L`agonia delle cave di granito

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L`agonia delle cave di granito
SPECIALE
sabato 4 ottobre 2008
L’UNIONE SARDA
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I posti di lavoro erano migliaia, sono diventati 500. Il mercato europeo invaso da Cina, Vietnam, Corea
Focus
Sardegna
Continua inesorabile
la crisi del settore
estrattivo del granito.
Chiudono le cave, restano 500 lavoratori.
L’agonia delle cave di granito
Trent’anni fa il boom.Adesso è tempo di crisi
cubi del 1998 a 70 mila, migliaia di posti di lavoro ridotti ad appena 500.
«Non credo che i cinesi
siano la sola ragione del
crollo - spiega Piero Tamponi, presidente del Consorzio
Graniti e Marmi sardi - cer-
to la globalizzazione ha influito molto. La Sardegna
produce il miglior granito al
mondo ma soffre dell’aumento dei costi dell’attività
estrattiva e nei grandi appalti, dove serve il prezzo, spesso rimane fuori. Sono con-
vinto, e lo dico da un pezzo,
che nel settore si avverte la
mancanza di affermazione
del made in Italy e, nel nostro caso, del made in Sardegna».
Non è casuale, quindi, che
alla Fiera di Verona (Mostra
internazionale di marmo,
pietra, design e tecnologia)
la Regione non sia presente
con un suo stand. Eppure,
grattacieli di Tokyo, New
York e di altre grandi città
del mondo, per non parlare
dei pavimenti di moltissime
piazze in ogni angolo del
pianeta, sono stati realizzati
con il granito della nostra
Isola.
«I tempi son cambiati e bisogna adeguarsi - prosegue
Tamponi - a partire da normative doverse. Il Piano pae-
di VITO FIORI
Non era il Klondike, e solo
perché non c’era l’oro, ma la
Gallura, allora, era qualcosa
di molto simile. La corsa all’apertura di cave di granito,
dagli anni Settanta alla fine
dei Novanta del secolo scorso (sembra passato davvero
molto tempo), era stata talmente frenetica da cogliere
tutti di sorpresa. La fila interminabile dei rimorchi al
porto di Olbia, tanti padroncini coi camion che andavano e tornavano dalla penisola a ritmi pazzeschi, davano
l’idea di un settore la cui
espansione sembrava non
dovesse mai fermarsi.
Centinaia di cave in attività, migliaia di addetti e fatturati di assoluto rilievo da
motivare la creazione di un
distretto del granito in Gallura. Erano gli anni delle vacche grasse. Alla Regione, che
all’epoca mostrava di credere nell’estrazione dei lapidei,
qualcuno pensò che bisognava anche lavorare il prodotto in loco e non limitarsi a
estrarre i blocchi ed esportarli in Toscana dove, specie
a Massa e a Carrara, c’erano
le segherie in grado di trasformarli in lastre. Nacque
così, a inizio anni Settanta,
l’Isgra (a Tempio) e, successivamente, la Granitsarda (a
Olbia), partecipate da Emsa
e Sfirs, con qualche centinaio di operai addestrati con
corsi specifici. Tanto per
cambiare, trattandosi di
aziende pubbliche, i risultati furono catastrofici grazie
a un management strapagato e altrettanto improvvisato.
Iniezioni di denaro, cassa integrazione e altri additivi
non servirono a impedire
l’inevitabile fallimento dopo
un’agonia durata sino a una
decina di anni fa.
Invece, i privati sembravano inarrestabili. Ma la loro
corsa era destinata a fermarsi. I segnali del cedimento hanno cominciato a manifestarsi sul finire degli anni Novanta. La Cina in primis - ora anche il Vietnam, la
Corea, il Brasile e l’Argentina - ha iniziato a invadere il
mercato europeo e quello
statunitense (un tempo appannaggio di sardi, spagnoli e portoghesi) con dei prezzi incredibilmente bassi.
Concorrenza imprevista e
devastante che ha determinato una crisi drammatica.
Oggi sono appena 120 le cave in attività e il volume
complessivo dell’estrazione
è passato dai 400 mila metri
Cosa resta di ettari ed ettari coperti da sfridi e dai derivati dell’estrazione. Si spera nel G8
Una terra danneggiata, senza colpevoli
Del boom del settore estrattivo rimangono le decine di cave di granito abbandonate nelle campagne galluresi e in quelle di Buddusò e Alà
dei Sardi, a rendere l’idea di ciò che
avrebbe potuto essere e, come spesso succede, invece non è stato.
Ettari ed ettari di territorio coperti da sfridi e derivati dell’estrazione.
Uno spettacolo orrendo che da decenni si può apprezzare con una
semplice gita in auto. Sberleffo agli
ambientalisti che si infiammano per
una fogna che scarica in mare o per
un palazzo troppo alto e mai, in tutto questo frattempo, hanno speso
una parola per lo scempio dell’interno. Non fa audience, lo si capisce.
Adesso, la Regione ha deciso di
prendere di petto la situazione. Ha
affidato uno studio a un pool di
esperti, guidati dal docente universi- Operai in una cava di granito in Gallura
tario Mauro Coni e dalla ricercatrice
Silvia Portas, che ha consegnato di
stradali per la nuova strada Sassarirecente una dettagliata relazione. Un
Olbia”.
paio di settimane fa, l’assessore ai
Scrive l’assessore: “Un tema che
Lavori pubblici Carlo Mannoni ha
riveste particolare importanza nella
scritto alla Struttura di Missione per
Regione Sardegna è dato dalla posil G8. Una paginetta e mezzo con ogsibilità di un riuso degli inerti derigetto: “Riutilizzo degli sfridi dell’attivanti dall’imponente attività estrattività di cava nell’ambito dei lavori
va che da sempre caratterizza il ter-
ritorio regionale e che ha prodotto
ingenti cumuli improduttivi che determinano un forte impatto ambientale”.
Della serie non è mai troppo tardi
- anche se, a onor del vero, prima di
Mannoni non ci aveva pensato nessuno - era ora che si mettesse mano
a una situazione che definire una
vergogna non sarebbe esagerato. Le
responsabilità andrebbero equamente suddivise tra gli enti locali
(Regione, Provincia e Comuni) e i
predoni che hanno saccheggiato impunemente il territorio senza pagare dazio.
«Da anni - dice Salvatore Fiore, di
Buddusò, titolare di una delle più
grandi cave dell’Isola - noi non abbiamo discariche nel nostro sito. Non
usiamo esplosivo e i nostri sfridi sono ridotti a nulla. La nostra azienda,
dove ormai lavorano solo quelli di famiglia, è in grado di macinare il granito. Dicono che si voglia utilizzarli
per le strade, bene. Noi siamo qui,
ad aspettare le commesse per il G8.
Se poi dovessero decidere, una volta
per tutte, che il granito sardo deve
essere usato ovunque, ancora meglio. Sono anni che parlo ma nessuno mi ascolta e ora il settore è quello che è, in crisi profonda e senza vie
di uscita».
Anche l’idea di risanare l’ambiente, eliminando gradualmente gli sfridi dalle cave dismesse, potrebbe rappresentare un segnale di risveglio
per tutti. (v. f.)
saggistico, giusto per fare un
esempio, limita l’attività
estrattiva. Noi non abbiamo
mai chiesto l’apertura di
nuove cave, bastano e avanzano quelle che abbiamo,
perché il prodotto c’è. Si
tratta semplicemente di riorganizzarsi e ripartire. Oggi, è
sufficiente leggere qualsiasi
rivista di architettura, è in
atto una sorta di riscoperta
della pietra per le costruzioni. In Sardegna si estrae oltre il 90 per cento del granito di tutta l’Italia, mi sembra
una ragione più che valida
per insistere e per rivitalizzare il settore».
Cosa pensa che si possa fare in questo momento?
«Occorre inventarsi qualcosa, cominciando dai centri
storici. Qual è la ragione che
costringe le amministrazioni comunali a utilizzare materiali di altri territori, il
prezzo? Un aspetto superabile con l’inserimento nel capitolato dell’obbligo a usare
i prodotti locali. Abbiamo visto il porfido nelle nostre
piazze e ora anche il granito
cinese. Si potrebbe ovviare
con un po’ di buona volontà
e di buon senso».
Piero Tamponi, calangianese, proviene da una famiglia di industriali del sughero che, già un secolo fa, aveva diversificato l’attività
aprendo una delle primissime cave in Gallura. Ecco il
motivo per cui non è proprio
a digiuno della materia. Anzi, ormai da anni presiede il
Consorzio di settore che fa
capo a Confindustria e cerca
di portare avanti le istanze
della categorie, non sempre
con successo.
«Manca una normativa
strutturata, siamo ancora distanti da altre regioni italiane. Capiamo tutti che l’economia è fatta di cicli positivi
e negativi, noi siamo nella
seconda fase nonostante sia
rimasta intatta la capacità di
produrre. Siamo sempre
convinti che dalla crisi si
possa e si debba rinascere,
oggi, però, gli imprenditori
sono disillusi e molto difficilmente investono al buio,
senza avere certezze. Esistono e sono solidissime, sotto
ogni punto di vista, alcune
aziende, ma sono poche rispetto alle potenzialità. Ed è
un peccato, perché le nuove
generazioni sono più colte,
hanno una sensibilità maggiore per l’ambiente e non
vengono ascoltate comunque».
Soprattutto ora, in un periodo in cui l’aumento dei
costi per l’estrazione tocca
indistintamente tutti e il gap
dell’offerta va riducendosi.
Senza supporti legislativi né
di alcun genere, resta la difficoltà degli operatori ad accrescere la produzione e a
esportare anche solo il blocco grezzo.