i suoi detrattori,
finisce addirittura per annientare, a forza di desacralizzarlo, il significato profondo
del viaggio. A rendere obsoleta l’immaginaria distinzione tra turista e viaggiatore
non è tanto la timida democratizzazione dei viaggi, quanto la volontà dei turisti
di seguire le orme dei viaggiatori! Sull’esempio di questi ultimi, i turisti sognano a
volte un mondo senza ... turisti! Da qui l’eccitazione evidente, non appena si offre
ai patiti dell’avventura qualche nuova destinazione: ieri Cuba e il Vietnam, oggi
il Laos, la Birmania, il Bhutan ... Domani sarà la volta del Congo, della Corea
del Nord, dell’Afghanistan, o magari di Timor Est o del Kosovo? Sarebbe ora
di imparare di nuovo a bighellonare a piacere. Camminare liberamente accanto
3 Cfr. Franck Michel, Désir d’Ailleurs. Essai d’Anthropologie des voyages, Armand Colin, Coll. «Chemin de traverse», Parigi, 2000; e inoltre, da lui curato, Tourismes, touristes, sociétés, L’Harmattan,
Parigi, 1998.
4 Cfr. Le Monde, 10 gennaio 1999.
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all’altro, vagare verso un altrove, nel florilegio dei luoghi da collezionare, piuttosto
che solcare il pianeta a una velocità tale da non riuscire più neppure a far timbrare
tranquillamente un visto al confine. Per adottare le categorie del nomadismo contemporaneo stabilite da Jacques Lacarrère, si può sperare che domani i «viaggiati»,
cioè gli adepti del troppo facile turismo organizzato, finiscano per avvicinarsi negli
atti, se non nello spirito, ai viaggiatori che partono alla ricerca di un arricchimento
personale, con il desiderio di incontrare gli altri.
Aprire le porte della realtà in un’epoca assediata dalle incertezze del quotidiano, chi cerca l’evasione tende sempre più a nascondersi. Non solo il viaggiatore
moderno entra in clandestinità, ma cerca di confondere le idee intorno al significato mitico del viaggio. Dov’è andato? In capo al mondo per un anno, o a trovare
un amico nella strada accanto? Quante volte, quando mi preparavo ad andarmene
per uno o due giorni «da qualche parte» in Francia, mi sono sentito chiedere se
pensavo di tornare entro sei mesi, o se sarei rimasto definitivamente «laggiù»? Mai
prima d’ora i viaggi sono stati a tal punto inventati, fabbricati, pensati. Un tempo,
l’intero quartiere conosceva nei più minuti dettagli l’itinerario di un periplo. Ai
giorni nostri, restano solo le serrande chiuse per rendersi conto che il vicino è partito. Chi va via lo fa in punta di piedi. Si esita ad annunciare la partenza, si coltiva
l’incertezza sulle destinazioni e sulle date, e così via. Furtivamente, il viaggio ci
invita a infilarci in una porta segreta ... Troppo stress, troppe pressioni da ogni
parte, troppa tecnologia, troppi consumi, troppo lavoro, troppa disoccupazione,
troppa comunicazione, troppa solitudine, troppi parametri rimettono in discussione il senso del viaggio.
La nostra società sopravvive e muore di eccessi: accumulo, materialismo, consumi, sprechi ecc. Quel che è troppo è troppo. Partire oggi è innanzitutto lasciarsi
alle spalle tutto questo. Partire è «imboscarsi», ritirarsi per meglio nascondersi e
proteggersi da un mondo impazzito, in continua ebollizione. E non è un caso se
i patiti dei viaggi giocano a fondo la carte del «ritorno alla natura» e quella della
«nostalgia delle origini».
Il turista-viaggiatore si adatta a questa visione del mondo, mentre il bighellone
curioso rompe con l’ordine che gli si vorrebbe imporre: potrà decidere di partire
per luoghi lontanissimi o di viaggiare senza muoversi da casa, e farà lo sforzo di
riprendersi il suo tempo per vivere secondo il ritmo dell’uomo e della natura.
Di questo, Jean Chesneaux fa la sua arte del viaggiare: «Accettare di essere un
viaggiatore nel mondo così com’ è: questo è indubbiamente il prezzo da pagare per potersi legittimamente interrogare sul divenire delle società contemporanee, a un tempo
plurali e unificate. (...) Viaggiare nel mondo è filosofare sul mondo, interrogarsi sull’equilibrio sempre instabile, che si stabilirà forse tra le pesantezze dell’uniformità e le
forze della diversità, tuttora ben vive»5. L’invasione turistica degli ambienti culturali
fragili non è diversa da quella dei barbari armati fino ai denti che saccheggiavano
l’Europa del basso Medioevo, o dell’attuale invasione degli immigrati venuti a
5 Jean Chesneaux, L’Art du voyage, Bayard, Parigi, 1999.
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Pedagogika.it/2011/XV_2/Il_viaggio/on_the_road
«rubare» i posti di lavoro e le donne. Sempre e dovunque, un incontro costituisce
un confronto. Ma c’è almeno una novità nell’invasione turistica di cui tanto si
parla ai giorni nostri: in generale, è di carattere pacifico, cosa che non si poteva
dire dei passati conquistadores, missionari e colonizzatori. Al furto è subentrato lo
scambio. Per lo più, i turisti-viaggiatori hanno sete di orizzonti nomadi e proclamano le più lodevoli intenzioni - sebbene a volte non sappiano minimamente ciò
che fanno, e trascurino le conseguenze delle loro azioni, sottovalutando le tracce
lasciate dal loro breve passaggio in qualche remoto villaggio del pianeta.
Visitare il mondo viaggiando vuol dire anche tentare di comprendere l’universo che si percorre. Cogliere - se non vivere - le realtà sociali locali, senza mai
negare il ruolo della storia nel presente come nel divenire delle società: una visione
inevitabilmente politica del viaggio, che forgia i convincimenti e apre le porte del
reale a chi sa ascoltare col cuore l’universo intorno a sé.
*Antropologo e direttore della rivista Histoire et Anthropologie; autore di Désirs
d’ailleurs. Essai d’anthoropologie des voyages, Armand Colin, Parigi, 2000, e
L’Indonésie éclatée mais libre. De la dictature à la démocratie, L’Harmattan, Parigi,
2000.
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Pedagogika.it/2011/XV_2/Il_viaggio/Denise_Puglia/la_via_della_seta_2010/Manhattan
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Dove va il vento
quando non soffia
Questi sono i momenti vuoti alla fine di una spedizione, quando il tempo non
tende più a niente: le salite sono appena trascorse e ancora lontani sono il
trambusto e la routine di casa. L’atmosfera è calma e astratta mentre il tempo
scorre senza fretta.
Nives Meroi*
Immagini imprigionate negli specchi della macchina fotografica; una molteplicità di scatti che si sovrappongono caotici l’uno all’altro. Un tuffo in un caleidoscopio dove tutto è lieve e fragile, vertigine di un viaggio che il tempo deve ancora
distillare1.
14 agosto 2003, passo Gondogoro.
Ancora una salita, l’ultima di questa spedizione.
Nevica. Da qui potremmo vedere, schierati, i quattro Ottomila della catena
del Karakorum. A cominciare dal K2, meta della nostra prossima avventura e poi
il Broad Peak, il Gasherbrum 2 e l’1, le tre montagne che quest’anno ci hanno
lasciato salire fino a raggiungerne la vetta.
Ma oggi le montagne si nascondono.
Immersi nella nebbia abbiamo raggiunto i 5400 metri del passo, di là dal quale
una discesa lunga due giorni ci porterà al villaggio di Hushe.
È strana la nebbia, ti avvolge in un bozzolo lattiginoso che ti separa da tutto
ciò che ti circonda.
A volte un bianco spiazzante che confonde ogni certezza. Un’esplosione di luce
che annulla le ombre e fa svanire i contorni e tu barcolli ubriaco, come in una
notte senza stelle.
Solo pochi giorni fa, quando salivamo alla cima del Broad Peak, imprigionati
nel suo denso alone ci muovevamo come ciechi. Soli, lontani dal mondo ma felici,
perché nella silenziosa indifferenza del mondo eravamo riusciti a sgattaiolare lassù.
I portatori camminano agili e svelti, nonostante la neve ed il ghiaccio, nonostante le scarpe da tennis ai piedi e i 25 chili sulla schiena.
Arrivati al passo, a gruppetti siedono a riposare un po’: due chiacchiere, un tiro
di sigaretta e un’occhiata in giù, lungo il brutto pendio pericoloso che ci separa
dalla vallata. I loro volti sono seri e gli occhi attenti, a noi sembrano fantasmi del
passato, quando il rapporto con la natura era duro e dominante; quando l’uomo
1 Questo articolo è tratto dalla prefazione del libro “Dove va il vento quando non soffia” di Dusan
Jelincic, Cda & Vivalda, Torino 2010.
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viveva, consapevole, la sua fragilità davanti alla smisurata forza indifferente della
natura.
Ci lasciamo alle spalle il bagliore della neve ed il blu del freddo, mentre riappare davanti a noi il verde dell’erba, il viola ed il giallo morbido di questi piccoli fiori.
L’odore della terra è un’onda travolgente che ogni volta ti colpisce; un respiro caldo
che si sprigiona d’improvviso e ti punge le narici. Da adesso in poi il paesaggio, gli
odori, l’andatura di nuovo leggera ritorneranno ad essere un insieme di sensazioni
equilibrate.
Coi primi passi, due mesi fa, la spedizione era uscita dal limbo dei preparativi,
del viaggio, dell’autobus ed era diventata una cosa viva: una carovana, il cielo, la
neve.
Un passo dopo l’altro, con paziente curiosità camminavamo verso la nostra
meta.
Quello era il tempo per prepararsi all’incontro con la montagna; adesso è giunto il momento del commiato: l’inizio del ritorno, ogni volta diversi, nella nostra
vita.
A sera raggiungiamo il campo: la nostra penultima notte in tenda.
Questi sono i momenti vuoti alla fine di una spedizione, quando il tempo non
tende più a niente: le salite sono appena trascorse e ancora lontani sono il trambusto e la routine di casa.
L’atmosfera è calma e astratta mentre il tempo scorre senza fretta.
Centelliniamo i pensieri, parliamo di cosa faremo appena scesi in città, parliamo di stanchezza e di progetti, ma non dell’esperienza vissuta. Per quello non è
ancora il momento.
Le spedizioni sono viaggi rigorosamente a piedi, ma anche viaggi coi piedi
meno per terra che mai. Viaggi ricchi ed essenziali, possono farti vedere cose, gente e posti che forse non avresti mai visto, e, paradossale, possono astrarti dal tuo
mondo per trovargli un senso.
Da nessuna parte come qui, si può volare senz’ali.
15 agosto. Ultimo giorno di cammino.
Oggi una breve tappa di quattro ore ci porterà al villaggio di Hushe, dove ci
fermeremo per la notte. Il giorno successivo il nostro viaggio ripartirà in jeep, alla
volta di Skardu: il punto d’inizio di questa nostra avventura.
Da domani i piedi non saranno più gli unici mezzi di locomozione, da domani
basterà adagiarsi sui sedili e lasciarsi prendere dal piacere voluttuoso che la tecnologia può dare. È facile camminare adesso.
Arrivare a Hushe è come rientrare nella civiltà. L’oasi ti appare come un miraggio in mezzo alla grande valle desertica. Una piccola perla di verde coltivata a
orzo e frumento, irrigata da canali di fango e pietre e lavorata con aratri di legno.
L’attraversiamo piano e ci sembra di muoverci non solo nello spazio ma anche
nel tempo. Zappare, tirare, spingere e sudare. Oggi come cent’anni fa: gli stessi
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Pedagogika.it/2011/XV_2/Il_viaggio/dove_va_il_vento
strumenti e gli stessi gesti, quando il ritmo della vita era imposto dalla natura e
scandito dal passo degli uomini e dei loro animali.
Il villaggio è accoccolato in mezzo a campi di velluto. Seguiamo il vicolo tortuoso che si aggira fra le casupole di pietra fino al campeggio per la notte.
Montate le nostre tende andiamo a fare un giro. Alla scuola troviamo il maestro e gli consegniamo le penne per i bambini, poi al piccolo dispensario dove
lasciamo le medicine rimaste; per strada incrociamo le donne, riservate ma con il
viso scoperto.
Tornati al campo apriamo l’ambulatorio e fino a sera, davanti alla tenda mensa
si snoda una fila dolorosa di pazienti.
La mattina seguente arrivano le nostre jeep, ornate a festa come alberi di Natale. Anche noi veniamo addobbati con ghirlande colorate, che dovremo tenere al
collo fino a Skardu, quando scesi in albergo ci accoglieranno con una festa.
16 agosto 2003. Skardu.
La piccola cittadina che avevamo lasciato quasi due mesi fa: punto di partenza
e d’arrivo del nostro viaggio verticale circolare.
Qui il cerchio si chiude, con quest’ultimo passo a congiungere un cammino
fatto di migliaia di passi, uniti uno all’altro come gli anelli di una catena.
Gradino dopo gradino abbiamo attraversato questa terra e siamo arrivati ad
una cima, fisica nella sua materia e nella nostra fatica per raggiungerla. Ci sono
volute pazienza e umiltà, abbiamo dovuto imparare ad essere liberi nelle scelte
perché consapevoli del rischio e responsabili di vivere.
Soli sulla cima nuda, sospesi fra terra e cielo, con lo sguardo siamo riusciti ad
abbracciare l’orizzonte fino a percepire l’armonia sopra e sotto di noi e nel silenzio
indifferente della natura abbiamo ricominciato ad ascoltare.
Nel tempio della natura, la montagna si è rivelata allora strumento, cassa di
risonanza di un profondo dialogo verso noi stessi e verso ciò che ci circonda e di
cui siamo parte.
Così, rivelati a noi stessi senza retorica né attenuanti siamo scesi, per ritornare
al punto da cui eravamo partiti; finalmente consapevoli dei passi necessari al cammino che, se lo vogliamo, può fare della nostra vita una vita autentica.
“Viandante, non c’ è via,
si fa via con l’andare”
(Antonio Machado)
*Alpinista italiana, ha scalato undici delle quattordici cime più alte del mondo senza
l’utilizzo di ossigeno aggiuntivo e senza l’aiuto degli sherpa.
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Tra Due Mari
Se tu dici, pensò Giorgio Bellusci, vado a Bari e poi ti perdi come un bambino piccolo, allora non vali niente, mentre tu pensavi di valere chissà quanto, di essere
più esperto di tanti altri perché avevi capito che è troppo stupido morire come
si è nati, un ciuccio che non diventa mai cavallo, un albero che vegeta tranquillo
tutta la vita; questo era il dramma: svegliarsi bruscamente in aperta campagna
dopo aver vissuto l’inizio di un bel sogno.1
Carmine Abate*
Il paese puzzava d’estate. L’afa si appiccicava alla pelle come colla calda, ma
Giorgio Bellusci si era messo in viaggio ugualmente. Nemmeno un terremoto lo
avrebbe fermato, nemmeno una cannonata. Si era messo in viaggio verso una città
di cui conosceva solo il nome, Bari, e la direzione per arrivarci: a nord, dopo Metaponto, sulla riva di un mare chiamato Adriatico. In una via di questa città abitava
Patrizia Cassese, una bella ragazza che ogni inverno trascorreva con la famiglia
un mese di vacanza a Camigliatello, nella casetta di proprietà circondata da abeti,
castagni e neve. Era lì che l’aveva conosciuta Giorgio Bellusci, in una trattoria a
Camigliatello, dove lui era di casa perché vi trascorreva estati intere con le sue
mandrie di bovini, e teneva più amici che a Roccalba.
Aveva da poco compiuto ventidue anni e i genitori, conoscendo la sua testardaggine ereditaria, non provarono a dissuaderlo, ma lo abbracciarono forte davanti
all’intero vicinato che mormorava in coro: «Questo è pazzo; lassù, se ci arriva, i
fratelli e il padre di questa Patrizia se lo mangiano crudo», ignorando che Patrizia
non aveva fratelli, e il padre cittadino non era affatto un geloso arretrato come
loro. E poi si chiusero, i genitori, in un orgoglio di facciata e cominciarono ad
attenderlo un attimo dopo che era partito con la Vespa carica di cibo, borracce
d’acqua e vino.
Giorgio Bellusci passò tra le campagne di Roccalba, soffocata dall’afa di Agosto, come attraverso un sogno inquieto del mattino. Alla sua sinistra, verso le
fiumare, intravide il rudere del Fondaco del Fico e l’inquietudine si fece insopportabile. Provò con due sorsate di vino; provò con una risata che spaventò gli uccelli
e le cicale. Niente. L’inquietudine cresceva. Allora accelerò più che poteva, urlando
come se fosse inseguito dalla morte.
Fu quando vide il mare scintillante alla sua destra che finalmente si sentì quieto
e felice. E per la prima volta dopo la partenza pensò a Patrizia: magari lei si è già
fidanzata o addirittura sposata; magari lei non mi vuole più. Era un’idea balorda,
1 Il brano qui pubblicato è tratto dal romanzo Tra due mari di Carmine Abate, Mondadori, Milano, 2002. La traduzione in lingua inglese, da pagina 46, è a sua volta tratta da Between two seas,
Copyright (C) Europa Editions 2008, translated by Anthony Shugaar
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Pedagogika.it/2011/XV_2/Il_viaggio/tra_due_mari
quel viaggio, lo sapeva. Con tutte le belle ragazze, serie e di buona famiglia, che ci
sono in Calabria, proprio fino a Bari bisogna andare? Un viaggio senza senso, era,
e lui un pazzo, dicevano tutti a Roccalba, mogli e buoi dei paesi tuoi, e lui sentiva
crescere la voglia di partire, gli pareva quasi che gli altri lo invidiassero.
Era sera tardi. Smontò dalla Vespa sfiancata, le diede una pacca sul sellino e la
lasciò riposare su una striscia d’erba secca tra la spiaggia e la strada. A piedi raggiunse la riva del mare e si sciacquò la faccia e i capelli impolverati. Aveva voglia
di mangiare un boccone, ma la stanchezza ebbe il sopravvento sulla fame: si sdraiò
sulla sabbia tiepida e si addormentò.
L’indomani fu svegliato dal fiato pesante di un cane dal pelo rosso e sporco.
Non aveva mai visto il sole uscire dal mare e inondarlo di luce rossa abbagliante.
Bevve la scena con gli occhi avidi, respirò profondamente e disse al cane sconosciuto: «È bello il mare! È bella la vita!» poi si rimise in viaggio, il cane a inseguirlo
e a farsi lepre coniglio topo mosca moscerino e infine solo asfalto nello specchietto
della Vespa.
Successe nella piana di Sibari, poche ore dopo la partenza. Giorgio Bellusci si
era inoltrato nella campagna, lontano dalla strada asfaltata. Si era abbassato dietro
a un cespuglio e ora faceva in santa pace i suoi bisogni, pensando a Roccalba. Si
stava allontanando da una vita di noia e da una famiglia che a modo suo lo amava,
senza dubbio, ma non lo capiva e considerava la sua idea di ricostruire il Fondaco
del Fico una fissazione giovanile che sarebbe svanita non appena si fosse sposato e
avesse dovuto pensare alla moglie e ai figli. In quel momento aveva sentito il motore della Vespa accendersi al primo colpo. Si era alzato di scatto ed era corso verso la
mulattiera, dietro il cespuglio. Ingenuo, sì. Ma chi poteva immaginare, non c’era
anima viva, solo rondini su di lui e cicale sugli alberi. Figli di puttana. Erano in
due, li aveva visti allontanarsi a gran velocità con la moto, il cibo e tutte le borracce, e i soldi che teneva nascosti nel vano sotto il sedile. Così ora annaspava nell’afa
polverosa, a piedi, bestemmiando. Se li avesse avuti di fronte, quei ladri e farabutti,
li avrebbe sistemati con un calcio tra i coglioni. Figli di puttana. Annaspava.
Afa e polvere, colline d’olivastri e fichi d’India, pecore e pecorai, e ogni tanto,
per fortuna, una vena d’acqua di fiumara che lo dissestava e lo rinfrescava, prima
di perdersi tra pietre piatte e cespugli di oleandri. Annaspava e, quando la strada
si apriva a croce, se ne stava imbambolato senza sapere che direzione pigliare, fino
a che un pecoraio o un contadino di passaggio non gli indicava la via da seguire.
Comunque, di questo passo, sarebbe arrivato a Bari forse fra un mese o due. O
forse mai, dato che non mangiava un pezzo di pane e prosciutto da due giorni e
i fichi che rubava dagli alberi ai bordi della strada gli riempivano lo stomaco per
un paio d’ore e poi glielo svuotavano con rumorose spruzzate di liquido verdastro.
Peggio di così quel viaggio non poteva cominciare. Un altro al suo posto sarebbe ritornato a casa di corsa, tanto più che ogni dieci passi la nostalgia delle tagliatelle al sugo di salsiccia piccante gli fumava nel cervello. Ma poi, pensando alle
canzonature degli amici, preferiva acquietare la fame con i fichi e seguire le gambe
indolenzite che lo portavano a destra e a manca, senza convinzione.
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Pedagogika.it/2011/XV_2/Il_viaggio/tra_due_mari
La prima notte dormì sotto un olivastro la cui chioma era accesa come una
lampadina gigantesca per via della luna piena che l’inondava tutta col suo chiarore
d’agosto. La gramigna era più morbida del materasso di foglie di granturco su cui
dormiva a casa e soprattutto non scricchiolava a ogni movimento del corpo. Sentì
che si stava addormentando e si meravigliò di essere tranquillo, malgrado tutto,
con lo stomaco a posto, con la testa leggera. «Io devo andare da Patrizia» disse con
gli occhi socchiusi rivolti all’olivastro acceso. Poi sorrise e si addormentò.
All’alba l’olivastro era acceso di sole rosso. E accanto a lui, come se lo avesse vegliato tutta la notte, c’era il cane randagio dal pelo rosso e sporco. Giorgio Bellusci
si stiracchiò sul materasso di gramigna con la pigrizia dei mattini di festa e si disse
che in quel momento stava proprio bene, non gli mancava niente e nessuno, né i
genitori né gli amici né Roccalba. Accarezzò il cane sul muso bavoso. Gli mancava
solo il Fondaco del Fico. E Patrizia, ma ancora per poco.
Si alzò in piedi, si spolverò i calzoni e la camicia e si rimise in viaggio. Il cane lo
seguì, cocciuto. «Zà, zà, vai via» gli gridava Giorgio Bellusci, ma la risposta era un
mugolio affettuoso. Così, visto che avrebbero fatto la stessa strada, decise di dargli
un nome che gli ronzava in testa dall’infanzia: Milord.
Afa e polvere, e ogni tanto un fico solitario con i frutti sempre più appassiti,
che poi gli cantavano nella pancia, mentre Milord, più affamato di lui, cacciava
lucertole e topi di campagna, come un gatto. I giorni passavano e Giorgio Bellusci
cominciava a pentirsi di essere partito. Le pecore e i pecorai erano spariti, e anche
le strade asfaltate e le cime dei campanili erano sparite. E uno come lui, si disse
Giorgio Bellusci, che non riusciva a trovare nemmeno la strada per Bari, Patrizia
non l’avrebbe mai vista. Stava girando a vuoto, come quei rondoni che gli volavano
sulla testa, schizzavano lontani nel cielo afoso e rimbalzavano all’indietro come
palline nere, sfiorandogli i capelli, cacandogli su una spalla. Eppure, nemmeno in
quei momenti di smarrimento totale ebbe nostalgia di Roccalba o dei genitori o
degli amici. Anzi, pensò a loro con fastidio, e con fastidio pensò a Bari, che forse
non avrebbe mai raggiunto e in fin dei conti non sarebbe stato un dramma, o
forse sì, certo che sì, perché se tu dici, pensò Giorgio Bellusci, vado a Bari e poi ti
perdi come un bambino piccolo, allora non vali niente, mentre tu pensavi di valere
chissà quanto, di essere più esperto di tanti altri perché avevi capito che è troppo
stupido morire come si è nati, un ciuccio che non diventa mai cavallo, un albero
che vegeta tranquillo tutta la vita; questo era il dramma: svegliarsi bruscamente in
aperta campagna dopo aver vissuto l’inizio di un bel sogno. Povero Giorgio, non
ti riconosco più. E allora con uno scatto di orgoglio rabbioso, Giorgio Bellusci
chiuse gli occhi e cominciò a correre. O sbatto contro un albero o trovo la strada,
si disse, sapendo che era un’idea insensata. Però fu leale: non aprì mai gli occhi e
corse inseguito da Milord che abbaiava contento e dai pazzi rondoni che gli garrivano sulla testa facendo un tifo infernale. Dài, Giorgio, dài, corri, corri. Ogni
tanto inciampava sulle radici dispettose di corbezzolo o di roverella o su qualche
tamerice o rosa canina o erica o chissacosa, e inciampava pure su Milord che gli
stava sempre tra i piedi; ma non cadeva mai. Del resto era allenato: da bambino
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sgattaiolava a occhi chiusi lungo i vicoli che dal suo vicinato portavano in piazza.
Solo una volta era andato a sbattere contro un omone grasso e morbido: era suo
padre, che gli aveva detto preoccupato: «Ma dove cazzo vai, con gli occhi chiusi?».
E lui, riprendendo la corsa: «In piazza, pa’; non lo vedi?».
Stava correndo da una decina di minuti sempre dritto, senza incontrare ostacoli
insormontabili, quando alla fine di una breve salita sentì un clacson, l’abbaiare di
Milord e, un attimo dopo, una brusca frenata che gli fece aprire gli occhi di botto.
Davanti a lui, in una nuvola di polvere, sbuffava una macchina rossa dalla
forma di tartaruga, con un uomo calvo al volante che sbraitava pallido e arrabbiatissimo in una lingua straniera.
Dopo che l’uomo si era calmato e addirittura si era offerto in un italiano stentato di dargli un passaggio, facendo segno pure al cane di salire, Giorgio Bellusci
aveva saputo che si chiamava Hans Heumann, era tedesco e aveva venticinque
anni, anche per la sua calvizie ne dimostrava molti di più. Un po’ a gesti un po’
a parole i due si comunicarono le rispettive mete: il tedesco andava a sud, in Calabria, non per turismo, ma per lavoro, disse, era un aspirante fotografo; Giorgio
Bellusci andava verso nord, a Bari, non per turismo ma per... «così, senza un motivo» disse con un filo di voce, muovendo a fatica le labbra secche. Hans Heumann
capì che il giovane era stremato e aveva una fame da lupo; e così lo invitò a mangiare nella prima trattoria che incontrarono.
Durante il pranzo, mentre Giorgio Bellusci s’ingozzava di pastasciutta e trippa
piccante, beveva a grandi sorsate un vino denso che pareva succo di frutta, lanciava pezzi di carne a Milord, ruttava senza farci caso e sorrideva con gli occhi,
Hans Heumann gli chiese se volesse fargli da guida in Calabria; avrebbe potuto
riposarsi, dormire in un letto d’albergo, mangiare in trattoria, tutto spesato, s’intendeva. Giorgio Bellusci forse non aveva capito bene, mangiava, ruttava e non
rispondeva. Allora Hans Heumann aggiunse che l’avrebbe accompagnato pure a
Bari. Prendere o lasciare. A quel punto Giorgio Bellusci disse di sì, certo che sì, sì,
grazie, smettendo all’improvviso di ruttare.
Così girarono in lungo e in largo tutta la Calabria, i due uomini e il cane Milord; e mentre Hans Heumann fotografava contadini che rientravano dalla campagna avvolti in neri mantellacci come banditi, greggi di pecore dentro la luce
abbagliante, donne sedute in fila sui muretti davanti alle case o che infornavano il
pane, bambini scalzi con visi da adulti, Giorgio Bellusci vide posti che non aveva
mai visto, paesi adagiati a un passo da baratri vertiginosi, il cippo sull’Aspromonte,
dove era stato ferito Garibaldi, un castello circondato dall’acqua del mare, una
colonna di marmo solitaria, montagne punteggiate di pini loricati, tra cui spiccava
il più vecchio d’Europa, mille anni di vita compiuti da tempo. L’uomo calvo, il
tedesco Hans, aveva solo bisogno di compagnia, non certo di una guida, visto che
era istruito più di lui e di tutta Roccalba insieme, altro che! E ciò che non sapeva,
lo leggeva in un libro dal titolo Old Calabria, scritto da un viaggiatore inglese dei
primi anni del Novecento. Hans Heumann non era solo istruito: era curioso e non
gli sfuggiva nulla, quella macchina fotografica che portava a tracolla era come un
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terzo occhio, forse più attento degli altri due, pronto a dilatarsi e a fermare la vita
in un attimo. E naturalmente era un uomo di parola. Con l’arrivo delle prime
piogge, alla fine di settembre, decise di ritornare ad Amburgo, ma prima accompagnò Giorgio Bellusci a Bari da Patrizia, come promesso, e dopo a Roccalba.
Milord, sempre con loro.
Passando dal Fondaco del Fico si fermarono, e Giorgio Bellusci si avvicinò con
affetto al muro di pietre bruciacchiato in cima. Poi raccontò la storia di tre viaggiatori e del cane chiamato Milord che arrivarono al Fondaco del Fico un giorno
d’ottobre del 1835. E fu una delle due frasi che Hans Heumann capì. L’altra frase
era un sogno a occhi aperti e Giorgio Bellusci la scandì lentamente, come una preghiera o un desiderio profondo, irrinunciabile: «Voglio ricostruire il Fondaco del
Fico, tale e quale è stato ai tempi d’oro del bisnonno, anzi più bello».
Fu in quell’istante che Hans Heumann scattò una delle foto più intense della
sua vita, e Giorgio Bellusci, mentre finiva di esprimere il suo desiderio, vide brillare una luce davanti agli occhi, come una stella cadente. Dopodiché salirono verso
il paese. Era il dieci ottobre del 1950 quando per la prima volta un Maggiolino rosso, guidato da un giovane calvo, entrò a Roccalba. Giorgio Bellusci era ingrassato
di quattro chili, accarezzava un cane dal pelo rosso e lucente e sorrideva alle persone che incontrava, abbronzato, con i capelli lunghi come un bellissimo selvaggio.
Quando il sogno, molti anni dopo, era divenuto finalmente un progetto edile
elaborato dal migliore ingegnere della zona e in procinto di realizzazione, successe
il fatto che mandò il sogno in frantumi come un vaso di coccio: un’estate più afosa
del solito Giorgio Bellusci fu arrestato.
* Scrittore, è autore di numerosi romanzi, racconti e poesie.
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Between two seas
Because—Giorgio Bellusci thought to himself—if you tell everyone, I’m going to
Bari, and then you wind up lost in the countryside like a little child, then you’re
really just a nobody, and you thought you were somebody, someone special,
smarter than most of the others, because it was clear to you that it’s pure stupidity to die as you were born, a jackass that never became a horse, a tree placidly
rooted where it stands for a lifetime. Here was the tragedy—a brutal awakening
in the wide-open countryside after having savored the first few moments of a
sweet dream.
Carmine Abate*
The village stank of summer. The muggy heat clung to the skin like hot glue,
but Giorgio Bellusci set off on his journey all the same. Not even an earthquake
could have stopped him, not even cannon fire. He set off on his journey to a city
he knew nothing about, only the name—Bari—and the direction in which it lay:
north, somewhere beyond Metaponto, on the shores of a sea called the Adriatic.
On a street in this city there lived a pretty girl named Patrizia Cassese, who vacationed for a month every winter with her family in Camigliatello, in a cottage
they owned, surrounded by fir trees and chestnut trees and snow. It was there
that she had met Giorgio Bellusci, in a trattoria in Camigliatello; he was a regular
customer, as he spent all summer in the surrounding countryside with his herds of
cattle, and he had more friends there than in Roccalba.
He had just turned twenty-two, and his parents—understanding the stubbornness that ran in his veins—knew better than to try to talk him out of going.
Instead, they hugged him tight in the presence of all their neighbors, who murmured in chorus: “That boy is crazy; up there, if he ever gets that far, the brothers and
the father of this Patrizia will eat him alive”; overlooking the fact that Patrizia had
no brothers, and that her father, city-born and city-raised, wasn’t a jealous relic
like they were. After that, his parents locked themselves behind a façade of pride,
and, not a moment after he set off on a Vespa loaded with food and flagons full of
water and wine, they sat down to await his return.
Giorgio Bellusci rode through the countryside of Roccalba, suffocating in the
damp heat of August, as if he were passing through a restless early-morning dream. On his left, toward the dry riverbeds, he glimpsed the ruins of the Fondaco
del Fico. His foreboding grew until it became intolerable. He tried to ward it off
by singing a little ditty, by gulping down a couple of mouthfuls of wine, by barking out a loud laugh that startled the birds and the crickets. It was no good. His
foreboding continued to grow. And so he twisted the throttle to make the Vespa
go at top speed, shouting as if death were at his heels.
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It was not until he saw the sea glittering on his right that calm and contentment
returned. And for the first time since leaving, he thought of Patrizia: she might
already be engaged or even married; she might not even care for him anymore.
The trip was a fool’s errand; he knew that. With all the beautiful, respectable,
wellborn girls to choose from in Calabria, he had to go all the way to Bari? A senseless journey is what it was, and he was a lunatic—everyone in Roccalba said the
same thing: brides and bovines from your hometown. Yet, he could feel the urge
to leave growing within him, and he almost felt that the others in town envied
him.
Evening had fallen; it was late. He dismounted from the rattletrap Vespa, gave
its saddle a pat, and left it to rest on a strip of dry grass between the beach and the
road. He walked down to the water and splashed his dusty face and hair. He felt
like eating something, but fatigue won out over hunger. He lay down on the warm
sand and fell asleep.
The next morning, he was awakened by the musky breath of a dog with a dirty reddish coat. He had never before seen the sun rise out of the sea, inundating
the water with a dazzling red light. He drank in the view with greedy eyes, and
observed to the strange dog: “The sea is beautiful! Life is beautiful!”. Then he set
off again, the dog loping along behind him, becoming progressively—hare—rabbit—mouse—fly—gnat—and finally nothing but asphalt in the Vespa’s rearview
mirror.
It happened on the Sibari Plain, just a few hours later. Giorgio Bellusci had
turned off into the countryside, far from the paved road. He had lowered himself
into a comfortable position behind a shrub, and now he was relieving himself in
blessed peace, thinking about Roccalba. He was leaving behind him a life of boredom and a family that, in his way, he loved, no question about that, but a family
that didn’t understand him, who dismissed his dream of rebuilding the Fondaco
del Fico as a youthful obsession he would forget as soon as he was married and
had a wife and children to think of. Just then, the Vespa roared to life at the first
kick-start, shattering the silence. He leapt to his feet and ran along behind the
bush toward the mule track. He was a fool, true. But who would have thought it?
There wasn’t a soul for miles, only swallows flying overhead and crickets singing
in the trees. Sons of bitches. There were two of them, and he saw them roar off at
high speed, on his Vespa, with his food, and all the flagons, and the money that he
had hidden in the hollow underside of the scooter’s saddle, too. Now here he was,
panting as he struggled through the dusty uncomfortable heat, on foot, swearing
a blue streak. If only he had them here, within reach, those lowdown thieves, he’d
take care of them—a swift hard kick to the balls. Sons of bitches. Panting.
Damp heat and dust, hills covered with wild olive trees and prickly pears,
sheep and shepherds, and every so often, luckily, a rivulet of water trickling along
a broad dry riverbed, quenching his thirst and cooling him off before it vanished
among the flat river rock and oleander bushes. He panted as he walked and, whenever the road opened onto a crossroads, he stopped, dazed, with no idea which
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direction to take, until a shepherd or a passing peasant pointed the way. At this
rate, it might well take him a month or two to reach Bari. Or he might never get
there at all; he hadn’t eaten a proper slice of bread and prosciutto in two days and
the figs that he stole from the trees along the road filled his stomach for a couple
of hours, only to empty it again with noisy gushing jets of greenish liquid. That
journey couldn’t have started any worse. Anyone else would have hightailed it for
home, especially because every ten steps a wave of longing for tagliatelle with a
spicy sausage sauce would flood his thoughts. But when he thought of the ribbing
his friends would give him, he preferred to placate his ravenous hunger with figs
and continue to follow his legs, numb with fatigue, as they lurched from one side
to the other, uncertainly.
The first night, he slept beneath a wild olive tree; the leaves were lit up as
brightly as a light bulb by the full moon that bathed the entire countryside in its
August light. The spear grass was softer than the corn-leaf mattress he slept on
back home; more important, it didn’t crackle and rustle with every movement of
his body. He was falling asleep, and he was amazed at how untroubled he felt,
despite everything—his stomach felt fine, his head was light. “I’m going to see
Patrizia,” he said to himself, his eyes half open as he looked up at the brightly lit
wild olive tree. Then he smiled and dropped off to sleep.
At dawn, the wild olive tree lit up with red sunlight. And at his side, as if it
had watched over him through the night, was the stray dog with the dirty reddish coat. Giorgio Bellusci stretched out lazily on his spear-grass mattress as if it
were Sunday morning and said to himself that, right then, he felt real good, he
lacked for nothing, he missed no one, neither his parents nor his friends back in
Roccalba. He stroked the dog’s slobbery muzzle. The only thing he missed was
the Fondaco del Fico. And Patrizia, but only for a short while longer. He got to
his feet, dusted off his trousers and shirt, and set off once again on his journey.
The dog followed him, stubbornly. “Yah, yah, go on, git!” Giorgio Bellusci yelled
at him, but the dog’s only response was an affectionate whine. So, since it seemed
they would be traveling together, he decided to give the dog a name that had been
buzzing around his head since he was a child: Milord.
Oppressive heat and dust, and here and there a solitary fig tree, the fruit increasingly sere and withered, ready to come back to spiteful life in his belly, while
Milord, even hungrier than he was, hunted lizards and field mice, like a cat. The
days passed, and Giorgio Bellusci began to regret ever leaving. Sheep and shepherds had vanished; paved roads and steeples of bell towers were gone as well.
A man like him, Giorgio Bellusci reflected, someone who couldn’t even find the
way to Bari, would never lay eyes on Patrizia. He was wandering the countryside
aimlessly, noticed only by the numerous swifts that flew close overhead, whizzing
high into the muggy sky only to come hurtling back as if by ricochet, black projectiles that grazed his hair, splattering one of his shoulders with droppings. And yet,
not even in those moments of complete bewilderment did he feel any longing for
Roccalba, his parents, or his friends. In fact, he thought of them with annoyance,
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and he was equally annoyed when he thought of Bari, a place he might never see:
all things considered, that would be no tragedy, or maybe it would, certainly it
would, because—Giorgio Bellusci thought to himself—if you tell everyone, I’m
going to Bari, and then you wind up lost in the countryside like a little child, then
you’re really just a nobody, and you thought you were somebody, someone special,
smarter than most of the others, because it was clear to you that it’s pure stupidity
to die as you were born, a jackass that never became a horse, a tree placidly rooted where it stands for a lifetime. Here was the tragedy—a brutal awakening in
the wide-open countryside after having savored the first few moments of a sweet
dream. Poor Giorgio, I hardly recognize you anymore. Then, in a burst of furious
pride, Giorgio Bellusci closed both eyes tight and began running. Either I slam
into a tree or I find the right way, he said to himself, aware that it was a crazy idea.
But he stuck to it: he never opened his eyes, and continued running, with Milord
chasing after him, barking happily, and the swifts shrilled overhead, making a
hellish din. Go, Giorgio, go! Run, run, run!
Now and again he’d catch his foot in the treacherous roots of a strawberry-tree
or a downy oak, or maybe a tamarisk or a moss rose, or heather, or who knows
what, or he’d stumble over Milord who was always underfoot; but he never fell. It
was something he knew how to do—when he was a boy he used to scamper—eyes
screwed tight—down the narrow lanes that ran from his neighborhood to the
main square. Only once had he slammed into the soft belly of a tall, fat man. His
father, who had cried with real concern: “Where the hell are you running with
your eyes shut?” As he started off again at a dead run, he called back: “To the
piazza, pop; can’t you see?”
He had been running straight ahead for about ten minutes, without encountering any insurmountable obstacles when, at the top of a short uphill stretch, he
heard a car horn, Milord barking, and, a second later, a screech of brakes that
made him open his eyes wide.
Right in front of him, in a cloud of dust, a red automobile shaped like a turtle
stood huffing and chuffing, with a bald man at the wheel—pale, angry, and swearing furiously in a foreign language.
Once the man cooled down and even offered, in clumsy Italian, to give him a
ride, gesturing for the dog to get in as well, Giorgio Bellusci learned that his name
was Hans Heumann. He was German and twenty-five years old, though, being
bald, he looked much older. With a mixture of words and gestures, the two men
explained their respective destinations: the German was heading south, into Calabria, and not for tourism, but for work; he was an aspiring photographer; Giorgio
Bellusci was traveling north, to Bari, and not for tourism, but for . . . “Well, just
because, for no good reason,” his voice trailed off, his chapped lips barely moving.
Hans Heumann understood that the young man was exhausted and hungry as a
wolf, so he offered to treat him to a meal in the first trattoria they chanced upon.
During their lunch, while Giorgio Bellusci stuffed himself with pasta and spicy
tripe, gulping down a heavy wine that tasted like fruit juice and tossing chunks of
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meat to Milord, carelessly belching with smiling eyes, Hans Heumann asked him
if he’d like to be his guide in Calabria; he could rest up, sleep in a hotel bed, eat
in a trattoria, all expenses paid, of course. Maybe Giorgio Bellusci hadn’t understood: he kept eating, belching, and said nothing. Then Hans Heumann added
that he would be glad to accompany him to Bari, too. Take it or leave it. At that
point, Giorgio Bellusci said, sure, certainly, yes definitely, thank you, and suddenly stopped belching.
And so, the two men and the dog Milord traveled from one end of Calabria to
the other. While Hans Heumann snapped photographs of peasants coming back
from the countryside wrapped in heavy black capes like bandits, flocks of sheep
enveloped in blinding sunlight, women sitting in rows on low walls in front of
their homes or sliding dough into ovens to be baked into bread, barefoot children
with the faces of adults, Giorgio Bellusci saw places like nothing he had ever seen:
villages perched only inches from dizzying abysses, the marker atop the Aspromonte where Garibaldi had been wounded in battle, a castle surrounded by the
waters of the sea, a solitary marble column, mountains studded with Loricate pines and, enjoying pride of place among them, the oldest tree of its kind in Europe,
which had long ago turned one thousand years old.
The bald man, Hans the German, had only been looking for company, and
certainly needed no guide. He was better educated than Giorgio and all of Roccalba put together, and then some! And if there were something that Hans didn’t
know, he would just look it up in a book entitled Old Calabria, written by an
English traveler in the early years of the twentieth century. Hans Heumann was
not merely well educated; he was observant, and nothing escaped his notice. The
camera that he carried on a strap around his neck was like a third eye, perhaps
even more acute than the other two, ready to reach out and freeze an instant of
life. And he was, of course, a man of his word. When the first rains began to fall,
in late September, he decided to head back north to Hamburg, but first he drove
Giorgio Bellusci to Bari to see Patrizia, as promised, and afterward to Roccalba,
Milord riding along the whole way. They stopped at the Fondaco del Fico along
the way, and Giorgio Bellusci fondly walked over to the stone wall with scorch
marks at the top. Then he told the story of three travelers and a dog named Milord who arrived at the Fondaco del Fico one October day in 1835. That was one
of two things that Hans Heumann understood. The other phrase was a waking
dream, and Giorgio Bellusci pronounced the words slowly, as if reciting a prayer
or a devout, unassailable wish: “I want to rebuild the Fondaco del Fico, just as it
was in the good old days, when my great-grandfather was alive—no, even better.”
At that moment, Hans Heumann took one of the most intense photographs of
his life, and Giorgio Bellusci, just as he finished making his wish, saw a brilliant
light flash before his eyes, like a shooting star. And then they drove up to the
village. It was the tenth of October, 1950, when—an unprecedented event!—a
red Volkswagen Beetle, with a bald young man at the wheel, entered Roccalba.
Giorgio Bellusci had put on weight, at least four kilos; he was stroking a dog with a
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gleaming reddish coat, and he smiled at everyone he met, tanned and longhaired,
like some spectacularly handsome savage.
Many years later, when the dream had finally become building plans drawn
up by the best engineer for miles around, and construction was about to begin,
something happened that shattered the dream into shards as if it were a brittle
earthenware vase. One particularly hot and muggy summer, Giorgio Bellusci was
arrested.
*Writer and author of numerous novels, tales and poems
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Pedagogika.it/2011/XV_2/Il_viaggio/Denise_Puglia/la_via_della_seta_2010/Abu_Simbel_Tempio_Nefertari
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Viaggio e metafora nel discorso
educativo
Nell’itinerario che intendiamo seguire, ci riferiamo all’Eros in quanto “esserci”
dell’amore nella sua globalità, ovvero come sentimento della reciproca destinazione, come fonte di vita e metafora dell’armonia fra le differenze, generatività
che erompe da un tu-destino, luogo della massima tensione evocativa, eversione e trascendenza nei confronti del limite, ennesima potenza dell’immaginario.
Anita Gramigna*
“Quanto alla divina follia ne abbiamo distinte quattro forme, a ciascuna delle quali
è preposta una divinità: Apollo per la follia profetica, Dionisio per la follia iniziatica, le Muse per la follia poetica, mentre la quarta, la più eccelsa, è sotto l’ influsso di
Afrodite e di Amore”1.
In queste brevi riflessioni tenteremo di parlare del viaggio in quanto metafora
che, più di ogni altra, si presta a sondare i contenuti profondi del processo formativo. Fra i tanti viaggi possibili abbiamo scelto quello dei sentimenti, attingendo a
piene mani ai dialoghi platonici dai quali spesso ci piace partire per intraprendere
nuove esplorazioni di senso. Nuovi viaggi, dunque, in una ricerca sulle strutture
eidetiche dell’educazione e sul significato esistenziale che queste strutture tracciano nella storia formativa di ciascuno di noi. Ma si tratta di esplorazioni che, di
proposito, trascendono gli ambiti istituzionali per inseguire orizzonti di significazione del mondo differenti2.
Il cammino dell’amore
Nel Fedro Platone ci parla delle leggi della ragione e dei misteri della follia,
di quello che è possibile esprimere con le norme del logos e di quanto la follia annuncia ma non dice. Ci parla del presagio (manteùetai) e dell’enigma (ainìttetai).
Ovvero, dell’amore.
Presagi ed enigmi accedono al cammino dell’amore, un viaggio che esplora le
regioni della più luminosa follia e che è esperienza dell’anima, perché insegue la
1 Platone, Fedro, 265 b.
2 Questo paragrafo, unitamente al successivo, riprende, parzialmente rielaborato, il testo di una
conferenza dal titolo “Sulle ali della biga: Eros e conoscenza” che si è tenuta il giorno 9 di luglio
2008 a Berlanga del Duero (Soria, Spagna), nell’ambito del seminario Secondo Internazionale su
Hermeneutica y educaciòn, dal titolo Cuerpo, ermeneutica y educaciòn. Una versione più ampia è in
corso di stampa con la casa editrice ETS in un volume scritto con Marco Righetti e Sara Cillani,
dal titolo “Pedagogia Errante. Erranze, errori, eresie e viaggi in educazione”.
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totalità. Dunque, per Platone, si tratta di un’esperienza indicibile, che non è possibile tradurre in una sequenza ordinata di significati, assecondando le esigenze
della grammatica ed i rigori del logos, perché l’esperienza dell’anima eccede il reale,
non si appaga pienamente del senso, è aperta al caos, al non-senso. Le parole non
le sono sufficienti: “…l’anima di ciascun (amante) vuole altra cosa che non è capace
dire, e perciò la esprime con vaghi presagi, come divinando da un fondo enigmatico e
buio”3.
Le coordinate dell’io impazziscono, l’individuo non oppone più alcuna resistenza, tutte le divinazioni, tutti i presagi e tutte le interpretazioni del mondo gli
si aprono davanti agli occhi. E si lascia attraversare da Amore. La follia è minaccia
perché sconvolge le leggi della ragione, le uniche che gli esseri umani possono
vivere, ma è anche dono, perché introduce la ragione alla visione della bellezza. E
di una sapienza altra. È questo il messaggio di Socrate, che fa della sapienza un’esperienza che supera la ragione. La sola conoscenza che egli sostiene di possedere è
il dono di una donna, Diotima, la sacerdotessa di Mantinea, che lo ha introdotto
alle cose dell’amore: “di nulla ho da sapere, se non le cose dell’amore. (…) Amore è un
demone potente che sta tra i mortali e gli immortali”4. L’amore apre l’ordine razionale
al caos della follia, è possessione che ci prende e che ci obbliga a volgere lo sguardo
altrove, ad osservare da altri punti visuali, a pensare a partire da amore e non dal
logos, perché amore ci strappa dalla nostra egoità, scombina tutte le relazioni e introduce nuove armonie di significazione del mondo. Inaugura percorsi in universi
differenti, esplorazioni, viaggi e dunque, nuove chiavi di lettura. È promessa e
appagamento dell’inesausto desiderio di ulteriorità, di totalità, di fusione: “Amore,
fra gli dèi amico degli uomini, il medico, colui che riconduce all’antica condizione.
Cercando di far uno ciò che è due, Amore cerca di medicare l’umana natura”5. La
nostalgia di un tempo arcano, di quando gli uomini erano, ciascuno, una totalità,
questa nostalgia si placa quando Amore, che cura l’antica ferita, ci conduce all’altra metà di noi stessi. Conoscere, per Platone6, è ricordare, ovvero un accedere alla
conoscenza nel senso profondo dell’esperienza, per ciò che essa rappresenta. È un
viaggio a ritroso. La percezione, la visione dell’amato, della sua bellezza, si fonde
con il ricordo e conduce al sapere. Le ali dell’anima si esaltano e, stimolate dalla
bellezza, giungono al divino. Così la biga alata avanza cavalcando verso il cielo;
qui comincia un viaggio formativo di segno differente: “l’ intelletto può giudicare
le cose del mondo – scrive Galimberti – può tematizzarle, oggettivarle, solo perché
queste cose sono già esposte a un corpo che le vede, le sente, le tocca, sono già solidali con
esso, in quell’unità naturale e pre-logica che fa da sfondo a ogni successiva ostruzione
logica”7.
3 Platone, Simposio, 192 c-d.
4 Platone, Simposio, 177 d, 202 d.
5 Platone, Simposio, 190 d.
6 Platone, Menone, 81 c.
7 U. Galimberti, Il corpo, (1983), Milano, Feltrinelli, 2007, p. 117.
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Il pàthos comprende dunque un lògos che i miti ci raccontano, così, in questo
breve articolo tenteremo di rileggere il messaggio di Diotima non tanto per dire altro che già non sia stato detto e, nemmeno, per approfondire lo studio del passato,
ma per cercare nuovi orizzonti di senso del nostro presente attraverso la metafora
del viaggio.
Erranze formative
Crediamo che l’agire educativo debba essere consapevole della tensione conoscitiva dell’estetico, del sensibile, dell’affettivo, dell’errare. Pensiamo che questa
pedagogia ci possa aiutare ad esplorare il senso eidetico della natura umana. La
nostra proposta è dunque in questa consapevolezza, ad un tempo complessa, incerta ed umile, che tuttavia può offrire interessanti spunti ermeneutici alle prassi
tanto formative quanto autoformative. L’amore, nell’accezione che cercheremo di
esplorare, è un modo di essere, un’attitudine, uno stile che solo ci coglie in quel
particolare stato di possessione e che vive entro un percorso formativo ma che,
nello stesso tempo, accende una conoscenza di segno differente. Crediamo che
questo sia il messaggio di Apuleio8 quando ci narra la storia di Amore e Psiche. La
curiosità impaziente della bellissima Psiche, la volontà di “vedere” l’altro, ossia di
rinchiuderlo in una visione precisa, chiara, evidente fa svanire Eros nell’aria, e precipita la giovane nell’abisso dell’Amore perduto. Ed è solo abbandonandosi al mistero dell’Amore, alla sua incomprensibile bellezza, che può ritrovare il suo amato.
Così, a partire dalle considerazioni sulle straordinarie potenzialità formative
dell’esperienza amorosa, abbiamo pensato che sarebbe importante esplorare le possibilità di una educazione “sentimentale” che ci aiuti a disinquinare lo sguardo
dalla dilagante protagonismo del Kitsch, dalla persuasione occulta del consumismo, dall’estetismo e dalla pornografia. In che modo? Per esempio, cercando di
costruire relazioni – con le persone ma anche con le cose - che non siano dominate
dal desiderio di dominio o di possesso. Relazioni che affidino sensibilità e giudizio
alla stessa forza reattiva di persone e cose. Attraverso una Pedagogia errante.
Infatti, crediamo che l’educazione e la sua teoresi non debbano consumare il
loro potenziale artistico nelle prescrizioni, nelle ricette didattiche, nei modelli …
la tentazione redentrice e la vocazione autoreferenziale di tanta Pedagogia è molto
lontana dalla sapienza umile che le cose dell’amore dovrebbero insegnarci. Pensiamo alla formazione nella sua dimensione narrativa e all’arte dell’educare come
tensione lirica che conduce lo sguardo alla bellezza, che affina le sensibilità, che
tende alla qualità dei rapporti.
Crediamo in una pedagogia solidale, in un’educazione che si prenda cura
dell’altro, in un dialogo che sia amoroso, in una pedagogia che accetti con l’errore,
lo stupore che accompagna i viaggi di conoscenza ed in un maestro invisibile.
8 Cfr. P. Lagazzi, Una fiaba in fuga, Prefazione a Apuleio, La novella di Amore e Psiche, Milano,
Medusa, 2005.
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Nell’itinerario che intendiamo seguire, ci riferiamo all’Eros in quanto “esserci”
dell’amore nella sua globalità9, ovvero come sentimento della reciproca destinazione, come fonte di vita e metafora dell’armonia fra le differenze, generatività
che erompe da un tu-destino, luogo della massima tensione evocativa, eversione e
trascendenza nei confronti del limite, ennesima potenza dell’immaginario.
Passione che “sente” l’altro, e che vibra nella sua meravigliosa libertà. Costruzione attiva della realtà: ermeneutica. L’amore conduce ad un conoscere che è visione del mondo, sua organizzazione sulla base di percorsi di significazione che
partono dal desiderio. Una conoscenza che è ermeneutica.
Seduzione che invoca l’ulteriorità, che lascia intuire, che spinge a scoprire. Seduzione che intreccia, in un tutto inscindibile, il desiderio alla conoscenza. E che
tras-forma. Esperienza immaginifica che esalta la tensione metaforica dei linguaggi. Canto del non ancora. Di più, discorso amoroso che insegue l’inesprimibile. E
lo traduce in gesto, immagine, abbraccio. Sessualità che ha come fine l’individuo
nella sua unicità e che pertanto lo sottrae dal rischio dell’omologazione.
Naturalmente, s’è detto, esistono tante declinazioni di Eros, quelle che per
esempio segnano le molte derive della perversione, del degrado, della solitudine,
dell’inganno, della mercificazione10, in breve, delle varie forme che la pornografia
e la sopraffazione assumono: celebrazione della propria onnipotenza, annullamento dell’alterità, negazione del tu, solipsismo, a-moralità. Esercizio di potere, nulla
a che vedere con l’amore che è, prima di tutto, un donarsi: “il carattere passionale
dell’amore – scrive Levinas – consiste nella dualità insuperabile degli esseri. È una
relazione con ciò che si sottrae per sempre e che è impossibile tradurre in termini di
potere”11.
La pornografia è esibizione dell’evidenza, uccide il mistero, degrada la seduzione ad imposizione, non sfuma il desiderio in ricerca perché nell’osceno non c’è
nulla da scoprire in quanto non c’è alcun segreto. Invece, nella dimensione dell’eros
che intendo indagare, l’amato annuncia la passione per un futuro che anticipa la
trascendenza, è apertura alle possibilità della vita e alle sue molte interpretazioni.
Così, è la seduzione che annuncia la conoscenza. Essa, infatti, è intensamente ermeneutica perché accede alla più alta densità metaforica ed attraversa un corpo che
è massima espressione simbolica in quanto esalta la propria polivalenza di senso,
come ci mostra Foucault12. Credo infine che la seduzione stessa sia un’ermeneutica
perché agisce in quello spazio di fascinazione in cui vibrano i significati che ancora
non sono stati catturati dai codici e che essa muta in linguaggio.
Non ci occuperemo di quelle manifestazioni dell’eros che esaltano l’affermazione del sé nell’annullamento dell’altro, perché esse, a nostro parere, non inseguono
9 Cfr. fra i tanti Aa. Vv., L’amore, Milano, Mazzetta, 1992.
10 Cfr. per esempio G. Rimmel, Philosophie des Geldes (1900); tr. it. Filosofia del denaro, Torino,
UTET 1984, pp. 536-537.
11 E. Levinas, Le temps et l’autre (1979); tr. it., Il tempo e l’altro, Genova, Il melangolo, 1987, p. 55.
12 M. Foucault, La volontà de savoir (1983); tr. it., La volontà di sapere, Milano, Feltrinelli, 1978.
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e non trovano il senso profondo di una destinalità reciproca e dunque, crediamo,
della vita, che noi cogliamo in quanto relianza, ovvero, per parafrasare Morin, di
relazione-alleanza, solidarietà etica. Di qui la felicità abbagliante dell’incontro, il
riconoscimento, la resa. Il senso profondo di un viaggio che ci porta a riconfigurare tutte le precedenti coordinate e a stilare nuove mappe di orientamento.
Paesaggi e visioni
Le parole della sacerdotessa di Mantinea aprono la visione all’onirico, ci fanno
balenare davanti agli occhi i molti labirinti del pensiero, ci conducono lungo la
strada che intreccia l’estetica all’etica, queste ultime alla conoscenza, e, dunque,
alla formazione. Attraverso l’agire interpretativo. Il pensiero non può svolgersi ai
livelli più alti dell’intellettualità, né mutarsi in agire creativo se non si radica nell’eros. La conoscenza quindi ha bisogno della sua divina follia. E dunque anche l’educazione: l’educazione in quanto accoglienza e cura, in questo senso è un cammino
di libertà che esalta la sensibilità e che si serve della metafora per aiutare il soggetto
a costruire i propri strumenti di lettura e di orientamento a fronte dell’incertezza
che le interpretazioni evocano. Crediamo che la dimensione amorosa rappresenti
uno spazio, oggi più che mai raro, in cui l’individuo possa esprimersi, leggersi e
formarsi in un ambito elevato di autenticità: “l’unico – scrive Galimberti - in cui
l’ io può dispiegare se stesso e giocarsi la sua libertà fuori da qualsiasi regola e ordinamento precostituito, è diventato il luogo della radicalizzazione dell’ individualismo,
dove uomini e donne cercano nel tu il proprio io, e, nella relazione, non tanto il
rapporto con l’altro, quanto la possibilità di realizzare il proprio sé profondo, che non
trova più espressione in una società tecnicamente organizzata, che declina l’ identità di
ciascuno di noi nella sua idoneità e funzionalità al sistema di appartenenza”13. Poiché
l’unione fra due persone è meno condizionata, rispetto al passato da famiglia, classe sociale, Chiesa, la ricerca della propria autorealizzazione, come della più intima
espressione di sé, si fa più radicale ed assoluta, nel senso etimologico del termine
ovvero di libertà da molti legami sociali. L’amore è un luogo importante ove cercare il senso della propria vita perché non segue altra ragione o scopo o interesse
che la propria esistenza. È libero, pertanto offre chiavi di lettura esistenziali e,
soprattutto, una certa forma di appagamento contro la liquidità della tarda modernità, per dirla con Bauman. Fuori dall’amore, inevitabilmente e, per molti versi,
giustamente esistono il calcolo, il ruolo sociale, i condizionamenti, e poi l’egoismo,
l’anonimato, l’alienazione. L’amore ci umanizza in quanto ci fa vivere in uno stato
di esaltante e spontanea alterità, perché la nostra più ampia realizzazione si svolge
entro gli orizzonti di un’altra persona. In questo senso realizza un’esperienza di
trascendenza, di ulteriorità, di dono. L’altro ci attraversa perché attinge a piene
mani al cuore profondo della nostra intimità e pertanto ci consente di giungere ad
una comunicazione profonda, liberante, altruistica. È un’esperienza etica.
13 U. Galimberti, Le cose dell’amore, Milano, Feltrinelli, 2004; dello stesso autore cfr. anche. Psiche
e Techne. L’uomo nell’età della tecnica, Milano, Feltrinelli, 1999.
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Pedagogika.it/2011/XV_2/Il_viaggio/viaggio_e_metafora_nel_discorso_educativo
Si tratta dunque di uno spazio denso di fermenti, occasioni e tensioni formative perché rappresenta un luogo privilegiato. Di più, un punto di visuale a partire
dal quale è possibile interpretare il fenomeno educativo ed osservare criticamente
la sua teoresi, perché annuncia una conoscenza di segno diverso rispetto a quella
che cammina lungo i sentieri tracciati dalla ragione. È, come scrive il Vangelo di
Luca: “La luce nella ribellione della folgore”. È nudità che nasce senza decisione,
come la luce nello sguardo innamorato. È la rinuncia alla vergogna come ultima
autodifesa, oblio della misura, perfetto disarmo della consegna di sé14. È tensione
visionaria. Simbolo di una comune trama sentimentale dell’umano. È esperienza
del sacro, conoscenza che trascende l’intelletto. È una sorta di follia, come ci avverte Socrate discutendo con Jone, perché scombina tutte le grammatiche, rompe
ogni sorta di ordine, inventa nuovi significati. Il fine di questo linguaggio arcano
non è il piacere, come ad un primo sguardo si potrebbe supporre, ma è il perdersi
in quel non senso dove la ragione non può entrare, è vivere nell’alterità, è dissoluzione dei confini dell’io e sua potente rinascita. Viaggio conoscitivo che sovverte i
confini del paesaggio, che dialoga con l’incanto e sfida i mulini a vento. L’amore è
amore della conoscenza e desiderio di trasformare il mondo, come bene ci ha insegnato il folle più amato di tutta la letteratura, Don Chisciotte15, o come ci mostra
Astolfo16, in viaggio verso la luna a cercare il senno di Orlando, folle d’amore per
la bellissima Angelica. Entrambi eroi in viaggio.
*Docente di Pedagogia sociale e Pedagogia della marginalità e della devianza minorile, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Ferrara.
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14 U. Galimberti, Le cose dell’amore, cit., pp. 19-29.
15 Cfr. J. C. Gonzales Faraco, Il cavaliere errante. La poetica educativa di Don Chisciotte, Milano,
Angeli, 2008.
16 Cfr., L. Ariosto, L’Orlando furioso, canto 34.
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Dossier 61
Pedagogika.it/2011/XV_2/Il_viaggio/
Le figure del viaggio
e il processo educativo
Così come le figure del Viaggio sfumano l’una nell’altra e si ripresentano nel
vissuto di ciascuno di noi, così i grandi archetipi, per quanto rigidamente definiti
e distinti nel mito, si presentano, in successione o in parallelo, tutti in tutti noi:
sebbene il sesso e l’età determinino di volta in volta l’identificazione prevalente,
ciascuno di noi, nella sua pienezza esistenziale, è sia l’Eroe, sia la Principessa,
il Conquistatore vittorioso e la Vittima riscattata, così come è, contemporaneamente, Padre e Madre, ma anche Genitore e Figlio, Maestro e Discepolo.
Maria Teresa Moscato*
Il tema narrativo del viaggio ha una potenza metaforica universalmente riconosciuta e utilizzata: in esso si può individuare, quasi intuitivamente, una metafora della vita umana, dell’educazione/iniziazione, della trasformazione/pellegrinaggio esistenziale, delle stagioni della vita. In realtà, l’efficacia metaforica di tutte le
figure del viaggio, efficacia che ne determina l’uso letterario in infinite varianti,
dipende appunto dalla ricchezza dei nuclei archetipici in esse interconnessi. Sono
quindi gli archetipi inclusi in esse che generano il potere espressivo, comunicativo
e propositivo, sul piano simbolico, di tutte le figure del viaggio.
Le figure del viaggio individuabili nella letteratura, nell’arte figurativa, nei
miti e nelle fiabe di magia, sono praticamente infinite, ed appaiono presenti quasi con la stessa frequenza sia nella tradizione occidentale sia in quella orientale.
Analizzando tutti i miti e le fiabe di magia (ovviamente trascritte da antropologi
e studiosi occidentali) di cui ho potuto rintracciare un testo italiano, ho sempre
trovato presente lo schema archetipico del viaggio.
In questo testo assumiamo come tema centrale la connessione esistente e individuabile fra la struttura archetipica del viaggio e il processo educativo in senso
proprio.
Le figure del viaggio, ad un secondo esame, si rivelano in effetti figure composite, macro-figure; è forse meglio parlare di una “struttura archetipica del viaggio”,
che soggiace alle diverse figure concrete di esso, ed in cui si succedono, con la
stessa relazione simbolica, alcuni nuclei archetipici. Nel viaggio infatti non sono
importanti solo le figure umane, comunque travestite sul piano letterario. Abbiamo sempre, naturalmente, un Eroe (o un’Eroina) che si mette in viaggio, e una
serie di figure, adiuvanti o ostacolanti del viaggio e del suo compimento, in cui
appaiono travestiti di norma archetipi divini, o comunque “numinosi”, archetipi
paterni e materni, alcuni altri archetipi maschili e femminili, ed infine archetipi di
maestri. Essenziali sono piuttosto le “situazioni” archetipiche costruite dal viaggio,
che nelle diverse narrazioni generano poi nuclei tematici variamente sviluppati.
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Sono le situazioni che rivelano il carattere delle figure, e la funzione che i diversi
protagonisti assumono nella trama, a prescindere dalla forma, umana o animale,
in cui la narrazione li traveste.
Le situazioni tipiche, anzi “costitutive” della struttura del viaggio sono fondamentalmente tre: la separazione dell’Eroe/Eroina da un punto di partenza iniziale,
che normalmente è lo spazio/regno del Padre archetipico; la separazione si compie
per mezzo di un movimento nello spazio/tempo, che prevede marginalizzazione
e reintegrazione; il superamento di una prova mortale, variamente connessa alle
figure del duello, della conquista della Sposa, della discesa agli Inferi; il ritorno
dell’Eroe/Eroina, o la conquista di una sua nuova posizione, posizione che determina anche lo scioglimento della vicenda e la soluzione di essa. Il comporsi
di questi tre elementi strutturali minimi del Viaggio, dentro alcune combinazioni e varianti (numerose, ma non illimitate, sul piano simbolico) consente poi di
individuare almeno tre grandi tipologie della figura del Viaggio, che già in altri
testi abbiamo indicato come “viaggio di iniziazione”, “odissea/pellegrinaggio” ed
“esodo/fondazione”.
La prima situazione è dunque data da una “separazione/estraneamento”, che
nella forma del viaggio iniziatico implica l’allontanamento (in molti casi l’esclusione persecutoria) dell’Eroe/Principe, o della Principessa, dal “recinto” custodito dal
Padre. Nelle altre due tipologie del viaggio la separazione/estraneamento dell’Eroe
può essere imposta dalle circostanze (la guerra da combattere per Odisseo o la
distruzione della patria per Enea, la schiavitù per Andromaca, o la fuga d’amore
per Medea), o può essere decisa intenzionalmente dall’Eroe (come nel caso del
viaggio di Abramo). Si tratta comunque sempre di ragioni che in qualche modo
“impongono” il viaggio alla volontà dell’Eroe: la chiamata divina, o la divina persecuzione, la necessità di trovare soluzione a problemi vitali come una carestia,
l’assenza di piogge, la minaccia di un vulcano (come in alcuni miti polinesiani).
Un caso particolare, ma ampiamente e universalmente presente, è dato dalla “sfida” del viaggio impossibile, la scommessa con se stessi (Gilgamesh, l’Ulisse dantesco, Faust, gli eroi del western e dei racconti avventurosi, ma anche il Principe alla
ricerca delle tre melarance).
La seconda situazione caratterizzante è data dalla “prova mortale”, di cui sono
possibili molteplici figure; la più elementare è costituita dall’attraversamento del
bosco/foresta, tipico della fiaba di magia europea (che nel pellegrinaggio dantesco
diventa “selva oscura”, labirinto interiore). Nell’Odissea omerica, come nel precedente mito degli Argonauti, il mare sostituisce il bosco; in fiabe e miti orientali
possiamo trovare un deserto o una montagna impervia in luogo del bosco, ma con
la stessa funzione. Nella maggior parte dei casi, però, la “prova mortale”, incontrata nel mezzo dell’attraversamento del bosco, si traduce in un combattimento con
un Mostro/Drago, o nel duello con un magico antagonista, o nella risoluzione di
un enigma cui l’Eroe deve sottostare. Nella maggioranza delle figure del viaggio
iniziatico maschile la prova mortale è connessa, o addirittura coincide, con la
“conquista della Sposa”.
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Un elemento particolare e complesso è poi contenuto nel tema narrativo della
“discesa agli inferi”, che in qualche caso costituisce la stessa “prova mortale”, in
altri è connesso ancora alla “conquista della sposa” (nella forma della restituzione
della sposa), ma che più spesso traveste una figura diversa dell’esito del viaggio
iniziatico. Nei viaggi in cui le prove sono molte e diverse, la “discesa agli inferi”
costituisce comunque il punto culminante dell’intero viaggio, e in ogni caso il
punto da cui il viaggio cambia segno e direzione.
Il terzo elemento caratterizzante è l’esito del viaggio, come mutamento di posizione dell’Eroe/Eroina, e in parallelo soluzione della storia, reintegrazione di uno
squilibrio. L’esito del viaggio, per svariate che ne siano le forme, coincide sempre
con l’instaurarsi di un ordine nuovo nella vicenda, ordine che può variare grandemente, dal semplice “diventare Re/Regina” con cui la fiaba di magia sancisce
il trionfo del Principe vittorioso o della Kore perseguitata; alla fondazione di un
nuovo regno e/o di una “città” santa, all’approdo a una “terra promessa”. Una
categoria di viaggi prevede l’acquisizione di una superiore conoscenza da parte
dell’Eroe pellegrino; può trattarsi di una contemplazione del trascendente, come
la visione beatifica con cui Dante chiude il Paradiso, ma anche come l’intuizione
dell’Essere parmenideo descritta nel frammento superstite, in cui appunto il filosofo parla di un “viaggio” davanti a “porte” che devono “aprirsi” davanti a lui per
concessione divina; questa superiore conoscenza può anche coincidere, come nel
viaggio di Edipo, con la morte fisica dell’Eroe. Ma anche in questo caso, e perfino
nella vendetta restauratrice di Odisseo, si tratta di un nuovo ordine simbolico
del mondo, acquisito o reintegrato, in forza nella nuova conoscenza/comprensione
della Realtà che l’Eroe ha faticosamente guadagnato. Perciò, in maniera apparentemente paradossale, possiamo affermare che gli esiti della fiaba di magia, come
la conquista del “regno” del principe Ivan, la restituzione della forma umana ai
cigni fratelli di Elisa o al Principe/Mostro amato dalla Bella, presentano sul piano
archetipico la stessa simbologia espressa dalla visione beatifica di Dante alla fine
del suo viaggio ultraterreno e dalla morte riconciliata di Edipo nella tragedia di
Sofocle: il viaggio ha come esito la reintegrazione o riconquista dell’ordine del
mondo, e come tale ha sempre un valore “salvifico”, individuale e collettivo.
A partire da queste situazioni e dalla loro sequenza, possiamo perciò affermare
la costanza della struttura archetipica del viaggio, ed insieme il suo riproporsi nelle
tre grandi tipologie, che abbiamo già indicato, e cioè la figura del “viaggio iniziatico”, del “viaggio di trasformazione”, o pellegrinaggio, e del “viaggio di fondazione”, o “esodo”. Si tratta di figure simboliche spesso emergenti l’una dall’altra nello
stesso disegno narrativo, come “trasparenti” l’una nell’altra, e rese visibili solo dal
variare del piano di lettura. Altre volte esse semplicemente si succedono in una
stessa narrazione, in cui vengono descritti due o più viaggi diversi, compiuti dallo
stesso protagonista in momenti successivi.
Un’avvertenza importante deve essere però anticipata: così come le figure
del Viaggio sfumano l’una nell’altra e si ripresentano nel vissuto di ciascuno di
noi, così i grandi archetipi, per quanto rigidamente definiti e distinti nel mito, si
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presentano, in successione o in parallelo, tutti in tutti noi: sebbene il sesso e l’età
determinino di volta in volta l’identificazione prevalente, ciascuno di noi, nella sua
pienezza esistenziale, è sia l’Eroe, sia la Principessa, il Conquistatore vittorioso e la
Vittima riscattata, così come è, contemporaneamente, Padre e Madre, ma anche
Genitore e Figlio, Maestro e Discepolo.
L’educazione come viaggio iniziatico
La prima figura del viaggio, quella della iniziazione, si presenta globalmente
come una grande metafora pedagogica, per gli elementi che ci fornisce, almeno
sul piano intuitivo e pre-concettuale, rispetto ad una concezione implicita di educazione.
In primo luogo, è agevole far emergere da questa figura l’intuizione di un
“salto qualitativo”, esistente fra la crescita umana, come dato fattuale, e la sua
progettazione in una forma considerata “doverosa” e “giusta” ad opera dell’educazione. Il viaggio iniziatico è infatti costruito sul presupposto di una “verifica”,
il cui esito non è affatto scontato, e di una “selezione” fra gli iniziandi. Non solo
lo schema del viaggio iniziatico, caratterizzato dal “rischio mortale”, implica una
competizione ideale fra gli iniziandi (non tutti i principi pretendenti ritornano
nella fiaba, come non tutti gli iniziandi superano la prova); ma la feroce selettività
dello schema iniziatico permane anche in assenza di concorrenti. Il rischio mortale accompagna l’Eroe iniziando anche quando egli è l’unico aspirante al duello
e l’unico protagonista dell’impresa; per quanto il lieto fine accompagni l’impresa
eroica narrata dalla fiaba, la stessa narrazione implica molti possibili fallimenti
iniziatici come proprio sfondo esplicativo: le tracce visibili della sconfitta di altri
come lui segnano, nella fiaba, il cammino dell’Eroe verso la prova da cui emergerà
vittorioso.
Fuori di metafora, l’idea implicita nello schema iniziatico è quella di una umanità non garantita dalla crescita del fanciullo, e nemmeno dalle cure affettuose
a lui riservate dalla comunità adulta: il rituale iniziatico disegna un momento
esistenziale in cui l’efficacia dell’educazione ricevuta, la potenza del “destino” personale, e insieme il favore della divinità, concorreranno nell’identificare e separare
l’Eroe Iniziato dai suoi coetanei meno fortunati e/o meno abili e “virtuosi”. La
virtù dell’Eroe/Eroina si configura in genere come un insieme di competenze e
abilità, sia emotive e cognitive, sia strettamente etiche, in larga parte “apprese”, ma
sempre accompagnate da una certa dose di “fortuna” personale e dall’intervento
di talismani e aiutanti magici.
In quest’ottica la parentela storica e il parallelismo archetipico fra la figura,
narrata dal mito e dalla fiaba di magia, e i riti di iniziazione, storicamente noti
o studiati dagli antropologi, erano stati già individuati da Propp, ma soprattutto
nelle analisi di Eliade trovano nuove globali interpretazioni 1.
1 V. Eliade, La nascita mistica (1958), trad. ital. Brescia, Morcelliana, 1974, 1980; Mito e realtà
(1963), trad. it. Milano, Rusconi, 1974.
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L’intuizione della necessità di un “salto qualitativo” nell’esistenza umana si ritrova anche nelle immagini e nelle riflessioni più antiche che possediamo intorno
all’educazione, ad esempio nella letteratura sapienziale di molti popoli, ed appare
connessa alle loro concezioni di Dio, della natura umana e del destino esistenziale
del singolo.
E’ opportuno anticipare che questa idea, viceversa, è al momento sparita dalle
concettualizzazioni pedagogiche, segnate oggi da un “naturalismo” e da un immanentismo radicale degli scopi educativi, e per contro da un tecnicismo pedagogico
largamente artificiale nei metodi.
Un tale naturalismo ottimistico esclude ogni idea di “selezione” e di “verifica”,
e perciò, conseguenzialmente, ogni idea di educazione come itinerario preparatorio ad una possibile dura verifica agli inizi della vita adulta. Nelle teorie attuali
l’umanità si assume come già pienamente realizzata in ogni bambino e adolescente, sebbene il senso comune conservi tuttora certezze di segno diverso, e tali certezze vengano ampiamente confermate dalle nostre tristi esperienze quotidiane. La
crescita dei suicidi giovanili e le crescente auto-distruttività degli immaturi, oggi
apparentemente incapaci di sostenere perfino il più banale degli esami scolastici,
sembra confermare le letture più pessimistiche.
In realtà le “foreste oscure”, i Mostri divoranti e i Falsi Maestri della fiaba di
magia hanno solo cambiato forma nell’esperienza degli adolescenti di oggi: sono
droghe ed alcolici; tentazioni di facili e illeciti guadagni; esercizio della sessualità
privo di regole; rifiuto di ogni disciplina intellettuale e sociale; incapacità di concentrarsi su compiti richiesti e mantenere gli impegni necessari; assenza di progetti, solitudini invincibili, infelicità diffusa. E quanto ai Mostri divoranti della
fiaba, sarebbero forse meno pericolosi i pedofili, gli spacciatori e gli sfruttatori della prostituzione, i nuovi mercanti di schiavi che trasportano clandestini disperati
sulle nostre coste, e gli assassini di ogni risma che affollano la nostra quotidianità?
La realtà contemporanea supera di molto le fantasie più terrificanti della narrazione mitica, in un mondo in cui il simbolico “recinto” del Padre archetipico,
negato e smantellato, appare invaso dalla foresta oscura e dai Mostri, e il segreto
spazio simbolico materno, il focolare/altare della casa, sembra piuttosto abitato da
un televisore sempre acceso...
Nella figura del viaggio iniziatico si configura poi, in parallelo, anche una
seconda idea guida, che appare inseparabile dall’intuizione del salto qualitativo
garantito dall’educazione: si tratta della dimensione soggettiva, personale, attiva
e rischiosa dell’itinerario educativo. Il viaggio, prima ancora di verificare le capacità e le virtù acquisite dall’Eroe/Eroina, suppone in essi un dinamismo attivo, e
quindi una volontà ed una iniziativa che appare, nella fenomenologia del viaggio,
almeno potenzialmente rischiosa. Di fatto, le figure, adiuvanti e/o ostacolanti,
che assistano o si oppongono, assumono nel viaggio solo una posizione di sfondo,
travestendosi spesso perfino in forme animali e vegetali, confondendosi con il bosco/labirinto che fa da scenario al viaggio. La figura del Viaggio nasconde perciò
un’intuizione pre-comprensiva, rispetto al primato del Figlio/Discepolo e alla sua
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irriducibile centralità nel processo educativo. Rispetto a qualsiasi contenuto o forma storica che il processo educativo possa o potrà assumere, la figura del Viaggio
rivela che la determinante del processo è l’iniziativa del soggetto immaturo, il suo
“destino/vocazione”, e la sua risposta personale e faticosa al “disvelamento” del
proprio destino di umanità.
Si deve rilevare come un tale “primato del Soggetto”, che oggi non necessita più
di affermazioni legittimanti, ed appare addirittura dato per scontato (ma non veramente compreso) dalle generazioni giovani, venga rappresentato nella figura del
viaggio in momenti storici assai lontani da noi, e in coincidenza di teorizzazioni e
di pratiche pedagogiche sicuramente di segno diverso.
Vi è poi anche una terza fondamentale intuizione, sempre presente nei nuclei archetipici connessi alla figura del viaggio, di sicura rilevanza pedagogica: si
tratta della figura della durata “lunga” del corso della vita, di un rinnovarsi senza
apparente termine del cammino esistenziale personale, un grande “viaggio” simbolico in cui l’educazione dell’immaturo (il viaggio iniziatico) e la trasformazione
dell’adulto (il pellegrinaggio/odissea) sfumano e si confondono l’una nell’altra, e
finiscono per disegnare la nuova figura dell’esodo.
Sul piano del sapere pedagogico, la potenza metaforica della figura del viaggio
risiede perciò nel dare, da sempre, figura rappresentabile e spessore emotivo ad
alcune intuizioni, intuizioni che divengono così parte del patrimonio di esperienza
di generazioni e generazioni, e tutto ciò molto prima, e, direi, indipendentemente
dal fatto, che una riflessione pedagogica intenzionale elabori le stesse intuizioni
in forme diverse e in secoli diversi, fino all’approdo contemporaneo. Tuttavia, per
alcuni secoli, la potenza metaforica di questa figura ha probabilmente agito in
parallelo alle teorizzazioni esplicite, confermandone implicitamente il valore e la
forza di condivisione sociale.
Esempi storici sull’uso educativo di questa figura potrebbero permetterci di
scrivere una pagina interessante della storia dell’educazione. Ma anche in assenza
di uno studio specifico e rigoroso di tipo storico, è plausibile affermare che per
secoli la figura del Viaggio ha agito implicitamente, sia attraverso le pagine della
letteratura alta (dall’Asino d’oro, alla Divina Commedia, al Faust di Goethe, per
non parlare dell’onnipresente schema dell’Odissea); sia attraverso la narrativa popolare, le storie di avventura e d’amore, fino ai film western; sia infine attraverso
la figura rituale del pellegrinaggio religioso, molto presente nella cultura e anche
nell’immaginario cristiano. E’ possibile ritrovare lo schema del viaggio eroico perfino nelle Vite dei Santi, che nei secoli trascorsi costituivano un importante filone
narrativo e letterario nell’educazione cristiana del popolo.
A titolo di esempio possiamo citare una pagina di Louise Alcott: nel suo fortunato romanzo Piccole Donne la figura del “cammino del pellegrino”, legato al
familiare mito americano e protestante dei Padri Pellegrini del Myflower, appare
ben presente nella fantasia di Jo adolescente, con una evidente valenza etico-pedagogica, probabilmente con una derivazione autobiografica .
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Nella strutturazione archetipica del viaggio, con il progressivo mutarsi della
figura, l’iniziando/discepolo assume perciò successivamente figure diverse: come
iniziando egli è il “chiamato”, il sempre “destato dal sonno”; come Eroe egli è il
“lottatore vittorioso”; ma, come Iniziato e Adulto, l’Eroe/Eroina diventa sempre
un Viandante Pellegrino. Si può osservare questa sequenza nel mito greco di Edipo, prima vincitore della Sfinge e re riconosciuto, e successivamente esule e pellegrino, dopo la scoperta della colpa involontariamente commessa, infine accolto
dalla divinità dopo un doloroso viaggio di espiazione.
Ma già nella figura del viaggio iniziatico, assunta come metafora dell’educazione, il Principe iniziando esprime progressivamente il dispiegarsi di un “destino”, e
di una prorompente energia vitale, che sono unicamente “propri”, personali, e che
come tali non potranno essere mai totalmente “domati” dalla cultura e dall’azione
intenzionale dei Maestri umani. Perciò la categoria decisiva del viaggio rimane
quella del “rischio”: rischio per la società e la cultura che la trasgressione dell’Eroe
sia realmente rovinosa per lui e per la sua gente; rischio per l’Eroe, trascinato dalla
propria prorompente energia individuale, di perdersi lungo il cammino, di smarrirsi nel bosco labirinto, ed infine di essere ingannato. Ci è sempre ignoto il “compimento del destino” dell’Eroe; ci è ignoto l’esito del suo viaggio, sia nella forma
iniziatica, sia nella forma della peregrinazione, sia infine nella forma dell’esodo, in
cui egli coinvolgerà quelli che lo seguono e quelli che da lui nasceranno nel tempo
futuro. Ci è sempre ignota l’identità reale dell’aiutante magico o del mostro, o
dell’avversario, che si fanno incontro all’Eroe.
In ultima analisi, l’Eroe deve sempre rischiare, quando il nume gli si fa incontro sotto le spoglie dell’animale magico o di una figura umana travestita: egli ha
il compito di riconoscere sotto quelle spoglie il Maestro divino, l’angelo, l’aiutante
magico provvidenziale di cui ci si può fidare, o piuttosto un demone ingannatore,
un falso maestro, un avversario, divino o umano, che gli sta tendendo un’insidia
mortale. Nelle fiabe superstiti questa distinzione molte volte è possibile solo a posteriori, in base agli esiti della vicenda; oppure la condotta del Maestro/Mentore
appare determinata dalla condotta dell’Eroe iniziando, come in quelle fiabe in cui
più fratelli o sorelle ottengono un dono magico di segno opposto (provvidenziale
o rovinoso) dalla stessa figura di Strega/Mago che incontrano lungo il cammino,
in relazione alla loro condotta, più o meno fiduciosa, docile, generosa, o astuta.
Per contro, nella grande metafora del viaggio di Pinocchio burattino, figura,
ad un primo livello di lettura, della faticosa conquista dell’autonomia adulta, l’eroe
burattino non riesce ad individuare, nel Gatto e nella Volpe, oppure in Lucignolo,
le figure emblematiche del falso maestro e del cattivo compagno di viaggio. Tale
mancato riconoscimento costituisce già una colpa: per questo il burattino, come
ogni Discepolo/Viandante, dovrà affrontare una storia di personali “peripezie”,
non esenti da nuove colpe e cariche di dolori.
In questa prospettiva la figura del viaggio iniziatico di Pinocchio lascia trasparire su un secondo piano di lettura già un itinerario di trasformazione adulta del
tipo odissea.
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Pedagogika.it/2011/XV_2/Il_viaggio/le_figure_del_viaggio
L’interconnessione fra le tre figure del viaggio, in successione o in trasparenza,
è determinata dalla stessa logica dell’esistenza umana. Non basta infatti che l’immaturo superi la prova iniziatica: il suo cammino adulto rimane esposto ai rischi
e alle tentazioni proprie della condizione umana, alla dimenticanza, all’errore, alla
colpa. L’imprevedibilità del cammino esistenziale comporta la tensione di una perenne trasformazione: sentimenti e risentimenti, sciagure e lutti, determinano un
ciclo rinnovato di prove. Così lo schema del viaggio iniziatico si dilata e si moltiplica in una catena di pellegrinaggi esistenziali in cui il bosco/labirinto, i mostri e
gli aiutanti magici, si ripropongono in forme mutate e sempre nuove, e il Principe
vittorioso delle fiabe di nozze con la Principessa si trasforma in Ulisse/Gilgamesh,
diventa Abramo o Mosè, diventa Faust, e finisce per scoprirsi nei panni dei viaggiatori simbolici protagonisti dei film contemporanei di I. Bergmann: il vecchio
Borg che contempla la vita passata (ne “Il posto delle fragole”), ma anche il cavaliere generoso che perde l’ultima partita a scacchi con la Morte (“Il settimo sigillo”).
*Docente di Pedagogia generale e sociale, Facoltà di Scienze della Formazione
Università di Bologna
Dossier 69
Pedagogika.it/2011/XV_2/Il_viaggio/Denise_Puglia/la_via_della_seta_2010/Gand1
Pedagogika.it
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pedagogika.it/2011/XV_2/saperi_ed_esperienze/
Temi ed esperienze
L’intenzione della sezione Temi ed Esperienze è quella di offrire al lettore
uno spazio di condivisione su riflessioni, percorsi, progetti, testimonianze, narrazioni, presentando una serie di contributi che, pur non
negando l’esigenza dell’approccio e della definizione teorica, cerchino
di ricollegarsi all’idea della pratica, di quell’ambito del conoscere, legato alle forme dell’azione, della sperimentazione e della verifica in
continuo divenire ed in costante trasmissione.
Saperi ed esperienze 71
pedagogika.it/2011/XV_2/saperi_ed_esperienze/
I bambini sono cambiati.
Due generazioni a confronto
L’ultimo libro sull’educazione che ho ricevuto s’intitola: Manuale di manutenzione
del bambino, ma i bambini non sono una motocicletta e i genitori non sono dei
meccanici.Li paragonerei piuttosto a degli artisti perché ogni bambino è un capolavoro, non riproducibile, diverso da tutti. Uguale solo a se stesso.
Silvia Vegetti Finzi*
Una premessa
Sono abbastanza vecchia per aver imparato più dalla vita che dai libri. Vita
vissuta, come figlia, mamma, nonna, e vite narrate dagli altri sono la mia competenza più preziosa. E cercherò, per quanto possibile, di condividere con voi, questa
sera,quel poco che ho appreso.
Poiché in educazione non esistono istruzioni e le proposizioni generali non risolvono i casi concreti, sarete comunque voi, genitori e insegnanti, a trasformare o
meno le mie parole in comportamenti adatti a quel bambino, in quelle circostanze.
Sono convinta che nessuno ama e conosce i bambini come i genitori, anche
se non esistono genitori perfetti. E per fortuna, altrimenti i figli non saprebbero
come prendere le distanze e non vi lascerebbero più.
In ogni caso non chiedetemi di essere obiettiva perché sono e sarò sempre dalla
parte dei bambini1.
Il mondo di ieri
“I bambini noi non li conosciamo” è una frase che gli psicologi ripetono spesso
per scoraggiare il facile ricorso agli stereotipi, tipo “si sa, i bambini....”, “sono cose
da bambini...”, “i bambini sono bambini” , “non si accorgono di niente” e così via.
Il bambino non è una risposta ma una domanda aperta, un punto interrogativo
che chiede ascolto e coinvolgimento.
Per produrre vicinanza, empatia, si consiglia agli adulti di recuperare dentro di
sé il bambino che sono stati, i loro ricordi d’infanzia, quello che da piccoli hanno
sentito, provato, sognato, le incomprensioni che li hanno addolorati, nella convinzione di stabilire così un’intima sintonia. E’ senz’altro un buon esercizio, ma
mettersi nei panni di un bambino, infilarsi nelle sue scarpe e nella sua testa non è
mai facile. Resta una zona d’ombra, un giardino segreto, da preservare restando in
ascolto, al tempo stesso partecipi e rispettosi della sua intimità.
1 Questo articolo è tratto da un intervento tenuto il 14 Marzo da Silvia Vegetti Finzi nella Scuola
Leonardo Da Vinci di Milano.
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Pedagogika.it/2011/XV_2/saperi_ed_esperienze/i_bambini_sono_cambiati
Se un tempo l’incontro tra il bambino di ieri (quello che voi siete stati) e il
bambino di oggi (quello che vi trovate di fronte) poteva risultare immediato, ora il
mondo è cambiato così in fretta che la trasposizione è molto difficile e il confronto
rischia di confondere più che illuminare la relazione. Credo che sia utile riflettere
innanzitutto sulle differenze tra il mondo in cui avete vissuto voi genitori, quello
in cui si è svolta la vostra infanzia, e il mondo di oggi in cui stanno crescendo i vostri figli. In linea di massima, anche se non mancano eccezioni, voi, padri e madri
qui presenti, avete un’età che si dispone più o meno intorno ai 40 anni. Siete nati
a cavallo tra gli anni 60 e 70 e avete frequentato la scuola elementare negli anni
‘70. Epoca distante anni luce da quella attuale. Gli anni ‘70, anche se vengono
ricordati come gli “anni di piombo”, sono stati anni contraddistinti da conquiste
civili che hanno rapidamente modernizzato il paese.
1973 – Un referendum popolare conferma la Legge sul divorzio
1975 – Viene promulgato il nuovo Diritto di Famiglia
1978 – Viene approvata definitivamente la Legge sulla interruzione volontaria
di gravidanza.
Ma la vita privata, soprattutto per i bambini, resta sostanzialmente la stessa del
decennio precedente, quello caratterizzato dal boom economico.
Di quel periodo vorrei prendere in considerazione soprattutto due variabili: il
tempo e lo spazio.
Milano, negli anni ‘70, è ancora una città di provincia.
Poiché, in un regime di bassi consumi, un solo stipendio è spesso sufficiente
per i bisogni della famiglia, molte mamme lasciano il lavoro alla nascita del primo
figlio. Lo continuano invece le donne che, pur lavorando a tempo pieno, hanno
orari ridotti come le insegnanti e le impiegate delle amministrazioni pubbliche. La
scuola elementare impegna solo il mattino e prevede un’unica insegnante. Alcuni,
non tutti, frequentano il doposcuola. Le lezioni di nuoto, in piscina, si svolgono
durante le ore di lezione e il trasporto avviene con appositi pullman. Le cartelle
non sono pesantissime, la scoliosi non è una minaccia. A mezzogiorno la famiglia
si riunisce per il pranzo e la sera per la cena. Al pomeriggio i bambini giocano e
svolgono i compiti, che li impegnano per circa un’ora. La merenda con la Nutella
è un rito generazionale. Tra i vari giocattoli: per i maschietti i mostri giapponesi,
per le bambine Cicciobello, la Barbie e Big Jim. L’oratorio costituisce ancora un
luogo di incontro sino alle superiori. I programmi per ragazzi sono i mitici: “Heidy”, “ Furia cavallo del West”, “Pippi calze lunghe” e lo “Zecchino d’oro” è uno
spettacolo nazionale.
E la sera: tutti a letto dopo Carosello.
Quanto agli spazi, i bambini si ritrovano nei cortili condominiali, in casa, ai
giardini pubblici e i maschietti organizzano ancora partite di calcio nelle strade
e nelle piazze meno frequentate. Ma sarà per poco. Verso i 9, 10 anni, i bambini
cominciano a uscire di casa da soli per brevi percorsi, come andare a trovare un
compagno o a comperare il gelato o le figurine. Molti scolari percorrono senza
essere accompagnati il tratto casa-scuola perché vi incontrano tanti coetanei coi
Saperi ed esperienze 73
Pedagogika.it/2011/XV_2/saperi_ed_esperienze/i_bambini_sono_cambiati
quali condividere il percorso. Nessuno pensa ancora ai pedofili in agguato. D’estate la città si spopola e le vacanze sono interminabili come quelle tradizionali. La
maggior parte dei nonni sono rimasti al paese di origine e questo è il momento in
cui le generazioni si ritrovano. Gli aiuti domestici sono piuttosto frequenti e non
ci sono ancora immigrati extracomunitari.
Il cambiamento più radicale comincia negli anni ‘80. Le strade della città si
riempiono di orologi, uno per ogni angolo, il ritmo di vita diventa frenetico. Gli
orari di lavoro tendono a debordare, aumenta la competizione. La nuova figura di
riferimento diventa la “donna in carriera” che non lavora nel pubblico ma in aziende private. La moda propone giacche con ampie spalle per sottolineare l’omologazione tra i sessi, cartelle 24 ore, tacchi a spillo per i consigli di amministrazione.
Dopo un periodo di sperimentazione, si comincia a programmare la scuola a
tempo pieno. Due parole su questo “pieno”.
Ecco come si configurava, almeno nelle intenzioni: “... un tempo scuola unitario e di qualità sulla base del riconoscimento che lo spazio dato a linguaggi non
verbali, alla corporeità, alla dimensione ludica nelle attività pomeridiane, lungi dal
costituire una mera integrazione quantitativa alle attività curricolari del mattino,
rappresenta invece uno straordinario volano dei processi cognitivi e di socializzazione”. La scuola a tempo pieno si avvale di più insegnanti, di ore di compresenza
in classe, di insegnanti di sostegno.
Ma la riorganizzazione della scuola resta incompiuta. I programmi rimangono
gli stessi e soprattutto non si ampliano e arredano gli spazi destinati alle nuove
attività. Mancano gli atelier per le attività espressive (pittura, teatro, musica) e i
laboratori per le esperienze scientifiche. I bambini trascorrono fuori casa quasi tutto il giorno ma le strutture “abitative” non vengono modificate: pochi e scadenti
i servizi igienici, immutato lo spazio della mensa, spesso affollata e rumorosa (i
turni impongono al pasto ritmi insostenibili), chiusa la sala medica, aboliti i medici scolastici, cancellati molti controlli epidemiologici, inalterate, salvo eccezioni,
le palestre e le biblioteche, inutilizzati i cortili, gli spazi adibiti a orti e, quando
esistono, le piscine. In compenso aumenta il numero degli alunni per classe sino
a occupare gli spazi tra i banchi, la possibilità di giocare nei corridoi, di muoversi
spontaneamente.
Dall’anno scolastico 2009-10, in base alla Riforma della scuola si torna, con
qualche aggiustamento, al maestro unico. Ci si dimentica che vivere in comunità
otto ore al giorno, quaranta la settimana, cambia il rapporto col corpo dei bambini, introduce nuovi bisogni, esigenze non contemplate dalla scuola del mattino,
quando si portava in classe solo la testa. Ripensandoci ora è stata una occasione
perduta per migliorare davvero l’istruzione primaria.
Se il tempo pieno ha funzionato sinora, rappresentando una risorsa fondamentale per le famiglie, lo si deve alla capacità e alla dedizione del personale scolastico.
Il mondo di oggi
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Sul presente non mi attardo perché è fin troppo evidente. Innanzitutto il tempo è divenuto la merce più rara. La “miseria del tempo” ci accomuna tutti, democraticamente.
La famiglia assomiglia a una coperta corta. Poiché entrambi i genitori lavorano, al mattino ci si prepara in fretta e furia. La colazione che si fa tutti insieme,
con calma, è un miraggio.
I bambini vengono incitati a far presto: su, dai, spicciati, lavati, allacciati le
scarpe, prendi la cartella... sono le esortazioni più frequenti. Il dormiveglia non
sanno neanche cosa sia. Poi il commiato: ognuno per la sua strada.
A mezzogiorno sono tutti fuori.
La scuola, per lo più a tempo pieno, impegna i ragazzi della primaria dalle 8,30
sino alle 16,30. Negli anni successivi nessuno avrà più un orario così gravoso. Poiché è una necessità per le famiglie nessuno vuole riconoscere che 40 ore di scuola la
settimana sono un sacrificio per i più piccoli. Soprattutto perché, come dicevo, le
nostre scuole non sono attrezzate per questo. Anche se in tempi di crisi e non si può
fare diversamente, dobbiamo tuttavia riconoscere che i bambini stanno pagando
un prezzo molto alto. Ce lo dicono tra l’altro i pediatri. Le malattie respiratorie
infantili sono, in Lombardia, tre volte di più rispetto all’Italia Centrale. Riconosciamolo: Milano non è una città per bambini. I piccoli sono amati e protetti e, in
termini materiali, salvo eccezioni, non mancano di nulla. Spesso hanno persino
troppo. E’ la vita quotidiana ad essere stressante.
Tutti vengono accompagnati a scuola e ripresi all’uscita da un adulto, spesso un
nonno o una nonna. Attualmente i nonni hanno cambiato posizione nella geometria della famiglia. Erano figure di contorno, sono divenute centrali. Capita sempre più frequentemente di sentirsi dire: “Meno male che ci sono i nonni” oppure
“è grazie ai miei che posso continuare a lavorare, altrimenti non so come farei”.
Nessuno s’azzarda a lasciar girare i figli da soli per la città. Le strade, sono
così deserte di bambini che sembra sia passato il Pifferaio di Hamelin. Rispetto
allo spazio urbano, il sentimento dominante è la paura: paura del pedofilo, dello
zingaro, del clandestino, della droga, del traffico, dello smog. Ma meno bambini
popolano la città più lo spazio urbano diventa pericoloso.
Alla fine dell’orario scolastico inizia,senza soluzione di continuità, il cosiddetto
“tempo libero” che libero lo è ben poco. I bambini, caricati rapidamente in macchina, la merenda presa al volo, vengono portati ai più svariati corsi: di ginnastica,
di nuoto, di pittura, di musica, di recitazione, di lingue straniere. Spesso queste
lezioni, pur variando, occupano tutta la settimana. Al sabato poi ci sono gli impegni sportivi e la domenica i compiti. “Far fare i compiti” è una scadenza cui i
genitori non possono sottrarsi.
Certamente i genitori agiscono per il bene dei loro figli. Il loro amore, la loro
dedizione, sono valori incontestabili. Ma spesso non si accorgono che i bambini
sono stanchi, molto stanchi. E che quello che vorrebbero fare è, semplicemente,
niente. Almeno un giorno la settimana dovrebbe essere lasciato completamente
Saperi ed esperienze 75
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libero da obblighi e doveri, costituire un tempo per sé. In fondo persino Dio il
settimo giorno si riposò.
Elogio del tempo per sé
I corsi pomeridiani sono importanti per completare l’istruzione scolastica e per
non lasciare i bambini in casa soli (spesso non ci sono fratelli) a guardare la Tv.
Da quando non esistono spazi esterni disponibili per incontri spontanei è giusto
provvedere in altro modo.
Ma quali corsi? Ovviamente la scelta è nelle mani dei genitori, di solito grazie
a un passaparola. Le attività del tempo libero si dividono, grosso modo, in fisiche e culturali. Entrambe sono importanti e si possono esercitare a giorni alterni,
sempre tenendo conto delle inclinazioni e delle preferenze del singolo bambino
naturalmente.
Non importa se all’inizio vuole fare Karate perché ci va un amico o perché un
cartone animato lo ha esaltato, la conferma di aver fatto la scelta giusta deriva dal
piacere con cui prosegue. Se quella attività non gli va, inutile insistere.
Mi sembra ingiusto obbligarlo a continuare, come fanno alcuni genitori, sostenendo che la vita è dura ed è meglio che si attrezzi subito a procedere stringendo
i denti.
Non abbiamo il diritto di sottrargli la felicità dell’infanzia, che ha un carattere
unico, ineguagliabile, irripetibile. Meglio propiziarla, dal versante culturale, con
attività di tipo artistico-espressivo prossime al gioco, esercitate liberamente, senza
valutazioni, graduatorie, premi e punizioni, per il semplice piacere di sentirsi in
sintonia con se stessi, liberi e protetti.
Ma la cosa più grave accade, a mio avviso, quando i genitori, in buona fede,
occupano tutti i pomeriggi dei figli, compresi sabato e domenica, con impegni
organizzati, senza ammettere ambiti di libertà e di scelta. Almeno per mezza giornata, lasciateli fare quello che vogliono. Anche niente.
Privare i bambini di “tempo vuoto”, di ozio, di azioni spontanee, magari gratuite, toglie spazio alla fantasia, ai sogni a occhi aperti, al gioco. La solitudine,
quando non è imposta, è una condizione creativa dell’anima.
Attività ritenute “inutili”, come disegnare o colorare liberamente, sfogliare un
libro distrattamente, sdraiarsi sul divano guardando il soffitto, sbadigliare come
un gatto, diventano essenziali quando intercalano le attività organizzate, quando
funzionano da interpunzione rispetto alla continuità degli impegni ordinali.
Non si tratta solo di non fare, ma soprattutto di fare quello che si vuole.
I più grandi possono incontrare i coetanei, andare insieme ad acquistare un
cd, organizzare un torneo di calcetto sulla spianata più vicina, guardare un video,
seguire, con popcorn e Coca Cola, una partita di calcio in Tv. E’ la domenica della
vita.
Solo così s’impara a scegliere, preparandosi a gestire l’autonomia richiesta
dall’adolescenza. Il bambino che è stato sempre e solo eterodiretto, che non ha
mai affrontato alternative perché un altro ha già deciso per lui, si troverà spaesato
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nel momento in cui la famiglia, dopo averlo sbarcato in porto, si allontana progressivamente dalla sua vita come una nave che prende il largo.
Alla fase dell’accudimento, che comporta un rapporto corpo a corpo col bambino, dovrebbe far seguito quella della disponibilità responsabile, più defilata e
rispettosa dei suoi tempi e dei suoi modi.
Così come non vi è un solo stile educativo, vi sono molti percorsi per accedere
all’età adulta.
Sappiamo che la società è divenuta estremamente competitiva e che ben pochi
degli attuali bambini riusciranno, una volta diventati adulti, a trovare un lavoro
che per durata, stabilità, sicurezza, impegno e possibilità di promozione assomigli
a quello dei genitori. Tanto meno a quello dei nonni. Molti si dovranno accontentare di un lavoro, o meglio di “lavoretti” per vivere.
Già da ora il lavoro qualifica sempre meno l’identità personale. Non è più
scontato che alla domanda “chi sei?” si risponda specificando la propria occupazione. Alla professione si affiancano interessi, hobby, passioni, impegni di volontariato, attività disinteressate da coltivare in proprio o con un gruppo di amici.
Sino a qualche decennio fa sarebbero state ritenute marginali, adesso vengono
spesso considerate centrali. Di conseguenza la figura del dilettante sta perdendo la
connotazione svalutativa che lo caratterizzava per acquisire il senso profondo del
termine: colui che fa qualche cosa per diletto.
Capisco però che i genitori, anche se il problema è generazionale, cerchino di
garantire al proprio figlio un futuro meno rinunciatario, che lo equipaggino alla
competizione facendogli acquisire per tempo competenze straordinarie.
Ma l’infanzia è l’età più fragile e preziosa della vita e mi chiedo se sia giusto sacrificarla per un domani migliore, soprattutto in un periodo di grande insicurezza
sul futuro. Come si suol dire: non c’è più il futuro di una volta.
Una buona scuola elementare (come sono la maggior parte) prepara sicuramente a quelle successive, così come solide fondamenta garantiscono la buona tenuta
dell’edificio. Ed è giusto che gli alunni sappiano che stanno studiando per oggi e
per domani.
Ma se la scuola primaria si riduce a costituire l’anticamera di quella di secondo
grado (l’ex media), perde la sua specificità e la sua funzione che è quella di dare
fiducia, di aprire le menti, di sollecitare la curiosità e la ricerca, di far amare lo
studio.
In fondo tante nozioni si possono acquisire più tardi mentre i processi dell’età
evolutiva sono irrecuperabili.
Scuola e lavoro
Se vogliamo considerare la scuola come un investimento sul futuro professionale, è opportuno riflettere che, in previsione, le competenze più richieste non
saranno quelle tecniche ed esecutive. Altrove costano meno.
Saperi ed esperienze 77
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In un’epoca di globalizzazione e di rapidi aggiornamenti tecnici, alla nostra
economia si chiedono piuttosto innovazione, creatività, duttilità, capacità di dimenticare il vecchio e di apprendere il nuovo, di “imparare ad imparare”.
Paradossalmente, proprio la Camera del Commercio di Milano, città storicamente industriale, sta rivalutando la figura dell’artigiano, come colui che persegue,
non la quantità ma la qualità, che esegue un lavoro a regola d’arte, come avveniva
nelle botteghe del Rinascimento.
La nuova economia ha bisogno tanto di sapere quanto di saper fare, di pensiero
calcolante e di fantasia, di intuizione e di ostinazione. Proprio le abilità favorite da
pause di vuoto, di silenzio, di solitudine felice, di libertà espressiva. La socializzazione deve cessare di essere imposta come un dovere per ridiventare un piacere personale, un’opzione variabile a seconda dei temperamenti e delle varie fasi dell’età
evolutiva. Mentre nell’infanzia il rapporto dei bambini con i compagni e gli amici
bilancia l’ingerenza della famiglia, nell’adolescenza, al contrario, sarà la famiglia
a fare da contrappeso all’attrazione esercitata dai coetanei, dal gruppo dei pari.
In termini cognitivi, al pensiero convergente, quello che segue i percorsi precostituiti e si propone di raggiungere i risultati previsti, deve affiancarsi il pensiero
divergente, quello che imbocca strade nuove, che tenta e ritenta, anche a costo di
sbagliare.
Invece l’errore viene sanzionato sia quando è frutto di pigrizia sia quando è il
prezzo di una avventura intellettuale, di un modo di procedere sperimentale, per
prove ed errori appunto.
Ma la fretta incalza e ogni indugio viene considerato una perdita di tempo, senza pensare che fermarsi e anche retrocedere può essere una strategia per saltare più
in alto e più in là. “Darsi tempo” potrebbe essere il modo migliore per capitalizzare
la vita. Ma in questa città nessuno se lo concede.
Chi ha seguito un po’ il dibattito di questi mesi sa che è balzata in primo
piano una modalità educativa, esigente, intransigente, punitiva, competitiva sino
all’estenuazione, che persino il Giappone, che per primo l’aveva praticata, sta abbandonando. Mi riferisco al libro scritto dall’americana di origine cinese Amy
Chua, docente di giurisprudenza all’Università di Yale, che racconta il modo con
cui educa le figlie ricorrendo a imposizioni e castighi. Il ruggito della “mamma
tigre”, è diventato un mito internazionale in quanto riflette, sebbene in modo iperbolico e provocatorio, una esigenza avvertita in tutto il mondo occidentale: quella
di garantire il successo dei propri figli. E’ la mamma che, spietata, chiede loro il
massimo sforzo per riuscire in qualsiasi impresa, per vincere e primeggiare in ogni
campo. Non importa a quale costo. La felicità è un optional.
Ma questo modello non calcola che, per definizione, il successo è per pochi
e che la competitività, spinta all’estremo, rischia di provocare molti perdenti e
pochi vincenti. A loro volta isolati e soli, divorati dall’ansia di perdere gli obiettivi
raggiunti.
Credo che l’educazione dovrebbe almeno in parte sganciarsi dai traguardi imposti dalla società: dai tempi brevi del rendimento immediato e dai tempi lunghi
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del successo a tutti i costi. Meglio limitare le gare a punti, le graduatorie numeriche, le valutazioni astratte, che rischiano di umiliare più che spronare.
Ad esempio, nelle superiori, piuttosto che pagare gli alunni che hanno ottenuto
la pagella migliore (come è in uso presso alcuni istituti milanesi) sarebbe preferibile, a mio avviso, premiare i lavori collettivi, i risultati di squadra.
È giusto valutare il livello raggiunto, perché, soprattutto nell’adolescenza, è necessario confrontarsi con la realtà. Ma i bambini possiedono potenzialità e talenti
che i programmi scolastici non contemplano e che vanno scoperti e valorizzati
perché costituiscono i punti di forza dell’identità, una fonte di autostima, la possibilità per il bambino, che magari fa fatica a procedere con i compagni, di dire:
“io valgo”. Quando l’insegnante riesce a intercettare il desiderio di imparare di un
allievo, capisce che non è mai generico, che quel bambino vuole apprendere una
determinata cosa e non un’altra. Ma quel desiderio, una volta riconosciuto e valorizzato, può essere esteso ad altri ambiti, sino a diventare piacere della conoscenza,
amore del sapere.
Ogni bambino è diverso dall’altro e, all’interno di un programma scolastico
condiviso, ognuno possiede inclinazioni personali che meritano di essere scoperte
coltivate. Non mi sfugge la difficoltà del compito: le classi sono numerose, i programmi onerosi.
Ma se riuscissimo a suscitare interessi e passioni non avremmo più problemi di
disattenzione, pigrizia e oppositività. Sappiamo che l’intelligenza è multipla, formata da più componenti (abilità logico-matematica, linguistica, spaziale, musicale, sociale ecc.) e ognuno di noi esprime una combinazione unica di questi fattori.
Quando si dice di un bambino “basta prenderlo per il suo verso” si riconosce la sua
unicità e lo si aiuta ad esprimerla.
Inoltre l’intelligenza è emotiva, cioè inseparabile dagli affetti, dalle relazioni,
dai sentimenti e dalle passioni che la animano.
L’uomo, animale a sangue caldo, non potrà mai pensare con la fredda obiettività di un calcolatore. Si svolgono bene i compiti per i quali si è motivati e che ci
danno piacere. E, in ultima analisi, le conferme positive sono molto più efficaci
delle sanzioni punitive.
La famiglia permissiva, la famiglia sì
Esauriti anche gli obblighi del tempo libero dei figli, la famiglia, stanchissima,
si ritrova la sera. La cena è diventato l’unico pasto in comune della giornata. Ma
avviene sempre più tardi perché, almeno a Milano, l’orario di lavoro non finisce
mai. Basta chiederlo ai taxisti che monitorizzano il traffico: non si torna a casa
prima delle otto.
Comunque ci si tiene a questo rito domestico e si aspetta che il papà rincasi,
anche se i più piccoli cascano dal sonno. Il momento del re-incontro dopo il rapido
saluto del mattino è molto importante perché a cena, se si spegne il televisore, si
può finalmente discorrere del più e del meno.
Di fatto parliamo tanto dei bambini ma poco con i bambini.
Saperi ed esperienze 79
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Le mamme chiedono, all’uscita di scuola, “cos’hai fatto?” e la prevedibile risposta è sempre la stessa “niente” oppure “non mi ricordo”.
E’ intorno alla tavola l’occasione più opportuna per dialogare. La convivialità,
si sa, scioglie la lingua.
Purtroppo i genitori attuali raccontano ben poco del loro lavoro, mentre sarebbe importante che i figli conoscessero, per quanto possibile, come vivono gli
adulti quando escono di casa. Informando i figli sulle loro attività, i genitori trasmettono, non solo parole, ma anche esperienze di vita, principi morali, stili di
comportamento. Le conversazioni familiari, ma anche le posizioni, i gesti, il cibo
e la sua distribuzione sono carichi di significati simbolici.
I bambini sono attentissimi alla celebrazione dei riti alimentari perché, in quelle circostanze, cercano di definire e difendere il loro posto in famiglia.
Se voi adulti, parlando, vi concedete di esprimere, con misura naturalmente, le
vostre emozioni, anche i bambini si sentiranno autorizzati a fare altrettanto.
Un tempo, un classico tema scolastico era: “Parla del lavoro del tuo papà”.
Argomento chiuso, visto che ben pochi ne sanno qualche cosa. Certo le attività
della tarda modernità sono così specialistiche e astratte che è ben difficile spiegarle ai non addetti ai lavori. Ma i modi di vivere insieme sono sempre gli stessi e i
bambini, sentendo raccontare le relazioni, di amicizia, collaborazione, competizione, alleanza e ostilità che i genitori intrecciano con i colleghi e con i superiori,
imparano a gestire i rapporti orizzontali e verticali che incontreranno crescendo.
Visto che la sera è l’unico momento della giornata in cui la famiglia s’incontra e
si racconta, si pongono spesso problemi di comportamento, le cosiddette regole.
In questi anni i genitori non se la sentono, e li comprendo, di sprecare un
tempo così prezioso con accuse, rimproveri, condanne e castighi. Preferiscono star
bene insieme, trarre il meglio dall’intimità con i figli.
Nessuno vuol fare la parte del cattivo, rinunciare, almeno per un giorno, a
essere amato. Di conseguenza la disciplina viene per lo più delegata alla scuola.
Molti insegnanti si lamentano perché ricevono, nelle prime classi, non bambini
civili ma piccoli selvaggi.
La “famiglia corta” è, per forza di cose, una famiglia permissiva ma la scuola
rischia di accollarsi tutta la parte ingrata dell’educazione, quella normativa.
Per reagire al lassismo dei genitori, i libri di consigli premono l’acceleratore
sulla disciplina repressiva. Alcuni titoli degli ultimi anni:“Se mi vuoi bene dimmi
di no”, “I no che aiutano a crescere”, “Digli di no, fallo per lui!”, “Quando e come
punire i bambini”, “Il tuo bambino e la disciplina: guida autorevole per porre limiti
a vostro figlio”.
Ma siamo sicuri che i bambini debbano essere innanzitutto interdetti, bloccati, che chiedano solo cose sbagliate? Certo le regole ci vogliono: poche, semplici,
coerenti, commisurate all’età e, man mano che il bambino cresce, concordate e
riformulate. E’ indubbio che ogni trasgressione va sanzionata, tenendo però conto
delle circostanze e della personalità di quel bambino. Così intese le norme non
costituiscono un limite alla libertà, non sono sbarre, ma un sistema di protezione
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che infonde sicurezza, che contiene, incanala e indirizza le anarchiche pulsioni
infantili.
Se gli adulti permettono tutto, se lasciano fare ai piccoli qualsiasi cosa, li espongono alle conseguenze dei loro comportamenti senza protezione. Col risultato che
i bambini si costruiranno da soli un sistema di proibizioni, colpe e punizioni molto
più severo di quello degli adulti, talvolta crudele, perché il loro pensiero è assoluto
e incondizionato.
Tuttavia resto scettica sull’elogio sperticato dei “no” perché, per carattere, amo
molto i “sì” e credo che l’assenso faccia crescere perché conferma le richieste giuste,
premia le condotte appropriate, incentiva a procedere sulla buona strada, anticipa
comportamenti più maturi.
Ma poiché neanche i “sì” devono essere inflazionati, propongo una terza via:
rispondere alle richieste dei bambini con un “sì ma ”, un assenso condizionato,
motivato, da concordare insieme.
Ad esempio: “oggi non puoi invitare la tua amica perché è il giorno dedicato
alle pulizie, ma adesso telefoniamo alla sua mamma e ci accordiamo per il fine
settimana”.
Oppure: “non ti compero adesso il gioco dei Gormiti così lo puoi chiedere ai
nonni per il tuo compleanno”. In tal modo il bambino sente riconosciuto il proprio desiderio e impara a declinarlo tenendo conto degli altri e delle circostanze.
Solo l’esercizio del limite consente di abbandonare le pretese di onnipotenza che,
lasciate a se stesse, provocano solo impotenza.
Non ci sono però formule magiche. Certo i “sì ma” aiutano a confrontarsi con
le diverse esigenze e a trovare un accordo. Dobbiamo fare in modo che il bambino,
non solo si comporti secondo le regole del viver comune, ma lo faccia nel modo a
lui più congeniale, non per costrizione ma per convinzione.
D’altra parte dobbiamo concedere anche ai bambini la possibilità di dire “no”:
“non mangio questa minestra”, “non voglio andare a quella festa”, “oggi non mi
va di andare in palestra”. A questo punto spetta agli adulti introdurre mediazioni
e trovare compromessi.
In quanto soggetti, non solo di assenso ma anche di dissenso, i bambini si sentiranno autorizzati a rifiutare proposte che possono pervenire da un mondo, non
necessariamente esterno alla famiglia, carico di lusinghe e di minacce.
La tentazione più forte dei genitori, direttamente proporzionale al loro amore,
è che i figli crescano come loro vorrebbero che fossero, conformi al loro modello.
Ma vi è, in questa comprensibile pretesa, una componente narcisistica. La generosità dell’amore parentale consiste piuttosto nel lasciare ai figli margini di autonomia, di sperimentazione, di auto-realizzazione, perché diventino davvero se stessi.
Non c’è solo un modo giusto per fare le cose. Il futuro dei figli non è del tutto nelle
vostre mani, avranno molte scelte su cui misurarsi spontaneamente. L’educazione
ricevuta sarà importante ma ogni generazione possiede le risorse per superare i
problemi della sua epoca. Abbiate fiducia in loro e loro l’avranno in se stessi.
Saperi ed esperienze 81
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I bambini troppo buoni, che accondiscendono in tutto per tutto alle richieste
dei genitori, che non pongono mai problemi, finiscono spesso per diventare adolescenti malinconici.
In questi ultimi anni i problemi dei ragazzi difficili sono profondamente cambiati: non sono i figli ribelli del ‘68, né quelli alternativi degli anni ‘70, e neppure
i consumisti degli anni ‘80 (i cosiddetti “paninari”, “firmati” dalla testa ai piedi).
Sono piuttosto ragazzi che non vogliono più niente, che non chiedono nulla, salvo
rifugiarsi nello sballo del sabato sera. Spesso la prima sbornia e la prima sigaretta
s’incontrano a 12 anni.
Come prevenire tali devianze? Dando loro la possibilità di compiere delle scelte
e di assumersi la responsabilità delle conseguenze. Ma per far questo dobbiamo,
noi adulti, concedere ambiti di libertà, accettare ragionevoli margini di rischio,
tollerare possibilità di errore. Se i bambini crescono sempre sotto lo sguardo vigile
degli adulti non impareranno mai a far parte del gruppo dei coetanei conservando
la propria autonomia, a rifiutare proposte allettanti ma pericolose, a non uniformarsi per paura dell’isolamento, a non omologarsi per timore della differenza.
Spesso i genitori restano sconcertati nell’osservare che i figli ricercano al tempo
stesso l’originalità e il conformismo.
La contraddizione nasce dal bisogno di sfuggire ai condizionamenti familiari
e di sentirsi, al tempo stesso , appartenenti al gruppo, rispondenti ai suoi modelli.
A differenza del passato ora gli adolescenti, sempre più precoci, saltano dall’infanzia all’adolescenza senza progressione, d’un balzo, perché la scala evolutiva
sembra aver eliminato i gradini intermedi. Prima sei un bambino, dopo sei un
ragazzo o una ragazza.
Solo ascoltando le esigenze dei figli, cogliendo la sana voglia di crescere che si
cela anche nelle richieste che vi fanno paura, potrete procedere insieme. L’adolescenza è una stagione della famiglia, non soltanto dei figli.
L’ultimo libro sull’educazione che ho ricevuto s’intitola: Manuale di manutenzione del bambino, ma i bambini non sono una motocicletta e i genitori non sono
dei meccanici. Li paragonerei piuttosto a degli artisti perché ogni bambino è un
capolavoro, non riproducibile, diverso da tutti. Uguale solo a se stesso.
E per finire...
Mettere al mondo e crescere un figlio è l’avventura più bella, ma non ci appartiene mai del tutto, non ne siamo gli unici autori. Cerchiamo pertanto di collaborare, non soltanto per dovere, ma anche per piacere.
Credo che le famiglie e gli insegnanti condividano lo stesso scopo: che i bambini crescano nel modo migliore, esprimendo le loro potenzialità, raggiungendo i
loro obiettivi.
Tanto meglio se il percorso verrà confermato da segnali positivi quali benessere, curiosità, piacere, allegria, voglia di stare insieme e (perché no?) felicità.
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Per educare i bambini occorre amarli, altrimenti è addestramento, addomesticamento. E quando amiamo qualcuno vogliamo, non solo il suo bene, la sua
realizzazione, ma anche che stia bene con se stesso e con gli altri.
Come scriveva Platone nel IV secolo Avanti Cristo: “Non inducete i ragazzi ad
apprendere con la violenza e la severità, ma guidateli invece per mezzo di ciò che li
diverte, affinché possano meglio scoprire l’ inclinazione del loro animo”2.
*Psicologa e Docente Emerita di Psicologia dinamica presso il Dipartimento di
Filosofia dell’Università di Pavia.
2 Platone, Repubblica, Libro VII.
Saperi ed esperienze 83
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Dossier 85
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Quando la comunità è comunità
educante?
Un’analisi condotta sulla base della dicotomia Gemeinschaft-Gesellschaft (comunità-società) e sul significato dell’aggettivo educante, inteso in termini di presenza di un sistema di servizi in grado di affrontare i nuovi bisogni e le nuove
esigenze di carattere socio-educativo e assistenziale.
Marco Taddei*
La ricerca di “comunità educante” sulla Rete dà come risultato più immediato
una lista di gruppi comunitari che, in varie forme, si fregiano di questo titolo,
seguito di solito da un riferimento (Comunità educante di....) o dal nome. Ebbene, non è di questa tipologia di comunità educante che intendo occuparmi nel
seguito di questo scritto; mi interessa piuttosto prendere in considerazione e analizzare quella definizione quando essa si riferisce ad un’entità sociale, la comunità,
nell’espressione delle sue potenzialità educative nei confronti, prima di tutto, degli
individui che di tale comunità fanno parte.
L’epoca post-industriale, la globalizzazione e i nuovi assetti socio-economici
che ne sono derivati hanno contribuito profondamente alla nascita di esigenze e di
bisogni educativi prima sconosciuti, rispetto ai quali le risposte delle tradizionali
agenzie educative, la famiglia in primis ma anche l’insieme di enti, istituzioni e servizi che l’accompagnano in questo compito, appaiono non essere del tutto adeguate o perlomeno sufficienti. Di fronte a questa situazione la riflessione pedagogica,
nel tentativo di superare e risolvere quelle insufficienze e quelle inadeguatezze,
prova a fare spesso ricorso alla nozione di comunità educante, intesa come “nuovo”
soggetto ad “estensione variabile” (comunità locale, nazionale o di grado intermedio, a seconda delle problematiche da affrontare) capace di riempire il vuoto
educativo lasciato dalle altre agenzie, attraverso lo sviluppo e la valorizzazione di
processi sinergici e di empowerment delle risorse presenti al proprio interno.
Per chiarire meglio ciò a cui mi riferisco quando parlo di nuovi bisogni educativi e delle difficoltà di risposta dell’attuale sistema di agenzie, credo sia opportuno
richiamare ed elencare una serie di fenomeni che hanno prodotto e stanno producendo profondi cambiamenti della nostra struttura sociale e delle sue dinamiche interne: a) il processo di passaggio dal modello della “famiglia allargata”, di
tradizione contadina, a quello della “famiglia mononucleare”, costituita anche da
“coppie di fatto”, che necessariamente porta a un certo “allentamento” dei legami
con le famiglie di origine dei nuovi nuclei e, conseguentemente, a nuovi stili di
vita, di relazione, educativi, al loro interno (il cambiamento da “famiglia normativa”
di tipo patriarcale e tradizionale all’attuale “famiglia affettiva”) e nuovi rapporti
con l’esterno; b) il cambiamento della condizione femminile, caratterizzato da un
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innalzamento generalizzato del livello di istruzione e culturale delle donne, da una
loro maggiore indipendenza, autonomia e libertà rispetto al ruolo familiare storicamente assegnato loro, dal loro inserimento nel mondo del lavoro, dell’impegno
sociale e della politica; c) il mutamento, all’interno della famiglia affettiva, dei ruoli
storici della figura paterna e di quella materna: è soprattutto la figura del padre che
è coinvolta in un processo di “maternalizzazione”, con l’abbandono delle funzioni educative tradizionali di carattere normativo e la contemporanea acquisizione di
quelle che fanno invece riferimento all’ambito affettivo; d) il bisogno e la necessità
di servizi di cura, educazione e gestione dei figli, soprattutto dei più piccoli, a seguito
degli impegni di lavoro ed extra-familiari di entrambi i genitori, di una diminuita
“disponibilità” di nonni e parenti a svolgere queste funzioni, nonché dell’importanza che viene attribuita ai processi di socializzazione dei bambini fin dalla loro più
tenera età; e) l’aumento del numero di separazioni e divorzi e, conseguentemente, in
presenza di figli, il problema della loro “gestione”, quello dei nuclei familiari monoparentali o “ricostituiti” da persone con una precedente esperienza di matrimonio
(o convivenza) e con figli nati da queste relazioni; tutti fenomeni che implicano il
sorgere di nuove problematiche affettive e di relazione di fronte alle quali gli adulti
mostrano molto spesso deficit educativi e incapacità di gestione delle dinamiche
relazionali e comunicative; f) l’attuale condizione giovanile, caratterizzata da ampi
fenomeni di disagio, di comportamenti a rischio, di uso e abuso di droghe e alcol,
dall’allungamento del periodo adolescenziale e di dipendenza dalla famiglia, dalle
insufficienze formative ed educative del sistema scolastico, dalla precarietà e comunque da uno stato generalizzato di ansia e di insicurezza nei confronti di un futuro
sempre più minaccioso e incerto; g) l’attuale condizione, in parallelo alla precedente,
della popolazione anziana, in costante aumento, che pone da una parte il problema
del “riutilizzo” delle molte risorse di coloro che, raggiunta l’età della pensione, sono
ancora in un ottimo stato di salute fisica e mentale e quindi, almeno potenzialmente,
pienamente attivi, e dall’altro il problema della cura e dell’assistenza di chi invece ha
perso l’autosufficienza; h) il fenomeno dell’immigrazione, con le sue mille sfaccettature sul versante dell’accoglienza, dell’integrazione e della qualità dell’inclusione
di questi cittadini all’interno di una società che, soprattutto in presenza di una crisi
economica come l’attuale, vede costantemente ampliarsi lo strato di popolazione
autoctona che cade nella fascia della povertà; i) l’aumento generalizzato del malessere
e del disagio sociale, psichico ed esistenziale in tutti gli strati della popolazione; l) la
condizione attuale di chi, adulto o minore, è portatore di handicap fisico o psichico.
Sulla base di quanto detto all’inizio dunque, è la comunità educante che, prima,
dovrebbe farsi carico ed accogliere la complessità e l’articolazione delle problematiche appena descritte, poi, dare risposte adeguate ai nuovi bisogni educativi che
da queste scaturiscono.
A questo punto però è necessario approfondire il significato stesso della definizione “comunità educante” per capire se e come questo soggetto è in grado di
svolgere compiti, funzioni e ruolo che fino ad ora le sono stati assegnati in modo
però troppo vago e generico.
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Dall’analisi di tale definizione emergono, a mio parere, almeno due significati
principali, a seconda che si ponga l’attenzione e l’accento sull’aggettivo “educante”
o sul sostantivo “comunità”.
Nel primo caso, il caso in cui si pone l’attenzione sull’aggettivo, si può pensare
che la comunità educante sia quella in grado di esprimere un sistema coordinato
e ben gestito di servizi socio-educativi e assistenziali (dai servizi per l’infanzia a
quelli per le famiglie, dai servizi per i giovani e gli adolescenti a quelli per la terza
età e gli anziani, dai servizi per gli immigrati a quelli rivolti al disagio sociale,
esistenziale e alla disabilità) come frutto di un’operazione di “ingegneria sociale”
derivante da politiche attente e sensibili ai bisogni della gente e dalle cosiddette
“buone prassi”.
Usando una terminologia ripresa dal linguaggio della matematica credo si possa affermare che l’elemento del sistema dei servizi con quelle caratteristiche risulti
“necessario” alla definizione di comunità educante; non credo tuttavia che esso
possa essere considerato anche e contemporaneamente “sufficiente”, una volta che
l’attenzione si sposta dall’aggettivo al sostantivo della “comunità”, come cercheremo di argomentare qui di seguito.
Da un punto di vista etimologico il termine “comunità” deriva dal Latino “communitatem”, accusativo di “communitas”, “comunanza”, astratto di “communis”. Dal
punto di vista del significato il termine è definito, per esempio sul Grande Dizionario
Italiano di Aldo Gabrielli (Hoepli), come “Insieme di persone aventi in comune origini,
tradizioni, lingua e rapporti sociali in modo da perseguire fini comuni”. Nell’ambito
del linguaggio scientifico il significato tecnico del termine non è sempre di facile e
immediata definizione dal momento che “comunità” è uno di quei concetti fondamentali che appartengono a più discipline contemporaneamente: pur essendo usato principalmente in Sociologia ed in Antropologia, esso appartiene, per esempio,
anche alla Filosofia, al Diritto e alle Scienze Politiche, per non parlare del pensiero
teologico e religioso. Oltre che nel linguaggio scientifico, il termine è usato anche
in quello corrente e questo fatto naturalmente determina una ulteriore quantità di
significati diversi che spesso si sovrappongono e che possono dar luogo a problemi di
specificazione concettuale e scarsa portata euristica.
Per risolvere, almeno in parte, la questione si può optare di rifarsi alla dicotomia comunità-società introdotta da un maestro della Sociologia, Ferdinand Toennies, nella sua opera più famosa intitolata appunto Gemeinschaft und Gesellschaft
(Comunità e Società), pubblicata alla fine del XIX Secolo1.
Puntando subito al nocciolo del problema e cercando quindi, da una parte, di
estrarre dal pensiero del sociologo tedesco ciò che qui più ci interessa, senza andare troppo per il sottile, e, dall’altra, accennando soltanto all’ampio dibattito che
vide impegnati su questi temi per tutto l’Ottocento e oltre studiosi e personaggi
provenienti da varie discipline e con diverse impostazioni come Hegel, Disraeli,
1 Toennies F., Gemeinschaft und Gesellschaft, Leipzig, Reislad, 1887; trad. it. di G. Giordano,
Comunità e Società, Milano, Ed. Comunità, 1963.
88
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Spencer, Proudhon, Otto von Gierke, F.W. Maitland, Durkheim e Weber, si può
dire che mentre la comunità rappresentava (rappresenta) il luogo della solidarietà,
della vicinanza emotiva, della solidità dei rapporti sociali, della cooperazione, tra
gli individui che ne facevano (ne fanno) parte, un aggregato la cui forza motivante è la volontà naturale, la società moderna, appare invece, anche sulla scorta del
pensiero sociale di Thomas Hobbes e dei philosophes dell’Età della Ragione, come
un’organizzazione formale, fredda, basata sul concetto di contratto e guidata dalla
volontà razionale, in cui gli individui decidono di mettersi in relazione per raggiungere qualche fine, per ottenere dei benefici. Nel modello Gemeinschaft i legami
tra le persone sono solidi, carichi di significati simbolici: le relazioni, essendo più
particolari, significative e personalizzate, producono una connessione maggiormente connotata in senso morale e i suoi membri percepiscono uno speciale senso
di obbligo a cercarsi reciprocamente. La società moderna, la Gesellschaft, è invece
regolata da logiche individualistiche, egoistiche e di scambio che permeano gran
parte dell’esistenza dei suoi membri e soprattutto definiscono la qualità dei rapporti tra di loro; caratteristico della Gesellschaft è quel fenomeno definito da Emile
Durkheim “anomia”: “Col termine ‘anomia’ [Durkheim] alludeva alla distruzione
di tutti i legami sociali tradizionali, dovuta al fatto che ogni organizzazione veramente collettiva era stata subordinata allo stato, e ogni forma di genuina vita sociale era
stata annientata. Secondo la sua visione, la gente che vive nei moderni stati politici è
un pulviscolo disorganizzato di individui”2.
L’esplicitazione del significato di questa dicotomia spiega, tra l’altro, perché,
anche oggi, quando c’è per esempio bisogno di far ricorso ai fattori unitari e di solidarietà di un’intera società nazionale si ricorre ad un registro linguistico emotivo
che la definisce “comunità nazionale”, saltando a piè pari l’interna contraddizione
che, come abbiamo appena visto, tale definizione pare contenere.
A questo punto però, pur senza assumere l’atteggiamento ingenuo di colui che
crede ad una passata “età dell’oro” o a situazioni idealmente perfette, credo comunque che sia lecito porsi una domanda: chi può pensare ancora oggi di vivere
e/o di lavorare in una comunità sociale che rimanda ad almeno una parte delle
caratteristiche e dei valori del modello della Gemeinschaft, dal momento che le logiche della Gesellschaft hanno avuto il sopravvento e sono, per così dire, penetrate
ovunque, risultate vincenti?.
Forse soltanto coloro che, per discendenza o successiva assimilazione, appartengono a comunità con una lunga storia alle spalle, elemento fondamentale questo che contribuisce alla definizione dell’identità della comunità stessa e crea una
sua memoria, possono dire di trovare segni e tracce di quel modo di vivere e soprattutto di relazionarsi; ma rispetto a quelle comunità comunque definite locali
e/o territoriali che hanno raggiunto l’attuale assetto solo da pochi decenni, come
accade, per esempio, a molte comunità del nord del nostro Paese, formate, oltre
2 Fromm E., Anatomia della distruttività umana, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1975, p.
147.
Saperi ed esperienze 89
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che dalla popolazione autoctona, in larghissima parte da emigrati dal Sud e dal
Nord-Est negli anni del boom economico, che cosa si può dire riguardo alla loro
connotazione come Gemeinschaft? Quanto, anche per le politiche che sono state
fatte, o forse meglio, che non sono state fatte, queste comunità possono definirsi
come luoghi della solidità dei rapporti sociali, della cooperazione, dell’obbligo a
cercarsi reciprocamente e non piuttosto come aggregazioni sociali definite burocraticamente dall’organizzazione dello stato e prive, o quasi, di quelle caratteristiche? Naturalmente la domanda è retorica ed io propendo per la seconda opzione,
sostenuto in questa convinzione anche dal livello di diffidenza, di paura e di ostilità (alimentato ad hoc da alcune forze politiche e dai mass-media) che generalmente
si riscontra nei confronti dei nuovi immigrati, quelli che provengono da altri Paesi,
e che dovrebbero rappresentare i nuovi membri di queste comunità.
Come può questa tipologia di comunità definirsi comunità educante, dal momento
che, anche in presenza di un sistema di servizi socio-educativi ed assistenziali efficiente, essa si esprime soltanto attraverso tale sistema e manca però di un presupposto, di
un soggetto forte e consolidato, la comunità appunto, che lo sostenga? Sembra quasi
che proprio attraverso il sistema di servizi si tenti di costruire una insieme di valori
comunitari che però è frutto soprattutto di esperienze storiche condivise. E’ possibile
questa operazione? O non c’è piuttosto il rischio che tutto si risolva, come dicevamo in
precedenza, in azioni di “ingegneria sociale” sorrette da “buone prassi”, ma “asettiche”
e incapaci di incidere effettivamente nel tessuto sociale di queste comunità?
Riprendendo quanto scritto in precedenza, questi sono i motivi principali che mi
inducono a dubitare del fatto che l’elemento “sistema di servizi” sia sufficiente, oltre
che necessario naturalmente, alla definizione e soprattutto alla realizzazione di una
vera comunità educante; credo pertanto che, se l’obiettivo è questo, sarebbe opportuno dedicare un’attenzione, un impegno specifici e mettere in atto azioni altrettanto
specifiche alla costruzione e al consolidamento di legami sociali che non esistono o
sono talmente deboli da mettere in discussione lo stesso concetto di comunità.
D’altra parte anche prendendo in esame quelle comunità più connotate e connotabili in termini di Gemeinschaft, si riscontrano alcune caratteristiche che contrastano fortemente con la definizione di comunità educante. La principale credo
possa essere individuata in una sorta di ciò che Eric Fromm chiama narcisismo di
gruppo: “Nel narcisismo di gruppo, dove l’oggetto non è l’ individuo ma il gruppo cui
appartiene, l’ individuo può essere pienamente consapevole del proprio narcisismo ed
esprimerlo senza restrizioni. Affermare che ‘ la mia patria’, (o la mia religione, o la
mia nazione [o la mia comunità, aggiungiamo noi] sono le più meravigliose, colte,
potenti, pacifiche, [degne, oneste, forti, intelligenti, perfette], ecc., non solo non suona pazzesco, ma passa per espressione di patriottismo, fede, lealtà, [senso profondo di
appartenenza], oltre che per valutazione realistica e razionale, essendo condivisa da
parecchi membri dello stesso gruppo. Grazie a questo consenso, la fantasia si trasforma
in realtà: per la maggioranza, infatti, la realtà è costituita dal consenso generale, e non
è fondata sulla verifica critica, sulla ragione. Il narcisismo di gruppo ha funzioni importanti. In primo luogo incentiva la solidarietà e la coesione della comunità, facilita
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la manipolazione, proprio facendo leva sui pregiudizi narcisistici. In secondo luogo,
è un elemento estremamente importante poiché soddisfa i membri del gruppo e particolarmente quelli che hanno ben poche altre ragioni di sentirsi orgogliosi e validi”3.
Il narcisismo di gruppo, come meccanismo che tende a perpetuare l’individuazione particolare e l’isolamento della comunità (Gemeinscaft) nei confronti della
società (Gesellschaft), attraverso l’esaltazione della perfezione della prima rispetto
alla seconda, può facilmente impedire ai suoi membri, prima, di cogliere a pieno le
nuove problematiche di natura sociale da cui tutte le comunità oggi sono attraversate, e poi di approntare gli strumenti necessari per affrontarle. Il risultato finale
è che, in questa tipologia di comunità, spesso si sottovaluta la necessità e l’importanza di creare sistemi strutturati di servizi perché in qualche modo si crede che la
comunità stessa, proprio in quanto aggregazione eminentemente positiva, possieda al proprio interno antidoti, risorse, capacità ed energie naturali e spontanee in
grado di far fronte, affrontare e risolvere le situazioni problematiche; così spesso ci
si trova spesso impreparati di fronte ai nuovi problemi e si apprestano strumenti
improvvisati, inadeguati, inefficaci, basati sul modello “autarchico-fai da te”.
Il narcisismo di gruppo, con l’idealizzazione della comunità e delle sue forze
spontanee, produce inoltre una serie di conseguenze negative che ostacolano ulteriormente la comprensione e la consapevolezza dei fenomeni che stanno effettivamente attraversando una comunità nel corso del suo processo evolutivo, conseguenze che sono e sono state indagate, oltre che dalla Sociologia, dalla Psicologia
Sociale dei gruppi4.
Si è ragionato in questo contesto su due modelli opposti di comunità, uno,
diciamo così, più Gesellschaft, l’altro più Gemeinschaft, e sul significato dell’aggettivo educante, inteso in termini di presenza di un sistema di servizi in grado di
affrontare i nuovi bisogni e le nuove esigenze di carattere socio-educativo e assistenziale che qualche decennio non esistevano o erano più trascurabili, arrivando
alla conclusione implicita che per la realizzazione della comunità educante oggi, è
necessaria una giusta miscela composta dalla presenza di un forte spirito comunitario e, contemporaneamente, dalla presenza del suddetto sistema di servizi.
La dicotomia Gemeinschaft-Gesellschaft ha guidato e condizionato queste riflessioni sul significato dell’espressione comunità educante: sono perfettamente
consapevole della parzialità e della opinabilità di quanto sono venuto scrivendo
e oltretutto non è detto che questa sia la strada giusta da seguire per affrontare
l’argomento. Credo però che, al di là di questo, ci sia un bisogno urgente di indagarlo, analizzarlo e approfondirlo perché quell’espressione “rischia” di diventare di
importanza fondamentale di fronte alle insufficienze che mostrano sempre più le
agenzie educative tradizionali.
*Pedagogista e formatore
3 Id, p. 257.
4 Vedi, solo per fare un esempio, R. Brown, Psicologia sociale dei gruppi, Bologna, Il Mulino, 1990.
Saperi ed esperienze 91
Pedagogika.it/2011/XV_2/Il_viaggio/Denise_Puglia/la_via_della_seta_2010/Canal2
Pedagogika.it/2011/XV_2/saperi_ed_esperienze/quando_la_comunità_è_comunità_educante
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Pedagogika.it
Genitori inconcepibili
Di volta in volta, il teorico ed il pratico hanno dovuto fare i conti con la messa in
discussione dei modelli consolidati di educazione, per attribuire un nuovo senso
al proprio ruolo. In questo caso, il campo di intervento educativo su cui riflettere
non è solo “quale educazione per i figli e le figlie di genitori omosessuali”, ma
anche “quale formazione per gli educatori e le educatrici” fino a pensare “quali
apprendimenti promuovere nella società” per prendersi carico di questo tema.
Massimo Michele Greco*
Un corso di formazione a pochi isolati da dove abito, nella sala consiliare del Municipio XI, una vasta zona di Roma che va all’incirca dalla Garbatella all’EUR. E’
durato due brevi pomeriggi a distanza di una settimana ed è stato organizzato dall’Associazione Genitori Omosessuali Famiglie Arcobaleno 1, con il titolo “Le Famiglie Omogenitoriali in Italia: una realtà del nostro tempo” 2. Un evento rivolto ad educatori/trici
di asili nido e insegnanti di scuole dell’infanzia, a cui sono andato portandomi la mia
curiosità di educatore di adulti, la mia sollecitudine di infermiere e il mio spirito critico
di maschio interessato alle questioni di genere. Pur non essendo educatore di asilo
nido, né genitore omosessuale, ho attribuito quindi molta rilevanza a questo evento:
ero interessato non solo alle questioni pedagogiche riguardanti la cura educativa di figli
e figlie di genitori omosessuali ma soprattutto, dal punto di vista del mio interesse principale, quali sono gli strumenti ed i percorsi per educare gli educatori adulti nel campo
dell’accoglienza e della presa in carico di soggettività inconsuete, non riconosciute dal
discorso pubblico più conservatore e spesso stigmatizzate. Credo che l’emersione di
1 “Famiglie Arcobaleno – Associazione Genitori Omosessuali” nasce nel 2005 dalla formalizzazione delle relazioni personali createsi soprattutto sul forum di discussione su Internet di mamme
lesbiche, con qualche incontro in presenza. Si è voluto quindi dare vita ad un’associazione mista
largamente rappresentativa, includendo anche il contributo dei papà gay, con l’obiettivo di scambiarsi informazioni, letture, consigli, esperienze, per acquistare visibilità, prendere voce e esistere
come soggetti sociali, ma anche per creare occasioni sociali dove i bambini figli di omosessuali
possano confrontarsi con coetanei che vivono la stessa situazione. In particolare, l’associazione
si propone di ripensare il tema della famiglia e promuovere intorno ad esso un cambiamento
culturale, sociale e politico; favorire il confronto tra genitori o aspiranti genitori omosessuali e
diffondere gli strumenti culturali necessari alla crescita dei loro figli; essere luogo di accoglienza
e di sostegno per i genitori omosessuali che si trovino in difficoltà legate a separazione, comingout con i figli o altro; fornire informazioni sull’auto-inseminazione, sulla procreazione assistita
e sui centri che la attuano in Europa. Tra le varie attività di Famiglie Arcobaleno sono presenti
una linea telefonica; una mailing list; gruppi di auto-aiuto; incontri e aggregazione; centro documentazione sulla genitorialità gay e lesbica; supporto agli educatori scolastici; produzione e
traduzione di testi per bambini; consulenza legale.
2 Corso di Aggiornamento per educatori asili nido ed insegnanti scuole dell’infanzia “Le famiglie
omogenitoriali in Italia: una realtà del nostro tempo”, Sala Consiglio “Piacentina Lo Mastro”,
Municipio Roma XI, Roma. 18 gennaio 2011, 25 gennaio 2011.
Saperi ed esperienze 93
Pedagogika.it/2011/XV_2/saperi_ed_esperienze/
nuove soggettività nel campo delle esperienze affettive e sessuali, e quindi le nuove
richieste rivolte alle agenzie educative e a tutta la società, pongano interrogativi che
ritengo molto pertinenti nell’ambito delle scienze dell’educazione e della formazione.
Ho trovato presenti a questo corso, oltre a un centinaio di persone (la maggioranza
donne, per lo più operatrici del settore) anche alcune facce note delle reti che si intrecciano nella questione GLBTQI1 con l’Associazione Maschile Plurale di cui faccio
parte. Una certa elettricità ha animato l’atmosfera della Sala Consiliare del Municipio
sin dalla prima giornata, un’energia mista tra curiosità, resistenza e resilienza. L’attenzione ricevuta da questa iniziativa dalla cronaca romana del quotidiano Libero e le
frasi offensive scritte da Militia Christi fuori dalla sede dell’evento “Curate i gay - Non
plagiate i bambini” non riescono a spegnere l’entusiasmo che c’è quando si apprende
qualcosa di nuovo insieme. A pochi giorni di distanza, il 27 gennaio, ricorre la Giornata della Memoria dedicata al ricordo delle vittime del nazismo e del fascismo, tra
cui numerosi omosessuali, e la violenza del messaggio di Militia Christi mi colpisce
allo stomaco. Sono poi molto sensibile all’argomento dell’educazione, avendo da poco
rimuginato sulle ultime esternazioni di Ratzinger sugli approcci all’educazione civile e
sessuale come minaccia alla libertà religiosa mentre ci vorrà meno di un mese affinché
il primo ministro italiano non compiaccia le sue platee conservatrici con l’ennesima
esternazione omofoba o con una rappresentazione della funzione educativa come un
“inculcamento”2. Nonostante il clima culturale e politico, i visi che incontro nella sala
consiliare sono sereni, i volti arrossati e sorridenti e i baci e gli abbracci scoccano quando ci si riconosce. Ma forse non mi accorgo di chi invece è lì con tutte le sue perplessità.
Il percorso educativo inizia il primo giorno con la visione di un breve filmato,
con protagonisti i volti di bimbi e bimbe figli di genitori omosessuali delle Famiglie Arcobaleno. Le loro risposte alla domanda “Da chi è composta la tua famiglia?”
sono sintetiche, semplici e precise. Gli elenchi mi commuovono: ci sono donne,
uomini, sorelle, fratelli, cani e gatti, una lista di legami di amore e fiducia. Mi
lascio rapire come tutti i presenti dalla tenerezza dei loro volti e dalla melodia
delle loro voci, alcune imperiose, altre incerte. Mi sembra che la scelta fatta da
chi ha organizzato il corso sia quella di dire “Partiamo da loro, di questo stiamo
parlando”. Il tema esplicito quindi non è il discutere dei diritti alla procreazione e
alla omogenitorialità, ma il promuovere il diritto che i bambini hanno di ricevere
un’educazione serena e priva di pregiudizi, a prescindere da come e da chi sono
venuti al mondo.
La rivoluzione dei genitori
1 Acronimo per Gay, Lesbiche, Bisessuali, Transessuali, Queer, Intersessuali.
2 “(…) Poter educare i propri figli liberamente vuol dire di non essere costretti a mandarli a scuola in
una scuola di Stato, dove ci sono degli insegnanti che vogliono inculcare principi che sono il contrario
di quelli che i genitori vogliono inculcare ai loro figli educandoli nell’ambito della loro famiglia.”
Silvio Berlusconi al Congresso Nazionale dei Cristiano Riformisti, 26 febbraio 2011.
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Giuseppina La Delfa, presidentessa di Famiglie Arcobaleno, mi colpisce con una
frase che più o meno ricordo così: “Finché avere figli era solo un nostro sogno, non
sentivamo la necessità di visibilità. Vivevamo al chiuso dei nostri ambienti sociali tolleranti e quando ne uscivamo ci mettevamo una maschera. Quando sono arrivati i figli,
abbiamo capito che se non uscivamo dalla clandestinità, avremmo allevato i nostri figli
come dei mostri”. Alludeva alla schizofrenia di vivere e nominare in casa rapporti di
parentela che, per difendere la maschera di rispettabilità, fuori casa venivano negati. Per cui quella che in casa era la mamma, fuori diventava la tata o la zia. Invece
“Qui si respira” perché si è in una prospettiva aperta, di inclusione, come dirà poi
Ettore Ciano, componente dell’Associazione Genitori di Omosessuali AGEDO3. Il
lapsus nel considerare queste due associazioni è in agguato se non si mette a fuoco
la particella “di”. Laddove i soci e le socie di Famiglie Arcobaleno sono omosessuali,
quelli e quelle di AGEDO no, ma hanno figli e figlie omosessuali. Eppure i due
discorsi si intrecciano proprio sul piano dell’inventarsi dei modelli di genitorialità
non tradizionali. Con il suo consueto amoroso furore retorico, Ettore è stata la voce
più potente e avvincente: c’è di mezzo l’amore genitoriale, il desiderare per i propri
figli le stesse opportunità di realizzazione degli altri e delle altre, compreso l’essere
a loro volta genitori. E per i genitori AGEDO, essere nonni e nonne. Ettore quindi
confessa anche quanto di egoistico c’è nella sua appassionata difesa, coniando un
incredibile neologismo: “Come fare ad avere dei nipotini da spupazzare, se non a costo
di accettare una “nonnomogenitorialità?”. Il suo accorato appello di nonno, stravolto
dalla diversità biografica ma pronto ad amare, ha puntato direttamente al cuore delle
professioniste presenti, alla loro responsabilità di mettere in discussione, di fronte
all’ennesima eccezione, i propri paradigmi, non solo quelli pedagogici.
Non sono genitore, non conosco l’esperienza dell’oblatività genitoriale se non
come suo destinatario. Penso che amare un figlio stigmatizzato dalla società comporti un ripensamento che non può limitarsi alla propria sfera individuale ma che
deve incidere anche sulla sfera collettiva. In questo caso, il desiderio di creare una
condizione favorevole per i figli presenta degli interrogativi la cui complessità riesco
a rintracciare solo per alcuni elementi. Ogni ferita che il mondo procura a questi
figli amati, perché non li riconosce, perché ne mortifica e svilisce gli affetti, perché
3 L’Associazione Genitori di Omosessuali (A.GE.D.O.) è nata nel 1992 ed è costituita da genitori,
parenti e amici di uomini e donne omosessuali, bisessuali e transessuali e si impegna per l’affermazione dei diritti civili e dell’identità delle persone GLBTQ. Gli scopi dell’Associazione sono:
fornire aiuto, ascolto e solidarietà alle famiglie che hanno figli/e omosessuali; di intervenire nelle
situazioni di emarginazione e disagio sociale legate alla condizione omosessuale per rimuovere
l’omofobia nei singoli e nella collettività; organizzare convegni, seminari, corsi di formazione
per genitori, educatori ed insegnanti promuovendo l’educazione al rispetto delle differenze; rivendicare i diritti civili delle persone omosessuali, bisessuali e transessuali affinché vengano
riconosciuti dalla legislazione italiana in accordo con le direttive europee; realizzare strumenti
educativi e materiali di ricerca sulle tematiche inerenti a famiglia e omosessualità in campo
psicologico e sociologico; offrire gratuitamente servizi di accoglienza a giovani e adulti omosessuali, ai loro genitori e a tutti coloro che si trovano in una situazione di disagio e necessitano del
supporto di operatori qualificati.
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toglie loro la dignità e ne limita la realizzazione, è una ferita che il genitore amante
sembra avvertire nelle viscere. Il dilemma si articola tra istanze di assimilazione e di
adeguamento, sul terreno del potere genitoriale e della consueta richiesta di affrancamento da esso dei figli. E’ il mondo che deve fare loro spazio o sono questi figli
che devono “guarire dall’omosessualità”? E in questo percorso, quando e fino a che
punto i genitori devono avere un ruolo? Per assumersi in maniera piena ed efficace la
responsabilità di un cambiamento che rispetti l’autodeterminazione del figlio o della
figlia e che sia richiesto con forza alla società, immagino che il genitore dovrà fare
un percorso in cui prende coscienza della ferita che lo stigma apre direttamente nella
propria persona e riconoscere di dover trasformare in positivo l’interrogativo “Cosa
ho fatto per meritarmi questo?”. Si parte da una presa di coscienza e da un’ammissione del grado di alienazione, propria e del mondo, e per amore ci si prende carico
della responsabilità di soluzione. Si diventa così rivoluzionari, o per lo meno riformisti, a partire da una relazione affettiva e all’interno della questione della costruzione
culturale dei generi, il che mi sembra un tema molto attuale.
L’omogenitorialità fa senso alla cura educativa
Nel corso dell’evento formativo emerge la questione della procreazione omogenitoriale, che nel discorso comune è intrecciata con il discorso della genitorialità.
In un manuale educativo sull’omogenitorialità Il Libro di Tommi 4, presentato nel
secondo incontro, si spiega che queste famiglie possono essere “di prima costituzione” (i figli nascono dal progetto di coppia omosessuale) o “ricostituite” (i figli
nascono da una precedente relazione eterosessuale), anche se i percorsi biografici
a volte possono presentare molte combinazioni diverse. La domanda emerge inevitabile dal pubblico, nella veste più semplice dell’ignoranza circa le modalità di
procreazione attuate in caso di coppia maschile “di prima costituzione”. Un’operatrice, che aveva al nido i figli di due padri gay, racconta “…quando poi i due padri
hanno avuto il secondo figlio…”. Una sua collega dal pubblico interrompe perplessa,
chiedendo molto direttamente da dove fosse venuto il secondo figlio, perché non
capiva come e da chi era stato “fatto”.
4 G. Beppato, M. T. Scarano, illustrazioni di L. Monticelli, Il Libro di Tommi – Manuale educativo
e didattico su scuola e omogenitorialità, Edizioni Il Dito e la Luna, Milano, 2010. Pubblicato con il
patrocinio del Comune di Torino e con il finanziamento dell’Associazione Famiglie Arcobaleno,
il manuale è stato scritto da due socie che animano il gruppo dedicato alle iniziative educative e
formative sul tema dell’omogenitorialità. Il testo si propone come “strumento di riflessione operativa, la cui finalità è quella di fornire una conoscenza dei contesti di crescita dei bambini con famiglie
omogenitoriali, offrire indicazioni su come facilitare la comunicazione tra scuola e famiglia, favorire
l’ inserimento dei bambini con famiglie omogenitoriali, offrire indicazioni su come facilitare la comunicazione tra scuola e famiglia, favorire l’ inserimento dei bambini nel contesto classe”. La prima
parte del libro, animata da un fumetto, racconta un immaginario percorso di vita scolastica di
un bambino (Tommi, appunto) di genitori omosessuali, mettendo in luce le buone pratiche degli
insegnanti ma anche le difficoltà incontrate dall’asilo alle scuole secondarie. La seconda parte è
dedicata agli approfondimenti con saggi di Chiara Bertone, Fabrizio Paoletti, Giuliana Beppato,
Margherita Graglia, Sara Lussa. Chiude il libro un’ampia bibliografia e filmografia.
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Ho supposto che la domanda svelasse un confine di pensabilità: mentre il primo
figlio poteva essere nato da una relazione eterosessuale poi interrotta, il secondo figlio,
avuto a coppia gay consolidata, era venuto in seguito a qualcosa che stava al di fuori
della scena dell’accettabilità. Insomma inconcepibile. Un conto che un gay sia padre per
caso o che una lesbica porti in eredità un figlio concepito in una precedente relazione
eterosessuale; un conto che lo si faccia apposta. Si è creata così una certa confusione,
un interessante stallo. Da una parte si domandava “Ma di chi è figlio?” e dall’altra si
rispondeva “Dei due papà”. Finalmente il padre gay interviene e spiega di essere ricorso a una metodica di “Gestazione di sostegno” (conosciuta anche come “Gravidanza
surrogata”). “In questo sono in compagnia di parecchie star!” dice scherzando, elencando quindi i vari personaggi famosi che sono ricorsi a percorsi “non naturali”: Elton
John, Nicole Kidman, Ricky Martin, Gianna Nannini e altri famosi personaggi dello
spettacolo. Autoironia apprezzabile, ma anche rassicurante, avendo il gossip mediatico
aggiornato anche le persone più refrattarie sulle questioni della procreazione alternativa al rapporto etero-sessuale. La parola chiave usata come ponte per generare una
qualche comprensione, per accettare i percorsi omogenitoriali di prima costituzione, è
stata “coppia sterile”. Lì per lì mi sembrava un vezzo, che poteva risultare complicato
da capire a gran parte del pubblico. Nominandosi invece in questo modo, i genitori di
Famiglia Arcobaleno hanno potuto paragonarsi in modo semplice ed efficace a tante
altre coppie sterili eterosessuali. “Nessuno chiede alle coppie eterosessuali se sono andati in
Belgio a fare un figlio”, ha riassunto in sostanza Giuseppina La Delfa.
La questione delle coppie “ricostituite” rappresenta l’area dei vissuti individuali
più problematici perché, a quanto riferito dalle relatrici, la persona spesso si trova
in un percorso di disorientamento identitario personale. Spesso poi il precedente
rapporto eterosessuale porta in eredità problemi di relazione con l’ex che possono
sfociare anche in azioni legali che sfruttano la tesi dell’omosessualità come condizione di incapacità genitoriale. Il discorso dell’inadeguatezza, che sia attribuita
dal considerare l’omosessualità una patologia psichiatrica oppure una devianza
morale, è stato smontato su numerosi fronti, hanno spiegato al corso: dalle evidenze scientifiche fornite dal prof. Vittorio Lingiardi dell’Università La Sapienza, alle
risultanze sociologiche, alla viva voce dei protagonisti e delle protagoniste. Durante il primo incontro, mi è sembrato di sentire due operatrici, sedute accanto a me,
che al vedere sullo schermo le fotografie di una coppia di uomini che allattavano
con il biberon un neonato si confidavano sottovoce che l’immagine “Faceva senso”.
Anch’io in effetti dicevo a me stesso che un senso nuovo si era prodotto dentro di
me, come persona, come maschio e come curante.
Le professionalità e i ruoli implicati nell’educazione sono molto vicini a quelli
legati all’assistenza sanitaria: entrambi rientrano nel tema più ampio del “aver cura”,
come dice Luigina Mortari. Questo corso di aggiornamento ha messo a disposizione
una possibilità di trasformazione, al fine di sviluppare nelle professioni educative un
modo diverso di accogliere e prendersi cura. Se viene assunta “la cura” come dato
ontologico, “l’intenzionalità” come funzione dell’esperienza educativa, la “progettualità” e la “autodeterminazione” come finalità generali, bisognerà fare i conti con
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la domanda specifica che il “volto dell’altro” ci rivolge, come dice Levinas, e con la
richiesta di prendersi la responsabilità di riconoscere e di ascoltare la vulnerabilità
dell’altro, come ci indica il principio di responsabilità di Jonas. Questo diventa ancora più importante laddove il fenomeno che ci trova coinvolti come curanti appartenga a qualcosa di straniante, non familiare, apparentemente eccentrico. In questa
ottica, cura educativa e cura dei bisogni di salute della persona hanno qualcosa da
scambiarsi in termini di saperi. La cura, oltre che portare beneficio, problematizza
sempre le relazioni tra curato e curante, anche sui temi GLBTQI. Prendersi cura
vuol dire essere in movimento continuo, cercando un baricentro di volta in volta
diverso tra il nostro peso e quello dell’altro. E’ una danza di riconoscimento, accoglienza, potere, supporto e trasformazione, che comporta sempre un posizionamento
etico e un confronto sui valori e sui saperi, per le inevitabili divergenze rispetto a ciò
che si pensa essere giusto ed adeguato al benessere.
Nella storia delle istituzioni educative e pedagogiche, le svolte determinate dai
cambiamenti (sociali, civili, tecnologici, etc.) hanno comportato trasformazioni
paradigmatiche che hanno arricchito la scienza educativa stessa e ne hanno confermato la necessità di considerarsi sempre parziale. Si pensi all’abbandono dell’idea
che ci fossero nelle donne determinate caratteristiche biologiche e attitudinali in
base alle quali fosse opportuno che fossero elaborati curricoli specifici per genere;
al superamento delle classi monogenere e alla creazione di classi miste; all’inclusione della prospettiva interculturale come apertura verso i fenomeni crescenti delle
migrazioni ma anche come arricchimento conoscitivo ed esperienziale; alla rappresentazione contemporanea dell’età adulta come un’età in cui ancora c’è bisogno,
voglia e capacità di imparare; alla necessità di considerare il proprio bagaglio di
competenze e conoscenze come temporaneo, in continuo aggiornamento. Di volta
in volta, il teorico ed il pratico hanno dovuto fare i conti con l’esplorazione e la
messa in discussione dei modelli consolidati di educazione, per attribuire un nuovo senso al proprio ruolo e per cercare nuovi strumenti e nuove cornici metodologiche. In questo caso, il campo di intervento educativo su cui riflettere non è solo
“quale educazione per i figli e le figlie di genitori omosessuali”, ma anche “quale
formazione per gli educatori e le educatrici” fino a pensare “quali apprendimenti
promuovere nella società” per prendersi carico di questo tema.
L’educazione scandalosa
Mi è sembrato che il pubblico, per lo più femminile, si dividesse tra chi riusciva
a pensare la cosa e chi era sopraffatta dallo scandalo. In termini di educazione e
apprendimento, mi sembra un’ottima occasione partire da uno scossone dei presupposti di partenza. La sensazione però era che con le modalità di aula frontale
non si potevano accogliere e far maturare i dubbi e le resistenze che questo capovolgimento creava. Laddove invece le partecipanti si sono sentite coinvolte e hanno
potuto partecipare al percorso di costruzione dell’apprendimento, attraverso ad
esempio un simpatico e divertente gioco sugli stereotipi animato da Maria Tina
Scarano, referente del gruppo “Scuola e Formazione” di Famiglie Arcobaleno, si
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è confermata la valenza del presupposto teorico principale dell’Educazione degli
Adulti: l’adulto apprende, ossia si trasforma, quando giudica significativo il tema e
partecipa delle modalità di costruzione del nuovo significato.
Quali strumenti, una volta finito il corso, le operatrici avranno per metabolizzare
gli spunti offerti? Per molte di loro, lo shock culturale poteva essere stato importante.
La cornice istituzionale del Municipio e della Sala Consiliare ha aiutato a dare rappresentatività e dignità al discorso, una valenza anche rassicurante, di cui la finalità
educativa si è sicuramente giovata. Due incontri di tre ore con un’aula così numerosa
non sono le condizioni didattiche più adeguate ad un lavoro approfondito. Credo
che sia un bel risultato e che non ci si debba aspettare una catarsi illuminante e un
cambiamento improvviso. Le strutture morali e valoriali che vengono toccate sono
molto radicate ed incorporate e penso che la strada da percorrere sia la semplicità della voce degli affetti, del sentire, oltre a fornire qualche informazione fattuale in più.
Direi che si è riuscito nell’intento di dare una visione solare e aperta della questione,
pur mettendo in campo anche le sofferenze che la società e le persone ignoranti e
giudicanti determinano. Avevo già avuto in passato scambi e contatti con chi viveva
la genitorialità e il tema degli orientamenti affettivi diversi rispetto all’egemonico
modello etero, sia con Famiglie Arcobaleno che con AGEDO. Ho sperimentato in
quelle occasioni una ricchezza particolarmente fertile, per come il discorso degli
affetti profondi e della cura genitoriale possa essere veramente rivoluzionario per
l’intera società, per la concretezza e lo spessore delle questioni poste5.
Rimane una problematicità dei linguaggi e dei presupposti lasciata implicita, che
non trova ancora lo spazio né la maturità d’ascolto e di consapevolezza per essere
tematizzata. Così come, per andare oltre i metodi frontali, ci vorranno spazi, tempi
e competenze adeguate. La dimensione narrativa risulta di nuovo, anche in questo
campo, fondamentale, sebbene presenti alcune criticità. Allo scopo di raccontare
percorsi di vita (percorsi di trasformazione in difensiva dallo stigma sociale) ritorna
nella narrazione biografica omosessuale il tema della “guarigione dall’eterosessualità”, simmetrico, a parer mio, alla “guarigione dall’omosessualità” di certe psicoterapie. E’ un repertorio consolidato nella narrazione egemone che si ascolta nel
movimento GLBTQ, fatto di frasi tipo “Ci si scopre gay e quindi non si è più eterosessuali”, “si diventa gay” e “la difficoltà per chi proviene da un passato eterosessuale di
riconoscere pienamente e serenamente la propria omosessualità”. Sono metafore delle
esperienze dell’affettività e della sessualità spaziali (provenire) ed essenziali (essere,
diventare, identità), a loro modo comunque rassicuranti, perché libere dall’ambiguità e dall’indeterminatezza ma meno in grado di liberare le persone dall’ansia della
certezza. O stai su una sponda, o stai sull’altra. Ma non me la sento di farne una colpa o di sottolineare ciò come un difetto, così come altri aspetti su cui, in altri contesti
politici di confronto GLBTQI, si può diventare molto più antagonisti e radicali: la
paura di un’omogenitorialità maschile rispetto all’omogenitorialità femminile nell’evocare il fantasma spettrale e cupo della pedofilia maschile; il riprodursi di modelli
5 Si veda, ad esempio, l’articolo “Quante volte genitori” in www.maschileplurale.it
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tradizionali di genere solo in teoria contestati; l’ambiguità della posizione rivendicativa rispetto alla distribuzione del potere e alla riconferma di istituzioni tutte da
discutere, come ad esempio il matrimonio; gli ammiccamenti a modelli provenienti
dalla società dello spettacolo; la visione identitaria e granitica degli orientamenti. Mi
domando se questi punti, che io sento problematici, siano materia solo di confronto
politico o debbano diventare parte dei temi di dibattito educativo, o se sia mai possibile separare le due dimensioni.
Un ultimo cenno. Ho assistito con questo corso all’esito di una collaborazione
tra due modi di essere in relazione come uomini e come donne, che spesso si tengono ad una distanza separatista, nei movimenti GLBTQI e nei comportamenti
sociali. Insomma l’omosessualità maschile e quella femminile riunite nell’Associazione Genitori Omosessuali in un progettualità educativa danno vita ad un’esperienza da osservare per tutti e per tutte. Si sa: per i figli si fa tutto, rivoluzioni e
compromessi, e si superano idiosincrasie anche le più viscerali e radicate.
*Docente di Pedagogia Generale e Sociale, Università La Sapienza, Roma. Componente
del gruppo “Trasformazione” all’interno dell’Associazione Nazionale Maschile Plurale
dedicato allo studio e all’elaborazione di iniziative educative in tema di genere.
Appendice
“All’ inizio, l’accoglienza al nido di A. e dei suoi papà, ha avuto su di noi un impatto forte, considerato che nel nostro lavoro il rapporto emotivo con i bambini e con i loro genitori è un aspetto inevitabile e
molto importante. Quando, durante il colloquio previsto per l’ inserimento, siamo state informate che A.
aveva due genitori omosessuali, di genere maschile, ci siamo poste molti interrogativi, sia pedagogici che
emotivi e personali. Immediata è stata la considerazione dell’assenza di una figura materna, alla quale
si sostituivano due padri e, in genere, al nido e non solo, siamo disabituate a vedere dei padri occuparsi
dell’accudimento dei propri figli ed ancora di più della loro educazione e della gestione delle loro giornate
al nido. Quindi la questione investiva ben due aspetti nuovi e alquanto complessi.
Avevamo di fronte due genitori dello stesso sesso e per di più due figure maschili. Istintivamente
noi, nel nido, ci siamo poste con un atteggiamento compensatorio e ci siamo avvicinate ad A. cercando
di dargli il contatto ed il riferimento femminile che, ai nostri occhi, potevano mancargli. Poi, con il
tempo, approfondendo il rapporto con A. ed i suoi papà, abbiamo capito e sentito che il bambino ha
due referenti genitoriali ed affettivi molto forti e presenti, e ci è parso che quasi non ci fosse più bisogno
della mamma. Quello di cui ci rendiamo conto oggi, è che, probabilmente, il problema dell’assenza della
mamma era più nostro che suo. Pensavamo che ad A. mancasse qualcosa di fondamentale, e tentavamo
di arginare questa sua possibile carenza.
Un altro atteggiamento spontaneo, è stato quello di proteggerlo dai pregiudizi degli altri sulla sua
realtà familiare che, a nostro parere, avrebbe potuto ledere la sua serenità ed il suo equilibrio. Infatti ne
abbiamo parlato solamente con le colleghe educatrici, evitando che ne venissero a conoscenza altre persone
occasionalmente presenti al nido (supplenti), al solo scopo di evitare curiosità e domande che potevano
mettere il bambino in una situazione di stress o confusione. Un altro atteggiamento protettivo che abbiamo
adottato nei riguardi di A. è stato quello di evitare, nei discorsi e nei racconti di storie, la parola “mamma”: nel nostro immaginario questa parola stava rischiando di diventare un tabù, come se il termine avesse
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potuto confonderlo. In seguito, dopo un colloquio con i genitori, ed aver conosciuto meglio il loro atteggiamento, rispetto al figlio, su questa parolina così importante, e consapevoli della serenità di A. nella sua vita
al nido, abbiamo, ancora una volta, constatato che la difficoltà, era in noi adulti. Così ora, nei discorsi, nei
racconti ed in altre attività ludiche, il vocabolo “mamma” è riapparso senza incertezze.
L’ impegno che abbiamo ora, quando organizziamo le attività con i bambini, è quello di dare più
frequentemente un ruolo ai padri; ruolo che questa esperienza ci ha stimolato a considerare maggiormente. E di questo siamo grate ai due papà, che ci hanno fatto rivalutare dei ruoli che, nel nostro lavoro
educativo, per vari motivi culturali ed esperienziali, si tende in genere a trascurare. Per cui, oggi, non
solo aggiungiamo altri criteri nella scelta dei materiali (per es. libri) ma più spesso di quanto siamo solite
fare, nei nostri racconti di fantasia, ci sono più frequentemente, giraffe, orsi e pesci papà, con tutte le
loro emozioni e connotazioni.
A. è uno splendido bambino, che vive serenamente e con energia positiva le sue giornate al nido, e
notiamo in lui una intensa ricerca di contatto fisico ed emotivo con le figure femminili. Bisogno che viene
ampiamente soddisfatto in un mondo, quello del nido, quasi esclusivamente femminile. Nel rapporto con
i suoi papà, non viviamo complicazioni particolari, rispetto a quelle che possiamo avere con altri utenti.
Con loro abbiamo un buon rapporto di fiducia, basato sullo scambio e sulla complicità, allo scopo di
scegliere il meglio per A.
Vogliamo sottolineare che questa esperienza ci ha arricchito umanamente, ci ha avvicinato a una
realtà a noi sconosciuta, ed è stata stimolante anche dal punto di vista professionale, poiché ci ha messe
alla prova nel tentativo e nella volontà di poter operare al meglio, confermando il nostro impegno principale, che è quello di dare giuste risposte ai bisogni di ogni singolo bambino, riconoscendo ad ognuno di
loro, la storia ed il contesto da cui provengono, e dei quali sono portatori.
Concludendo, vorremmo che, a questo incontro formativo, fosse riconosciuta una notevole importanza, in quanto è più che mai opportuno uno sforzo ,da parte di tutti noi, affinché situazioni nuove
come questa, possano essere gestite nel modo più adeguato, per non trascurare nulla e per realizzare il
più rilevante obiettivo delle istituzioni, che è quello di operare come supporto alle famiglie e quindi ai
bambini.”
Il brano riportato di seguito è tratto dalla presentazione di Patrizia Falconieri, educatrice
dell’Asilo “Piccolo Girasole”- Municipio XI – Roma, in occasione del Corso “Le Famiglie omogenitoriali in Italia: una realtà del nostro tempo”.
Per approfondire
Bottino M. e Danna D., La gaia famiglia. Cos’ è l’omogenitorialità?, Asterios Editore, Trieste 2005.
Cadoret A., Genitori come gli altri, Feltrinelli, Milano 2008.
Chiari C., Borghi L., Psicologia dell’omosessualità: Identità, Relazioni familiari e sociali, Carocci
Editore, Roma 2009.
Ciriello D., Oltre il pregiudizio – Madri lesbiche e padri gay, Il Dito e la Luna, Milano 2000.
Fruggeri L., Diverse Normalità: Psicologia sociale delle relazioni familiari, Carocci Editore, Roma
2005
Lalli C., Buoni genitori. Storie di mamme e papà gay, Il Saggiatore, Milano 2000.
Lingiardi V., Citizen Gay. Famiglie, diritti negati e salute mentale, Il Saggiatore, Milano 2007.
Mortari L., Apprendere la trasformazione, Carocci Editore, Roma 2003.
Ruspini E., Luciani S., Nuovi Genitori, Carocci Editore, Roma 2010.
Saperi ed esperienze 101
Pedagogika.it/2011/XV_2/Il_viaggio/Denise_Puglia/la_via_della_seta_2010/forse_1-41-8
Pedagogika.it/2011/XV_2/saperi_ed_esperienze/genitori_inconcepibili
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Pedagogika.it/2011/XV_2/cultura/
Merito grandissimo della casa editrice Fel- Il rischio che ho sempre incontrato leggendo
trinelli è quello di avere, da sempre, prestato libri sul rock è quello di trovarsi immersi in
un’attenzione sensibile al rapporto tra let- un gossip di proporzioni enormi, dove non
teratura e canzone d’autore. Vedasi, in pri- si riesce più a distinguere tra Chi di berlumis, la cura apprestata alla traduzione degli sconiana edizione e un libro di storia. La
scritti di Dylan, oltre a una esemplare rac- difficoltà è dovuta anche alla confusione tra
colta sistematica dei testi delle sue canzoni, il parlare di personaggi del jet set e quindi
dal parajoyciano “Tarantula” sino al primo trovarci guidati dal desiderio di scoprirne
volume della sua stupenda biografia. Ma i segreti più spregevoli, e quello del fare i
l’impegno della casa editrice milanese non si conti con un’epoca, un periodo che bene o
è fermato alla produziomale ha segnato anche
ne del sublime vate di
la nostra storia, e maDuluth. Altri cantanti
gari con la sua musica
arricchiscono il suo caci ha accompagnato
talogo, da Capossela a
in periodi difficoltosi,
Ligabue a Nick Cave…
che in quella musica
Ultimamente, se nel
hanno trovato l’indifrattempo non mi sono
cazione di vie d’uscita,
perso qualche passaggio,
o meglio i suoni che
nella collana “Varia”
potessero dire quelle
con copertina nera la
difficoltà.
Feltrinelli ha pubblicaUn dire dove il suoto un toccante e coinno assumeva un ruolo
volgente “memoir” di
preponderante,
che
Patty Smith, nel quale
poi si trasmetteva in un
l’inquieta interprete di
modo di vita, in una
“Because the night” ripercezione di non esseevoca gli esordi della
re soli, di far parte di
sua carriera e l’amicizia
un insieme più vasto,
con il celebre fotografo
il cui segno distintivo
Robert Mapplethordiveniva l’inquietudine
pe. È seguito poi un
che ci attanagliava sindotto saggio di Marina
golarmente.
Keith Richards, James Fox
Petrillo sulla voce folk
Le prime pagine di
Life
del Boss, alias Bruce
questo testo ci mettoFeltrinelli, Milano 2010
Springsteen. Ora, nella
no purtroppo di fronte
pp. 524, € 24,00
stessa collana, compaallo stereotipo del solire “Life”, biografia di
to rocker maledetto: si
Keith Richards, mitico
fa palpare dalla polizia
Ambrogio Cozzi
Angelo Villa
A due Voci
Cultura 103
Pedagogika.it/2011/XV_2/cultura/a_due_voci
“riffista” (nel senso dei riff…!) dei Rolling
Stones, autore con l’inossidabile Mick Jagger, dei brani più celebri del gruppo inglese:
la più grande rock and roll band del pianeta,
a detta di molti. Chi sia Keith Richards e chi
sono o cosa fossero i Rolling Stones lo sappiamo. L’uso del passato è solo un omaggio
alla memoria, nient’altro. Basti solo tenere
presente come la riedizione rimasterizzata di
“Exile on Main Street”, uscita l’anno scorso
( per chi ne voglia sapere di più su un disco
che ha fatto la storia del rock può dare un
occhio al gustoso libretto di Bill Janovitz,
edito dal Saggiatore), abbia portato la band
ai primi posti in classifica in mezzo mondo.
E’ infatti probabile che il patto che hanno
stabilito con il diavolo gli abbia garantito una sorta di eterna giovinezza, lontana
dalle meditabonde amarezze dell’Adrian
Leverkuhn del Doctor Faustus di Thomas
Mann, ispirato alla figura di Schonberg,
uno dei più innovati compositori del Novecento. Insomma, come ci si può aspettare
la biografia di Richards è per taluni aspetti
prevedibile, in quel senso, per altri, non delude. E’ un racconto di rock e devastazione,
genialità e incoscienza, personaggi famosi
e patetiche miserie. Il meglio e il peggio di
quell’ambiente, scieccherato e servito tutto
insieme. E’ così, inutile perdersi in sottili
distinguo. Lui è Keith Richards mica Gianni Morandi. Il resto viene di conseguenza.
Certo, lo sanno tutti, e lui non ne fa un segreto, Keith è uno che si fa e, Dio solo sa,
quanto si fa e, aggiungo, di cosa si fa. Pare
che si sia fumato persino le ceneri del padre
morto, alla faccia di Freud: la sua smentita
è un po’ fiacca e lascia comunque spazio a
qualsiasi interpretazione. Lui si fa e si strafà,
ma, come si dice dalle parti della capitale,
pure ci fa. Un sacco. Come quando si pavoneggia recitando la parte del ribelle, del
trasgressivo.
104
che ferma Richards lungo una strada dell’Arkansas durante il tour del ‘72, la “roba” nascosta nell’auto, i poliziotti con l’occhiale
a specchio, il nostro Keef che si atteggia a
bullo di periferia.
Occorre però superare questo inizio per accorgersi che nel libro c’è molto di più, che il
libro ci parla di un’epoca, con i suoi limiti e
difetti, ma soprattutto ci parla di musica, di
blues, del metodo di lavoro e di registrazione, della ricerca del suono, anzi dell’inseguimento del suono.
Certo, il rischio di avere tra le mani una “toxico story” è presente in tutto il testo, ma
la figura di Keith non ne esce tanto come
quella di un tossico, ma più come quella di
un delinquente, forse bullo di quartiere, forse frutto di esagerazioni ma, senza dubbio, la
realtà è quella di un personaggio per lo meno
non facile. Il rock è sempre stato anche una
questione di marketing, sin dagli esordi.
“La gente adora quell’immagine. Sono stati
loro a inventarmi, mi hanno creato ... Desiderano che io faccia le cose che loro non
possono fare ... E io ho fatto del mio meglio.
Non è esagerato dire che fondamentalmente
ho vissuto come un fuorilegge. E che mi è
piaciuto! Sapevo di essere sulla lista di tutti,
mi sarebbe bastato ritrattare e sarebbe andato tutto bene. Ma era una cosa che non ero
assolutamente in grado di fare”.
L’ambientazione è quella dell’Inghilterra dei
primi anni ‘60, con bande di giovani alla ricerca di una propria identità che si staccasse
dall’eredità dei genitori, segnati dalla guerra.
Una guerra dalla quale si era usciti sperando
in un mondo diverso, e trovandosi invece
davanti un mondo di macerie, materiali e
morali, da rimuovere, nel senso materiale del
lavoro, ma anche in quello psicoanalitico di
qualcosa che veniva sepolto ma continuava
ostinatamente a dar segno di sé. In fondo è
la stessa scena che si presenta in tanti paesi
Pedagogika.it/2011/XV_2/cultura/a_due_voci
Ricordandoci che lui è così, proprio così,
“nature”. Senza che mai faccia capolino
l’ombra di un dubbio, di un perché… Ci
sarà, pure, una ragione! Ma questo è un
argomento che sembra non interessargli o,
magari, una simile domanda gli potrebbe
risultare incomprensibile come chiedere a
uno perché ha gli occhi neri o di piede ha
il quarantaquattro a pianta larga. E sì che
la morte e la follia sono compagne assidue
dell’entourage del “cazzutissimo” e, ahimè,
per la verità, fragilissimo eroe. E’ un aspetto, quest’ultimo, che in un testo che vuole
fare della sincerità, dell’autenticità la sua
caratteristica discriminante salta immediatamente all’occhio. Nessuno pretende
chissà quale indigesto moralismo, ma quel
senso di scontata ovvietà con cui Richards
pare frettolosamente scivolar via su accadimenti tragici che lo toccano da vicino pare
consegnare al lettore un’impressione di generalizzato cinismo, di grossolana indifferenza. Uno stato d’animo analogo a quello
che avevo provato avventurandomi nelle
veridiche pagine di “Sway”, un romanzo di
Lazar, pubblicato da Einaudi.
E’, in fondo, anche il motivo per cui mi
verrebbe da consigliare una lettura di “Life”
partendo direttamente dal secondo capitolo, saltando il primo, trash allo stato puro.
Robaccia pesante, direi, parafrasando lo
stesso Keith. Aggiungo io: in tutti i sensi.
Che la nausea possa assalire chi si accosta al
testo ci sembra di poterlo supporre e condividere. Ancora una volta, dunque, siamo
posti di fronte al muro della constatazione.
O, se volete, della tautologia.
Comunque sia, è da lì, da quell’incipit che
pare copiato a Proust che la sua biografia
prende il là. Per addormentarsi, Marcel
aspettava trepidante il bacio della mamma,
Keith non se ne cura, almeno così ostenta, per quanto insegua figure che più o
europei, con la comparsa di una nuova entità sociale e la lenta gestazione di una nuova
forma di cultura, all’interno della quale la
musica svolge un proprio ruolo.
Leggendo queste memorie si matura tra le
altre cose l’impressione di un’epoca irrimediabilmente tramontata, che costituiva sostrato necessario, conditio sine qua non affinché potessero sbocciare certe (formidabili) situazioni. Una su tutte: i Rolling Stones
non sarebbero esistiti così come sono esistiti
senza un periodo di gestazione ossessiva che
li vide, ancora imberbi e inguaribilmente
squattrinati, spendere giorni e notti metabolizzando dischi blues in un appartamento infame, tentando di catturarne e replicarne la
magia. Ed è proprio sulla musica che vorrei
fare delle citazioni, perché la musica è stato
il collante di quella generazione.
“Era davvero un lavoro di squadra in cui
ognuno aiutava gli altri e tutti si impegnavano per uno scopo comune, senza attriti
che guastassero ogni cosa, almeno per un
po’. Inoltre non c’era nessuno a dirigere; la
musica era nelle nostre mani. Non era altro
che jazz con un ritmo più accentuato, più
incalzante.”
“Com’è che ai tempi di Denmark Street riuscivo a ottenere un bel suono di batteria con
un solo microfono, e adesso con quindici
microfoni viene fuori un suono di batteria
che sembra qualcuno che caga su un tetto di
latta? (…) Poi il bassista veniva isolato, così
tutti si ritrovavano in questi cubicoli e piccionaie. Stai suonando in questa stanza enorme e non ne utilizzi neanche un po’. Questa
idea di separazione è la completa antitesi del
rock’n roll, che consiste in un gruppo di persone in una stanza che creano un suono e si
limitano a catturarlo. Si tratta del suono che
producono insieme, non separati.”
“Queste stronzate mistiche sulla stereofonia
e l’hi-tech e il Dolby vanno totalmente con-
Cultura 105
Pedagogika.it/2011/XV_2/cultura/a_due_voci
meno si occupino di lui. Non solo pollastre, per dirla nel suo slang. “Meglio una
sega, piuttosto che farmi un po’ di figa e
basta”, è la massima che condensa la sua
severa filosofia: Kierkegaard non sarebbe
mai riuscito a sintetizzare con maggior
efficacia il suo pensiero. Per molti anni, il
chitarrista degli Stones assicura d’aver dormito, in media, due volte alla settimana.
Non può, d’altronde, non essere questo il
punto logico di inizio del libro, perché mi
sembra riassuma la cifra più intima della
sua esistenza: l’irrequietezza. La si avverte
quasi fisicamente nelle pagine del libro. E’
la stella instancabile che guida le azioni di
Keith alla ricerca di una sua vocazione. La
musica, le canzoni gliela forniranno: “Andrew (n.d.r: il manager degli Stones) portò
qualcosa di straordinario nella mia vita.
Non avevo mai pensato di scrivere canzoni.
Lui mi spronò ad apprendere quell’arte, e
io mi accorsi che sì, ci ero portato. A poco
a poco, un mondo nuovo mi si aprì davanti, perché non ero più solo un musicista,
né cercavo di suonare come altri. L’espressione di sentimenti altrui non era più il
punto focale. Anch’io potevo incominciare
a esprimermi, a comporre la mia musica.
Fu quasi come la scarica di un fulmine.”
Ecco la luce, dunque, che resiste al buio,
alla distruzione. Lui lo scrive chiaramente,
del resto. Sui palchi, all’aperto c’è un altro
tizio che si unisce alla band: Dio. Sarà…
Le vie del Signore, è noto, sono infinite. E
una canzone, fosse anche “Brown sugar”,
è sempre un inno alla vita, alla vita che si
cerca e che non vuole morire. “Life” è di
lettura piacevole, appassionante. I paradossi che lo abitano non ne diminuiscono il
valore, l’interesse. E’, anche, la biografia di
una generazione, di un’epoca che è parte
integrante della nostra storia. No, non è
solo rock and roll…
106
tro la sostanza di quello che la musica dovrebbe essere.”
“Quando fai un disco, di fatto, cerchi un
modo per distorcere le cose. E’ questa la libertà che ti offre la registrazione, la possibilità di manipolare il sound. Non è una questione di forza bruta; si tratta di sperimentare, di procedere per tentativi. Ehi, questo è
un bel microfono, ma perché non lo mettiamo un po’ più vicino all’ampli, e poi prendiamo un ampli più piccolo anziché quello
grande e glielo piazziamo davanti, con sopra
un asciugamano, e vediamo cosa salta fuori?
Quel che ti interessa è il punto esatto in cui
i suoni si fondono l’uno nell’altro, sostenuti
da un ritmo – con qualche aggiustamento, il
resto andrà a posto. Se i suoni restano scollati, il risultato è insipido. L’obiettivo è trovare
intensità e forza, ma senza volume – una forza che scaturisca dall’interno. Un modo per
saldare l’apporto di coloro che sono in studio, e farne un unico sound. Così, non avrai
più due chitarre, un piano, basso e batteria,
avrai una cosa sola, invece che cinque. Il tuo
compito è creare una cosa sola.”
Il suono, il suono di una generazione per potersi dire, il resto è forse solo gossip.
Pedagogika.it/2011/XV_2/cultura/
Scelti per voi
a cura di Ambrogio Cozzi
libri
libri, cinema, musica
Clara Jourdan,
Manuela Vigorita,
Flaminia Cardini,
Lia Cigarini, Luisa
Muraro,
La politica
del desiderio
L’Altravista, Libreria delle donne, Milano 2010,
libro+dvd, € 15,00
Il docufilm La politica del desiderio mostra lo splendore
di una parola che molti hanno timore
a usare, femminismo, e mette in scena
cosa è capitato grazie a questo movimento, anche per chi non ha saputo
vederlo. Così spiega Clara Jourdan
nell’ottimo librino che accompagna
questo bel film che fa vedere il femminismo italiano in tutta la sua originalità.
Il film inizia con la mossa di alcune che, negli Anni ‘60, decidono di
incontrarsi tra donne alla ricerca di
un’altra via rispetto all’emancipazionismo. È posto in primo piano il
taglio simbolico della politica della
separazione: gruppi di sole donne che
mettono al centro della riflessione l’esperienza di sé, la pratica di relazione,
il rapporto col proprio desiderio. Nei
luoghi “separati” le donne prendono
la parola a partire da sé, dalla propria vita e parlano del loro rapporto
con gli uomini, della sessualità, della
maternità e del lavoro. L’uguaglianza
di tutte le donne nell’oppressione,
che emerge nel gioco del reciproco
riconoscimento, può diventare una
gabbia perché non tiene conto delle
differenze fra donne, uccide il desiderio, mortifica la forza femminile. La
svolta politica è data dal famoso «Sottosopra» Più donne che uomini del
1983, che getta i semi di un principio
di libertà fondato sul senso che ciascuna dà al proprio essere donna nella relazione con un’altra e non sulla
rivendicazione contro gli uomini e la
società. Ecco che emerge l’importanza
di vedere la disparità tra donne e riconoscere autorità all’altra donna.
La politica del desiderio è la storia di
un movimento che ha cambiato la
Storia: racconta l’avvento della libertà
femminile e come questa abbia modificato radicalmente la vita di tanti uomini e donne. In un continuo rimando di vecchi filmati e foto delle stesse
donne intervistate quarant’anni dopo,
vediamo l’esplosione del femminismo:
scorrono immagini che danno visibilità
a visi, corpi, storie concrete. Emerge un
immaginario composto da relazioni fra
donne, in cui circola eros, passione, entusiasmo per una politica che entra nelle vite e le sconvolge, una politica che
sa mostrare cosa preme nelle vite delle
donne e le rende progettualità concreta.
La politica del desiderio, film di valore
storico, mostra la forza che il movimento
delle donne ha saputo dare alle pratiche
del nostro presente. I segni del cambiamento, lento ma indelebile, si trovano
ovunque. Si tratta di una rivoluzione
che ha trasformato il mondo del lavoro,
le relazioni tra donne e uomini, fino alla
concezione dell’economia e della società.
Uno degli aspetti più ambiziosi del film
è mostrare la capacità del femminismo
italiano di mobilitare desideri e passioni
vive nel presente. Sono messe sulla scena
Cultura 107
Pedagogika.it/2011/XV_2/cultura/scelti_per_voi
alcune esperienze di gruppi a Cagliari,
Verona, Foggia, Catania, spesso composti da donne e uomini, che si rifanno al
pensiero della differenza e realizzano oggi
imprese artistiche, politiche, sociali...
La parte del leone, però, la fanno gli
Anni ’70: l’entusiasmo, la consapevolezza di vivere in un momento storico unico
in cui «Sta montando qualcosa di nuovo
e tu sei là, sulla cresta dell’onda» come
dice Luisa Muraro, non è confrontabile
con l’epoca attuale. Allora erano tempi
che le scelte radicali di alcune potevano scatenare una rivoluzione simbolica.
Oggi ne ereditiamo i frutti, ma non sono
quei tempi: il lavorio quotidiano delle
diverse associazioni, animato dalla passione della differenza, è frammentato, disperso, non abbracciato da un’onda che
porta cambiamento personale e sociale.
Il film risulta quasi spezzato in due. Due
epoche storiche con debiti reciproci ma
che si percepiscono sbilanciate quanto
a energia, fervore, fiducia nella capacità
di trasformazione delle proprie pratiche.
Sembrano due epoche differenti anche
rispetto alla capacità di mettere in campo
invenzioni, pensiero che sappia fare ordine, illuminare la realtà. Guardando il
film, pare che siano sempre solo le donne che hanno vissuto gli Anni ‘70 quelle
in grado di dire, di inventare, di spiegare. Ancora adesso. E viene da chiedersi:
dov’è il pensiero di quelle venute dopo?
In Generazione locked-in (Il Manifesto
- 7 novembre 2010) Marco Mancassola scrive “Le generazioni precedenti ci
hanno condotto in un vicolo cieco” e si
riferisce a “quella parte ingombrante di
quelle generazioni, soprattutto in questo paese, sessanta e settantenni uncinati al potere”. Per le donne è diverso.
Le più giovani hanno nominato il de-
108
siderio di ereditare in vita la ricchezza
del pensiero femminista e l’importanza
di un’autorità circolante che sappia rilanciare il desiderio di donne e uomini in relazione. Però quel vicolo cieco
è evidente a tutti e abbiamo bisogno
di fiducia per cambiare l’immaginario
del cambiamento, come dice Rebecca
Solnit in Speranza nel buio, Guida per
cambiare il mondo (Fandango libri,
Roma 2005).
A noi che siamo nate a ridosso degli
Anni ‘70 e che prestiamo i nostri visi
come incipit di questa storia, piace il
ruolo simbolico in cui ci hanno messe,
ma le nostre riflessioni, come quelle di
tante altre venute dopo sembrano non
esserci, non trovando rappresentazione.
Ogni tanto ci chiediamo se, come dice
Fiorella Cagnoni nel docufilm, non ci
sia bisogno di un nuovo “atto di fiducia iniziale”, come quello che ha fatto
nascere il pensiero della differenza italiano. Se non ci sia bisogno di un nuovo
salto per far sì che chi è abbagliato dallo
splendore degli Anni ‘70 sappia vedere anche le perle che ci sono di questi
tempi. Sono tempi difficili: per esserci e
creare il mondo ci vuole tutta la nostra
intelligenza e passione.
Laura Colombo e Sara Gandini
Duccio Demetrio
L’interiorità
maschile.
Le solitudini degli
uomini
Raffaello Cortina,
Milano 2010,
pp. 280, € 14,50
“Lo sguardo è il
mio”. Con questa
bella frase inizia l’ul-
Pedagogika.it/2011/XV_2/cultura/scelti_per_voi
timo libro di Duccio Demetrio, L’interiorità maschile – le solitudini degli
uomini. Lo sguardo è preoccupato e
descrive in prima persona alcune scene
emblematiche: a partire dalla sua esperienza di relatore a congressi, dibattiti,
di animatore di situazioni di apprendimento riflessivo, Demetrio racconta di
come debba constatare la scarsa presenza maschile a questo tipo di proposte.
Dove sono gli uomini? Possibile che
degli uomini riflessivi, poetici, pensosi
dei secoli passati non sia rimasto alcun
sopravvissuto che partecipi in pubblico
della propria interiorità? Possibile che lo
spettacolo del maschile debba essere solo
istrionico? Che la malinconia e la ricerca della solitudine siano rappresentate
come perdenti? Che il maschio prenda
parola pubblica solo se forte, estroverso,
attore su un palcoscenico, maschera del
potere, compulsivo itifallico marziale?
Che non si realizzi un confronto pubblico di uomini sul maschile che non abbia
come obiettivo il primeggiare?
Domande che ci poniamo anche all’interno della rete Maschileplurale di cui
faccio parte, forse riflettendo sul maschile in termini più politici di quelli
di Demetrio. Consideriamo anche noi
necessaria una qualche trasformazione
dell’orizzonte del maschile, affinché
essere uomini oggi possa essere un’esperienza di confronto creativo e non
distruttivo o revanscista.
La prima persona singolare, nel giro di
poche pagine introduttive, si fa prima
rada, poi diviene plurale per scomparire,
infine, sostituita dalla voce impersonale del filosofo e del letterato. Una certa
attività di orientamento iniziale, di definizione dei termini della questione, di
inquadramento è presente e completa: le
considerazioni sulla violenza maschile, la
critica ai modelli egemoni, l’evidenziarsi
di una necessità di ripensamento, ormai
urgente. Mi trovo d’accordo e sono soddisfatto e rassicurato, sia della sua che
della mia preparazione in materia. Aderisco alla proposta di navigare a vista, approdare qui e là nell’arcipelago della sua
cultura, senza la preoccupazione di offrire una sistematizzazione teorica del maschile o di completarne l’enciclopedia.
Poi, il rimando ad una galleria di personaggi mitologici, letterari, di figure
fittizie, di ritratti dipinti raccontati a
voce, di invenzioni, compone una ricognizione ricca e problematica. Il
semplice accostare la filigrana delicata
di queste figure alle maschere tronfie e
patetiche della mascolinità esibita nella
comunicazione di massa, nella politica
del burlesque e del grottesco, è già di
per sé un esercizio di critica. Non c’è bisogno di diventare prolissi. La scrittura
sembra essere più frutto di associazioni
mentali di una mente nutrita e coltivata
di letture valide e forti, di riflessività, di
interrogativi, di dubbi.
Abituato come sono alla condivisione e
all’autocoscienza maschile, una parte di
me chiede al testo di tornare a nominare il soggetto che lo scrive, per dare
veramente validità alla ricerca. Sono
convinto che sia un errore proporsi di
generare conoscenza e sapere sul genere, allontanandosi dal proprio racconto
autobiografico e senza ribadire di essere
soggetti parziali. Ma Demetrio è un filosofo colto e, come altri filosofi e altre
filosofe hanno fatto, si permette di nascondersi, o di svelarsi appena appena.
E il libro mi sfugge. Non è facile per
me leggere le parole di un altro uomo
che parla del maschile. Su questo tema,
Cultura 109
Pedagogika.it/2011/XV_2/cultura/scelti_per_voi
ovviamente, ciascun uomo si sente un
esperto. Possiamo affrontare da veri uomini tutte le avventure, qualsiasi luogo
ignoto, ma non la vergogna del guardarci
dentro, scoprirci miserelli e non accettarlo, né è facile ammettere che la maschera
che ci siamo costruiti sia la parziale risposta ai nostri specifici bisogni e non
un’esemplare realizzazione di un archetipo maschile, ovviamente la migliore.
Comincio a pensare che lo spaesamento
che provavo nella mia lettura derivi dalla molteplicità presentata nel libro, anche nel territorio di possibilità antagoniste alla mascolinità oggi egemone. La
pluralità spaventa, rattrista la consapevolezza di non trovare mai un approdo,
un ruolo da imparare a memoria tanto
da diventare un simulacro di identità
che riempia il silenzio del nostro corpo.
Demetrio sembra indicare un possibile
percorso che rivolga verso la propria interiorità gli interrogativi e le insoddisfazioni, costitutive della nostra vita di uomini sempre in difetto perché incapaci
di generare. Rivolgersi verso l’interno
vuol dire tornare sui propri passi, soprattutto autobiograficamente. Siamo
stati educati a trasformare questo vuoto
in una bulimia di conquiste, conferme e
compensazioni esteriori. Se dirigessimo
invece la nostra esplorazione all’interno di noi stessi, forse anche per noi ci
sarebbe modo di trovare un senso alla
nostra condizione maschile. E se questa
ricerca la rendessimo parola condivisa,
resoconto di viaggio da scambiare con
altri esploratori, senza indulgenze nei
confronti della tentazione di gareggiare
andrologicamente, si potrebbe creare il
terreno per una nuova convivenza tra
uomini e con le donne.
Massimo Michele Greco
110
Sarti Raffaella
(a cura di)
Lavoro domestico
e di cura: quali
diritti?
Ediesse, Roma 2011,
pp. 372, € 18,00
Lavoratrici e lavoratori domestici e
assistenti familiari
sono un esercito. Presidiano le case di
moltissime famiglie, garantendo che
siano pulite e accoglienti. Assicurano assistenza ad anziani e portatori di
handicap. Tappano i buchi di un sistema di welfare carente. Fanno da zeppa a equilibri di coppia messi in crisi
dalla difficoltà di ridefinire i ruoli di
donne e uomini nella sfera familiare al
crescere della partecipazione femminile al mercato del lavoro. Ma di quali
diritti godono queste lavoratrici e questi lavoratori tanto importanti per il
funzionamento della vita quotidiana?
Frutto della collaborazione di studiosi
con competenze diverse, questo libro
ricostruisce il percorso che ha portato
le lavoratrici e i lavoratori domestici a
vedersi riconosciuti, seppur in ritardo
e in modo parziale, diritti come ferie,
tredicesima, contrattazione collettiva,
ecc.: conquiste comunque importanti,
alle quali pare però aver fatto spesso da
contraltare l’allargarsi del ‘lavoro nero’.
In questo scenario, gioca naturalmente
un ruolo di rilievo la crescente presenza di immigrati. Il tema dei diritti di
domestici e assistenti familiari sempre
più s’intreccia, infatti, con quello dei
diritti dei migranti. Ma si intreccia anche con il tema del welfare e dei diritti
di chi, per trovare risposta al proprio
Pedagogika.it/2011/XV_2/cultura/scelti_per_voi
bisogno di cura e assistenza, si avvale
del loro lavoro. Il libro s’interroga, pertanto, su una possibile diversa organizzazione del lavoro domestico e di cura
che assicuri maggiori diritti a colf e assistenti familiari e migliori prestazioni
alle famiglie.
C.B.
Cristiana La Capria
The Waver
La salutatrice
L’Autore Libri Firenze, Firenze, 2010,
pp. 64, € 6,50
“...Io non vendo il
mio fascino erotico,
neppure offro sesso.
Io aspetto e saluto in
un luogo che è un
«non luogo» come
l’aeroporto. Io offro cortesia e affettuosità
in un posto asettico e spersonalizzato come
la zona sbarco degli aeroporti. Ho preso
in prestino dall’inglese il verbo to wave,
che sta per ondeggiare, agitare le mani. Io
sono the waver, colei che agita le braccia e
le mani in segno di saluto . Ecco, questo è
il mio lavoro.”
L’immaginario del precariato si tinge di
rosa, con un libro che ci presenta una
figura professionale che solo la penna di
una scrittrice dall’intelligenza visionaria
poteva creare.
The Waver - La salutatrice è un libro
che mostra come, attraverso la creatività, si affronti il cambiamento in un
mondo del lavoro in cui l’oggetto, i servizi, i beni venduti vanno ben oltre la
nostra fantasia.
L’attesa, l’incontro e l’intrigo si susseguono in una trama tra bizzarre coincidenze
e casualità inattese con un linguaggio tra
il cinematografico e il realismo, lasciando emergere, di questa giovane donna,
Marta, l’immagine sociale e, come in uno
specchio, la sua immagine più intima.
Partendo dall’atto, attraverso il gesto
e l’attimo del saluto, l’autrice descrive
con accuratezza le storie, le relazioni e
le debolezze di ogni essere umano che
Marta incontra, facendo emergere la
sua forza di volerci stare come un pezzo
del puzzle, alla ricerca non sempre facile
di voler migliorare se stessi “...ho dovuto cedere alla forza triste della realtà,
lasciare che i vuoti rimanessero trasparenti per vedere quello che fuggivo...”
Nel racconto, quasi come un innesto
agronomico, arriva la bellezza di una storia tragica e romantica, fatta di attese, di
sapori e profumi; ambientata in un contesto-funzione, il supermercato, quale
spazio d’incontro dove la paura, l’amore
e il desiderio, vivono nell’attesa di essere
e con l’intima consapevolezza della propria temporaneità, verso un finale, quasi
in un circuito vitale, che accompagnerà il
lettore verso la certezza che tutti potremo
dire un giorno: “Finalmente ora che piove sole, raccolgo briciole nelle tasche”.
Michela Brugali
Eugenio Pelizzari,
Le immagini
dell’inconscio.
Il contributo di
Nise da Silveira
Moretti & Vitali,
Bergamo 2010, pp.
151, € 18,00
Attraverso questo
libro l’autore ci fa
conoscere l’interessante lavoro di di Nise da Silveira nella
cura della sofferenza psichica. Nise da
Cultura111
Pedagogika.it/2011/XV_2/cultura/scelti_per_voi
importante psichiatra brasiliana,quasi
sconosciuta, ancora oggi in Italia, ma,
come si comprende dalla biografia che
conclude il saggio, una persona con
molte capacità, interessi e potenzialità
anche per chi l’ha conosciuta. E’ stata
una figura importante per la psichiatria
del suo Paese, la fondatrice della Sezione di Terapia Occupazionale, presso
l’Antigo Centro Psiquiàtrico Nacional,
nel 1946, membro fondatore della “Société Internationale de Psychopathologie dell’Expression” con sede a Parigi,
ha diffuso il pensiero di C.G. Jung
dopo averlo conosciuto frequentando i
suoi seminari in Svizzera a metà degli
anni cinquanta. Un incontro importante quest’ultimo, una spinta allo sviluppo della psicologia analitica nell’America del Sud ed un approfondimento
al significato delle immagini che trovano spazio nel testo. Il libro si compone
di tre parti, con una prefazione di Paolo
Ferliga,che rappresenta, a mio avviso,
una interessante e sintetica riflessione sulla storia “accidentata” del valore
dell’immagine nel mondo occidentale.
L’immagine, condannata da Platone ad
una storia minore ed esclusa dalla riflessione filosofica interessata alle idee, si
valorizza nell’immaginario e nella fantasia con il Romanticismo, seppure con
un prevalere della dimensione estetica,
ma con C.G. Jung, nel novecento, si
riappropria di forza ed energia. All’immagine, viene restituita la sua capacità di suscitare sentimenti ed emozioni
davvero reali. Quindi si ripropone e si
“riconosce il legame profondo che attraverso le immagini lega psicologia e filosofia”. Questo aspetto ci appare evidente
nella terza parte del testo, attraverso i
due scritti di Nise da Silveira che rac-
112
contano con le parole, ma soprattutto
attraverso le immagini il processo di
cura di due pazienti all’interno della
Sezione di terapeutica Occupazionale
(STOR). Nella introduzione a questi due scritti E. Pellizzari sottolinea
un aspetto a suo dire fondamentale
di Nise da Silveira “trascurare anche
una sola immagine avrebbe voluto dire
pregiudicare la comprensione di quanto
accadeva nelle profondità dell’inconscio
di quelle persone che tanto amava. Allo
stesso tempo proporre una sola immagine, per quanto significativa, non sarebbe servito a nulla se non a disquisire se
quella fosse arte o meno” ho scelto questo passaggio dell’autore perché a mio
avviso condensa l’importanza del processo di trasformazione dell’energia
psichica che avviene attraverso il fluire
delle immagini dall’inconscio, in un
contesto terapeutico. Quindi l’esperienza della STOR, condotta da Nise
da Silveira è il luogo dove si contiene quella frammentazione dell’Io che
si manifesta nella malattia psichica;
attraverso le immagini possiamo accompagnare e comprendere il percorso
psicoterapeutico. La comprensione del
testo si completa con la prima parte
dove si analizza il mondo delle immagini in un confronto con la ragione
e al ruolo delle immagini in Freud e
Jung, un passaggio dalla dimensione
personale individuale a quella simbolica archetipica, che trova concretezza nei casi esposti. In questa parte
di analisi teorica del tema è possibile
trovare i riferimenti che consentono di
apprezzare e valorizzare le bellissime
immagini colorate allegate nell’ultima
parte del testo.
Emilia Canato
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musica
Arcade Fire
The Suburbs
Mercury, 2010,
€ 18,90
a cura di Angelo Villa
Belle and Sebastian
Write about love
Rough Trade, 2010,
€ 19,40
Marlene Kuntz
Ricoveri virtuali e
sexy solitudini
Columbia, 2010,
€ 15,90
Paolo Conte
Nelson
Platinum, 2010,
€ 20,50
Ero indeciso sul cd
da segnalare nella rubrica. Pensavo a quel che mi era capitato
recentemente d’ascoltare e che, nel contempo, era uscito da non molto tempo.
Faccio mente locale. In primis, direi gli
Arcade Fire: canadesi, molto bravi. Il loro
ultimo cd “The Suburbs” ha conquistato
tutti. Ricco, vario, creativo, non convenzionale… E’ stato premiato da un ottimo
successo di vendite. A turno, prestigiosi
mensili come “Buscadero”, “Rumori”
hanno dedicato al gruppo la copertina.
“Rolling Stone”, edizione americana (eh!
eh!...), ha assegnato al cd il quarto posto
assoluto tra quelli usciti nell’intero 2010.
I Nostradamus del rock profetizzano che
saranno loro i degni successori di quelli
che finora avevano costituto la punta di
diamante della scena musicale pop pensante e cioè gli allora magnifici Rahiohead, capitanati da Tom Yorke. Poi, infatti, mi pare si siano un po’ smarriti in uno
sperimentalismo alquanto sofisticato o, a
seconda, indigesto. Staremo a vedere. Nel
frattempo, gli Arcade Fire si fanno strada.
E’ una buona occasione, per chi non li
conosce per andare a sentire i due cd precedenti: “Bible Neon” e, soprattutto, “Funeral”, amatissimo da David Bowie.
Dal Canada alla Scozia. Bene, bravi anche i Belle and Sebastian per i quali coltivo una particolare predilezione. E’ unico
il loro tocco leggero, sensibile, delicato.
In verità, il loro ultimo cd “Write about
love” non aggiunge forse nulla di nuovo
alla loro discografia. Per quanto sia alle
mie orecchie oltremodo piacevole da ascoltare. Più lo senti, più lo apprezzi, più
diventa difficile abbandonarlo. Sembra
la musica di cui abbiamo bisogno per
trovare conforto nella quotidianità che ci
assilla e che non ci dà tregua.
Dal Canada alla Scozia, al nostro amato e
malandato Paese: due cd. Il primo, in tutta
onestà, non mi è affatto piaciuto, e me ne
duole sinceramente, il secondo, l’ho trovato un po’ meglio, ma poco poco… Inizio
da quello che mi ha francamente deluso. Il
suo ascolto mi ha ricordato una cena volenterosamente preparata da un’amica grazie
all’utilizzo di non so quale aggeggio, Bimbi
o Bambi o come diavolo si chiama. L’esito
era francamente imbarazzante poiché tutti
i piatti dal primo al dolce parevano, al fondo, identici. Stesso gusto, stesso sapore…
Così mi è sembrato l’ultimo cd dei Marlene Kuntz: “Ricoveri virtuali e sexy solitudini”. Di primo acchito li si direbbe un
improbabile sintesi tra gli ex CCCP, poi ex
Cultura113
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di Johar Karan
Il mio nome è
Khan
India 2010
Produzione Dharma
Productions, Fox
STAR Studios,
Red Chillies Entertainment
Viaggiare è bello?
Viaggiare è bello?
Provate a mettervi nei panni di un musulmano e fatevi un giretto negli Stati
Uniti, nel post 11 settembre …
Questo è il piglio critico di questo
film che comincia con una sequenza a
molti turisti nota: aeroporto, sezione
partenze, fila stremante per attraversare il metal detector, perquisizione del
bagaglio, esplorazione del corpo, invasione dell’Io. Lui, l’assediato, è un viaggiatore di religione musulmana che,
richiesto di esplicitare le motivazioni
del viaggio dalla città statunitense di
a cura di Cristiana La Capria
114
non addirittura “incomprensibili”: non se
ne coglie il senso, la “logica”, di certo non
garantita dal ricorso a una lingua straniera. Anzi, a me sembra che il pasticcio
aumenti e con esso l’inconcludenza dei
singoli brani. L’insieme del cd è caratterizzato da quel gusto “retrò” che è il marchio
di fabbrica dell’avvocato artigiano, anche
se qui sembra più mestiere, abitudine
che altro. Sull’intero cd regna poi una
cupa cappa depressiva che sembra invitare l’ascoltatore a lasciar scivolare l’intera
musica in sotto fondo. Peccato. Soffrire,
si deve, perché ci tocca, perché è giusto e
ciascuno di noi, lo sa. Ma, così, è troppo.
Via, via da qui…
Angelo Villa
cinema
CSI, poi PGR, poi chissà e i Baustelle, ma
il gruppo di Cristiano Godano non possiede né il furore nervoso dei primi, talvolta in grado di portarli a vette sublimi,
né la sensibilità melodica dei secondi. Il
sound del cd sembra languire su un tappeto sonoro lagnoso, monotono, stantio
dal quale, come alunni recalcitranti allo
stare in fila che la maestra distrattamente
impone, si staccano parole pretenziose, ma
di cui mal si coglie la portata complessiva
nell’insieme della canzone. Per capire meglio occorre, infatti, andarsi a leggere i testi.
Operazione che, purtroppo, non ripaga
della fatica. Giocati come sono in uno stile
manierato, tardo adolescenziale “à la page”
tra proclami esistenziali, denunce sociali e
“trivial language”… Di peggio, da un po’
di tempo in qua, mi sono parsi solo i testi
di Carmen Consoli, il che è tutto dire…
Ho, invece, tiepidamente, molto tiepidamente apprezzato il cd di Paolo Conte,
“Nelson”, nome del suo cane. Immortalato in copertina in un disegno dello
stesso cantautore. Premetto che Conte
è un artista che stimo, senza stravedere
particolarmente per lui. Ho già avuto
in passato qualche accesa discussione in
merito con un mio parente, suo accanito
fan. Il cd precedente, del quale ho persino
rimosso il titolo, non era all’altezza delle
sue cose migliori. Probabilmente era un
momento di scarsa creatività, succede.
Con “Nelson”, invece, Conte pare risollevarsi, pare … Un po’ meglio …. Ma,
nulla, proprio nulla di trascendentale
o di particolarmente originale, nessuna
canzone che rimanga particolarmente impressa. Prevale, se così si può dire, un certo minimalismo (la traccia numero sette
si chiama, guarda caso: “Storia minima”),
le canzoni paiono quadri appena appena
abbozzati, anemici, olofrastici. Quando
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San Francisco alla città statunitense di
Washington, sostiene di volere incontrare il Presidente degli Stati Uniti per
dirgli che si chiama Khan e non è un
terrorista. Fa quasi ridere. Fa pensare
di avere davanti un tipo che non sta
molto bene. Invece come facciamo a
ridere di un tipo di cui non sappiamo
niente? Come ci permettiamo di giudicarlo da un paio di battute?
Bisogna conoscerne il retroscena.
E così ritorniamo al passato, nel nucleo
vitale del protagonista che è l’India e i
suoi suoni, la sofferente e colorata tessitura di abiti e tende, l’essenzialità degli
ambienti di casa. Dove Khan vive con la
mamma e il fratello minore che, stanco
di una vita di stenti, si trasferisce a San
Francisco, negli Stati Uniti, e fa fortuna.
Intanto i lunghi primi piani e l’insistente
colonna sonora che seduce ci presentano
di Khan un profilo lontano dal consueto
perché, a causa della sindrome di Asperger, usa codici emotivi inconsueti e
tende a difendere con forza la ripetitività
del circostante, dei gesti, dei volti.
Eppure raggiunge il fratello quasi all’altro
capo del mondo. Fa uno strappo madornale
ai suoi schemi. Ecco il suo primo viaggio.
Lascia il mondo indiano e si dirige verso
una meta, San Francisco, che non promette
ritorno e che lo accoglie con la generosità e la
tracotanza tipica dei suoi palazzi di cemento.
Cambia luogo, cambia vita. Il lavoro lo
porta a incontrare ed amare Mandira,
indiana pure lei, ma di religione indù.
Ma l’equilibrio raggiunto si rompe
quando la paura di altri attentati dopo
la caduta delle Torri Gemelle allarma la
popolazione americana e quindi spesso
i musulmani – considerati il pericolo
numero uno - rischiano di essere evitati, insultati, malmenati. Accade pure
a Samir, il figlio di Mandira che Khan
ha adottato. Il bambino viene pestato a
sangue, anzi a morte, da suoi coetanei
perché è musulmano. Cosa c’entra un
bambino con le orrende azioni compiute all’umanità, alla storia? Cosa
c’entra la grande storia con la piccola
storia? Cosa c’entrano gli attentati globali con un bambino che gioca a calcio?
Da questo interrogativo arrabbiato parte il secondo viaggio di Khan che coglie
la sfida dell’amata e parte di nuovo.
Stavolta lo spostamento è funzionale
ad uno scopo molto diverso dal solito
viaggio: inseguire per tutto il territorio
statunitense il Presidente Bush e comunicargli di non essere un terrorista.
Il secondo viaggio, questo viaggio è animato da una motivazione di tipo sentimentale, politico ed etico. Il viaggiatore
non è un turista o un profugo, è un cittadino che chiede di essere considerato
un cittadino e basta.
E’ importante che di questi tempi ci
siano dei film che ci facciano fare viaggi
di questo genere: senza isole Bahamas
all’orizzonte e nemmeno astratte ricerche di felicità o di svago.
Questo film ci presenta un viaggiatore
che fa due enormi viaggi. In entrambi
ha il bagaglio leggero, una certa dose
di forza. Il suo comportamento soffre
di alcuni disturbi psichici che rendono
impegnativo a noi spettatori seguire il
suo percorso. La curata colonna sonora
e un’altisonante fotografia concorrono
a rendere a tratti appesantito da grande
retorica il testo filmico. Ma va bene.
Ammettiamo la pomposità espressiva se
riesce a farci fare un’esperienza di viaggio che non avremmo altrimenti fatto.
E da cui si impara parecchio.
Cristiana La Capria
Cultura 115
Pedagogika.it/2011/XV_2/cultura/
ARRIVATI_IN_REDAZIONE
Lolli Gabriele
Discorso sulla matematica.
Una rilettura delle Lezioni americane di Italo Calvino
Bollati Boringhieri, Torino 2011, pp. 226, € 18,00
Muovendo dalla dichiarazione di Calvino secondo la quale “l’atteggiamento
scientifico e quello poetico coincidono: entrambi sono atteggiamenti insieme di ricerca e di progettazione, di scoperta e di invenzione”, Gabriele Lolli
scopre che le Lezioni americane possono essere lette come una parabola della
matematica e che gli argomenti in esse trattati (Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità) sono proprietà essenziali del pensiero matematico
creativo.
Landsberg Paul Ludwig
L’esperienza della morte
Il Margine, Trento 2011, pp. 124, € 14,00
Come il toro nell’arena è destinato a soccombere al matador, così l’uomo
vive la sua vita in un tempo circoscritto dalla morte. E tuttavia un fondo di
speranza permane, ineliminabile.
Partendo da questa speranza, connaturata alla persona umana, Landsberg
accompagna il lettore verso un ulteriore compimento, che ha la sua radice in
una relazione personale trascendente, a cui lo apre la fede.
Mattei Ugo
L’acqua e i beni comuni.
Manifestolibri, Roma 2011, pp. 64, € 12,00
Perché il governo italiano vuole privatizzare l’acqua? Perché se al ristorante
ordiniamo una caraffa d’acqua i camerieri ci guardano storto? Perché compriamo bottiglie d’acqua minerale anche quando l’acqua è buonissima? È
giusto che grandi società facciano profitti vendendo acqua a chi ha sete?
Queste sono solo alcune delle domande che Simone, tredici anni, deve affrontare quando si trova a tavola con l’Avvocato Artemio Banchetti, personificazione dell’uomo di successo.
Violani Emanuela
Diario segreto dei miei giorni feroci
Claudiana, Torino 2011, pp. 244, € 13,90
Il diario epistolare di Emanuela Violani - un nome fittizio per un urlo di dolore e un atto d’accusa - racconta l’esperienza di abuso subìto da una ragazza
con gravi disagi familiari da parte del sacerdote cui si era rivolta in cerca di
aiuto. Una drammatica e commovente storia di violenza, colpevolizzazione e
omertà che la porta dritta all’autolesionismo e al tentato suicidio, fino all’arduo cammino - mai davvero concluso - verso un nuovo inizio.
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Pedagogika.it/2011/XV_2/cultura/arrivati_in_redazione
Ritanna Armeni (a cura di)
Parola di donna
Ponte alle Grazie, Milano 2011, pp. 336, € 16,80
Cento grandi nomi della cultura, della politica e dello spettacolo italiano per
un “dizionario al femminile”, che fa il punto sul nostro passato e sul nostro
presente, per capire dove stiamo andando e per ricordare da dove siamo partite e quanta strada abbiamo percorso. In queste pagine troverete cento voci
del privato e del politico, le parole della quotidianità e quelle della filosofia, da
abito a zitella, passando per diritti, lavoro, pari opportunità, ma anche desiderio, mamma, sirena, verginità...
Coenraad van Houten
Lavorare con le forze del karma.
La seconda via dell’apprendimento
dell’adulto
Guerini e Associati, Milano 2010, pp. 303, € 24,50
Sempre più persone stanno iniziando a rendersi conto che l’educazione è un
percorso che continua per tutta la vita. Questo avviene oggi soprattutto in
relazione con il tumultuoso cambiamento che interessa la vita economica e il
mondo del lavoro. Come individui e collettivamente siamo di fronte alla scelta tra rimanere come siamo e impegnarci costantemente per sviluppare nuove
facoltà. L’apprendimento dal destino, sviluppato da Coenraad van Houten
nel corso di decenni di ricerca e di lavoro nella formazione, è un percorso di
sviluppo personale…
Pamela Pace
UN DOLORE INfame.
Genitori e anoressia, una lettura psicoanalitica
Mondadori, Milano 2010, pp. 192, € 13,00
Dare la parola ai vissuti contraddittori e alla sofferenza dei genitori: è questa
la prospettiva attraverso la quale Pamela Pace propone una lettura, orientata
dalla psicoanalisi, del dramma familiare e del lavoro clinico con i genitori di
figlie anoressiche. Frutto di un’esperienza ventennale di lavoro psicoterapeutico con le famiglie, il libro intende sovvertire la chiave di lettura dell’anoressia, provando a far parlare la disperazione di padre e madre rispetto alla legge
INfame che tale sintomo impone nella famiglia.
Luigi Zoja
Al di là delle intenzioni. Etica e analisi
Bollati Boringhieri, Torino 2011, pp. 155, € 12,00
Più che da una presenza di cattive intenzioni, il male psicologico nasce da
una assenza di consapevolezza. In analisi, paziente e terapeuta si trovano
necessariamente nella zona grigia tra bene e male. Non vi sfuggirono i fondatori della psicoanalisi, come ricordano i casi di Anna O. e Sabine Spielrein:
la sensazionale guarigione di quest’ultima sarebbe avvenuta senza le vistose
inosservanze di ciò che oggi si considera limite professionale?
Cultura 117
Pedagogika.it/2011/XV_2/cultura/arrivati_in_redazione
Michela Marzano
Etica oggi.
Fecondazione eterologa, «guerra giusta»,
nuova morale sessuale e altre grandi questioni contemporanee
Centro Studi Erickson, Trento 2011, pp. 125, € 10,00
Che cosa si può pensare allorché ci si trova di fronte alla malattia o alla morte,
quando ci si interroga sul futuro del pianeta o si parla di “guerra giusta” o di
tortura? Come regolarsi rispetto alla fecondazione eterologa, all’eutanasia, ai
diritti degli animali e agli organismi geneticamente modificati? Che cosa resta
oggi della “liberazione sessuale” degli anni Sessanta e Settanta? Con Michela
Marzano l’etica non si interessa più solo di questioni astratte…
Antonio Bello
Ad Abramo e alla sua discendenza
La Meridiana, Molfetta (BA) 2011, pp. 136, € 10,00
L’espediente non è nuovo. Quello, cioè, di ricorrere alla finzione epistolare
per mettersi in contatto con i personaggi della storia. Forse, però, è la prima
volta che viene praticato il tentativo di scrivere ad alcuni protagonisti biblici,
e per giunta del Vecchio Testamento, allo scopo di leggere, attraverso vicende
lontane, il senso di certi avvenimenti vicini, e, conversando familiarmente
con loro, interpretare l’enigma delle scelte nodali della civiltà contemporanea.
Isabella Matropasqua, Roberta Rao (a cura di)
EducArte. Catalogo sull’archivio multimediale della giustizia minorile in Italia
Gangemi Editore, Roma 2011, pp.272, € 35,00
Catalogo curato dal Dipartimento per la Giustizia Minorile, Ufficio Studi,
Ricerche ed Attività Internazionali ed il Centro Europeo Studi di Nisida che
presenta la documentazione multimediale prodotta dai Servizi Minorili della
Giustizia. Il volume costituisce una prima raccolta significativa dei supporti
digitali tratti dall’Archivio Multimediale del Centro Europeo di Nisida sulle
attività e sulle esperienze educative, realizzate dai ragazzi e dalle ragazze che
hanno fatto ingresso nel circuito penale minorile sul territorio nazionale.
Lorenzo Luatti
Mediatori atleti dell’incontro.
Luoghi, modi e nodi della mediazione interculturale
Vannini Editrice, Gussago (Bs) 2011, pp. 198, € 21,00
Ripercorrere il cammino incerto e faticoso di un dispositivo coraggioso e creativo come la mediazione interculturale, porta inevitabilmente a riflettere sui
mutamenti avvenuti lungo due decenni nell’immigrazione, nei servizi e nelle
comunità, nelle politiche di integrazione, nella pratiche interculturali, nelle
professioni del sociale, nel dibattito sul multiculturalismo. Come essi hanno
cambiato e cambiano la mediazione?
118
Pedagogika.it/2011/XV_2/cultura/in_breve
Maratona: staffetta 24x1 ora,
In occasione della 28° edizione della Staffetta 24x1, che si è svolta a Saronno
nelle giornate fra il 4 e 5 Giugno al Centro Sportivo Comunale, abbiamo realizzato
una breve intervista a Migidio Bourifa, pluricampione italiano di Maratona.
Il grande maratoneta ci ha spiegato come questa corsa lo appassioni molto perché il clima socievole, cordiale e di amicizia che si vive in pista e al di fuori è impareggiabile, con il gruppo dei 24 unito nella preparazione di ogni piccolo particolare (dalla tenda, alla pasta fatta sul campo, …) per la perfetta riuscita della corsa.
Migidio tuttavia non partecipa solo a manifestazioni regionali e nazionali e, da
portacolori della bandiera italiana, ci ha raccontato di sensazioni incredibili vissute
lungo le strade di tutto il mondo. Ogni gara, ci ha raccontato, regala emozioni immense; mentre si corre le urla dei tifosi che incitano e cantano caricano molto, ma,
soprattutto, rappresentano una piccola parte della propria nazione che crede e si
immedesima nel corridore. Le emozioni più belle, nei propri “viaggi”, Migidio le
ha vissute correndo per le strade di immense città come New York, Tokio, Boston
e Parigi e, proprio la capitale francese, ha colpito maggiormente il maratoneta per
la particolarità del percorso, immerso in grandi piazze e parchi, ma, soprattutto
studiato su enormi strade a più corsie e lunghi viali alberati che offrivano ai corridori un panorama incredibile: un'ampia finestra aperta verso il mondo, verso la
propria interiorità.
in_breve
intervista al pluricampione Migidio Bourifa.
In breve 119
in_breve
Pedagogika.it/2011/XV_2/cultura/in_vista
Maratona: la staffetta 24x1 ora
Pluricampione Migidio Bourifa
In occasione della 28° edizione della Staffetta 24x1, che si è svolta a Saronno
nelle giornate fra il 4 e 5 Giugno al Centro Sportivo Comunale, abbiamo realizzato
una breve intervista a Migidio Bourifa, pluricampione italiano di Maratona.
Il grande maratoneta ci ha spiegato come questa corsa lo appassioni molto perché il clima socievole, cordiale e di amicizia che si vive in pista e al di fuori è impareggiabile, con il gruppo dei 24 unito nella preparazione di ogni piccolo particolare (dalla tenda, alla pasta fatta sul campo, …) per la perfetta riuscita della corsa.
Migidio tuttavia non partecipa solo a manifestazioni regionali e nazionali e, da portacolori della bandiera italiana, ci ha raccontato di sensazioni incredibili vissute lungo
le strade di tutto il mondo. Ogni gara, ci ha raccontato, regala emozioni immense;
mentre si corre le urla dei tifosi che incitano e cantano caricano molto, ma, soprattutto,
rappresentano una piccola parte della propria nazione che crede e si immedesima nel
corridore. Le emozioni più belle, nei propri “viaggi”, Migidio le ha vissute correndo per
le strade di immense città come New York, Tokio, Boston e Parigi e, proprio la capitale
francese, ha colpito maggiormente il maratoneta per la particolarità del percorso, immerso in grandi piazze e parchi, ma, soprattutto studiato su enormi strade a più corsie
e lunghi viali alberati che offrivano ai corridori un panorama incredibile: un'ampia
finestra aperta verso il mondo, verso la propria interiorità.
Corso di perfezionamento “Studi di genere e
professioni socioeducative”
Il corso di perfezionamento, la cui direzione è stata affidata alla Prof.ssa Maria
Grazia Riva, si propone di formare operatori e operatrici esperte in interventi di
progettazione, formazione e ricerca in campo sociale ed educativo, con la finalità,
in particolare, di dotare tali figure professionali di risorse di consapevolezza personale, conoscitive e interpretative e di strumenti di intervento che facciano riferimento alle culture e pratiche di genere.
Poiché nel nostro Paese, a differenza della maggior parte dei paesi europei, la
diffusione e l’istituzionalizzazione di percorsi di studio legati alle culture di genere
sono, almeno per il momento, ancora poco consistenti, l’esigenza di proporre percorsi formativi che specializzino in contenuti, competenze e abilità professionali nel
campo delle problematiche di genere, appare particolarmente urgente. L’operatore
o l’operatrice che si formerà nel corso potrà agire le sue competenze nella quotidianità della propria professione, proporsi come consulenza esperta nelle realtà che
la richiedano, organizzare formazione, progettare interventi e ricerche rispetto a
situazioni che necessitino di analisi di genere e progetti specifici per prevedere e
migliorare l’offerta di servizi.
Il bando di ammissione, scadenza il 1 settembre 2011, e il programma e le date
del corso sono disponibili sul sito www.unimib.it nella sezione ‘Dopo la laurea
– Perfezionamento’. Per informazioni: [email protected] tel.: 02
64484801 (il martedì delle 14 alle 15)
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