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L'atto finale della questione adriatica
"La Stampa" del 15 luglio 2010
"Non è stato semplice mettere insieme, attorno al podio dell’orchestra multietnica diretta dal maestro
Muti nella più famosa piazza di Trieste, i tre Capi di Stato dell’Italia, della Slovenia e della Croazia..."
L'atto finale della questione adriatica
Non è stato semplice mettere insieme, attorno al podio dell’orchestra multietnica diretta dal maestro Muti nella
più famosa piazza di Trieste, i tre Capi di Stato dell’Italia, della Slovenia e della Croazia. Si è detto che ci
sono voluti più di nove anni di trattative e tensioni diplomatiche per giungere finalmente, sulle note arcane di
Cherubini, al vertice della riconciliazione fra l’italiano Giorgio Napolitano, lo sloveno Danilo Turk e il croato
Ivo Josipovic. Il rito dell’amicizia è poi culminato nella visita con deposizione di corone, da parte dei tre
presidenti, a due luoghi simbolo delle reciproche ferite: il palazzo dell’ex Hotel Balkan, centro culturale
sloveno dato alle fiamme nel 1920 dai nazionalisti italiani, e il monumento in ricordo dei 350 mila esuli
istriani, quarnerini e dalmati costretti all’esodo dopo la fine, per loro drammatica, della seconda guerra civile
europea. L’evento, indubbiamente di grande significato emblematico, nonostante qualche dimenticanza
politica di cui dirò più avanti, è stato accolto e seguito con favore da gran parte della popolazione triestina che,
come sappiamo, non è di sentimenti e di gusti facili.
La data citata (l’incendio del 1920) e l’altra allusa (l’esodo dal 1945 in poi) dicono comunque, di per sé, che
alle spalle del celebrativo evento di Trieste, al di là dei nove anni spesi per promuoverlo, si apre in realtà lo
spessore di un dossier storico fra i più tormentati e complessi del Novecento europeo. Si apre l’abisso della
«questione adriatica».
Questione che, al suo inizio, vide una nazione giovane e caotica, l’Italia esasperata dalla «vittoria mutilata»,
l’Italia di D’Annunzio, dell’impresa di Fiume, degli interventisti delusi già inclini al fascismo, contrapporsi a
una nuova entità multinazionale mai esistita prima del 1919: la Jugoslavia dei serbi, dei croati e degli sloveni,
composta in parte a sforbiciate con scampoli cospicui del dissolto impero austroungarico.
Le radici dell’incendio triestino dell’Hotel Balkan, per esempio, affondano nel marasma esponenziale delle
«questioni» nazionali scatenate come un verminaio dalla decomposizione del cadavere absburgico. La
«questione adriatica», prima di esplodere vistosamente tra italiani e sloveni a Trieste, era cominciata a fucilate
tra italiani e croati o neojugoslavi nella città di Spalato. Il clima politico vi era da tempo incandescente.
Traumatizzava già il capoluogo della Dalmazia, a maggioranza slava, l’opportunità concessa da Versailles ai
dalmati di lingua italiana di poter optare, se lo desideravano, per la cittadinanza italiana. L’11 luglio 1920
Tommaso Gulli, comandante della nave Puglia, ancorata nel porto a monitorare le clausole armistiziali, venne
ferito a morte dai gendarmi jugoslavi in uno scontro in cui perì anche il motorista Aldo Rossi. Due giorni
dopo, il 13 luglio, esattamente novant’anni orsono, i nazionalisti italiani per ritorsione assaltavano il «covo
sloveno» dell’Hotel Balkan. Il tragico episodio, che provocò morti e feriti, doveva passare poi alla storia come
una sorta di prova generale dello squadrismo fascista.
La «questione adriatica», inasprendosi politicamente e razzisticamente con Mussolini, degenerò in seguito,
con l’aggressivo fascismo di frontiera, nella guerriglia civile contro sloveni e croati dell’Istria e sfociò infine
nella guerra vera contro la Jugoslavia monarchica. Il resto ci è più noto perché più vicino nel calendario
storico. All’occupazione italiana della Slovenia, della Dalmazia e parte del Montenegro, che non fu priva di
misfatti sanguinosi, seguirono a catena le vendette dei partigiani di Tito con i 40 giorni infernali di Trieste e di
Gorizia, le foibe in Istria, l’esodo di massa delle popolazioni istriane e dalmate di lingua italiana. Zara, per una
ventina d’anni porto franco italiano sulla costa jugoslava, venne rasa al suolo da oltre cinquanta
bombardamenti alleati come nessun’altra città della penisola: il cumulo di macerie suggeriva la visione
spettrale di una Dresda sull’Adriatico. Zara ancora aspetta un riconoscimento ufficiale italiano, e un giorno
speriamo anche croato ed europeo, di quel terrificante quanto inutile e ingiustificato massacro aereo.
Ed eccoci al punto. L’incontro fra i capi dei tre limitrofi Stati adriatici acquista, in definitiva, un senso pieno
soprattutto se lo percepiamo come un decisivo atto terminale della «questione adriatica». Gli antagonisti
dell’annosa «questione» furono due Stati, di cui uno, la Jugoslavia, non c’è più. Ci sono oggi al suo posto due
Stati europei, la Slovenia in ottimo decollo e la Croazia in positiva attesa, con l’Italia che può costituire per
l’una e per l’altra una sponda intima, direi più che amica, nell’arena di Bruxelles. Speriamo sia giunto
davvero, come hanno detto i tre presidenti, il momento di dimenticare un passato fra i più pesanti e spietati
lungo le frastagliate frontiere europee.
Enzo Bettiza
2010-07-15